Capitolo Primo

L’unità come problema per la psicologia

 

§ 1. Introduzione.

 

Nel campo della ricerca scientifica, come negli affari della vita quotidiana, si incontrano a volte regole che appena vengono dette sembrano chiare e ben comprensibili, dato che si possono dire in modo abbastanza semplice; più tardi, quando si tratta di impiegarle correttamente nelle particolari occasioni in cui andrebbero applicate, scopriamo che per riuscirci occorrono abilità, sottigliezza ed esperienza in una misura che la facilità della regola non permetteva di prevedere.

«Quando parlo di percezione - scrive Koffka [1] - non intendo riferirmi a qualche specifica funzione psichica; tutto ciò che intendo denotare con questo termine è il regno delle esperienze che non sono meramente «immaginate», «rappresentate» o «pensate» «thought of» .

Questa è una definizione, ed è senza dubbio chiara e ben comprensibile.

Da questa definizione discende facilmente una regola: per isolare, nel complesso mondo delle nostre esperienze, il materiale adatto ad essere studiato con i mezzi offerti dalla psicologia della percezione, basterà raccogliere in uno stesso elenco tutte le proprietà osservabili negli oggetti intorno a noi, badando a non includere in tale elenco ciò che semplicemente immaginiamo, né ciò che pensiamo - sia pure con piena convinzione - di quelle proprietà e di quegli oggetti.

Il blu della legatura di un libro è una sua proprietà ben visibile, e non confondibile con il fatto che io so (qualunque cosa questa espressione voglia dire) il colore che ha tale legatura: il blu occupa una posizione ben definita nello spazio davanti a me, e sarebbe strano localizzare in quello stesso posto i miei pensieri, sia pure solo quelli relativi all’oggetto in questione.

Nel primo senso, il blu è una «percezione»; nel secondo senso - come ingrediente nella costituzione di un giudizio, o come «rappresentazione» - è un fatto che fa sorgere altri problemi, spesso difficili, e in ogni caso diversi da quelli che ci proponiamo di delineare in questi capitoli.

Il portacenere, qui davanti, è pesante ed è un dono di Natale.

Mentre sto scrivendo, semplicemente so che è pesante: se smetto per un momento di scrivere e lo sollevo, è pesante; anche solo guardandolo - del resto - ha tutta l’aria di essere un oggetto pesante. Tra le sue proprietà avvertibili, però, non ne riscontro alcuna che possa essere descritta dicendo: «è un dono di Natale».

Quest’ultimo fatto, io «lo penso di...» - come dice Koffka.

Il peso sentito sollevando l’oggetto è invece sicuramente una proprietà percepita; quanto all’aspetto di oggetto pesante che ha il portacenere quando lo guardo, potremmo non trovarci d’accordo nel tentativo di classificarlo. Può essere il peso una proprietà che si «vede»? Qualcuno potrebbe dire che quel portacenere appare pesante perché, grazie a precedenti esperienze avute maneggiandolo, o maneggiando oggetti simili, ci è rimasto il ricordo della sua resistenza al sollevamento. Ora, rivedendolo, quell’impressione si associa al dato visivo e in qualche modo lo integra.

Altri però potrebbero sostenere che il peso è anche una qualità «visibile». Il colore e la forma possono di per se contribuire a rendere una figura più o meno «pesante»; un contesto opportunamente escogitato gioverebbe a rafforzare quest’impressione. Un pittore, probabilmente, sarebbe portato a sottoscrivere tale tesi.

Dunque, il peso veduto crea qualche difficoltà nel nostro tentativo di classificazione. I problemi legati a tali difficoltà saranno trattati nel corso dei cap. V e VI di questo libro.

Un ultimo esempio: il foglio di carta che utilizzerò dopo di questo, su cui sto scrivendo, è un foglio bianco, ha quattro lati e quattro angoli, ed è appoggiato sopra una risma di fogli simili, più o meno 350.

Guardando la risma, evidentemente, non ne «vedo» 350; so che dovrebbero essercene - e potrei raggiungere la sicurezza contandoli attentamente due o tre volte, in modo da ridurre i possibili errori di conteggio.

Per quanto riguarda il foglio appoggiato sopra: vedo che è uno, oppure so che è uno? vedo che ha quattro lati, oppure so che ha quattro lati?

È possibile sostenere, come nel caso del colore della legatura, che insieme so e vedo l’uno del foglio e il quattro dei lati. Questa tesi implica l’ammissione che l’unità e il numero, oltre ad essere cognizioni applicabili alle cose dell’esperienza, sono anche «percezioni», proprietà degli oggetti, come il colore, il peso, ecc.

Questa è una tesi.

Un’altra, ugualmente sostenibile, è la seguente: guardando il foglio, si vede che esso è delimitato (partendo con lo sguardo da un punto interno ad esso, e procedendo in una direzione qualunque, si finisce con l’incontrare un confine: un salto cromatico). Le linee di delimitazione sono diritte: sono paragonabili - benché forse non del tutto correttamente - ai «segmenti di retta» della geometria elementare. In ogni modo, i luoghi dove tali linee visibilmente si incontrano possono essere paragonati agli «angoli» della geometria. Queste sono le proprietà veramente percepite, oltre all’omogeneità cromatica della superficie delimitata da quei confini.

Ma se diciamo che i lati e gli angoli di quel foglio sono quattro, ciò avviene perché - essendo tali lati ed angoli discernibili sul piano percettivo - li sappiamo mettere in corrispondenza biunivoca con i primi quattro termini della serie dei numeri naturali: sono quattro, dunque, nello stesso senso in cui sono 350 i fogli della risma. Le due situazioni appaiono diverse solo perché in questo ultimo caso il contare comporta più lavoro ed attenzione che nel primo; il conto di quattro oggetti si realizza quasi istantaneamente.

Il «quattro», essendo il risultato di un conto che si può eseguire su ogni tipo di esperienze, d e ve essere indipendente dai contenuti percettivi ai quali volta per volta lo riferiamo.

In generale: il numero può essere solo «pensato di...».

Come si vede, un minimo di riflessione sulla possibilità - che concretamente abbiamo - di distinguere tra proprietà direttamente osservate nelle cose e proprietà solo pensate di esse, conduce verso due tesi psicologiche opposte circa la natura dell’unità e della molteplicità.

A) Si può ritenere che fra i diversi aspetti avvertibili nell’esperienza delle cose ci siano anche quelli di tipo quantitativo: correntemente, li esprimiamo impiegando frasi aventi significato quantitativo, o impiegando i numeri; l’uso appropriato di tali mezzi linguistici indica tali aspetti, come i nomi dei colori rimandano a certe proprietà cromatiche.

Oppure:

B) Si può ritenere che le cose osservate non possiedono aspetti quantitativi; l’unità e la molteplicità nelle sue varie forme non sono «percezioni», ma il pensiero - avendo elaborato sul piano puramente logico un certo tipo di concetti - li applica alle cose, o alle loro qualità discernibili.

Quest’antitesi, che si profila chiaramente anche senza procedere molto oltre nella discussione, non prende corpo quasi mai nelle normali occorrenze della vita quotidiana. I suoi termini sembrano coesistere senza che ne nasca alcun inconveniente. Eventualmente, le soluzioni che il senso comune offre in questo campo - quando la sua funzione non è quella di nascondere l’esistenza di ogni problema - hanno l’aspetto di compatti intrecci di logica e di empirismo spicciolo. Se l’una non sorregge bene l’altro soccorre, senza che però si possa veder chiaro dove questo finisce e quella comincia.

Una prova di ciò potrebbe essere la seguente: accanto all’uso dei numeri in senso proprio, esiste un curioso settore di espressioni quasi-quantitative o quasi-logiche, che noi utilizziamo correntemente. Queste espressioni non fanno nascere alcun problema: funzionano bene come informazioni quantitative, pur essendo fondate su un chiaro rimando alle strutture dell’esperienza diretta.

Ad esempio, non diversamente da quanto succede in alcune culture primitive, dove tra i vani numeri ve n’è uno che indica ogni ammontare tra 29 e 36 conchiglie[2], ciascuno di noi utilizza correntemente espressioni come «una dozzina», o addirittura «una buona dozzina», o «la moda degli anni venti», o «un uomo sulla trentina «, senza che il senso logico di alcun interlocutore ne sia particolarmente offeso. La «trentina» non sarà un numero, ma esprime bene l’essenziale di molte possibili situazioni: anni di età o persone raccolte in un gruppo, o pagine di un saggio. Di fronte ad una collettività di oggetti che non abbiamo il tempo di contare ad uno ad uno, queste sono espressioni quantitative veramente «appropriate» (cfr. Cap. II, §§ 11 e 12).

Ugualmente ineliminabili dal nostro vocabolario corrente, a dispetto dell’imprecisione che possono avere, sono le espressioni «poco», «molto», «troppo»; l’imprecisione, in realtà, è minore di quanto non possa sembrare a prima vista, data la diversità di significati che tali espressioni, in particolari contesti, vengono ad assumere: il «troppo» sulla bilancia del farmacista è diverso da quello che può risultare pesando con una grossa bascula; il «poco» per un miliardario può essere ben diverso dal «poco» di un disoccupato. Wertheimer ha trovato, studiando il linguaggio infantile, tre tipi di «molto»: quello che serve ai bambini per indicare un numero più alto di quelli che essi sanno raggiungere contando, quello che usano quando sarebbe troppo noioso, o privo di senso, star a contare esattamente gli oggetti, e infine un significato analogo a quello del «troppo»: enormemente tanto[3].

Si potrà obiettare che queste parole non hanno nulla a che vedere con i numeri; sul piano logico certamente è cosi; ma d’altra parte è significativo il fatto che, in certe lingue, si possa esprimere il «molto» dicendo un numero: «sescentas gratias tibi ago» - «mille grazie»; per i francesi, questa funzione è assolta dal numero 36, per i turchi dal numero 40[4].

Anche per dire «poco» usiamo a volte nomi di numeri, come ad esempio nella frase «aver quattro soldi in tasca».

Se fossimo veramente logici - come il nostro status di europei del XX secolo indurrebbe a far credere - potremmo usare con eguale facilità sistemi di numerazione completamente diversi dal nostro, che è decimale. Per la logica matematica non esistono numeri privilegiati: la serie dei numeri si genera grazie al fatto che ogni numero ha un successore, e il successore di ogni numero è un numero; in breve, è fatta di 1+1+1+1+ ... In questa serie non vi è un 10, o un 100 in veste di numeri privilegiati, che fungano da sistema di riferimento[5].

Possiamo essere ben convinti di questo; tuttavia, non potremmo fare a meno del fatto che 101 è «quasi 100», e 299 «quasi 300». Quando abbiamo a che fare con gli elementi di collettività molto piccole l’operazione di contare assomiglia effettivamente allo schema 1+1+1+1+ ... ma basta procedere oltre di poco, e risulta chiara l’utilità di numeri «salienti»: «duodeviginti» = 20-2 = 18, o 60-2 =58[6].

In effetti, nell’uso spontaneo dei concetti quantitativi è materialmente necessario che ci siano «luoghi privilegiati», benché nessuna logica li possa giustificare. L’aggiungere unità a unità ci porterebbe ad un punto - dopo un po’ che lo stiamo facendo - in cui non sapremmo più altro, se non che il prossimo numero è maggiore dell’antecedente; non sarebbe possibile avere un’idea della quantità dei numeri già passati[7]. I «luoghi privilegiati» non devono neppur essere troppo distanti l’uno dall’altro: c’è una base percettiva, in tutto questo: se abbiamo sotto gli occhi una lunga fila di punti, per esempio una cinquantina, l’operazione di contarli (cioè di vederli individualmente, uno dopo l’altro, in momenti successivi e distinti, mentre noi recitiamo la serie dei numeri naturali) presenta una certa difficoltà. Questa difficoltà si manifesta, da un certo momento in avanti, in forma di incertezza: non siamo più sicuri di aver fatto tutta l’operazione correttamente - forse abbiamo saltato un punto o due, o li abbiamo ricontati.

Se però la fila di punti è fatta in modo che dopo ogni quattro punti neri ce n’è uno rosso, la difficoltà diminuisce sensibilmente. Diventa possibile vedere insieme i quattro punti neri, isolati come sono tra due rossi.

L’istanza delle strutture percettive preme continuamente sul nostro modo di pensare le quantità, per quanto abili possiamo essere nell’elaborazione di strutture noetiche puramente formali. Ancora un solo esempio, che ci sembra il più illuminante di tutti, nella sua elementarità: le classi. Tutti sappiamo che la costituzione di una classe può essere fondata su basi completamente arbitrarie: ogni collezione di oggetti o di entità può essere pensata come una classe.

Pure, se dobbiamo citare esempi di classi, diciamo «mele», «cavalli», «uomini» , ecc.; citiamo, cioè, classi un po’ speciali, i cui membri non sono accomunati dalla sola proprietà di «appartenenza a quella classe», ma anche da altre caratteristiche comuni del tutto superflue dal punto di vista logico.

Il fatto è, che sul piano intuitivo una classe appare sempre come un raggruppamento di oggetti simili - requisito logicamente insignificante, non solo inessenziale.

Quando diciamo un «paio», ad es., è un paio d’occhi o di stivali; non una sedia e un tavolo, una casa e un albero[8].

A volte, il criterio implicitamente assunto per definire la classe è ancora più restrittivo di quello ora descritto: quando diciamo «i Brambilla» non indichiamo la collettività di tutti coloro che portano questo nome, ma una famiglia di conoscenti, padre madre e figli, ad es.[9]. In alcune isole della Melanesia vi sono due modi diversi di dire «noi», o «noi due», «noi tre», e viene impiegato l’uno o l’altro a seconda che il parlante si stia rivolgendo ad una persona che fa parte di questo «noi», oppure a qualcuno che è estraneo al gruppo così indicato[10].

La classe, prima di essere tale al livello della pura logica, è in realtà un fatto di primaria importanza nella nostra esperienza diretta: se in una scatola ci sono trenta palline ciascuna di un colore diverso, e venti tutte rosse, sono queste ultime ad essere viste «insieme» (cfr. Cap. Il, § 3).

Tutto ciò sembra, di solito, abbastanza naturale e forse anche di scarso rilievo.

Il fatto che in altre occasioni possiamo ragionare sulle quantità con molta correttezza e fare i nostri conti lavorando solo con simboli - senza aver presenti gli oggetti conteggiati e senza neppur sapere quali siano o se ci siano - non sembra a tutta prima costituire un grosso problema. L’uomo (si può dire) dopo essersi esercitato abbastanza a lungo nel ragionamento sulle cose concrete, impara a prescindere da esse, ad astrarre dai contenuti particolari, a far uso di costrutti logici abbastanza generali da poter essere applicati indifferentemente a più ordini di cose. Questo tipo particolare di abilità deriva dall’aver fatto una lunga pratica con le unità e le molteplicità tangibili, e dall’aver progressivamente corretto e superato le limitazioni interne del «pensiero concreto».

Una simile soluzione appare equilibrata ed accettabile: le necessità connesse con le nostre attività quotidiane non ci spingono ad indagare oltre; il nostro buon senso, compatto intreccio di logica e di empirismo spicciolo, ci salva da oziosi problemi. In questo senso è talmente bene organizzato da risultare perfino utile.

Naturalmente, noi intendiamo assumere in questi capitoli una posizione molto diversa da quella ora descritta.

Innanzitutto, riteniamo che l’opposizione fra la tesi A) e la tesi B), esposte all’inizio, debba essere ben sottolineata. Forse è vero che - nell’ambito delle attività di pensiero - i costrutti logici ed aritmetici meglio formalizzati sono legati senza soluzione di continuità a concetti più grezzi ed aderenti ai «fatti», come l’esistenza di espressioni quasi-logiche e quasi-quantitative sembra dimostrare.

Forse è anche vero che, da un punto di vista genetico, i costrutti formalizzati sono il risultato di una evoluzione di quelle strutture logiche embrionali che possiamo rintracciare nei concetti anche a livelli molto elementari; questa tesi è fortemente accreditata da numerosi studi svolti nell’ambito della psicologia dell’età evolutiva, e in particolare nel campo dell’epistemologia genetica.

Ma la nostra domanda riguarda uno stato di cose, così come esso si realizza sul piano percettivo: la domanda è, se vi sono «qualità quantitative» negli oggetti, o se, quando ne parliamo, parliamo già di concetti. Posta su questo piano, tale domanda deve avere la forma di un «aut-aut».

In secondo luogo, intendiamo difendere la tesi A) contro la tesi B).

Questo è un punto di vista che non può contare facilmente sull’unanimità dei consensi.

Dal momento che apparteniamo ad una cultura fortemente caratterizzata dallo sviluppo delle abilità logico-matematiche, preferiamo, fin dove è possibile, trattare con i concetti piuttosto che con le cose; e delle cose - quando dobbiamo affrontarle nella loro concreta individualità - preferiamo aver a che fare con quegli aspetti che meglio si lasciano astrarre, definire e misurare.

È naturale che a un certo momento non ci interessi più sapere se alla radice di queste operazioni c’è o non c’è qualche rapporto con la «percezione», e se gli schemi che riteniamo utili e importanti dipendono o no da essa. È anche comprensibile che, messi di fronte ad esempi concreti in cui risulta imbarazzante decidere se qualcosa è «pensato di...» o non piuttosto è una proprietà immediata dell’esperienza, stentiamo a riconoscere l’autenticità di quest’ultima per non abbandonare il ben più solido terreno dei nostri costrutti logici.

Per la verità, il fatto che l’unità e la molteplicità nelle sue varie forme sono realmente aspetti delle cose - come i colori, o il peso, la resistenza, i suoni - è stato riconosciuto d’immediata evidenza solo da un certo numero di psicologi; da persone, cioè, che hanno esercitato a lungo la loro sensibilità fenomenologica nell’ambito della psicologia sperimentale. A tale punto di vista potrebbe aderire qualche filosofo - forse solo per ragioni teoretiche - , o qualche studioso di estetica.

Essendo questo libro una «Introduzione», sarebbe uno sbaglio presupporre l’esistenza di un atteggiamento simile in ogni lettore: alcuni di essi potrebbero avere delle ragioni molto serie per sostenere una impostazione diversa.

Abbiamo tenuto conto di questa eventualità nel tracciare lo schema del presente capitolo.

Tra alcune differenti vie d’accesso che ci avrebbero permesso di arrivare ugualmente bene ai problemi psicologici che ci proponiamo di discutere, ci è sembrato giusto scegliere quella che permetteva di prendere in esame fin dall’inizio alcuni argomenti nettamente sfavorevoli alla tesi che vogliamo sostenere.

Per questo motivo lo schema del capitolo si articola nelle seguenti tappe:

(i) - in primo luogo, illustreremo le ragioni in base alle quali l’unità e il numero n o n possono essere considerati alla stregua di proprietà qualitative degli oggetti; questo permetterà di precisare in quale senso tali proprietà sono esclusivamente proprietà di concetti, e non di cose;

(ii)- successivamente, il nostro compito sarà quello di mostrare come oltre la portata delle obiezioni esposte in (i) - esista la possibilità di affrontare sul piano scientifico i problemi concernenti quegli aspetti qualitativi del mondo esterno che conferiscono un senso a termini come «uno» «unità» «tutto» «parti» «pochi» «quattro» «molti» ecc.

Nel passaggio dall’uno all’altro di questi temi emergerà chiaramente - vogliamo credere - la connessione che vincola il primo di essi al secondo: la quale consiste nell’operazione del «contare», che non può essere compiutamente definita senza un esplicito rimando alle unità dell’esperienza diretta.

 

§ 2. Critica all’interpretazione empirica del concetto di numero.

 

Benché la letteratura più recente intorno al primo di questi due temi sia molto vasta ed eccezionalmente interessante, noi qui ci limiteremo a seguire, passo per passo, una trentina di paragrafi contenuti in Die Grundlagen der Arithmetik [11] di Gottlob Frege, forse la prima opera in cui sia stata assunta una netta posizione antipsicologistica in rapporto alle definizioni del numero e dell’unità. Le tesi di Frege sono esposte in modo eccezionalmente limpido, e senza che egli faccia ricorso né ad un gergo troppo tecnico, né ad una simbologia difficile. Per il nostro scopo, ciò è quanto di meglio si possa desiderare.

Frege, all’inizio della sua rassegna critica, cita due autori come rappresentanti della tesi empiristica: Cantor e Schroeder. «Nella lingua i numeri compaiono per lo più sotto forma di aggettivi, e funzionano da attributi, allo stesso modo che i termini «duro, pesante, rosso», i quali denotano proprietà degli oggetti esterni. Sorge quindi naturale la domanda, se occorra concepire così anche i numeri, sicché il concetto di numero naturale vada posto sullo stesso piano per esempio del concetto di colore»[12]. Questa, l’opinione di Cantor; per Schroeder, analogamente, si può sostenere «che il numero riproduca la realtà, sia ricavato da essa, in quanto le unità dell’aritmetica starebbero a rappresentare gli oggetti unitari»[13].

Queste definizioni dell’unità implicano direttamente un riferimento alle unità empiriche, quali esse si presentano sul piano percettivo. In questo senso, l’attendibilità di tali definizioni viene a dipendere dal tipo di teoria che preferiamo accettare intorno alla natura dell’esperienza immediata. Nella seconda metà dell’ottocento, gli sviluppi della psicofisica e la diffusione delle teorie psicofisiologiche di Helmholtz - delle quali parleremo più avanti, in questo capitolo - offrivano buon appoggio ad una concezione atomistica dell’esperienza: l’uomo vede sente e tocca solo aggregati di sensazioni elementari, essendo le «cose», gli «oggetti» più complessamente organizzati, il risultato di elaborazioni realizzate da altre «facoltà» su quel materiale grezzo, «caos di sensazioni», come Kant aveva insegnato. Donde la critica di Baumann a Cantor e a Schroeder:»le cose esterne non presentano alcuna proprietà rigorosa; esse ci danno gruppi di punti separati o punti sensibili, ma questi gruppi e punti possono a loro volta venir considerati come nuove molteplicità» [14]

Ogni cosa pensata in un primo momento come unitaria può essere successivamente pensata come una collettività di parti, di elementi che concorrono a costituirla; ed ognuno di questi elementi può essere a sua volta pensato come un aggregato. Se questo argomento appare sofistico (e lo è, almeno per quanto riguarda l’affermazione iniziale: «le cose esterne non presentano alcuna proprietà rigorosa «), può venir tradotto nella forma proposta da Frege, senza che perda della sua efficacia: è vero, «nessuno può modificare sia pure minimamente il colore o la durezza di un oggetto mutando solo il proprio modo di concepirlo» [15]però ci sono innumerevoli altri casi in cui questo è possibile: un poema può essere «uno», o ventiquattro canti, o migliaia di versi. A qualcuno posso dire: «pesa questo sasso», e costui mi capisce subito. Ma non posso mettergli in mano un mazzo di carte e dirgli «conta»; che cosa: le carte? i punti? i colori? «Si può infatti additare una superficie colorata senza aver bisogno di aggiungere alcuna parola per distinguerla dalle altre; invece, per indicare un numero, occorre proprio parlare»[16].

Infine, dire che le foglie di un albero sono «verdi» e sono «mille» significa avvicinare pericolosamente due modi di parlare assai diversi; la differenza sfugge a prima vista, ma appare chiara anche alla più tenue analisi logica: se tutte le foglie dell’albero sono verdi, ognuna è verde, ma se sono mille, è chiaro che ciascuna non è «mille» (come nel sillogismo paradossale di Russell: «Gli apostoli sono dodici, Pietro è apostolo, dunque Pietro è dodici»).

Sembra facile poter rispondere a obiezioni di questo tipo; si potrebbe dire: l’unità e la numerosità sono proprietà delle cose, ma non in un senso così stretto ed immediato come lo sono colori, forme, pesi, grandezze. Sono concetti che noi deriviamo dalle cose, e poi riapplichiamo ad esse, indipendentemente dalla loro natura, dalle qualità sensibili che presentano, in genere dalle loro caratteristiche oggettive. Dunque il numero è qualcosa di soggettivo, cioè un particolare tipo di processo psicologico, o una creazione dello spirito. Una teoria di questo tipo è stata proposta da Berkeley, per esempio. Il numero non esiste realiter nelle cose: semplicemente la mente prende in considerazione una o più idee variamente combinate, dà a questo aggregato un nome, e lo fa valere come unità. È chiaro che l’unità costruita in tale modo è sempre arbitraria, come nell’esempio del mazzo di carte: «un» mazzo di carte, «una» carta del mazzo, «un» seme, ecc.

Qualche matematico ha accettato appunto tale interpretazione. Frege cita Lipschitz, secondo il quale la descrizione di come sorge in noi il concetto di numero sarebbe capace di chiarire il suo significato logico, la sua «essenza». Secondo Lipschitz «chi vuole ottenere una visione sintetica di un dato gruppo di oggetti deve fissarsi inizialmente su uno determinato di essi, e passare poi ai rimanenti aggiungendoveli via via uno dopo l’altro»[17]; tesi, questa, assai vicina a quella proposta già da Stuart Mill, per il quale è vero che quando chiamiamo una collezione di oggetti con i nomi di «due», «tre», «quattro», essi non sono due, tre o quattro in astratto, ma due o tre o quattro cose concrete di qualche tipo particolare, sassi, cavalli, centimetri; tuttavia il numero non si identifica con essi, perché ciò che un numero in realtà connota è «la maniera nella quale i singoli oggetti di un dato tipo possono essere posti insieme, al fine di costituire un particolare aggregato»[18]. La base empirica del significato del numero è in queste concezioni costituita non dalla pura presenza di oggetti d’esperienza segregati obbiettivamente, ma dalle varietà di articolazioni che possono realizzarsi nell’atto di intuirli, o addirittura dal modo in cui possono venir collegati mediante l’attenzione. È il caso di ricordare che nel secolo scorso gran parte dei processi percettivi venivano spiegati coll’intervento dell’attenzione: ed ha ragione Frege, in questo senso, a identificare nei tentativi di Mill e Lipschitz una forma di riduzionismo psicologistico.

Le obbiezioni di Frege sono le seguenti:

a) Le descrizioni dei processi attentivi che hanno luogo in presenza di gruppi di oggetti sono più adatte a mostrare «come sorge in noi l’intuizione di un complesso di stelle, che non come si forma il concetto di numero; in altre parole, tali descrizioni sono un buon materiale per studiare i processi d’organizzazione percettiva, ma non toccano il problema della definizione del numero. I due problemi sono largamente indipendenti, tant’è vero, osserva acutamente Frege, che il conoscere il numero degli oggetti che formano un certo gruppo non ci aiuta per niente a percepirlo in modo più determinato.

b) In genere, la descrizione dei processi mentali che precedono l’enunciazione di un giudizio su collettività numeriche, o un giudizio che riguardi i numeri o le operazioni coi numeri, contiene ben poco che abbia a che vedere con il concetto di numero - cioè con la sua determinazione logica. Non si può dimostrare un teorema descrivendo i processi mentali che formano momento per momento le tappe della dimostrazione. La dimostrazione è una cosa distinta e distinguibile dal processo mentale che ha luogo durante la sua stesura, esattamente come il Mare del Nord è distinto dall’immagine che ne abbiamo, dal fatto che possiamo tracciare su una carta il suo contorno, e dal fatto che possiamo sceg1iere una data scala su cui rappresentarlo graficamente: «tale arbitrarietà non è un motivo perché si debba studiare il Mare del Nord per via psicologica». Quando si dice che il Mare del Nord è di 10.000 miglia quadrate non si enuncia qualcosa che tocca la psicologia, anche se l’atto di dirlo implica il realizzarsi di un processo psicologico: con atti diversi potremmo istituire altre convenzioni, sul nome del mare, sulle misure, sui procedimenti di rappresentazione topografica, senza con ciò modificare nulla del Mare del Nord. Identicamente, i numeri restano «oggettivi» rispetto al nostro modo di pensarli, perché non sono l’«effetto di un processo psichico», ma caso mai l’oggetto - più o meno completamente conosciuto - intorno al quale lavoriamo, indubbiamente per mezzo di processi psichici, e cioè col pensiero. La linea immaginaria dell’equatore è «oggettiva», in questo senso : «se il suo nascere coincidesse con il suo essere conosciuta, noi non potremmo affermare nulla di essa, riferendo la nostra affermazione a un tempo precedente tale pretesa nascita»[19]. E per questo noi comunemente diciamo di «scoprire» la soluzione di un problema, non di «crearla».

Ciò non significa che entità di questo tipo siano al di là di ogni esperienza e di ogni processo di pensiero, in un regno metafisico inaccessibile. L’uso comune del linguaggio lo dimostra. Prendiamo in considerazione casi come questi: ammettiamo che il «bianco» sia una sensazione del tutto soggettiva; pure, «quando si dice che la neve è bianca, si ha in mente di esprimere con queste parole una qualità oggettiva, che, alla comune luce del sole, è riconoscibile per mezzo di una certa sensazione. Naturalmente, questa cambia se la luce diventa monocromatica; in tale caso però, nel descrivere il colore della neve, si farà presente il modo particolare in cui essa è illuminata; si dirà per esempio: la neve ora sembra rossa, ma in realtà è bianca»[20].

L’oggettività dei numeri può essere avvicinata a questo tipo di oggettività ora detto. Frege aggiunge: «è chiaro pertanto che, parlando di oggettività, io intendo una indipendenza dal nostro sentire, intuire, rappresentare, dal nostro formarci immagini mentali in base al ricordo di precedenti sensazioni, ma non una indipendenza dalla ragione. Rispondere alla domanda «che cosa sono gli oggetti indipendentemente dalla ragione» significherebbe infatti giudicare senza giudicare, qualcosa come volerci lavare le mani senza bagnarle»[21]. Come vedremo in seguito, il programma di Frege è realizzabile, e con tutto vantaggio per lo studio dei problemi concernenti l’unità e la molteplicità dal punto di vista del sentire, dell’intuire, del rappresentare e così via.

 

3. Critica all’interpretazione empirica del concetto di unità.

 

Fin qui abbiamo considerato alcuni aspetti riguardanti il numero in generale. Ora seguiremo Frege attraverso alcune discussioni sull’unità, il primo tra i problemi che dovremo poi riprendere sul piano della fenomenologia della percezione.

Anche qui, le interpretazioni empiriche vanno escluse dall’ambito di quelle accettabili. Intanto, valgono le ragioni già dette per il concetto di numero in generale. Oltre a ciò bisogna osservare che l’unità non può essere l’attributo di un determinato oggetto (cioè una sua proprietà descrivibile mediante aggettivi) a causa della seguente considerazione: non si capisce per quale motivo essa debba venire attribuita espressamente alle cose - mediante un particolare segno linguistico - se realmente è posseduta da ciascun oggetto ostensibile. Quando diciamo che Solone è saggio lo diciamo perché c’è la possibilità che qualcuno non sia saggio, ed una volta attribuita la saggezza a Solone, resta da vedere tra i rimanenti uomini, chi è saggio o no: in breve, c’è la classe dei saggi e quella dei non saggi, e Solone appartiene alla prima. In ciò sta il senso dell’affermazione. Ma «il contenuto di un concetto diminuisce se la sua estensione si amplia; se questa poi viene a comprendere tutto, il contenuto del concetto andrà completamente perso»[22]. E appunto, nel caso degli oggetti ognuno è «uno», e non esiste la classe complementare degli oggetti «non-uni». Cosi, tale attributo «non serve a determinare maggiormente un oggetto rispetto agli altri»[23], e in definitiva non svolge affatto un ruolo di attributo. Ciò può essere visto anche attraverso un esempio che rappresenta il rovescio del sillogismo paradossale di Russell: prendiamo le due proposizioni «Solone era saggio» e «Talete era saggio», e costruiamo da esse una proposizione al plurale «Solone e Talete erano saggi»; poi proviamo a fare lo stesso con l’attributo dell’unità, partendo dalle proposizioni «Solone era uno» e «Talete era uno»: la proposizione al plurale dovrebbe allora suonare «Solone e Talete erano uni».

Neppure spostando l’esame dalle unità concrete al nostro modo di pensarle o di rappresentarcele mentalmente migliora la possibilità di dare un fondamento empirico al concetto di «uno». Leibniz aveva proposto di identificare l’uno con tutto ciò che possa venir colto per mezzo di un atto di pensiero; ma anche la molteplicità viene colta (ammesso che questo verbo descriva veramente qualcosa, in simili contesti) nello stesso modo. Baumann perfeziona la tesi di Leibniz suggerendo che l’esempio dell’«uno», nel pensiero, è costituito dal concepire qualche cosa come una entità indivisibile[24]. Questa soluzione è, in un certo senso, soddisfacente. Solo che, secondo Frege, l’unità intesa a questo modo risulta non applicabile al mondo dell’esperienza, le cui parti sono, almeno teoricamente, suddivisibili a piacere; la definizione è buona, ma configura l’unità come un oggetto affatto peculiare, inconfrontabile con quelli ai quali i numeri e i calcoli possono venire normalmente applicati.

Ci sono ancora due vie da tentare, a questo punto, per trovare connessioni tra il concetto di «uno» e qualche proprietà della realtà empirica; si tratta di due vie opposte: 1) data una collezione di oggetti empirici, definire come unità ciò che resta di ciascuno di essi una volta che gli siano state tolte tutte le caratteristiche capaci di differenziano dagli altri; 2) data una collezione di oggetti empirici, definire come unità qualunque di essi che sia distinguibile dagli altri per almeno una caratteristica differenziale: se tre monete fossero identiche al punto da occupare lo stesso luogo nello stesso istante esse non sarebbero tre unità ma una. In queste due prospettive, l’origine empirica dell’unità non viene fatta risalire a qualche proprietà degli oggetti, ma a proprietà riguardanti relazioni tra oggetti: cioè l’identità e la discernibilità.

Alla tesi esposta in 1) Frege risponde con la seguente critica: prendiamo alcuni oggetti differenti, e cominciamo a togliere da essi le proprietà per le quali risultano differenziati: procedendo passo per passo, otterremo solo di renderli più simili; ossia costruiremo successivamente alcuni concetti sempre più generali. «Se per esempio nel prendere in esame un gatto bianco e uno nero prescindo dalle proprietà per cui essi si distinguono, non ottengo il concetto di due, ma quello generale di gatto»[25], in cui le due unità che si volevano definire non ci sono più.

La tesi esposta in 2) è precisata da Jevons nella forma seguente: «Allorché scrivo il simbolo 5, penso in realtà 1+ 1+1+1+1 ed è assolutamente fuori dubbio che ciascuna di queste unità è diversa dalle altre. Volendo esser preciso potrei scrivere 1’ + 1’’+ 1’’’+1’’’’+ 1’’’’’». Se si ammette che la discernibilità è il criterio di individuazione dell’unità, una notazione come quest’ultima deve essere assunta. Potremmo anche convenire, dice Frege che per individuare le varie unità basta la posizione che i diversi segni «1» occupano sul foglio di carta, da sinistra a destra o secondo qualche altra convenzione; questa, beninteso, dovrebbe essere una regola esplicita e senza eccezioni, altrimenti non potremmo sapere caso per caso se 1+1=2, oppure 1+1=1. Infatti, 1’+1’’ (cioè un oggetto più un altro distinguibile da esso) = 2 (che è semplicemente un modo abbreviato di scrivere 1’ + 1’’); ma 1’ + 1’ (cioè lo stesso oggetto considerato due volte) = 1’, secondo la regola additiva del calcolo delle classi, per cui la classe A sommata a se stessa dà ancora la classe A. Ma una volta accettato che ogni 1 scritto denota un diverso oggetto discernibile, secondo la convenzione ora accennata, diventerebbe impossibile scrive 1=1.

Un’altra difficoltà è la seguente. Adottiamo la notazione di Jevons, e scriviamo la seguente uguaglianza:

(1’+1’’+1’’’) - (1’’+1’’’) = 1’

È un’uguaglianza corretta. Ma che cosa potremmo metter a destra del segno di uguaglianza in una espressione come quest’altra?:

(1’+1’’+ 1’’’) - (1’’’’+1’’’’’) = ?

Infine, quale sarebbe lo «status» dello 0 in un sistema come questo? Lo zero è un numero come gli altri, perché risponde come qualunque altro numero, in determinati casi, alla domanda: «quanti?». Ad es. : «quanti satelliti ha il tale pianeta del sistema solare?». La risposta può essere 4,1, o anche 0. Ma se il presupposto chiamato in causa per definire l’unità, (e successivamente i numeri intesi come collettività di unità) è la nozione di «oggetto discernibile», lo zero non può essere definito.

Nel corso di questa polemica rassegna emergono, dunque, quattro tipi di attributi empirici - cioè quattro tipi di proprietà di oggetti o di rapporti tra oggetti - che per alcuni autori sarebbero indispensabili alla definizione delle unità e dei numeri. Essi sono: 1) l’unitarietà (cioè il fatto che gli oggetti dell’esperienza si presentano segregati, relativamente compatti all’interno e dotati di limiti visibili e tangibili) ; 2) l’indivisibilità (il fatto che tali oggetti unitari non devono potersi considerare come aggregati di oggetti minori, o parti) ; 3) l’identicità (ogni numero 1 - pensato, scritto, detto ecc. - deve essere la stessa cosa che ogni altro numero 1; dunque i corrispondenti oggetti devono essere tra loro identici); 4) la discernibilità (gli oggetti a cui corrispondono i diversi segni dell’unità devono essere distinguibili per almeno un aspetto da ogni altro oggetto, altrimenti - come nel calcolo logico delle classi: 1+1=1).

Si tratta di quattro concetti perfettamente applicabili ad altrettanti aspetti dell’esperienza diretta del mondo esterno; ma - secondo le dimostrazioni di Frege - essi non devono venire intesi in tale senso, quando li si voglia utilizzare come ingredienti per la definizione dell’unità e del numero. D’altra parte, il concetto di unità e di numero deve poter essere applicato agli oggetti empirici, altrimenti «non ci resterebbe quasi più nulla cui poter attribuire il nome di unità e cioè quasi più nulla che possa venir contato», come scrive Frege stesso.

Questo era il problema.

La soluzione proposta dal matematico tedesco è molto interessante per la logica e la teoria dei numeri, dal momento che costituisce il punto d’incontro - anzi l’intersezione - tra questi due rami del sapere tradizionalmente ritenuti del tutto distinti. Noi, qui, ci limiteremo a riferirla per sommi capi. Ma è da tener presente che gli argomenti rilevanti per una fenomenologia della percezione, sono proprio quelli emersi fin qui: la critica filosofica rivolta a invalidare una fondazione empirica dell’unità e della molteplicità ha svolto, nelle mani di Frege, il ruolo di uno strumento particolarmente adatto a mettere in luce con grande chiarezza quegli aspetti del mondo fenomenico che spontaneamente si legano all’idea dell’unità e della molteplicità. E poco importa che l’operazione sia stata condotta in modo puramente negativo.

La soluzione prospettata da Frege è la seguente. Occorre abbandonare del tutto il progetto di porre in relazione diretta l’«uno» con le unità empiriche e i numeri con la numerosità intesa come dato empirico; dobbiamo invece spostare la nostra attenzione dal mondo dei fatti constatabili al mondo dei giudizi espressi in forma di proposizioni. Se noi possiamo, a proposito di uno stesso stato di cose, dire indifferentemente «qui vi sono quattro compagnie» e «qui vi sono 500 soldati» vuol dire che passando da una affermazione all’altra ciò che cambia, e a cui ci riferiamo, non è quello stato di cose empiricamente dato, ma qualche cosa d’altro. Secondo Frege «ad un concetto (cui si attribuisce un nome), ne è stato sostituito un altro (cui spetta un nome diverso) «. «L’attribuzione di un numero contiene sempre un’affermazione intorno ad un concetto» [26]. Un aggregato di soldati resta quello che è indipendentemente dal fatto che noi decidiamo di considerarlo come un insieme di uomini, di squadre, di plotoni, di compagnie ecc.; ma questi, appunto, sono «concetti» diversi - cioè, almeno in prima approssimazione, classi e sottoclassi costruibili attribuendo a ciascuna di esse una certa estensione, una intensione [27] e determinati rapporti di subordinazione e coordinazione. «La cosa risulta particolarmente chiara per il numero 0. Quando si dice: il pianeta Venere ha 0 satelliti, non vi è proprio alcun satellite o aggregato di satelliti intorno a cui possa venir affermato qualcosa. È invece al concetto di satellite di Venere che l’asserto anzidetto attribuisce una proprietà (cioè quella di non comprendere nessun oggetto sotto di sé). Analogamente, quando si dice: la carrozza dell’imperatore è trainata da quattro cavalli si attribuisce il numero quattro non ad un oggetto o gruppo di oggetti, ma al concetto cavallo che traina la carrozza dell’imperatore»[28].

Questa soluzione, naturalmente, sottende una concezione realistica dei concetti; molti critici hanno creduto di poterla identificare con una forma di platonismo[29].Ciò non ha rilievo, per noi. Può darsi che Frege credesse all’esistenza trascendente di un mondo delle idee; è un punto di vista possibile, e a volte vantaggioso. Ad ogni modo, le giustificazioni particolari che egli adduce in difesa dell’oggettività dei concetti non hanno nulla di metafisico. Esse possono venir sintetizzate così, crediamo: quando attribuiamo un numero a un concetto, oppure quando tracciamo rapporti di subordinazione tra classi (ma gli esempi potrebbero essere molti di più), non compiamo operazioni capricciose, obbedienti ai gusti personali di ciascuno, e variabili di volta in volta; i concetti non devono essere confusi con le rappresentazioni: queste ultime sono variabili nel tempo, diverse da soggetto a soggetto, e difficilmente comunicabili; le connessioni tra concetti no - per soggettivi che siano i processi di pensiero mediante i quali vengono caso per caso elaborate o scoperte. «Se i concetti fossero soggettivi, anche la subordinazione di uno all’altro dovrebbe risultare soggettiva, come lo è un rapporto tra rappresentazioni «[30].

Il fatto che i cetacei sono una sottoclasse dei mammiferi e i delfini una sottoclasse dei cetacei è tanto poco soggettivo quanto il fatto che, nella struttura geologica della terra, il nucleo NiFe è interamente contenuto nello strato SiMa, e questo a sua volta nello strato SiAl. da notare che a nessuno di questi due sistemi di relazioni è possibile far corrispondere qualcosa di direttamente osservabile. Se siamo disposti a chiamare «obbiettivo « il secondo, non c’è ragione alcuna per chiamare «soggettivo» il primo.

Sulla base di queste considerazioni, è possibile interpretare le proprietà dell’«unitarietà», «indivisibilità», «identicità» e «discernibi1ità» ad un livello nettamente diverso da quello empirico. L’unità può essere «separata dall’ambiente che la circonda» e risultare «indivisibile» in senso puramente logico, senza che si debba ricorrere alla citazione di alcuna caratteristica degli oggetti fenomenici. «Il concetto cui viene attribuito un numero delimita sempre in modo ben determinato ciò che cade sotto di esso. Così il concetto «lettera della parola tedesca Zahl» delimita perfettamente la Z rispetto alla a, questa rispetto alla h ecc. Così il concetto «sillaba della parola tedesca Zahl» pone innanzi a noi la parola come un tutto, e cioè qualcosa di indivisibile (nel senso che le parti di essa non cadono più sotto il concetto «sillaba della parola Zahl»)» [31].

In altre parole, se assumiamo un dato oggetto empirico come base per la definizione dell’unità andiamo incontro contemporaneamente a due inconvenienti: primo, esso può essere considerato come parte di una unità più grande; secondo, può essere considerato come fatto da molte unità più piccole. Per i concetti intesi nel senso di Frege questa possibilità di equivoco non esiste: assunto un dato concetto come unità, le sue possibili parti sono un altro concetto, e la sua possibile funzione di parte in una unità più vasta un altro concetto ancora.

L’unicità del concetto (esiste un concetto di sillaba, un concetto di lettera, un concetto di parola, ecc.; se distinguiamo tra due concetti di parola, ad es., ciascuno è a sua volta unico) costituisce la contropartita a livello logico dell’unitarietà intesa come dato empirico. Diversamente da questa, non è mai teoricamente frazionabile; e in questo senso si può parlare di una indivisibilità logica, che è la contropartita delle diverse forme di indivisibilità empirica.

Allo stesso modo è possibile dare una interpretazione puramente logica ai caratteri dell’identicità e della discernibilità.

Se per base dell’unità viene assunto un concetto nel senso sopra illustrato, le unità risulteranno uguali tra loro. Prendiamo ad esempio il concetto «Satellite di Giove»: in una classe così delimitata rientrano quattro corpi celesti A, B, C e D. A è satellite di Giove nello stesso senso in cui lo è B, C nello stesso senso in cui lo sono A e B, ecc. In ciò le unità che si possono chiamare «Satellite di Giove» sono identiche: «E resta così spiegata la proprietà dell’uguaglianza» [32].

Tali unità sono però diverse tra loro sotto un altro aspetto non meno chiaramente precisabile: cioè in quanto «sotto il termine unità si intendono proprio gli oggetti contati»[33], i singoli e materialmente discernibili oggetti A, B, C e D. Nessuno di essi può venir confuso con gli altri; e ciò in senso strettamente logico, dal momento che non viene contato più di una volta. In questo consiste la distinguibilità delle unità.

Uguaglianza e distinguibilità sono dunque, sul piano logico, la contropartita dell’«identicità» e della «discernibilità» empiriche.

Questa è la soluzione offerta da Frege. In breve, per quanto riguarda i problemi che interessano noi, può essere detta così:

è errato credere che l’idea dell’unità e della molteplicità sia il risultato di una astrazione compiuta direttamente su alcune proprietà empiriche degli oggetti, o sulle proprietà di alcuni processi psichici che possono accompagnare la percezione o la rappresentazione di tali oggetti; l’uno e i numeri sono definibili solo sul piano logico, come proprietà dei concetti-classe. Ma una volta, definiti in tale modo devono risultare applicabili - quando occorra - alle unità e alle collettività dell’esperienza.

 

§ 4. L’unità come fatto empirico.

 

Come certamente il lettore avrà notato da sé, molta psicologia compare nel corso di queste argomentazioni, sull’una e l’altra frontiera della polemica. In diversi casi si tratta di tipica psicologia fine ottocento, come quando Baumann afferma che «le cose esterne non presentano alcuna proprietà rigorosa» perché «ci danno gruppi separati o punti sensibili», secondo il punto di vista di Hume, e di Helmholtz che esporremo tra poco; oppure come quando Lipschitz sostiene che «chi vuole ottenere una visione sintetica di un dato gruppo di oggetti deve fissarsi inizialmente su uno determinato di essi, e passare poi ai rimanenti aggiungendoveli via via uno dopo l’altro», come se fosse impossibile percepire la numerosità di un gruppo di oggetti senza l’intervento dell’attenzione, che li esplora successivamente uno per uno.

Anche Frege si serve di argomenti psicologici, certo più di quanto lui stesso sarebbe stato disposto ad ammettere. Ma la sua psicologia «antipsicologistica» risulta spesso fatta di osservazioni assai acute.

La più interessante per noi, contenuta nel quarto capitolo delle Grundlagen, riguarda proprio la percezione delle unità, cioè la caratteristica fenomenologica fondamentale che devono possedere gli oggetti per poter essere contati. Abbiamo sottolineato più volte il fatto che secondo Frege il concetto di «uno» deve venir definito in modo da risultare applicabile alle unità dell’esperienza, benché non sia direttamente derivabile da esse. È precisamente questo il punto in cui una teoria dell’esperienza diretta incontra la teoria logico matematica dei numeri; e l’atteggiamento antipsicologistico di Frege non è tanto radicale e dogmatico da negare l’esistenza di un tale punto d’incontro.

Secondo lui, deve esistere «un certo nesso» tra il concetto di unità e il fatto che il mondo, sotto i nostri occhi, è popolato da oggetti discernibili e «unitari». La lingua tedesca ricava l’aggettivo «einig» (unitario, compatto, unico - anche: concorde) dal nome «Ein» (uno). «Un oggetto è tanto più idoneo a venir concepito come una entità a sé, quanto più le differenze fra le sue parti costituenti si mostrano irrilevanti rispetto alle differenze fra esso e ciò che lo circonda: ossia quanto più la connessione interna risulta preminente su quella dell’ambiente. L’aggettivo «einig» denota una proprietà che, nell’atto di comprendere un oggetto, ci induce a separarlo dall’ambiente e a considerarlo in se stesso»[34]. Anche l’uso della parola «Einheit», cioè «unità», risulta in questo senso molto istruttivo: è possibile parlare di unità di un’opera d’arte, di uno stile, come dell’unità politica di un paese, ecc. Sul piano percettivo l’unità intesa nel senso di segmentazione obbiettiva e coercitiva degli oggetti esperiti vale per l’uomo come per gli animali. Il cane, che non ha certo idea dell’«uno» numerico, distingue tuttavia nettamente i singoli oggetti: «il suo padrone, la pietra con cui questi lo fa giocare, un altro cane ecc. sono tutti oggetti che egli vede così ben delimitati, così indivisi, così consistenti ciascuno in sé, come li vediamo noi. Infatti.., percepisce una netta differenza, se ha da difendersi contro molti cani o contro uno solo»[35].

Sono evidentemente proprio queste caratteristiche dei fatti visibili e tangibili quelle che ci permettono di «contare», cioè di applicare i numeri alle cose. Frege parla di «un certo nesso», tra l’unità constatabile e l’unità concettuale, e ne parla quasi parenteticamente; in verità, l’esistenza di questo nesso è essenziale nel corpo della sua teoria: come il lettore certo ricorda, egli rimprovera a Baumann la sua definizione dell’unità proprio perché se l’accettassimo «non ci resterebbe quasi più nulla...che possa venir contato».

Se per qualificare come soddisfacente una definizione logica dell’unità e del numero è necessario che essa sia congegnata in modo da rendere possibile l’operazione del contare, è innegabile che il problema delle unità empiriche, osservabili ed enumerabili, assume un ruolo centrale in rapporto a tutta la questione della fondazione del numero. Si può vedere se il numero - definito in un certo modo, e sia pure indipendentemente da qualsiasi riferimento empirico - risulta poi applicabile a qualcosa, solo se c’è qualcosa cui possa essere applicato; e il modo in cui verrà applicato dipenderà indubbiamente dalla natura delle unità empiriche assunte ad oggetto di tale operazione.

Queste unità, cacciate dalla porta quando si trattava di definire l’uno e i numeri, rientrano dalla finestra quando si tratta di vedere come l’uno e i numeri possono essere messi in relazione con le cose dell’esperienza. Frege ha fornito ottime definizioni formali per l’unicità, l’indivisibilità logica, l’uguaglianza e la distinguibilità. Il problema dell’applicazione del numero alle cose obbliga però a cercare in che senso gli oggetti dell’esperienza possiedono i corrispondenti attributi dell’unitarietà, dell’indivisibilità (rapporto tutto-parti) dell’identicità e della discernibilità, grazie ai quali è possibile concretamente enumerarli.

Tratteremo i primi due temi in questi due primi capitoli; nel terzo e nel quarto ci occuperemo dell’identicità e di alcuni problemi ad essa connessi, come quello dell’identità, della somiglianza e della permanenza nel tempo.

Frege scrive che un oggetto «è tanto più idoneo a venir concepito come un’entità a sé, quanto più le differenze tra le sue parti costituenti si mostrano irrilevanti rispetto alle differenze fra esso e ciò che lo circonda; ossia quanto più la connessione interna risulta preminente su quella con l’ambiente». Così in tedesco «l’aggettivo «einig» denota una proprietà che, nell’atto di comprendere un oggetto, ci induce a separarlo dall’ambiente e a considerarlo in sé stesso».

Sul piano intuitivo questa può essere assunta come una buona descrizione generale delle unità d’esperienza. Chiunque capisce bene a che tipo di constatazioni essa si riferisce.

Un esame più attento, però, mette in luce subito una difficoltà di fondo: è vero, quando una unità percettiva sia già costituita e presente nel campo attuale delle constatazioni, è «tanto più idonea a venir concepita come una unità a sé» quanto meglio risulta segregata dal resto, e quanto più è compatta al proprio interno; cioè, si può parlare delle parti costituenti di un oggetto e sottolineare le differenze intercorrenti tra esse e quelle che costituiscono l’ambiente circostante, solo se già l’oggetto in questione si differenzia (sia pure di poco) come un fatto diverso dall’ambiente stesso. Ma questo non spiega come mai ci siano delle unità; dice solo che esse possono risultare più o meno solide o pregnanti - essendo dato per presupposto il fatto che ci sono.

Inoltre, la proprietà denotata dall’aggettivo «einig» non sorge nell’esperienza attuale in due tempi; stando a Frege, prima verrebbe «l’atto di comprendere un oggetto» e successivamente un altro atto che «ci induce a separarlo dall’ambiente e a considerarlo in se stesso». Ma è chiaro che l’atto di comprendere un oggetto non può aver luogo senza che l’oggetto in questione sia già, in qualche misura, discernibile da ciò che gli sta attorno.

La descrizione di Frege può applicarsi abbastanza bene solo ad alcune circostanze eccezionali: un oggetto che, avvicinandosi a noi in mezzo alla nebbia più fitta, si renda progressivamente visibile può per qualche attimo apparire tanto indistinto da obbligarci ad uno sforzo per isolarlo meglio dal resto dell’ambiente; e può anche essere che questo sforzo risulti di qualche utilità, come è stato dimostrato[36]: se, per esempio, un osservatore è seduto in una camera bene illuminata di fronte ad uno schermo di vetro smerigliato, dietro al quale è nascosto un proiettore per diapositive regolato su una intensità luminosa sufficientemente bassa., gli è spesso impossibile riconoscere se quei deboli colori che vede sul vetro provengano dal proiettore o dalla sua immaginazione. Gli si dica:

«Immagini che sul vetro ci sia l’immagine di un banana «, e in molti casi[37], sia che il proiettore emetta una fascia di luce gialla estremamente debole, sia che si sopprima del tutto ogni luce oggettiva, il risultato è lo stesso: «è difficile per l’osservatore, decidere se sta vedendo qualcosa, oppure se sta solo immaginando»[38]. In casi come questi l’osservazione può considerarsi come scandita in due tempi, nel secondo dei quali l’unitarietà di un dato percettivo viene in qualche modo rafforzata. Nella grandissima maggioranza dei casi forniti dall’esperienza quotidiana, però, nulla di tutto questo ha luogo. Gli oggetti del mondo circostante sono stabilmente unitari e segregati prima che qualunque «atto di comprensione» si rivolga ad essi, e il loro grado di unitarietà ben poco risente delle nostre più attente esplorazioni.

In questo senso «essere unitario» è proprio come «essere rosso» «essere pesante» o «essere in moto»; e l’unitarietà degli oggetti dipende tanto poco dai nostri personali atteggiamenti nei loro confronti quanto poco ne dipendono i loro movimenti nello spazio, il peso e il colore che hanno. C’è solo una differenza: che mentre possiamo immaginare un universo percettivo fatto di cose tutte immobili, tutte prive di peso, colorate con ogni colore tranne il rosso, o il rosso e il verde, oppure tutte grigie, più chiare e più scure, come nei film in bianco e nero, non possiamo immaginare un universo percettivo in cui manchi la caratteristica dell’unitarietà. Neppure la totale assenza di oggetti discernibili costituisce una situazione di esperienza in cui questo aspetto fenomenico del mondo venga a mancare. In Zur Phänomenologie des homogenen Ganzfeldes [39] Wolfgang Metzger descrive accuratamente la struttura fenomenologica che assume la totale assenza di oggetti visibili per un osservatore. Perché si realizzi questa situazione, occorre che l’osservatore si trovi di fronte ad una superficie perfettamente omogenea, assolutamente priva di asperità apprezzabili, uniformemente illuminata, ed abbastanza grande da allargarsi oltre i limiti del suo campo visivo. L’attrezzatura usata da Metzger non è molto semplice da descrivere, ma il lettore può riprodurre per conto suo l’esperienza utilizzando un globo di vetro finemente smerigliato e omogeneamente colorato, il quale abbia una apertura abbastanza grande da permettere di affacciarsi all’interno: vanno bene, per esempio, i normali globi usati per l’illuminazione delle stanze, purché di dimensioni adatte.

In una situazione come questa si realizza intorno all’osservatore un’atmosfera nebbiosa, ugualmente estesa nello spazio davanti agli occhi come nello spazio fenomenicamente presente al di là dei confini ai quali arriva lo sguardo, omogenea e in parte penetrabile con la vista come può esserlo, ad es., il fumo denso o l’acqua torbida. Questa atmosfera costituisce un ambiente indifferenziato, nel quale l’osservatore si avverte situato; la nebbia arriva fino in prossimità degli occhi, e costituisce una unità tridimensionale inconfondibile con l’osservatore stesso, dato che c’è una ben chiara differenza tra il luogo dove egli sente di avere gli occhi e il luogo dove comincia ad esserci la nebbia. È difficile immaginare una esperienza meno articolata di cosi. Forse l’annullamento mistico riesce a togliere di mezzo anche il confine che divide il luogo dell’io dal luogo di ciò che è esterno; ma, a questo proposito, è interessante ricordare che qualche mistico ha identificato l’estasi proprio con l’esperienza dell’Unità assoluta,.Naturalmente, queste testimonianze non possono avere valore scientifico; ha interesse scientifico, tuttavia, il fatto che qualcuno abbia scelto proprio la parola per designare l’ineffabile stato che si suppone esistere quando tutte le articolazioni sensibili, immaginabili e pensabili siano state annientate.

La presenza di qualcosa che possieda la caratteristica fenomenica dell’unitarietà è ineliminabile dal mondo delle nostre esperienze, vissute o immaginate che siano. L’unità intesa in questo senso non è solo un aspetto del mondo vissuto, ma anche una condizione di esso; non deve sorprendere il fatto che nell’esperienza ci siano caratteristiche visibili e tangibili - e come tali empiricamente analizzabili - le quali svolgono una funzione categoriale: se è vero, come noi riteniamo, che la presenza immediata del mondo deve essere studiata ed interpretata iuxta propria principia, essa deve contenere anche alcuni aspetti che sono sue condizioni, tolte le quali null’altro di esperibile potrebbe in alcun modo sussistere.

Quest’ammissione potrà sembrare un po’ troppo filosofica per trovare posto in un libro di psicologia. Ma la sua base è molto semplice: sta di fatto che certe caratteristiche fenomeniche si realizzano nell’esperienza solo se altre caratteristiche sono presenti; ed è logico che, stando le cose a questo mode, debbano esserci caratteristiche esperibili, tolte le quali non è più possibile parlare d’esperienza in alcun modo sensato.

È anche logico che proprio queste caratteristiche debbano sempre essere presenti: in tal senso appunto svolgono (nel complesso di tutto ciò che è immediatamente ed attualmente dato) una funzione categoriale. Basti pensare per un momento allo spazio e al tempo, così come si presentano hic et nunc; è difficile immaginare (nonché avere) l’esperienza di qualcosa che non occupi un posto più o meno ben definito in essi; in questo senso vanno considerati come condizioni. D’altra parte non c’è dubbio che spazio e tempo siano aspetti della realtà attuale, sia perché si presentano come tali, sia perché possono essere studiati con gli stessi mezzi che permettono di indagare, ad es., sui colori, sulle forme, sui suoni e così via.

L’unità svolge un ruolo di questo tipo. Entro gli orizzonti spazio-temporali della nostra esperienza non vi è mai un momento caratterizzato dall’assenza totale di unità, seguito da un altro momento in cui il nostro pensiero, o la nostra attenzione, o l’azione di qualche altra pretesa «forza psichica» la faccia emergere. Il ricorso stesso all’azione di categorie logiche a priori non può soddisfare la nostra curiosità scientifica, dal momento che per definizione non è dato di assistere all’azione che esse svolgono nel sorreggere il mondo delle cose; e nel momento in cui cerchiamo di definire in qualche modo tale azione, siamo già ben collocati in mezzo ad una realtà ineludibile.

Ciò che noi possiamo molto bene seguire da vicino è invece l’avvicendarsi delle unità d’esperienza momento per momento, il sorgere e lo scomparire di alcune di esse dalla scena intorno a noi, il loro specifico comportamento in situazioni date, i sistemi di relazioni fenomenicamente espliciti che le legano, spesso in modo strettamente univoco. Tutto questo, naturalmente, ci mette in grado di formulare le leggi della loro dinamica e infine di prevedere con molta precisione come determinate strutture unitarie si realizzeranno in condizioni d’osservazione progettate da noi sulla base di tali leggi.

 

§ 5. Osservazioni di Aristotile sulle strutture unitarie.

 

Le prime osservazioni dirette a questo scopo sono dovute, per quanto ci consta, ad Aristotile Per Aristotile, accanto alla domanda metafisica «qual’è l’essenza propria dell’uno e il suo concetto» (Metaph. 1052b) [40] è possibile avanzare un’altra domanda, ben distinta da quella e tipicamente scientifica: «quali sono le cose alle quali si attribuisce unità» (ibid.). Le osservazioni si riferiscono a questo aspetto del problema.

Si tratta di osservazioni finissime, perfettamente aderenti ai fatti constatabili e all’uso comune del linguaggio; e tanto più pregevoli, per noi, in quanto non mirano a descrivere i caratteri più generali (ed ovviamente più generici) dell’unità delle cose, ma piuttosto a contrapporre nell’ambito di esempi specifici ciò che noi oggi chiameremmo un «fattore di unificazione» (la continuità, ) contro i «fattori di segregazione» che tendono a rompere l’unità delle strutture esperibili.

La continuità non è definita in maniera rigorosa, ma dagli esempi presi in esame è abbastanza facile capire la natura del suo ruolo.«A un fascio dà continuità la corda, ai pezzi di legno la colla» (1016 a); ma questo tipo di unificazione è relativamente debole: «uno, a maggior diritto, è l’intero, e ciò che ha qualche figura e forma : specialmente se qualcosa sia tale per natura, e non per forza (come quel ch’è unito con la colla, con chiodi o corda), ma abbia in se stessa la causa della sua continuità» (1051 a). Ciò non toglie, tuttavia, che un certo grado di unitarietà debba essere attribuito anche a un gruppo di cose che stanno insieme «per contatto o per legame esteriore; e questo tanto più e più propriamente è uno, se sia di cose il cui movimento è meno divisibile e più semplice» (ibid.).Un certo grado di solidalità nel movimento favorisce l’unificazione; la totale assenza la pregiudica del tutto:«se tu ponessi dei legni uno accosto all’altro, non diresti che facciano né un legno solo, né un sol corpo, né un solo continuo di altra specie» (1016a).

Inoltre: «una linea, se, ancorché spezzata, sia continua, si dice che è una; e così, anche, ciascuna parte dell’organismo, una gamba o un braccio» (ibid.), perché «ciò che... è continuo, si dice uno anche se abbia una piegatura: meglio, tuttavia, se non l’ha» (ibid.). I movimenti relativi di due articolazioni sono compatibili con l’unità purché vi sia tra essi almeno un punto di stabile contatto, cioè una «piegatura»; I movimenti relativi della tibia e del femore non pregiudicano l’unitarietà della gamba, perché «il movimento della gamba non può non esser uno» (ibid.); tuttavia la tibia e il femore, in se stessi, sono più unitari che non la gamba di cui fanno parte. Infatti la retta è più «una» di una linea piegata: «anzi quella piegata e che fa angolo, la diciamo e non la diciamo una, perché il movimento delle sue parti può essere, ma anche non essere, simultaneo; laddove quello della. retta è sempre simultaneo, e nessuna parte di essa, che abbia grandezza, sta ferma mentre un’altra si muove, come avviene in quella piegata» (ibid.).

La solidalità nel movimento sembra essere per Aristotile una proprietà decisiva per l’unità: un oggetto intero dotato di figura e forma, è uno «in quanto il suo movimento è unico e indivisibile nello spazio e nel tempo» (1051a).

Le unità in sé, dunque, ammettono diverse intensità ;abbiamo il massimo dell’unità tutte le volte che un oggetto possiede una forma ben definita, ed è solidale in se stesso: un cubo di cristallo, un pezzo di ferro, un blocco di roccia possono essere buoni esempi; abbiamo gradi di unità meno forti quando queste caratteristiche vengono indebolite: per Aristotile - probabilmente - uno dei nostri libri sarebbe meno «uno» che un pezzo di ferro di forma analoga, dato che il libro è fatto di pagine e può essere aperto, e così una ameba sarebbe meno «una» in confronto ad una goccia di vetro, dato che la forma dell’ameba cambia continuamente. L’unità va del tutto perduta quando questi requisiti vengono a mancare. «Le cose si diranno molte in sensi opposti a quelli dell’uno» (1017a). Le diverse intensità di unità sono possibili in quanto le unità considerate negli esempi risultano sempre formate da elementi, che in teoria potrebbero essere definiti come unità a sé, ma in realtà si trovano tra loro in determinate relazioni che li rendono parti di una unità. Ciò costituisce l’aspetto più bello e più attuale nella teoria aristotelica delle unità in sé. La corda, i chiodi e la colla possono conferire unità ad un aggregato di oggetti ciascuno dei quali potrebbe essere visto come una unità per conto suo: ciò che li rende parti di una unità è la relazione in cui vengono a trovarsi. «Vedendo le parti di una calzatura, comunque accozzate insieme, noi non diremmo che sono una cosa sola, in ogni caso...; si bene quando sono così disposte da essere una calzatura ed avere già una qualche forma» (1016b).

Una volta definiti diversi oggetti come unità, potremmo essere così testardi da non ammettere che essi cessano d’esser tali quando vengono sistemati insieme. Potremmo dire: quattro segmenti sono quattro unità; ma un quadrato, in fondo, è null’altro che quattro segmenti - dunque non è una unità ma un aggregato. I segmenti non diventano diversi quando sono ordinati in un quadrato; dunque, se unità erano prima, unità saranno anche adesso. uno sbaglio dire che una linea è «spezzata» : si tratta di segmenti accostati in un dato modo, ecc. Più di un filosofo ha assunto questo atteggiamento, che chiameremo d’ora innanzi «elementaristico». Aristotile - così crediamo - era troppo buon osservatore per cadere in questa trappola teoretica. Tra i suoi esempi non compaiono unità perfette, adialettiche; sono tutti esempi di giochi di forze grazie alle quali l’unità sorge dalla connessione tra cose che, astratte da quello specifico legame, sarebbero a loro volta delle unità.

 

§ 6. La critica di Hume: le sensazioni elementari.

 

Naturalmente, anche il punto di vista opposto obbedisce ad una sua logica. C’è un autore che si può diametralmente contrapporre ad Aristotele, ed è David Hume. Pur non condividendo noi neppure in piccola parte le sue tesi sulla struttura percettiva dell’esperienza - che hanno reso un pessimo servizio alla psicologia scientifica, nei limiti, assai ampi, in cui questa si è lasciata guidare da esse - ci appare doveroso espone e discuterle con una certa ampiezza. Ciò, almeno per due motivi: primo, perché solo una attenta analisi delle tesi elementaristiche può metterci in grado di evitare gli errori che conseguono da esse, e particolarmente quegli errori difficilmente individuabili nei quali si incorre ragionando alla buona su specifici problemi della percezione (infatti il buon senso sembra sottendere, in molti casi, assunzioni tipicamente elementaristiche); in secondo luogo, per il fatto che David Hume espone le sue tesi con lucidità implacabile, fino alle ultime conseguenze, senza tentar di evitare le aporie macroscopiche alle quali spesso conducono, e con una onestà intellettuale paragonabile a quella di ben pochi altri autori. «Non vi è cosa tanto necessaria ad un vero filosofo quanto quella di frenare il desiderio intemperante di cercare le cause: una volta stabilita una dottrina su un numero sufficiente di esperimenti, egli deve arrestarsi soddisfatto, specie quando un ulteriore esame lo condurrebbe a speculazioni oscure e incerte»[41]. Hume ha scelto un certo numero di fatti - quelli appunto che potevano deporre a favore di una interpretazione elementaristica dell’esperienza immediata - ed ha esteso la logica che bene si adattava ad essi in ogni direzione possibile, negando l’evidenza di altri fatti tutte le volte che questo si rendesse necessario. Proprio tali negazioni dell’evidenza sono eccezionalmente istruttive, quando siano considerate insieme alle ragioni su cui si fondano.

Guardandoci intorno, parrebbe che gli oggetti visibili abbiano certe proprietà spaziali (contorni, superfici, volumi) le quali concorrono a costituirli come entità empiriche unitarie.

Ma l’unità «è un nome puramente fittizio che lo spirito può applicare a ogni quantità di oggetti ch’egli mette insieme»[42], e le proprietà spaziali sono puramente illusorie.

Vediamo perché.

«La vista della tavola, che mi sta innanzi, basta per darmi l’idea dell’estensione. Quest’idea, dunque, viene dall’impressione e la rappresenta nel momento stesso in cui appare ai sensi. Ma la vista mi trasmette soltanto le impressioni dei punti colorati disposti in certo modo. Se l’occhio percepisce qualcosa di più, vorrei che qualcuno me l’indicasse»[43]. Sbagliamo, dunque, quando affermiamo irriflessivamente: «vedo la superficie del tavolo»; dovremmo dire: «vedo una miriade di punti colorati». Naturalmente, se sentiamo da qualcuno quest’ultima frase, siamo portati a credere che la persona in causa stia vedendo una specie di costellazione fittissima fatta da tanti punti d’ogni colore. In effetti, è lecito supporre che per Hume questa espressione fosse calzante sia in un caso che nell’altro: sembra che i due casi siano diversi. Ma l’evidenza immediata può tradirci; per decidere dobbiamo risalire a quanto realmente succede nell’occhio: e qui, ci sono solo punti colorati.

Non il dato immediato conta, ma la sua premessa fisiologica. Quando Hume chiama in causa l’occhio, lo fa proprio in questo senso. «È universalmente riconosciuto dagli studiosi che l’occhio vede sempre un numero uguale di punti fisici, e che su la vetta d’un monte i sensi non presentano un’immagine più estesa di quando uno si trova rinchiuso nella stanza più angusta»[44]; se potessimo agevolmente guardare nell’occhio di un osservatore il quale stesse ammirando dalla cima di un monte lo spettacolo del mare in bonaccia, troveremmo soltanto tanti punti illuminati diversamente, uno accosto all’altro, esattamente quanti sarebbero in quello stesso occhio visibili se egli stesse leggendo un libro. Le uniche differenze che l’occhio può registrare sono «la differenza delle parti impressionate dell’organo», cioè la topografia delle stimolazioni retiniche, e quella «del grado di luce o ombra», ossia la loro intensità.

Questo stato di cose resta identico per ogni oggetto osservato, il che equivale a dire - andando fino in fondo - che non può esistere nessun oggetto osservato.

Si potrebbe tentar di obbiettare a Hume che certi definiti rapporti spaziali sussistono pur sempre tra i vari punti sollecitati della retina, e possono quindi fungere da fondamento alla percezione di qualche proprietà spaziale degli oggetti. La sua risposta è questa: guardando due volte lo stesso oggetto, è vero, i punti risultano ogni volta «nel medesimo ordine tra loro»[45]; tale fatto interessa soltanto i singoli punti, l’unica realtà visiva con cui abbiamo a che fare. Sull’ordine dei punti possiamo successivamente costruire inferenze, le quali appunto essendo inferenze non sono fatti visibili. Così, ad es., possiamo giudicare la distanza tra diverse cose, ma non vederla. Il ragionamento di Hume sembra essere il seguente: prendiamo in ordine cinque punti, A, B, C, D, E, da sinistra a destra. È un fatto che B sta alla destra di A, C alla destra di B, e così D rispetto a C ed E rispetto a D, ma è un’inferenza che E sta alla destra di A, oppure che C sta tra A ed E. Nessun singolo punto sa cosa stia succedendo agli altri più lontani in un dato momento; egli sa di avere un vicino, ma se questi a sua volta ha un altro vicino non è fatto che lo riguardi. Tante contiguità non fanno una distanza.

Ecco la prova. «È evidente che quando presente alla vista non c’è altro che due corpi luminosi, noi possiamo percepire se sono uniti o separati; se separati da maggiore o minore distanza; e, variando questa, ne percepiamo, col movimento dei corpi, l’aumento o la diminuzione. E poiché in questo caso la distanza non è una cosa colorata e visibile, si può pensare che qui sia un vuoto o una pura estensione, non soltanto intelligibile alla mente, ma palese ai sensi stessi. Questo è il nostro modo di pensare più naturale e comune, che, tuttavia, bisogna correggere con un po’ di riflessione»[46].

Come nel caso riferito prima, quello della tavola che non è una superficie ma un insieme di punti colorati, anche qui Hume muove da una descrizione fenomenologica corretta e da un uso normale del linguaggio d’ogni giorno; ma poco dopo blocca di colpo i freni, e corregge l’esperienza effettiva «con un po’ di riflessione».

«Osserviamo, infatti, che quando due corpi si presentano là dove c’era prima una completa oscurità, il solo cambiamento da notare è nell’apparizione di questi due oggetti: tutto il resto continua ad essere come prima, la perfetta negazione della luce e di ogni oggetto colorato e visibile. Questo non è soltanto vero per le cose che diciamo lontane da questi corpi, ma anche della distanza stessa interposta fra loro: ché questa è nient’altro che oscurità e negazione della luce, senza parti, semplice, invariabile e indivisibile». Questa pretesa «distanza» dunque «non produce una percezione diversa da quella che riceverebbe un cieco, o noi stessi nella notte più oscura»[47]. Hume aggiunge: «E poiché la cecità e l’oscurità non danno nessuna idea di estensione, è impossibile che l’indistinta e oscura distanza di due corpi produca mai quest’idea»[48]; in quest’ultima affermazione è nascosta la premessa sbagliata: infatti, chiunque provi a chiudere gli occhi o a guardare nel buio completo può veder bene che l’oscurità si estende nello spazio, e non solo nelle direzioni vincolate a un piano frontoparallelo, ma anche, se pure di poco, nella terza dimensione (esattamente come la «nebbia» del Ganzfeld citata più sopra). Ma - a parte questo errore fenomenologico - il ragionamento di Hume è chiaro: dove c’è assenza di stimolazioni non ci può essere alcun dato visivo; nella situazione descritta, tutto il campo, eccetto due punti, è privo di stimolazioni; e così lo spazio compreso tra essi - essendo nulla - non può essere una «distanza». Non c’è una cosa che sia identificabile con la distanza.

Controprova.

«La sola differenza tra un’oscurità assoluta e l’apparizione di due o più oggetti luminosi consiste, come ho detto, negli oggetti stessi e nel loro modo di colpire i nostri sensi. Gli angoli formati dai raggi di luce scaturiente da essi, il moto dell’occhio nel passare da l’uno all’altro, e le differenti parti degli organi impressionate da essi: son queste le sole percezioni, dalle quali possiamo giudicare della distanza. Ma, poiché ciascuna di queste percezioni è semplice e indivisibile, queste non posson mai darci l’idea dell’estensione» [49]

C’è il buio, poi all’improvviso appaiono due luci; se nel buio non c’era alcuna «distanza», e se l’apparizione delle luci non interessa il tratto di buio compreso tra esse, quest’ultimo non può essere una «distanza».

Naturalmente, se non vi sono distanze, non è fenomenicamente possibile alcun altro carattere spaziale: i veri oggetti della percezione sono in ogni caso semplici e indivisibili; semplici e indivisibili non in virtù di una definizione, come i punti della geometria, ma proprio per il fatto che nell’esperienza diretta si presentano come non ulteriormente suddivisibili. Ognuno di essi è un minimum visibile.

Il minimum visibile può essere definito ostensivamente. «Se fate una macchia d’inchiostro sulla carta e, tenendoci gli occhi fissi, vi ritirate a distanza finché non la perdete di vista, constaterete facilmente che l’immagine o impressione, nel momento di sparire, era perfettamente indivisibile. Né è per mancanza di raggi luminosi che le particelle dei corpi lontani non trasmettono nessuna sensibile impressione ai nostri occhi, ma perché sono state trasportate più in là di quella distanza in cui le loro impressioni, ridotte al minimum, non erano più suscettibili di diminuzione»[50]. E altrove: «Fate una macchia d’inchiostro sulla carta e allontanatevi a distanza finché la macchia non si vede più; nel ritorno, via via che vi avvicinate, la macchia diventa, prima, visibile a brevi intervalli, poi appare visibile costantemente, e la sua colorazione si fa più viva senz’aumentare la grossezza»[51]. Questi punti indivisibili sono altrettanti esempi di «sensazioni».

Il mondo visibile che ci sta intorno è un aggregato di sensazioni intese esattamente in questo senso. Ogni superficie visibile non è una vera superficie, ma un aggregato, che nasce dall’accostamento di pochi o tanti minima visibilia: dall’unione, per esempio, di due punti «risulta un oggetto complesso e divisibile, che può esser distinto in due parti, di cui ognuna conserva la propria esistenza distinta e separata, nonostante la sua contiguità coll’altra»[52]. Tre, quattro, cinque punti formano oggetti visibili progressivamente più grandi, zone intere più o meno omogenee, superfici ecc. esattamente secondo quanto succede sulla retina; e ciò è il nostro mondo visivo, «e se l’occhio percepisce qualcosa di più, vorrei che qualcuno me l’indicasse».

È dunque arbitrario il parlare di unità in riferimento a quelli che comunemente chiamiamo «oggetti». Gli oggetti sono unità fittizie. Nell’ambito di questa teoria dell’esperienza tutte le distinzioni tracciate da Aristotile tra unità più o meno compatte sono completamente prive di senso, giacché il loro grado di arbitrarietà è in ogni caso perfettamente uguale. Una linea spezzata è un aggregato di punti esattamente come una linea diritta, come un quadrato, come il piano di questo tavolo, come il cielo stellato.

Non è possibile altra analisi fenomenologica all’infuori di quella del punto e del suo colore.

Ogni altro problema riguardante l’esperienza diretta è un problema di giudizi, di abitudini, di passate esperienze attualmente ricordate - e, cioè, non è un problema che possa connettersi direttamente alle sensazioni.

L’intera teoria di Hume, infine, risulta costruita in modo da suggerire allo studioso che voglia occuparsi dell’esperienza sensibile, non tanto di andare a vedere come essa è fatta in realtà, ma piuttosto di impegnarsi a dedurre come essa dev’essere fatta; le premesse di questa operazione vanno rintracciate nell’ambito della fisica, della geometria e della fisiologia dell’occhio, dell’orecchio, ecc. un atteggiamento piuttosto sorprendente, in un filosofo che di solito viene collocato tra i grandi maestri dell’empirismo. Tuttavia, è proprio questo aspetto delle sue dottrine quello che più decisamente ha influenzato le successive teorie psicologiche della percezione.

 

§ 7. Uno schema psico-fisico.

 

È comprensibile che le cose siano andate a questo modo. Man mano che le ricerche sulla fisiologia degli organi di senso procedevano, il punto di vista di Hume doveva apparire sempre più fondato. Contemporaneamente, il fatto che la nostra esperienza diretta è popolata di oggetti ben discernibili e unitari, dei quali parliamo continuamente senza incontrare particolari difficoltà nell’intenderci, doveva rendersi sempre più misterioso. Non possiamo seguire qui da vicino le varie tappe percorse dalla psicofisiologia tra Hartley e Helmholtz; il lettore troverà un’ottima presentazione storica dei vari problemi connessi con questo sviluppo nel libro di Boring Sensation and Perception in the History of Experimental Pshychology[53]. Qui, dobbiamo limitarci a discutere in breve alcuni fatti che hanno svolto un ruolo decisivo in rapporto al problema delle unità intese come dati d’esperienza; questi fatti in un primo tempo hanno condotto alla teoria radicalmente elementaristica di Helmholtz, e successivamente ad una reazione in senso opposto, cioè alla teoria della gestalt.

Per contenere l’esposizione entro limiti ragionevoli, svolgeremo i nostri argomenti in forma di commento alle diverse articolazioni di uno schema tracciato per raffigurare alcuni aspetti fisici e fisiologici della relazione osservatore-osservato, nel caso particolare di un dato della esperienza visiva.

Ecco lo schema:

Of è un oggetto collocato entro i parametri spazio-temporali della fisica, e considerato esclusivamente in rapporto alle sue proprietà fisiche.

If sono gli effetti fisici che la presenza di Of determina nelle immediate vicinanze del luogo (spazio-temporale) che esso occupa.

Ef2 sono gli effetti fisici provocati da Ef1 sulle parti di un ricettore sensoriale periferico direttamente esposto all’azione di Ef1.

Ef rappresenta il sistema di informazioni avviate dal ricettore sensoriale periferico verso il centro, e cioè gli effetti fisiologici derivati dall’azione di Ef1 su Ef2, ma concernenti la successiva azione di Ef2 su (P).

(P) sono gli ulteriori processi che interessano il cervello.

OF è l’oggetto veduto.

Nel caso particolare considerato da noi, Of è un oggetto fisico opaco, delimitato da alcune superfici; supponiamo che sia un cubo. Ef1 sono quei treni d’onde elettromagnetiche, capaci di provocare qualche reazione Ef2 sulla retina, che le superfici del cubo sono in grado di riflettere grazie alla loro natura fisico-chimica. Ef2 sono assai probabilmente reazioni fotochimiche che interessano i singoli elementi istologici costituenti la retina; If sono le informazioni (assai probabilmente variazioni di frequenza di impulsi elettrici) che percorrono le varie fibre isolate del nervo ottico, avendo ciascuna direttamente origine da una specifica reazione Ef2 localizzata nell’unità istologica che costituisce la terminazione della fibra. (P) sta ad indicare i processi che hanno luogo nell’area visiva della corteccia cerebrale, ma in parte forse anche prima - nel corpo genicolato laterale, o sulla retina stessa, come parecchie recenti ricerche tendono a dimostrare; comunque, quei processi ai quali è direttamente riferibile l’esperienza visiva attuale, quali che essi siano.

Preghiamo il lettore di non assumere questo schema come una descrizione attendibile di ciò che realmente accade nello spazio e nel tempo della fisica lungo tutto questo cammino, dall’oggetto davanti agli occhi fino ai non bene precisati processi centrali o periferico-centrali ai quali abbiamo accennato. Queste quattro pagine non devono essere prese per una esposizione estremamente semplificata delle concomitanti fisiche e fisiologiche della percezione. La complessità degli argomenti ai quali le varie tappe dello schema rimandano è tale, che un approfondimento appena serio di ogni singolo punto rischia di mettere in questione la consistenza dello schema stesso. Già dire che «il cubo materiale collocato nello spazio e nel tempo della fisica è delimitato da facce» costituisce un arbitrio; ne parliamo come se si trattasse di un cubo attualmente veduto, quindi collocato nello spazio e nel tempo di cui si occupa la psicologia; forse esiste la possibilità di dare un senso a questa espressione: lo ha tentato Köhler nel libro The Place of Value in a World of Facts[54], e i suoi argomenti sono estremamente interessanti; dubitiamo però che, agli occhi della maggior parte de gli studiosi, possano apparire decisivi. La diffusione di treni d’onde attraverso il vuoto o attraverso qualche mezzo diottrico pone numerosi problemi, rintracciabili in qualunque manuale d’ottica che sia aggiornato a sufficienza; tra questi, uno dei più grossi riguarda proprio la natura di tali treni d’onda, i quali sono pensabili (a seconda delle esigenze alle quali il fisico deve rispondere nell’affrontare un dato problema) come successioni di quanti discreti di energia distribuiti statisticamente nel tempo e nello spazio, oppure come onde obbedienti alla relazione cinetica fondamentale di ogni propagazione ondosa (velocità = grandezza di una lunghezza d’onda moltiplicata per il numero d’onde prodotte nell’unità di tempo); dunque entità non statistiche ma meccaniche. I problemi dell’emissione, della riflessione e dell’assorbimento sono strettamente legati con quelli della struttura dell’atomo.

Questo, ad ogni modo, è il pezzo di schema a proposito del quale si hanno le maggiori e più garantite conoscenze: rifrazione e riflessione possono essere, del resto, trattate per mezzo dell’ottica geometrica, indipendentemente da qualsiasi ipotesi sulla natura della luce.

Fin qui, il campo è di competenza della fisica.

Dal momento in cui i treni d’onda arrivano agli strati retinici fino agli ultimi processi della visione i problemi si fanno a mano a mano, più complessi e numerosi. Pochi di essi hanno trovato una soluzione soddisfacente. Per quanto riguarda la retina - che è ben conosciuta dal punto di vista anatomico - la struttura che presenta nella parte direttamente esposta all’azione della luce porterebbe a credere che essa funziona come un mosaico di cellule fotoelettriche indipendenti; infatti, innumerevoli porzioni ricettive dei sottostanti neuroni (coni e bastoncelli) si affacciano all’azione della luce, isolate le une dalle altre, contenute in cellette di materia inerte alle sollecitazioni luminose. Il nervo ottico, visto in sezione, si presenta a sua volta come un fascio di fibre indipendenti ed isolate. Tutto ciò depone a favore delle concezioni elementaristiche della visione. Nel secondo strato della retina, però, vi sono innumerevoli neuroni detti bipolari, i quali ricevono informazioni dai neuroni affacciati alla luce, e trasmettono informazioni a un altro strato di neuroni; da questi ultimi partono gli assoni che convergono verso la macula cieca, dalla quale parte il sistema di fibre costituente il nervo ottico. In queste zone è possibile l’interazione tra i processi che hanno origine nelle porzioni ricettive dei neuroni del primo strato. Molte ricerche attualmente in corso hanno appurato l’esistenza di interazioni a valle del nervo ottico. Qualche fenomeno ampiamente studiato in psicologia (per esempio l’induzione cromatica, cioè il fatto che una piccola area grigia collocata in campo rosso appare debolmente colorata di verde, oppure collocata in campo giallo appare debolmente colorata di blu) potrebbe essere interpretato alla loro luce.

I processi a monte del nervo ottico offrono tuttora uno spazio molto ampio per le ipotesi; vi sono dei tentativi estremamente interessanti di interpretare il loro funzionamento rispettando strettamente i dati dell’anatomia e della fisiologia. Ma da qualche anno pare che il problema sia diventato di competenza degli studiosi di cibernetica, i quali discutono assai sottilmente i problemi connessi con la costruzione di macchine capaci di simulare comportamenti tipici degli animali dotati di cervello. Non è escluso che ci sia veramente qualche relazione tra la struttura di quelle macchine e le leggi che governano determinati processi centrali.

Ad ogni modo, preghiamo ancora una volta il lettore di non considerare lo schema proposto come una rappresentazione riassuntiva di solidi fatti dove andando a fondo tutto è garantito, tutto chiaro, e quindi da accettare doverosamente, nei limiti di quel serio ma controllato dogmatismo che caratterizza i discorsi della gente di scienza. Il dubbio fecondo non solo è possibile, ma diventa necessario appena decidiamo di immaginare una realtà qualunque non immediatamente identificabile con gli oggetti delle constatazioni dirette.

Nonostante questa limitazione (sulla quale speriamo di esserci soffermati abbastanza) quello schema va preso in considerazione per due ragioni.

Prima di tutto, perché è storicamente vero che buona parte delle teorie proposte, almeno da Cartesio in poi, fanno riferimento ad esso; e dal momento che molte discussioni tra quei tempi e i nostri si sono svolte avendo in vista una traccia così costruita è naturale che tale traccia oggi serva a capire meglio ognuno degli argomenti connessi a qualche sua parte.

In secondo luogo, questo schema può essere semplicemente visto come un sistema di implicazioni logiche[55]: se Of possiede certe determinate caratteristiche fisico-chimiche (che non occorre precisare), Ef1, possiederà determinate caratteristiche di frequenza, d’intensità, di struttura (che possono essere considerate come puri nomi, o simboli); se Ef1, ha quelle caratteristiche, allora Ef2 si realizzerà in un dato modo e non in altri; se Ef2 è così, allora le informazioni If saranno di un certo tipo e non di un altro, ecc. Ragionare correttamente su questo schema non comporta alcuna assunzione ontologica, né implicita, né esplicita.

 

§ 8. Helmholtz.

 

Cento anni dopo la morte di Hume ognuna di queste diverse tappe (con la sola eccezione dei processi (P) poteva essere riempita con buon numero di acquisizioni scientifiche. L’ottica era uno dei settori meglio conosciuti della fisica, e gli anatomisti avevano fornito un rilevante contributo alla conoscenza dei meccanismi in base ai quali funzionano gli organi sensoriali. Fra tutti gli scienziati, Helmholtz era l’uomo che meglio dominava tanto un campo che l’altro, sia come ricercatore «di punta» in ogni tipo di ricerche settoriali della fisica e della fisiologia, sia grazie al suo straordinario talento di sistematore. Forse è l’unico caso, nella storia della cultura occidentale, in cui un solo studioso ha tentato di risolvere il problema dell’esperienza sensibile agendo contemporaneamente su tutti i punti dello scibile che vi sono implicati, e producendo ricerche originali, per ognuno di essi, dotate di un valore definitivo.

Pure, le sue conclusioni non si discostano da quelle di Hume. Naturalmente, il linguaggio di Helmholtz è diverso, la sua filosofia della conoscenza si ispira largamente a Kant, la sua competenza specifica in ogni problema attinente alle percezioni è inconfrontabile con quella che Hume poteva avere.

Nonostante queste essenziali diversità, la conclusione resta la seguente: «Tutto quel che vede, il nostro occhio lo vede come un aggregato di aree colorate nel campo visivo»[56]; e «tutto quel che, nel dato intuitivo, si aggiunge al rozzo materiale delle sensazioni, può essere risolto in pensiero» purché si prenda il concetto di pensiero in una accezione abbastanza larga.

Per sincerarsene, basta pensare a ciò che succede «quando l’organo visivo è stimolato da una luce che viene dall’esterno; questa luce esterna - nel nostro schema: Ef1 - arriva dall’ultimo oggetto opaco - cioè Of - che essa ha incontrato sulla sua strada, e raggiunge l’occhio per un itinerario rettilineo attraverso il mezzo ininterrotto dell’aria. Ciò avviene nel caso della «visione normale» e siamo giustificati per l’uso di questa espressione dal fatto che tali modalità di stimolazione si realizzano in un numero talmente grande di casi, che tutte le altre situazioni, in cui la via seguita dai raggi luminosi è alterata da riflessioni o rifrazioni, o in cui le stimolazioni non sono prodotte da luci esterne, possono essere considerate come rare eccezioni. Ciò avviene perché la retina - cioè gli eventi Ef2, per noi -, grazie alla posizione che ha nel fondo dell’occhio, è quasi completamente protetta dall’azione di ogni altro stimolo, ed è accessibile a nient’altro che alla luce esterna. Quando una persona ha l’abitudine di usare qualche strumento ottico - per esempio, il binocolo da teatro - per un certo tempo, all’inizio, deve imparare a interpretare le immagini visive in queste condizioni cambiate»[57].

A questo punto, l’indagine scientifica trova il suo campo nell’«investigazione delle particolari proprietà dell’immagine retinica, nelle sensazioni muscolari, ecc., che sono implicate nella percezione di un oggetto osservato avente una posizione definita «[58]. Ma «le percezioni degli oggetti esterni sono della natura stessa delle idee, e le idee di per sé sono invariabilmente attività de1l’energia psichica, e dunque le percezioni possono essere solo il risultato di questa»[59].

Per esempio: il cubo Of è collocato nello spazio fisico con una faccia rivolta all’occhio dell’osservatore. Ogni punto di questa riflette raggi luminosi in tutte le direzioni. Non tutti questi raggi fanno parte delle condizioni del processo percettivo: ovviamente, ci devono interessare solo quelli che alla fine del loro percorso rettilineo raggiungeranno la pupilla e poi la retina. Essi hanno una definita lunghezza d’onda, un’ampiezza, una composizione. Essi - e questo punto soprattutto deve essere tenuto presente - durante il trasferimento dalla superficie riflettente alla retina non hanno modo di agire l’uno sull’altro: costituiscono altrettante storie indipendenti.

Supponiamo di cambiare la struttura fisico chimica di una piccola porzione della faccia di Of in modo che il treno d’onda riflesso da quel punto risulti modificato (per ampiezza, per frequenza, o per composizione); sezionando il fascio di raggi Ef1 che da quel momento viaggia verso la pupilla, troveremo modificato solo un piccolo gruppo di essi (non avendo i fenomeni d’interferenza per noi alcun rilievo) cioè esattamente tutti quelli che vengono riflessi dalla porzione modificata del cubo Of. Alla fine, solo un piccolo gruppo di reazioni fotochimiche, sulla retina, risulterà a sua volta modificato: cioè quelle che hanno luogo in corrispondenza dell’area sottoposta all’azione di quei raggi dei quali sono state modificate le proprietà.

In definitiva, occorre sottolineare questo: i singoli raggi, o quanto meno i singoli fasci di raggi che abbiano la dimensione adatta a sollecitare una unità istologica fotosensibile della retina, devono essere considerati come catene causali indipendenti.

Inoltre, come Helmholtz ben sapeva avendo eseguito nel 1850 specifici studi sulla conduzione nervosa, il nervo ottico a sua volta convoglia informazioni dalle unità fotosensibili al cervello attraverso canali indipendenti, quali risultano essere appunto le sue fibre. La catena causale indipendente dell’ambiente fisico, dunque, trova la sua prosecuzione in una catena causale fisiologica.

Sulla base di questi fatti, la sua ipotesi era perfettamente giustificata: la retina, nelle condizioni in cui è normalmente sollecitata, presenta diverse porzioni della sua superficie interessate da processi fotochimici differenti, una accanto all’altra. La visione non può essere altro che «un aggregato di aree colorate nel campo visivo», sempre, e in qualunque circostanza.

Per rendere più chiari i problemi che sorgono da questa ipotesi, consideriamo un’altra situazione.

Mettiamo il cubo Of orientato nello spazio fisico in modo da avere uno spigolo rivolto verso l’occhio dell’osservatore; ognuno sa che, dopo aver fatto ciò, si vede benissimo proprio un cubo il quale mostra due facce comprendenti un certo angolo solido. Questo è ciò che si vede, e chiameremo questo cubo OF come abbiamo sopra stabilito, cioè oggetto fenomenico. Applicando lo schema di Helmholtz, dobbiamo concludere che noi in realtà non vediamo OF ; difatti, sulla retina giace solo la proiezione di Of la quale consta - data la particolare posizione di Of rispetto all’occhio - di due trapezi uno accanto all’altro, che sono le proiezioni delle due facce visibili. Supponiamo che le due facce di Of riflettano treni d’onda con proprietà differenti (come avviene se una di esse si trova più in ombra dell’altra): i due trapezi sulla retina delimiteranno allora aree in cui avvengono processi fotochimici diversi. Nel campo visivo - dunque - ci saranno due aree trapezoidali di diverso colore, adiacenti, circondate da una zona di un altro colore ancora, la quale trova il suo limite in quelli delle aree.

A questo fatto visivo non sarà mai applicabile la seguente descrizione: «è un cubo che mi mostra due facce, le quali comprendono un angolo solido di 90°; esse sono dello stesso colore, ma una è più in ombra dell’altra». Questa è la descrizione di OF, non la descrizione di ciò che può accadere nel campo visivo secondo Helmholtz.

Se questa descrizione ci viene spontanea alle labbra - direbbe Helmholtz - è perché sulle sensazioni che abbiamo hanno già lavorato i processi di pensiero.

«Le attività psichiche che ci guidano ad inferire la presenza di un certo oggetto, dotato di determinate caratteristiche, in un certo luogo davanti a noi, sono paragonabili ad una conclusione fondata sull’osservazione di ciò che accade nei nostri sensi, la quale ci permette di formarci un’idea intorno alla possibile causa di ciò che abbiamo osservato»[60]. Non occorre che il dato osservato (cioè le sensazioni) assomigli in qualche modo a tale causa: «Nella misura in cui la qualità della nostra sensazione ci dà notizia del fattore esterno, dal quale essa è stata suscitata, essa può valere come un segno, ma non certo come un’immagine di quel fattore. Da un’immagine si desidera, infatti, una somiglianza con l’oggetto raffigurato: da una statua l’uguaglianza di forma, da un disegno l’uguaglianza della proiezione prospettica nel campo visivo, da un dipinto si desidera altresì l’uguaglianza dei colori. Un segno, invece, non deve avere alcuna somiglianza con ciò, di cui è segno. Il rapporto tra i due termini si limita al fatto che un uguale oggetto, agendo in circostanze uguali, evoca lo stesso segno, e che segni diversi corrispondono, dunque, sempre ad azioni diverse»[61].

La differenza tra le inferenze vere e proprie, realizzate attraverso ragionamenti, e le inferenze che trasformano le sensazioni in oggetto, sta nel fatto che le prime sono coscienti, e le altre no. Un astronomo inferisce la posizione di un dato corpo celeste in un dato momento per mezzo di calcoli riferiti ad alcune osservazioni, e sulla base delle leggi dell’ottica, che egli conosce ; ma «negli ordinari atti della visione questa conoscenza dell’ottica manca del tutto; così, ritengo possibile parlare degli atti psichici che concernono la visione normale come di inferenze inconscie»[62].

Dal momento che l’unica funzione utile delle sensazioni è quella di fornire una base per inferenze che riguardano gli oggetti del mondo della fisica, cioè le cause esterne delle sensazioni stesse, è chiaro che tutto l’insieme delle sensazioni può essere diviso in due grandi classi: quelle che risultano utili in questo senso, e quelle che non svolgono alcun ruolo. Noi siamo abituati ad osservare le prime e non le seconde[63]. Di queste, normalmente, non abbiamo coscienza. Per questo motivo vengono «scoperte» nei laboratori di psicologia, in condizioni particolari, e grazie al fatto che lo studioso è animato da un vivo interesse nei loro confronti.

Ma anche le sensazioni che svolgono una funzione utile sono mal conosciute, per il fatto che con l’andar del tempo ognuno di noi «acquista in larga misura la facoltà di trascurarle e di formarsi la propria opinione sugli oggetti esterni indipendentemente da esse, anche quando sono così vivaci da poter essere facilmente scorte»[64].

Poiché gli oggetti che ci interessano al di là delle sensazioni corrispondono normalmente ciascuno ad un aggregato di sensazioni innumerevoli, ed essendo noi «abituati a considerare questi complessi di sensazioni come connessi in un tutto, generalmente ci ritroviamo incapaci di percepire le loro parti separate senza un aiuto o un appoggio esterno»[65]. «Noi siamo eccezionalmente bene esercitati nel cavar fuori dalle nostre sensazioni la natura oggettiva degli oggetti intorno a noi, ma altrettanto male siamo attrezzati nell’osservare le sensazioni in sé; poiché la pratica di associarle alle cose esterne ci impedisce propriamente d’essere coscienti delle pure e distinte sensazioni»[66].

Affrontare lo studio del mondo immediatamente dato comporta, sulla base di questa teoria, una operazione preliminare: occorre togliere di mezzo tutti i fattori che impediscono di osservare le sensazioni in sé; e questo significa: occorre riapprendere a considerare gli oggetti veduti non come totalità organizzate, ma come aggregati di parti separate.

Hume, dunque, aveva dalla sua parte il meglio della scienza di un secolo dopo, quando scriveva: «la vista mi trasmette soltanto le impressioni dei punti colorati disposti in certo modo» e non la superficie del tavolo.

Per quanto concerne il nostro problema, cioè quello dei fondamenti empirici dell’idea di unità, tra il punto di vista di Hume e quello di Helmholtz corre tuttavia una grossa differenza.

Per Hume, il termine «unità» - «nome puramente fittizio» trova al massimo una sola applicazione nell’universo delle cose osservabili, cioè nel caso del «minimum visibile», la piccola macchia che vista da lontano sparisce solo se facciamo un passo più in là.

Per Helmholtz, vi sono almeno due possibili applicazioni: una è costituita dalle singole sensazioni, prese ognuna per conto suo; l’altra sono gli oggetti inferiti sulla base delle sensazioni, grazie alla mediazione dell’esperienza che associa ampi ritagli dal tessuto complessivo di esse, assumendoli come segni di una realtà fisica «al di là».

Questa realtà fisica non è mai direttamente conosciuta, le sensazioni non è detto che le assomiglino (sono «segni», non «rappresentazioni»); l’abitudine si instaura sul solo materiale delle sensazioni, sia pure associate nelle maniere più varie; dunque gli oggetti di cui gli aggregati di sensazioni sono «segni» devono essere in qualche modo noti a priori. Ripetute esperienze di aggregati di sensazioni possono solo rendere più familiari tali aggregati, non certo obliterarne le caratteristiche al punto da obbligare ad uno sforzo per riconoscerle.

Di conseguenza, non crediamo di sbagliare molto asserendo che questo genere di unità non derivano - per Helmholtz - dall’esperienza, ma, provenendo da altrove, servono kantianamente a organizzare il «caos delle sensazioni». Del resto, egli ha proposto più volte una tesi analoga per quanto riguarda la percezione dello spazio e del tempo[67].

L’inferenza inconscia svolge, in questo senso, esattamente il ruolo di una categoria; gli oggetti che popolano lo spazio attorno a noi durante il corso della vita quotidiana, così come nei sogni, sono unitari in quanto sono pensati come unitari. Questa unità, che trova le sue radici nel pensiero, viene rigidamente contrapposta alle vere unità sensibili, atomi d’esperienza, rintracciabili solo con l’ausilio di una impostazione soggettiva artificiale e con l’aiuto di mezzi esterni. Quando si va a cercare la sensazione pura bisogna procedere alla distruzione dell’oggetto esperito: il timbro di un suono, in realtà, «consiste nella serie delle sensazioni dei suoi toni parziali (la fondamentale e le armoniche)»; nonostante sia «straordinariamente difficile analizzare un suono in queste sue componenti elementari», proprio esse sono le vere unità sensibili di base, dalle quali le inferenze inconscie traggono la qualità unitaria del timbro di quel suono: «exercitium arithmeticae occultum nescientis se numerare animi»[68].

A questo dualismo che divide il mondo dell’esperienza in unità sensoriali grezze e unità calcolate dallo spirito, legate in modo tale che la presenza delle une esclude quella delle altre, viene a corrispondere, per Helmholtz, un dualismo epistemologico. La sua tesi è la seguente: l’indagine scientifica non può andare oltre l’analisi delle sensazioni. «Questo problema può essere interamente risolto con metodi scientifici. Nello stesso tempo, non possiamo evitare di riferirci alle attività psichiche ed alle leggi che le governano, nei limiti in cui esse riguardano le percezioni dei sensi. Ma la scoperta e la descrizione di queste attività non deve essere considerata come una parte essenziale del nostro compito, perché non vogliamo correre il rischio di perdere di vista il solido supporto dei fatti accertati, o di aderire a metodi che non siano fondati su principii chiari e ben collaudati. Allo stato attuale delle cose, almeno, io penso che il settore concernente la fisiologia dei sensi debba essere nettamente separato dalla psicologia pura, la quale ha il compito - entro i limiti che le competono - di stabilire la natura e le leggi dei processi della mente»[69].

Il tono di queste asserzioni e l’accenno alla «psicologia pura» (siamo nel 1866) lasciano chiaramente intendere che il problema delle unità organizzate non appartiene alla scienza, ma alla filosofia. Questa potrà procedere con molto rigore e penetrazione nei confronti del suo oggetto; sembra escluso però che tale oggetto possa diventare mai materia per ricerche di fatti accertati, eseguite alla luce di metodi fondati su chiari principii.

 

 

Note


[1] Cfr. la Nota introduttiva.

[2] M. Wertheimer, Ueber das Denken der Naturvölker. I. Zahlen und Zalhgebilde, « Ztschr. f. Psych. «, 1912, pag. 333.

[3] Op. cit., pag. 336.

[4] Op,. cit., pag. 337.

[5] Op. cit., pag. 352.

[6] Op. cit., pagg. 339 e 352.

[7] Op. cit., pag. 358.

[8] Op. cit., pag. 325.

[9] Op. cit., pag. 326.

[10] Op. cit., pag. 329.

[11] Gottlob Frege, Die Grundlage der Arithmetik. Eine logisch-mathematische Untersuchung über den Begriff der Zahl, Breslavia, 1884. Ci serviamo qui della traduzione italiana di Corrado Mangione, contenuta in Logica e Aritmetica, Torino, 1965.

[12] Op. cit., pag. 249.

[13] Op. cit., pag. 249.

[14] Op. cit., pag. 249.

[15] Op. cit., pag. 249.

[16] Op. cit., pag. 250.

[17] Op. cit., pag. 255.

[18] J. S. Mill, System of Logic, London, N. Y., Bombay, 1904. L’argomento si trova in: III, XXIV, 5, pagg. 399 e seg.

[19] G. Frege, Op. cit., pag. 256.

[20] Op. cit., pag. 258.

[21] Op. cit., pag. 258.

[22] Op. cit., pag. 262.

[23] Op. cit., pag.262

[24] Ma l’idea risale già ad Aristotile: «uno è soprattutto ciò la cui intellezione è indivisibile, e la cui pura essenza si apprende con un atto che non può esser separato né quanto al tempo, nè quanto al luogo... « Metaph. 1016, b.

[25] G. Frege Op. cit., pag. 268.

[26] G. Frege, Op. cit., pag. 282.

[17] L’estensione di un concetto classe, è il numero di cose che esso comprende; l’intensione - almeno ad un livello molto elementare - può essere definita come quella proprietà grazie alla quale tutti gli oggetti che la possie dono rientrano nella stessa classe. Queste definizioni sono piuttosto rozze, ma nell’economia della nostra trattazione più che sufficienti. Occorre notare, ad ogni modo, che parecchi logici contemporanei mettono in discussione la legittimità stessa della distinzione, che avrebbe senso solo su un piano intuitivo. Secondo J. M. Keynes - che accetta la distinzione - bisognerebbe classificare tre tipi diversi di intensione (convenzionale, soggettiva, oggettiva).

[28] G. Frege, Op. cit., pag. 282.

[29] Un’interpretazione del numero ispirata a quella di Frege, ma completamente priva di implicazioni realistiche è quella formulata da E. Russell nel secondo capitolo dell’Introduction to Mathematical Philosophy (London, 1919). trad. it. Pavolini, Milano, 1947.

[30] G. Frege, Op. cit., pag. 283.

[31] Op. cit., pag. 290.

[32] Op. cit., pag. 290.

[33] Op. cit., pag. 290.

[34] Op. cit., pag. 265.

[35] Op. cit., pag. 264.

[36] C. W. Perky, An Experimental Study of Imagination, «Am. J. of Psych.», 1910, pagg. 422-452.

[37] Op. cit., pagg. 428 e pgg.

[38] L’esperimento fu condotto con la collaborazione di Titchener (op. cit., pag. 429).

[39] W. Metzger, Optische Untersuchungen am Ganzfeld, II, « Psych. Forsch.», 1930 (13), pagg. 6-29.

[40] Per le citazioni dalla Metafisica di Aristotile ci siamo generalmente serviti della traduzione di A. Carlini (Bari, 19593). Per i riscontri nel testo e per l’interpretazione ci siamo affidati intieramente all’edizione oxoniense di W. D. Ross (19533), e all’Aristotile dello stesso (trad. it. Spinelli, Bari 19463).

[41] Per il Treatise of Human Nature ci serviamo costantemente della traduzione di A. Carlini (Bari, 1926), condotta sull’edizione di Green e Grose (1898). Per i riscontri abbiamo a nostra disposizione l’edizione Selby-Bigge (Oxford, 1888); pag. 29, trad. Canini.

[42] Op. cit., pag. 51.

[43] Op. cit., pag. 55.

[44] Op. cit., pag. 145.

[45] Op.cit.pag.55

[46] Op. cit., pag. 81.

[47] Op. cit., pag. 82.

[48] Op. cit., pag. 82.

[49] Op. cit., pag. 82.

[50] Op. cit., pag. 48.

[51] Op.cit., pag.65

[52] Op.cit., pag.63

[53] E. Boring, Sensation and Perception in the History oj Experimental Psychology, N. Y. Appelton-Century, 1942.

[54] W. Köhler, The Place of Value in a World of Facts, pagg. 170-179.

[55] Vedi cap. V, § 3.

[56] H.Helmholtz, Die Thatsachen in der Wahrnehmung, Berlin, 1878. Trad. it. di V. Cappelletti in Opere» Torino, 1967, pag. 609.

[57] H. v. Helmholtz, Handbuch der Physiologischen Optik, Hamburg-Leipzig, 1866, pag. 429.

[58] Op. cit., pag. 427.

[59] Op. cit., pag. 427.

[60] Op. cit., pag. 430.

[61] H.v.Helmholtz, Die Thatsachen in der Wahrnehmung (1878). Trad. it. Cappelletti, pag. 601.

[62] H. v. Helmholtz, Handbuch, pag. 431.

[63] Op. cit., pag. 432.

[64] Op. cit., pag. 433.

[65] Op.cit., pag.433

[66] Op. cit., pag. 435.

[67] Die Thatsachen, trad. Cappelletti, pag. 608; e per esteso nei saggio: Ueber die Thatsachen, die in der Geometrie zu Grunde liegen, 1868.

[68] G. Leibniz, Epistolae ad diversos, ed. Kortholt, Lipsia, vol. I, pag. 239.

[69] H v. Helmholtz, Handbuch, pag. 428.


introduzione capitolo2