Capitolo Sesto

La causalità

(continuazione)

 


Se qualche volta chiamava Frida, ciò non ha necessariamente il significato che gli si vorrebbe attribuire; egli gridava semplicemente «Frida» - chi può conoscere le sue intenzioni? -; che Frida accorresse alla chiamata è poi affar suo, e se egli le permetteva d’entrare senza difficoltà era per bontà sua, ma nessuno può affermare che egli la chiamasse per farla venire.

Kafka, Il Castello


 

§ 1. La percezione della causalità.

 

Come Carr in quest’ultima citazione, anche Köhler - spiegando la sua impostazione del problema dell’insight nel decimo capitolo della «Gestalt Psychology» aveva assunto le difese dell’uomo della strada, garantendo alle sue opinioni un posto decisivo nella psicologia, nella neurologia e nella filosofia del futuro.

Il primo saggio di Michotte sulla percezione della causalità, pubblicato dal «Tijdschrift voor Philosophie», nel terzo fascicolo del ’41, riprende lo stesso tema, e quasi con le stesse parole.

L’uomo della strada è convinto, e l’uso del linguaggio comune lo testimonia, che certe volte le cause dei fatti constatati possono essere osservate,avvertite come tali: quando vediamo tagliare a fette un pezzo di pane vediamo bene che il coltello «taglia», cioè si vede bene che specie di azione in quel momento il coltello esercita sul pane; e così si vede che il facchino spinge il carretto con più o meno fatica, o solleva la valigia, ecc.; «tuttavia buona parte dei filosofi e degli psicologi sono dell’idea che le cose non stanno così; affermano invece che la percezione si limita a registrare i movimenti, e che espressioni come quelle ora usate mancano di esattezza: dicono più di quanto sia possibile percepire, cioè implicano una interpretazione che completa i dati sensoriali».

«Io penso che in tale disputa ha ragione l’uomo della strada, mentre i filosofi e gli psicologi hanno torto; desidero, nelle prossime pagine, tentare di dimostrare appunto questo»[1].

Il primo compito, volendo veramente dimostrare con esperimenti l’esistenza percettiva del rapporto causale, sarà quello di costruire situazioni tali che in esse risultino nettamente separati i fattori di tipo percettivo da quelli riconducibili in qualche modo all’interpretazione dei fatti osservati. Infatti, se svolgiamo osservazioni anche molto attente su quanto succede, p. es., tra le biglie che si stanno urtando sul piano di un biliardo (come ha fatto Sommer, e presumibilmente anche molti altri tra gli autori citati nel precedente capitolo) non ci troviamo nella condizione adatta a separare le interpretazioni dalla percezione vera e propria.

Discutiamo brevemente questo punto. Se stiamo osservando la biglia A che corre sul piano di panno verde e tocca e mette in moto la biglia B, vediamo un evento di una data complessità, entro certi limiti analizzabile; fanno parte di questa complessità tutti gli aspetti veduti e realmente discernibili nell’atto dell’osservazione: i colori con le loro sfumature - e queste con il loro peculiare ruolo, di ombre, di macchie, o di zone un po’ scolorite - , le forme degli oggetti, cioè il piano, le sfere; infine i rapporti spaziali e spaziotemporali, cioè le distanze, le direzioni, il moto, la successione dei moti. Tutto ciò è visibilmente dato; quando diciamo che questa complessità è analizzabile non intendiamo dire che vogliamo considerare, parte per parte, la percezione della sfericità per se stessa, la percezione di un colore, ad es. il verde o l’avorio, o del moto o di una distanza, ecc.; ma che, nell’atto stesso dell’osservazione, altrettanti aspetti fanno concretamente parte di ciò che sta accadendo davanti a noi, enumerabili, e connessi tra loro in modi specifici che ci guarderemo dall’alterare. Per capirci meglio, diciamo anche questo: sappiamo che la superficie delle biglie, vista con una lente, mostra delle porosità, delle ineguaglianze - ma questo aspetto non fa parte della situazione considerata, perché non è visibile: le biglie sono perfettamente liscie per Io sguardo, tanto da apparire lucide. Analogamente, vi è certo della polvere sul panno, ma i granelli di polvere hanno dimensioni tali da restare molto al di sotto della soglia assoluta, specialmente su una superficie come quella; così il piano non è polveroso. In breve, sappiamo che altri aspetti oltre a quelli visti sono pensabili della situazione presente, ma non possiamo vederli in essa; per renderli visibili dovremmo modificare il nostro modo di osservare (prendere una lente, avvicinare di più gli occhi agli oggetti, e così via). Certi aspetti saputi non fanno parte della situazione in quanto è veduta.

Naturalmente la classe di quanto è saputo e la classe di quanto è veduto non si escludono tra loro; vi è anzi un’ampia intersezione, ed è a proposito di questa che nascono le difficoltà.

Vedo che la biglia A si muove, e insieme so che si sta muovendo; vedo che tocca la biglia B, e so che materialmente sono entrate in contatto. Qui non c’è niente di imbarazzante. Ma prendiamo il punto che interessa il tema di questi capitoli: so che la biglia B si sta muovendo perché A l’ha urtata; posso dire che vedo il moto di B come dovuto a quell’urto?

Riesce bene distinguere tra ciò che si vede e ciò che si sa finché tra le due cose sussiste un certo conflitto. Agli esempi detti poco fa potremmo aggiungere altri, ancora più eloquenti; vedo un biglietto da diecimila lire uguale a tutti gli altri, ma so che è falso; ecc. In casi come questi non mi è possibile sostenere in buona fede né questa tesi: «so che le cose stanno così e così perché le vedo così e così» - né quest’altra: «le vedo così e così perché so che stanno così e così». In questi casi è garantita l’indipendenza degli eventi constatati da quanto è previamente saputo di essi.

Non è sempre agevole separare i due aspetti nella stessa situazione, invece, quando una simile opposizione manca.

Tornando alle biglie, dunque, sarà difficile decidere se veramente si vede che il moto dell’una causa il moto dell’altra, finché l’intiero evento è realizzato in modo che si possa pensare ad un rapporto causale esistente tra i due oggetti sul piano fisico (comunque tale concetto venga definito o interpretato). Ma possiamo trasformare l’evento in modo da introdurre quella opposizione che ci serve: la decisione diventerà possibile non appena la situazione sarà costruita in modo da escludere tale convinzione dall’osservatore, pur lasciando intatte tutte le proprietà direttamente osservabili che la contraddistinguono.

In termini assai semplici: basterà riprodurre lo schema delle biglie che si urtano tra loro impiegando mezzi conoscendo i quali non si può pensare o credere che i due pezzi A e B si toccano, si spingono ecc.

Questa esigenza sottilmente teoretica - oltre ad alcune ovvie esigenze di ordine pratico che subito spiegheremo - giustifica l’uso della tecnica di sperimentazione generalmente adottata da Michotte nei suoi studi sulla causalità meccanica: quella, cioè, dei movimenti ottenuti per mezzo di spirali tracciate su dischi, e viste attraverso schermi di riduzione opportunamente costruiti.

Abbiamo già illustrato il principio su cui si basa tale tecnica nel corso del capitolo quarto, § 7, di questo libro. In breve: se si vuole ottenere un movimento visibile di una piccola zona colorata su uno sfondo, basta praticare in uno schermo una fessura della lunghezza e della forma volute, e far ruotare dietro ad esso un disco con su tracciata una spirale il cui andamento segue la legge che lo sperimentatore ha ritenuto adatta al caso; la parte della spirale che è visibile oltre la fessura si sposta così lungo essa nel modo desiderato, e l’osservatore - anche se sa tutto di questa tecnica e del suo impiego nell’esperimento in atto - vede proprio un oggetto che si muove contro uno sfondo.

Nel caso dei rapporti causali meccanici gli oggetti messi in moto con questi mezzi sono due, come le biglie discusse generalmente dai filosofi, e si comportano come quelle: A raggiunge B, si arresta, B parte a sua volta ecc. Oltre al paradigma delle biglie se ne possono realizzare altri che siano importanti al fine di illustrare la fenomenologia della causalità meccanica.

§ 2. Il lancio e lo spingimento.

Due esperimenti costituiscono il punto di partenza della ricerca di Michotte.

Impiegando la tecnica dei dischi con le spirali viste in riduzione è facile realizzare la situazione seguente:

1) Un piccolo quadrato (5 x 5 mm; in pratica - a causa delle inevitabili deformazioni intervenienti nel corso della presentazione - un rettangolino o un rombo di analoghe dimensioni) di colore nero A occupa una certa posizione su uno schermo grigio chiaro; alla sua destra, circa quattro centimetri più in là, c’è B, un altro piccolo quadrato di eguali dimensioni, rosso. Il quadrato A si mette in moto e, percorso lo spazio che lo divide da B con una velocità di circa 30cm/sec., va a fermarsi a contatto con B, così

Fig. 107

Un osservatore, situato a circa un metro e mezzo dallo schermo su cui si muovono i piccoli quadrati, descriverebbe questo evento più o meno nei termini in cui l’abbiamo descritto noi: quadratino nero si è spostato verso destra, ed è andato a collocarsi accanto a quello rosso, toccandolo.

2a) Due quadrati identici a quelli ora descritti stanno l’uno accanto all’altro, come alla fine dell’evento 1); B> cioè quello rosso, improvvisamente si scosta da A muovendo verso destra, e, percorsi alcuni centimetri con una velocità di sei-dieci cm/sec., si ferma.

Fig. 108

L’osservatore, anche in questo caso, descriverebbe questo evento nel modo in cui l’abbiamo descritto noi: B si allontana da A e va a fermarsi un poco più in là, verso destra.

2b) Gli stessi due quadrati si trovano uno accanto all’altro, come all’inizio dell’evento 2a) , o alla fine dell’evento 1); a un dato momento entrano insieme in movimento, restando sempre l’uno accanto all’altro, procedono verso destra, e si fermano dopo aver percorso alcuni centimetri, così:

Fig. 109

L’osservatore descriverà l’evento circa con le nostre parole, oppure ci darà una descrizione leggermente diversa: se non ha già precedentemente assistito alle altre due presentazioni, dirà di vedere piuttosto un rettangolo diviso in due parti diversamente colorate, che due quadrati uniti per un lato. Un oggetto bicolore, in moto.

Lavorando con questi tre eventi è possibile procedere alla realizzazione dei due esperimenti da cui muove l’analisi di Michotte. Il primo esperimento risulta dalla presentazione consecutiva degli eventi 1) e 2a), il secondo mettendo insieme 1) e 2b).

L’unione di 1) e 2 a) va fatta in modo che la partenza di B abbia luogo immediatamente dopo l’arresto di A; in altre parole, l’evento 2 a) deve aver inizio nell’attimo in cui l’evento 1) si è compiuto, con il contatto tra i due oggetti. La nuova situazione si presenta dunque in questo modo: A si mette in noto, raggiunge B e lo tocca, ed immediatamente B si scosta da A e va a collocarsi un po’ più in là; così:

Fig. 110

L’osservatore, trovandosi ora di fronte all’evento 1) + 2 a) non darà tuttavia di esso una descrizione che sia la somma della descrizione di 1) e quella di 2 a); darà anzi una descrizione che non è analizzabile in quelle due. Tale descrizione suonerà press ’a poco così: «il quadrato nero raggiunge quello rosso, lo colpisce e lo spinge via» o «il quadrato nero urta contro quello rosso, muovendolo», ecc.

Infatti, mettendoci al posto dell’osservatore, vediamo che A agisce su B nello stesso senso in cui, giocando a boccette, si può dislocare una biglia dalla sua posizione colpendola con un’altra.

E qui occorre notare che: a) noi sappiamo benissimo che tra i due oggetti da noi attualmente osservati non intercorre alcun rapporto fisico paragonabile ad un urto: infatti sono attimo per attimo segmenti di due spirali tracciate su un disco che ruota; e b) noi sappiamo benissimo che la prima parte dell’evento (fase 1)) non contiene di per se stessa niente di attivo, o di causale, quando sia vista da sola; e neppure la seconda (fase 2 a)), vista isolatamente, niente di passivo o di causato. Questo vuol dire che un nuovo aspetto si è visibilmente realizzato dall’unione delle due fasi, che non era né in questa nè in quella: cioè l’urto con il conseguente movimento passivo.

È inutile, credo, sottolineare con molte parole il fatto che una dimostrazione condotta in questo modo è tipicamente gestaltistica; alcune proprietà salienti del tutto non sono ravvisabili nelle proprietà delle parti osservate una per una; esse sorgono unicamente grazie a una particolare connessione realizzata fra tali parti. Come aveva sostenuto Koffka, non occorre che nel mondo della fisica ci sia uno stimolo specifico atto a produrre il senso della connessione causale, né una lunghezza d’onda capace di trasportare una così raffinata informazione. Due pezzi d’esperienza concreta se hanno certi requisiti e sono posti accanto in un modo definito, danno un evento causale, come quattro linee opportunamente disposte danno un quadrato.

Secondo esperimento: 1) + 2b) ; cioè il quadratino nero raggiunge quello rosso, lo tocca ma non interrompe la sua corsa, e prosegue conservando la sua velocità, mentre B gli sta accanto fino in fondo. Anche stavolta le due fasi sono collegate in modo che la seconda abbia inizio esattamente là dove finisce la prima, ma eliminando qualsiasi attimo di stasi, in modo che il moto di A risulti continuo.

Fig.111

L’osservatore vede che A spinge B. Non dice, come descrivendo la fase 2 b) distaccata, che si tratta di un rettangolo bicolore; dirà piuttosto di vedere due quadratini, di cui uno spinge l’altro, secondo la descrizione data da Aristotile, già riferita nel precedente capitolo: «è manifesto che il tutto si muove da sé, non perché ciascuna delle sue parti abbia la facoltà di muovere se stessa, ma si muove da sé tutto insieme, tanto il motore che il mosso perché c’è quello che muove e quello che è mosso. Non è la totalità della cosa, che è mossa, né la totalità della cosa che è motrice, ma da una parte soltanto A muove e dall’altra solo B è mosso».

Queste due sono per Michotte le esperienze tipo della causalità, e le ha chiamate rispettivamente «effetto lancio» ed «effetto spingimento»[2]. La causalità qui non compare come un’inferenza, né come un «significato» aggiunto ad una impressione di movimento; «in altre parole, il dato non è affatto una semplice rappresentazione o un simbolo della causalità: come il movimento stroboscopico non è, psicologicamente parlando, il simbolo di un movimento, ma è un movimento fenomenico, identicamente la causalità percepita è una causalità fenomenica». Il moto di A è caratterizzato dal fatto di essere attivo nel senso in cui ciò è comunemente detto delle cose che si vedono agire su altre: «si vede l’oggetto agire, fare qualche cosa»[3]; simmetricamente il moto di B è passivo, dovuto ad A.

Basta staccare di poco la fase 1) da 2 a) o da 2 b) perché tale consistenza causale vada perduta. Mettendo una pausa tra 1) e 2 a) si vede prima A che raggiunge B e gli si ferma accanto, e poi che B si mette in moto per conto suo, e se ne va, senza che vi sia un rapporto tra le due cose. Una interruzione posta alla saldatura tra 1) e 2 b) ha un effetto uguale: A raggiunge B e gli si ferma accanto; poi, i due insieme, si muovono di conserva per andarsi a collocare in un altro posto. In questi casi è possibile pensare o immaginare che la prima fase causi la seconda, ma non vedere che è così. D’altra parte, il sapere che sullo schermo non ha luogo alcun rapporto causale meccanico fra movimenti non aiuta minimamente a n o n vedere la causalità quando questa si instaura. È bene notare ancora una volta che nessun argomento meglio di questo può essere addotto contro chi ritiene che le connessioni causali nell’esperienza siano la pura e semplice proiezione in essa di giudizi causali esistenti (più o meno latentemente) allo stato di convinzioni nella mente del soggetto; una tesi simile - di fronte a condizioni sperimentali come quelle descritte - può reggere solo nella forma artificiosa che postula l’esistenza di giudizi inconsapevoli[4], accanto ai giudizi fenomenicamente organizzati nell’atto del pensiero. Nel caso nostro i giudizi inconsapevoli sorti su vecchie abitudini o associazioni (il gioco delle bocce, il biliardo, i tamponamenti, le locomotive che spingono vagoni e così via) si proietterebbero nell’evento veduto mettendoci una causalità che il giudizio cosciente, e creduto, nega.

Seguendo l’esposizione di Michotte, divideremo l’argomento in due parti: la prima dedicata ad analizzare le condizioni dell’effetto «lancio», la seconda a quelle dell’effetto «spingimento», e ai suoi derivati.

 

§ 3. Le condizioni del lancio: gli oggetti.

 

(A). L’analisi dell’effetto «lancio» viene effettuata da due punti di vista principali: i) quello degli oggetti in gioco, ii) quello delle condizioni spaziali, temporali e cinetiche.

i) Nella totalità dell’evento causale, gli oggetti in gioco assolvono una funzione di segregazione. «Se domandiamo a qualcuno che non sia un esperto di problemi della percezione quale sia il ruolo degli oggetti in una esperienza qualunque di lancio, la risposta sarà assai semplice: la presenza dei due oggetti è richiesta. dal fatto che occorre che uno di essi dia l’urto, e l’altro lo riceva. Ma : dal punto di vista di una ricerca sulla percezione una simile risposta non avrebbe valore, dato che non si tratta di sapere come avviene il lancio di un oggetto, ma cosa occorre perché si possa percepire un tale lancio. È una cosa completamente diversa. In questo caso dobbiamo porci certi problemi che possono sembrare privi di senso dal punto di vista della fisica»[5]; il seguente, ad esempio: dato che nel lancio si vede un movimento che genera un altro movimento, e dunque è una connessione particolare tra due movimenti, può darsi che sia possibile percepire una connessione causale anche in un evento articolato in due movimenti successivi, ma aventi per protagonista un oggetto solo.

Dunque, realizziamo una situazione così: un mobile (cioè il solito quadratino messo in moto con il solito sistema) per-correrà un tratto di strada con una certa velocità, si arresterà dopo qualche centimetro - come faceva il mobile A nell’esperimento paradigmatico - poi riprenderà la sua corsa con la stessa o un’altra velocità, dopo una sosta più o meno lunga, ed andrà a fermarsi dove prima si fermava B.

Si possono variare le velocità in qualunque modo, ed allungare il momento di quiete che divide i due movimenti o scorciarlo a volontà, ma nessuna impressione causale ha luogo. È null’altro che uno «spostamento in due tappe».

Oppure si può muovere l’oggetto A verso B finché entrano in contatto, esattamente come nella prima fase dell’esperimento paradigmatico; subito dopo A torna indietro, con una data velocità, restando immobile B. In certe condizioni qui si vede un rimbalzo. Ma neppure nel rimbalzo - secondo Michotte - vi è traccia di impressioni causali.

Occorre dunque che nell’evento ci siano due oggetti, oltre che due movimenti. Ma non basta neppure che i due movimenti siano eseguiti da due oggetti diversi, come dimostra la seguente prova: «è presente solo A; esso entra in movimento, si sposta fino al suo ordinario punto d’arresto, e in quel momento sparisce. L’oggetto B compare allora, già in moto, a lato del posto dove è sparito A, e a sua volta, si sposta fino alla solita posizione d’arresto, fermandovisi». In breve, si tratta della situazione paradigmatica in cui però vengono soppresse le fasi di immobilità degli oggetti. Il risultato è negativo: si vede un solo oggetto che percorre tutta la traiettoria. Nessuna traccia di causalità.

Occorre dunque non solo che ci siano due oggetti ciascuno dei quali compie un movimento, ma anche che tali oggetti siano simultaneamente compresenti durante ciascuno di tali movimenti.

È possibile passare progressivamente - come è ovvio - da questa situazione a quella paradigmatica del lancio: basterà, nel corso di una serie di presentazioni, far durare sempre di più il mobile A nel luogo dove arriva e si ferma, ed antecipare sempre più la comparsa di B rispetto al momento dell’arresto di A. All’inizio di questa serie di presentazioni si vede il moto di un solo oggetto che percorre tutta la traiettoria.; ma un poco alla volta si stabilizza l’impressione di segregazione, ed insieme compare la connessione causale.

In breve: i movimenti devono essere due, causa ed effetto: ma non possono essere avvertiti come due se non vi sono due oggetti, nè ci possono essere due oggetti - e quindi due movimenti - se non esistono visibilmente insieme. Sulla dualità degli oggetti definita in questo modo riposa la segregazione tra causa ed effetto all’interno dell’intero evento.

All’interno di tale evento, inoltre, gli oggetti svolgono un ruolo di «polarizzazione» dell’evento stesso.

Racconta Michotte [6] che i primi tentativi di realizzare con i mezzi descritti poco fa qualche esempio paradigmatico di «lancio» furono effettuati piuttosto empiricamente - ed è naturale che sia stato così, dato che le leggi di un fenomeno sì possono determinare solo dopo che si è appurata l’esistenza del fenomeno stesso -: la grandezza degli oggetti impiegati, le loro velocità, la lunghezza delle traiettorie percorse furono scelti fidando nella bontà dell’intuizione, nel fiuto che ogni sperimentatore possiede in maggiore o minor misura. L’effetto ebbe luogo. Ma gli osservatori impiegati nelle prime esperienze dicevano spesso che B andava troppo lontano in proporzione all’entità dell’urto che aveva ricevuto, cioè che «a partire da una determinata distanza si spostava per conto proprio, e da quel momento in poi il suo movimento non aveva più nulla a che vedere con il colpo subito: oppure che A veniva da troppo lontano, cioè che soltanto una frazione del suo movimento veniva impiegata nell’urto»[7]. Una situazione di lancio, presa tutta insieme, dal principio alla fine, non è fatta di parti che concorrono tutte a realizzare la percezione dell’urto seguito dal moto impresso.

 

§ 4. Il raggio d’azione

 

Questa constatazione permette di formulare la definizione del concetto di «raggio d’azione»[8]. Supponiamo che l’oggetto A venga da molto lontano, da un punto magari fuori dal campo visivo, e che l’oggetto B percorra una strada molto lunga, addirittura fin fuori del campo visivo nella direzione opposta. Il raggio d’azione di A su B e di B su A è costituito da tutti i luoghi del percorso mutando o togliendo i quali la percezione dell’urto e delle sue conseguenze cinetiche viene intaccata. In breve, non occorre che A venga da chissà dove, e che B finisca la sua strada metri dopo il punto d’incontro: un pezzo di strada di A risulta inutile al realizzarsi del rapporto causale e B, se va troppo avanti, appare animato di moto proprio, in nessun modo dovuto all’urto precedente. Togliamo questi due pezzi di evento, curando di non intaccare l’efficacia dell’impressione causale: ci resterà un evento causale di dimensioni esattamente pari all’ampiezza del raggio d’azione per quelle date velocità di A e B.

Misurare tale raggio d’azione è semplice: basta applicare alla fessura oltre la quale sono visibili i movimenti di A e di B due schermi scorrevoli, uno a destra ed uno a sinistra, che permettono di occultare un tratto più o meno lungo del percorso di A e del percorso di B. Scorceremo dunque progressivamente il percorso di A partendo dal limite estremo di sinistra, e quello di B regredendo in senso inverso, a partire dal suo punto d’arrivo, finché sia trovato il segmento veramente essenziale della situazione; il quale si ridurrà a un breve tratto della fine del percorso di A e dell’inizio del percorso di B.

Parrebbe che questa delimitazione debba risultare molto soggettiva, cioè molto diversa a seconda dell’osservatore che si impegna a delimitare quel segmento. Michotte scrive che si accinse ad effettuare tali misure con un certo scetticismo; contro le previsioni, i risultati delle misurazioni effettuate dai suoi osservatori si rivelarono consistenti, ed il compito di realizzarle molto facile. Cioè: si vede assai bene da quale punto in avanti il moto di A è quello che sarà poi impiegato nell’urto, e fin dove B si disloca per essere stato urtato.

Questa circostanza, cioè la consistenza dei risultati delle misure, permette di estenderle a situazioni in cui una condizione fondamentale della percezione della causalità venga variata: il rapporto tra le velocità di A e di B. Esperimenti effettuati da Michotte in questo senso dimostrano che, restando la velocità di A costante (40 cm/sec.) e variando la velocità di B fino a un decimo di quella di A (ad es.: 32, 16, 11, 8, 4 cm/sec.) i raggi d’azione di A e di B diminuiscono progressivamente, e in modo abbastanza simile, da circa 6 cm a poco più o meno di 1 cm. Entro questi limiti ha luogo la vera e propria «azione di lancio»; le porzioni di movimento in più sono estranee a tale azione ed hanno un carattere così diverso (di «movimenti qualunque») che allungandole di molto, in modo che in proporzione la zona dell’urto risulti molto piccola, la stessa impressione di lancio viene a sparire, e l’evento nell’insieme si presenta come «B che si porta via qualcosa che A gli ha dato». «Si tratta naturalmente di una metafora - scrive Michotte - che rende come può le sfumature dell’evento vissuto. Noi chiameremo questa impressione: effetto «relais» «[8]; esso è strettamente analogo ad una struttura cinetica già studiata da W. Metzger[10], e riveste una notevole importanza teoretica, come vedremo.

Un’altra via per analizzare la struttura del «lancio» consiste nel misurare il raggio d’azione di A e di B in situazioni in cui o B non si muove dopo essere stato toccato da A, oppure si muove staccandosi da A, che però è fermo. Cioè, la situazione è quella paradigmatica, ma viene vista due volte: una in assenza del movimento di B, l’altra in assenza del movimento di A, essendo però sempre presenti nel campo tanto l’uno che l’altro. Il raggio d’azione non è, in questo caso, quello dell’evento causale, che non può aver luogo essendo condizione necessaria per esso il moto di tutti e due gli oggetti; è invece quello di ciascuno dei due pezzi di movimento che entrano in gioco, integrandosi, nel lancio vero e proprio: l’andare di A verso B, e lo scostarsi di B da A.

Quando B è fermo ed A viene da molto lontano, per quanto si possa dire secondo la geometria che in ogni attimo «A va verso B «, non si può dire altrettanto dal punto di vista fenomenologico. C’è un momento ben preciso del percorso in cui si comincia a vedere che A si dirige su B, che A sta per andare addosso a B. Ugualmente, solo per un tratto B scarta A, cioè fa l’atto di scostarsene. Se da tale momento in avanti continua ancora a camminare questo non è la continuazione dello scarto, ma un movimento che ormai non ha più a che vedere con il primo passo. Questi due aspetti del moto possono essere meglio analizzati così : se A si muove verso B, B costituisce il sistema di riferimento per A; se B si allontana da A, A è il sistema di riferimento per il moto di B; nel primo caso vi è coincidenza tra la direzione del moto e la posizione del sistema di riferimento, nel secondo vi è opposizione (polarizzazione del movimento).

 

§ 5. La percezione della «forza».

 

La misurazione del tratto in cui si vede che A «va contro» B, e quella del tratto in cui B «si scosta» da A è facile per gli osservatori non meno che le misurazioni riferite prima, né è meno consistente. Ma la cosa più bella è che i valori che si ottengono in tal modo (per velocità uguali a quelle già dette: A 40 cm/sec., e B 32, 16, 11, 8, 5, 4 cm/sec.) sono vicinissimi a quelli riferiti poco fa, a proposito del lancio. Questo per quanto riguarda le rilevazioni quantitative. Dal punto di vista qualitativo, va notato che esiste tutto un campionario di modi di avvicinarsi e di modi di scostarsi, per le varie velocità del mobile in questione. Quando il moto di avvicinamento è lento si vede che A «va a collocarsi contro B», ad appoggiarvisi, formando con esso un solo blocco; quando il moto è rapido la situazione assume un’altra dinamica, appare 1’ «urto», il «colpo» dato con maggiore o minor forza. Tra questi estremi vi sono molte sfumature diverse. Così per lo «scostamento»: B può «staccarsi lentamente» da A, come la parte di un blocco unico che si divide, o può scattare via, ritrarsi vivacemente da A, dando un’impressione di «forza viva», come scrive Michotte. La forza è qualcosa di ben visibile - come aveva insegnato Koffka nei luoghi riferiti nel capitolo precedente - e non soltanto nel caso dell’effetto lancio ottimale. Secondo Michotte, essa è legata alla differenza delle velocità dei due oggetti al momento dell’urto. Che si tratti di lancio, di accostamento o di scostamento non importa, cioè non importa di quale velocità sia animato ognuno dei due oggetti rispetto allo schermo su cui si muove: uno di essi può benissimo essere anche fermo (velocità nulla); tanto più grande è la differenza tra le velocità, e tanta più «forza» si rende visibile.

Due esempi: A si muove verso destra. con una data velocità, mentre anche B va nella stessa direzione e su quella stessa traiettoria ma con una velocità leggermente inferiore; a un certo punto A raggi unge B; l’urto non sarà forte, anzi è simile a quello che si ottiene tenendo B fermo, mentre A lo raggiunge con una velocità uguale a quella che si ottiene - nel caso ora descritto - sottraendo la velocità di B a quella di A. La massima violenza, invece, si ottiene lanciando un oggetto contro l’altro: A corre verso destra, B da destra a sinistra e a metà strada si incontrano immobilizzandosi all’attimo dell’incontro. Ciò che si vede è uno scontro frontale, e si ha l’impressione «di una vera compenetrazione»[11]. In questo caso la differenza delle velocità è la loro somma, dato che B si muove con verso contrario a quello di A.

Il primo dei due esempi ora descritti è chiamato da Michotte «lancio al volo», ed è stato dettagliatamente analizzato come un aspetto particolare del lancio; ma non ci soffermeremo a riferire le articolazioni di tale analisi, qui. Gli esperimenti effettuati da Michotte sul lancio sono piiì di quaranta, e occorrerebbero, per riferirli tutti, altrettante pagine quante sono quelle dedicate dall’Autore a tale argomento.

 

§ 6. Le proprietà degli oggetti.

 

Sarà bene dedicare un breve accenno, invece, a certe esperienze riguardanti l’aspetto fenomenico degli oggetti nelle situazioni di lancio. Il colore degli oggetti non ha alcun ruolo nella formazione delle connessioni causali; entro certi limiti, neppure la grandezza o la forma di essi possono incidere sulla struttura causale dell’evento. Basta tenere presente che se un oggetto è sensibilmente più grande dell’altro la sua velocità dovrà essere regolata in rapporto a tale fatto, conformemente alla legge di Brown[12]: due oggetti procedono fenomenicamente con velocità eguali se percorrono spazi multipli della loro lunghezza in tempi uguali (multipli del lato se si tratta di quadrati, multipli del raggio se si tratta di cerchi, ecc.); e, infine, che gli oggetti aventi forma allungata nel senso della direzione del movimento rendono meglio l’impressione di «lancio».

Abbandonando il metodo dei dischi con spirali ruotanti per una soluzione tecnica basata sull’uso di proiettori, però, altri aspetti qualitativi degli oggetti possono essere variati: per esempio, si può togliere agli oggetti A e B il carattere di «cose», sfocandoli al punto di trasformarli in macchie luminose dai contorni sfumati, che si confondono con lo sfondo, come due ombre di luce. Il lancio di una di esse per azione dell’altra rimane intatto. Michotte ha provato a fare in modo che un oggetto ben concreto - una palla di legno - si muovesse nel ruolo di oggetto A, e una macchia luminosa nel ruolo di oggetto B; contro ogni previsione, il lancio si realizza egualmente.

«Tali risultati - scrive l’Autore - sono molto gravi. Costituiscono una risposta diretta all’opinione comunemente avanzata dai «non iniziati», secondo cui sarebbe assurdo voler realizzare una impressione di causalità meccanica ben vera senza impiegare oggetti reali, massicci. Inoltre, ci fanno vedere come il «significato» degli oggetti non alteri affatto la percezione della causalità; cioè, che il fatto di appartenere... a «mondi differenti» non agisce necessariamente come fattore di segregazione tra le esperienze. E ancora: è possibile constatare in questo modo, ancora una volta, che l’impressione causale resiste alla contraddizione con le esperienze acquisite. L’esperienza ci insegna molto bene che una biglia «reale» non può né urtare né lanciare un’ombra, o un riflesso di luce; e a dispetto di questa conoscenza noi vediamo che l’una lancia l’altra. Del resto, tutte le relazioni causali riferite in queste pagine si producono per osservatori che sanno perfettamente che «in realtà» non è in gioco alcuna influenza di tipo causale».

 

§ 7. Le condizioni del lancio: spazio, tempo, moto.

 

ii) Le condizioni spaziali, temporali e cinetiche. Lo studio degli oggetti coinvolti in situazioni causali come quelle del lancio coincide, in massima parte, con lo studio dei fattori di segregazione tra le due fasi dell’articolazione causa-effetto; lo studio degli aspetti spazio temporali è, invece, in gran parte studio delle condizioni di integrazione tra quelle due fasi.

Primo punto: l’intervallo temporale tra l’arrivo di A e la partenza di B, è stato progressivamente variato, in una serie di situazioni, da 0 a 224 millisecondi, progredendo dall’una all’altra di 14 in 14 millisecondi. L’introduzione di tali intervalli provoca certi cambiamenti qualitativi caratteristici, nell’evento causale. Sulla base delle descrizioni degli osservatori è possibile isolare, nell’insieme delle situazioni così costruite, tre stadi tipici, corrispondenti all’introduzione di intervalli piccoli (meno di 100 millisecondi circa) medi (tra i 100 e i 130 circa) e grandi (sicuramente dai 140 in su), essendo la velocità degli oggetti di 40 cm/sec. Il primo stadio è quello dell’effetto lancio vero e proprio; il che significa che la presenza di un intervallo di quiete entro certi limiti non pregiudica la struttura causale fenomenica, mentre da un punto di vista fisico la cosa sarebbe impensabile. Il secondo stadio è veduto come una classe di casi in cui l’impressione del lancio è ancora indubitabile, benché si avverta il ritardo; l’oggetto B si muove vincendo una certa inerzia. Il terzo stadio è costituito da situazioni in cui i movimenti appaiono del tutto indipendenti, semplicemente successivi, e privi di legami.

Secondo punto: in modo analogo, è possibile introdurre tra A e B un intervallo spaziale; A si arresta prima di toccare B, e B parte secondo le solite regole.

La presenza di un intervallo spaziale non sempre pregiudica l’impressione di lancio; si può, a certe condizioni, ottenere una netta impressione di «urto a distanza» tra gli oggetti; anzi, secondo Michotte, si può avere un «lancio senza urto», oppure, secondo altri osservatori, vedere che «A dà un colpo a B tramite un mezzo più o meno solido, più o meno viscoso»[13]. Il realizzarsi di tale struttura è, naturalmente, subordinato a determinate condizioni di velocità per gli oggetti in causa: quanto più i loro movimenti sono veloci tanto più grande può essere l’intervallo spaziale tra A e B senza che il «lancio» venga compromesso.

Ma c’è un’ altra modificazione di carattere spaziale che può essere introdotta nella situazione paradigmatica del lancio: l’orientazione relativa dei movimenti. In tutti i casi finora considerati la traiettoria dell’oggetto B era un prolungamento della traiettoria dell’oggetto A. Basta pensare ai casi che in configurazioni statiche illustrano la quarta legge di Wertheimer (continuità della direzione) per rendersi conto che tale fatto deve favorire l’unitarietà dell’evento totale. Spezzando il percorso compiuto dai due oggetti in due segmenti non allineati o addirittura con direzione diversa, si dovrà ottenere una maggiore segregazione delle due fasi, e probabilmente una diminuzione dell’evidenza del rapporto causale. Questa ipotesi è ovvia, e pienamente confermata dagli esperimenti.

Nel caso dei segmenti non allineati, la situazione si presenta così:

Fig. 112

In questa situazione sparisce la percezione dell’urto, non sempre però quella di un certo rapporto causale, come di «sganciamento»: A arriva, e nell’atto di arrestarsi libera B che fino a quel momento era ancorato nella sua posizione. Ma questa configurazione è instabile, e basta poco perché si abbia l’impressione di due moti indipendenti.

Nel caso in cui la continuità della direzione viene interrotta spezzando l’evento in due segmenti di percorso variamente angolati, l’impressione di lancio si attenua a mano a mano che l’angolatura si accentua. Con un angolo di 155° già l’effetto è molto attenuato, a 90° scompare del tutto.

La cosa è abbastanza interessante se si pensa che l’esperienza comune offre molti esempi di connessioni causali dovute all’urto tra due oggetti, in cui il percorso del secondo oggetto viene a giacere su una traiettoria più o meno angolata rispetto a quella del primo. I giocatori di biliardo conoscono bene quel difficile tipo di colpo che è lo «sfaccio», o «raddrizzo»; del resto i bambini sanno realizzare qualcosa di strettamente simile giocando con le palline. L’esperienza insegna che sì, ma l’organizzazione percettiva vuole che no: diminuisce una forza unificatrice, e logicamente ne consegue una maggiore segregazione tra gli eventi in gioco.

Procedendo a modificare ulteriormente le condizioni spaziali delle traiettorie, Michotte s’imbatté in un altro caso di notevole interesse. «L’oggetto A e l’oggetto B si trovano ad una distanza di 7 od 8 centimetri l’uno dall’altro. A entra in movimento verso B alla velocità di 10 cm/sec. A un certo momento, B entra in movimento in senso opposto, con una velocità piuttosto alta (quella del salto stroboscopico) e viene a piazzarsi bruscamente contro A, che in quest’attimo si immobilizza «. A volte gli osservatori paragonano spontaneamente questa situazione a quello che normalmente accade avvicinando una calamita a un pezzo di ferro: la calamita si muove ed il ferro sta fermo, per un certo tratto di tempo; ma improvvisamente il ferro balza contro la calamita, nel momento in cui entra nella regione del campo magnetico capace di vincere le forze che lo trattengono nel posto dov’è. Gli stessi osservatori, tuttavia, sostengono che non c’è in gioco un rapporto causale: cioè che si tratta di due movimenti spontanei ed indipendenti, coordinati in un certo modo, tale da «ricordare» il caso della calamita. Scrive Michott: «la differenza che esiste tra l’impressione causale direttamente vissuta ed una semplice interpretazione, qui è nuovamente colta sul vivo: la conoscenza dell’influenza causale esercitata dalla calamita sul ferro non è affatto sufficiente a dar luogo alla percezione della causalità»[14]. Ciò risulta dimostrato dal fatto che gli stessi osservatori affermano che la situazione assomiglia ad una relazione fisica che sanno di tipo causale, ed insieme negano che si veda nella situazione stessa tale tipo di connessione. Michotte aggiunge: «da tutto quello che finora abbiamo visto sull’influenza dell’orientazione dei due movimenti, sembra del tutto impossibile provocare qualsiasi tipo di impressione causale per mezzo di combinazioni di movimenti realizzate in questo modo», cioè con movimenti aventi senso diverso e stessa direzione. Torneremo tra poco su questo punto, intorno al quale ci sembra dì dover dissentire dalle conclusioni di Michotte.


§ 8. Le velocità dei mobili. Le traiettorie.

 

Occorre prima esporre qualche esperienza riguardante i rapporti tra le velocità dei due mobili. In genere, è necessario che tali velocità siano contenute tra i 20 ed i 40 cm/sec. Per velocità maggiori, l’effetto tende a sparire, lasciando il posto a un movimento continuo; scendendo sotto ai 20 cm/sec. l’urto appare fiacco, senza vigore: piuttosto si direbbe che A tocca B e lo sposta un poco in là. Sotto i 3 cm/sec. i due moti sono indipendenti.

La sperimentazione sulle velocità, dunque, dovrà consistere essenzialmente nel variarle per A e per B in diverse combinazioni entro i detti limiti.

I risultati più importanti sono i seguenti: il migliore «lancio» si ha quando la velocità di A è superiore a quella di B di tre o quattro volte. La prova diretta di ciò sta nel fatto che in queste condizioni il lancio si verifica con una grande nettezza anche quando si assume un’impostazione d’osservazione ad esso sfavorevole, per esempio un’impostazione analitica (che ha invece qualche peso se le velocità di A e di B sono uguali). Michotte ha però escogitato anche una prova indiretta: si sa - l’abbiamo detto qualche pagina fa - che l’introduzione di un breve intervallo di stasi tra l’arrivo di A e la partenza di B pregiudica la struttura causale, ed in modo progressivo passando dagli intervalli più piccoli a quelli più grandi con salti di 14 millisec. Presentando ad alcuni osservatori una lunga serie di situazioni che differivano tra loro sia per tale intervallo, sia per il rapporto tra la velocità di A e di B, si è visto che il lancio si verifica visibilmente anche con intervalli di quiete abbastanza grandi, a patto che la velocità di A sia - appunto - tre o quattro volte superiore a quella di B: in altre parole, la struttura causale resiste meglio alla forza segregatrice di un intervallo quando il rapporto tra le velocità sia tale, che in tutti gli altri casi.

Al contrario, il lancio sparisce totalmente quando A si muove con una velocità sensibilmente minore a quella di B; in questo caso viene sostituito da una configurazione cinetica affatto diversa, che è stata chiamata di «sganciamento». Tale sganciamento è tanto più evidente quanto minore è la velocità di A rispetto a quella di B. È come se l’oggetto B fosse trattenuto nella sua posizione da un fermo, mentre dispone di un’energia potenziale; con l’arrivo di A il fermo viene sbloccato, e B balza verso il luogo di potenziale minimo, come fa il percussore di un’arma da fuoco quando si preme il grilletto.

La differenza fondamentale tra il lancio e lo sganciamento sta nel carattere diverso che assume, nei due casi, il movimento di B: nel lancio il moto di B è passivo e il moto di A attivo, mentre nello sganciamento il moto di B è attivo quanto e più di quello di A.

L’insieme di tutti gli esperimenti fin qui riferiti permisero a Michotte di formulare una teoria generale della dinamica del «lancio», che esporremo più avanti. Ora dobbiamo tornare per un momento alla condizione particolare rappresentata dall’allineamento delle traiettorie nello spazio percepito, di cui stavamo trattando poco fa. Quando la traiettoria di B è collocata in modo da formare un angolo più o meno grande con quella di A, l’evidenza del lancio si attenua, e tanto più quanto più l’angolo diminuisce; a 900 i moti sono indipendenti, come abbiamo detto; diminuendo ancora l’angolo, ci sono sempre meno ragioni per aspettarsi un lancio, e l’esperimento della. calamita (in cui il verso del moto di B è opposto a quello di A) lo dimostrerebbe, rappresentando appunto - in questo senso - il caso opposto a quello del lancio.

Tale esperimento, però, è costruito introducendo nella situazione tre cambiamenti importanti in una volta sola, in modo che è difficile decidere se la connessione causale viene a mancare per il verso opposto dei due moti, per il fatto che B si muove più velocemente di A, oppure in forza del fatto che il mobile A non si arresta, nel momento in cui B parte, o immediatamente prima.

Kanizsa e Metelli [15] hanno costruito alcune situazioni partendo da questo spunto: in esse il movimento di B ha verso opposto al movimento di A, ma inizia nel momento in cui A bruscamente si arresta. La più semplice è questa: l’oggetto A e l’oggetto B si trovano ad una distanza di 7,5 cm l’uno dal-l’altro; A compie, ad un certo momento, un salto di quattro centimetri in direzione di B, e subito B entra in movimento in direzione di A alla velocità di 3 cm/sec., arrestandoglisi a ridosso: Così:

Fig. 113

In questo caso, un quarto degli osservatori descrivono l’evento come causale, cioè come un esempio di attrazione esercitata da A (al suo arresto) su B. Ma più della metà degli osservatori sono d’accordo nel vedere l’attrazione se la situazione viene così modificata: A all’inizio è un quadratino, ma a un dato momento comincia ad allungarsi verso B, diventando dunque un rettangolo (come il mercurio nella colonnina di vetro di un termometro, che in un primo momento sporga appena dal bulbo e poi si allunghi rapidamente lungo essa, essendo stato il bulbo fortemente scaldato); questa crescita di 38 cm/sec. - improvvisamente si arresta, e B, che è qualche centimetro più in là, entra in moto e va ad appoggiarsi ad A; così

Fig. 114

L’attrazione è più evidente che nel caso di prima, se vi è un rapporto tra i dati quantitativi e i fatti qualitativi. Moltiplicando l’articolazione dell’evento, il risultato è ancora migliore (80%): ecco la situazione:

Fig. 115

Da un disco escono quattro braccia, verso Nord, Sud, Est ed Ovest, che si comportano come l’A del caso precedente: si allungano alla velocità di 23 cm/sec. verso quattro quadratini immobili e improvvisamente si arrestano tre cm prima di toccarli; in quell’attimo i quadratini cominciano ad avanzare (5 cm/sec.) verso le appendici, fino a toccarle.

In questi esempi di attrazione manca una delle condizioni essenziali (secondo il punto di vista di Michotte) per la realizzazione di una connessione causale: cioè l’identità di verso delle traiettorie dei due oggetti. Eppure è possibile, anzi molto facile, scorgere nel corso di eventi come questi l’ «attrazione» esercitata dagli A sui B.

Ancora più intricato diventa il problema se si tiene conto del fatto seguente: gli osservatori avvertono nettamente la presenza di una connessione causale in una situazione realizzata così: di fronte ad essi vi è uno schermo rettangolare; in esso, all’inizio, si vedono tre quadrati, collocati nelle posizioni indicate dalla figura qui sotto. A un tratto i quadrati A ed A’, quelli in alto, scendono rapidamente verso il basso, lungo traiettorie verticali, e si fermano non appena raggiunto il livello del quadrato B; in questo stesso momento il quadrato B incomincia a salire verticalmente, con una velocità che è inferiore di circa 1/6 a quella con la quale i due A erano caduti giù. Questo movimento risulta chiaramente come la «risposta» alla caduta di A e A’: una specie di rimbalzo dovuto a tale caduta. Nel lavoro di Kanizsa e Metelli non è detto quanti su quanti soggetti abbiano visto in questo caso la connessione causale; ma chi scrive ha avuto modo di osservare più volte il fenomeno, e può garantire che la connessione causale intercorrente tra l’arrivo degli A e la partenza di B vi è non meno evidente che nella situazione paradigmatica del lancio, di Michotte.

Fig. 116

Eppure, qui vengono a mancare due delle condizioni secondo Michotte essenziali: l’identità di verso (come nei casi d’attrazione precedentemente descritti), e in più la continuità fra le traiettorie: cioè 1) A e A’ scendono, B sale; e 2) inoltre le traiettorie di A e A’ sono parallele a quella di B, e ad una certa distanza da essa.

Il problema, come ben si vede, è abbastanza imbrogliato. Rimandiamo il lettore al saggio di Kanizsa e Metelli, il quale si conclude con una revisione teorica della tesi di Michotte, realizzata in modo da permettere l’inclusione anche di casi come questi nel quadro generale della causalità fenomenica.

 

§ 9. La struttura generale del lancio.

 

Restando nei limiti degli esperimenti effettuati da Michotte, cioè quelli riassunti in i) (oggetti in gioco nel rapporto causale) e in ii) (condizioni spazio-temporali e cinetiche), esporremo ora brevemente l’interpretazione che, su tale base, Michotte stesso elabora per spiegare la struttura del «lancio».

Gli osservatori, di fronte al «lancio», dicono quasi sempre le stesse frasi: «si vede che l’urto dato da A caccia, spinge, lancia, getta via B»; la monotonia delle descrizioni è buona garanzia dell’evidenza del fatto. In definitiva, è il movimento dell’oggetto A che sposta l’oggetto B.

Questa formula, avverte Michotte, implica però due proposizioni:

a) c’è un movimento che è di A;

b) esso muove B.

E cioè: benché il movimento di A finisca nell’istante in cui A si arresta, è questo stesso movimento che disloca B, e ciò avviene dopo l’arresto di A. «Ci si trova così in pieno paradosso», commenta Michotte; abbiamo a che fare con un movimento che continua ancora dopo che è cessato.

Ma questo paradosso è più verbale che reale.

Ragioniamoci sopra tenendo presenti alcuni fatti:

a) abbiamo riferito più sopra, in questo stesso capitolo, l’esperimento realizzato con un solo mobile, il quale percorre una certa traiettoria in due tappe. A rigore, anche l’espressione «movimento in due tappe» è paradossale: si dovrebbe parlare di due movimenti di uno stesso oggetto che hanno luogo uno dopo l’altro. In realtà quest’ultimo modo di descrivere le cose calza bene se il primo di tali movimenti è separato dal secondo da un intervallo temporale abbastanza lungo. Nelle condizioni descritte prima, l’espressione calzante è proprio «movimento in due tappe»: la descrizione fatta così salva insieme il fatto che l’attimo di quiete è ben visibile, e l’impressione di continuità complessiva dell’evento.

b) Nel capitolo terzo di questo libro abbiamo descritto qualche situazione studiata da Michotte stesso in rapporto al problema dell’identità: un oggetto è presentato all’osservatore, dopo un poco viene all’improvviso sostituito con un altro oggetto non troppo dissimile. Ciò che si vede in questi casi non èun oggetto il quale sparisce per lasciare posto ad un oggetto un po’diverso: si vede un oggetto che all’improvviso subisce una trasformazione (un breve arco di cerchio che si raddrizza, un dischetto rosso che impallidisce, ecc.).

Queste due classi di esempi possono illustrare bene il seguente concetto: due eventi possono formare un tutto organico, in cui quello che temporalmente si trova al secondo posto è visto come il «prodotto dell’evoluzione» dell’altro. «Il divenire concilia la loro diversità con la loro continuità, e giustifica l’impressione di trovarsi alla presenza di un solo processo, che assume successivamente aspetti differenti»[16].

Altri fatti da tenere presenti:

c) Il fatto che nella descrizione del «lancio» sia implicita l’affermazione che il moto di A continua dopo l’arresto di A comporta una ammissione più generale: cioè che si possa parlare di oggetti in moto i quali sono fermi, e di oggetti in quiete che si muovono. Ciò urta contro il principio di non contraddizione, oltre che con quanto sappiamo dalla fisica. Ma si tratta - almeno nell’ambito di questa discussione - di un pregiudizio. Intanto, possono darsi nell’esperienza diretta oggetti che, restando in quiete, subiscono uno spostamento. Quando vediamo passare un treno merci carico di automobili vediamo bene che i vagoni procedono, con le automobili «ferme» sopra di essi; a sua volta, il viaggiatore che vediamo passare in automobile per la strada è fermo - seduto - nella macchina che lo trasporta; e così il cavaliere sul suo cavallo, un sacco dentro una carriola ecc. «Il movimento appartiene al veicolo, mentre l’oggetto trasportato resta intrinsecamente immobile, e semplicemente partecipa del movimento del veicolo»[17].

d) D’altra parte, è possibile osservare - in determinate condizioni - movimenti di oggetti fermi; non semplicemente movimenti apparenti di oggetti fisicamente immobili, il che non significherebbe nulla dal punto di vista in cui ci poniamo adesso, ma oggetti che sono veduti come non interessati da alcuno spostamento mentre li vediamo interessati da un moto. Esempio: osserviamo per qualche decina di secondi un disco collocato su di un normale giradischi a 33 o a 45 giri, ed osserviamolo fissando il suo centro di rotazione, in maniera da veder bene l’etichetta corredata di scritte e di figure. Poi arrestiamolo di colpo, ed osserviamolo ancora per un po’: il disco sarà animato da un lento ma costante moto rotatorio inverso a quello precedentemente osservato, e tuttavia (notare bene) nessuna delle sue parti - scritte, figure - verrà vista occupare posizioni diverse in momenti successivi. Ciò che è a Nord resta a Nord, ciò che è a Sud resta a Sud.

«Un oggetto in movimento che venga improvvisamente immobilizzato sembra rinculare per qualche istante. Ma se l’arresto avviene in prossimità di un punto di riferimento fisso, l’oggetto non appare tuttavia in nessun modo avvicinarsi od allontanarsi da esso: l’intervallo che li divide resta sempre lo stesso»[18].

e) Del resto, che sia possibile una separabilità assoluta del movimento da qualsiasi oggetto, cioè che sia possibile avvertire la presenza del movimento indipendentemente dalla presenza di oggetti in translazione, è provato dall’esistenza del fenomeno f puro, di Wertheimer. Abbiamo descritto tale fenomeno nel quarto capitolo di questo libro. Nello stesso capitolo abbiamo descritto anche alcuni altri fenomeni, studiati in particolare dalla Sampaio e da Burke, che con uguale chiarezza dimostrano la possibilità di esperire movimenti senza oggetti.

Sulla base di questi fatti è possibile capire chiaramente in che modo il movimento di A «passa» a B, e come mai B semplicemente si «sposta» a causa del movimento di A. I casi riferiti in a) e in b) garantiscono che è possibile osservare eventi i quali, pure possedendo due fasi successive nettamente articolate, costituiscono un unico fatto, durante il quale una caratteristica fenomenica rilevante può restare inalterata e perdurare con continuità; i casi riferiti in c) e in d) garantiscono che è possibile avere esperienza di movimenti senza spostamento, e di spostamenti senza movimento; il caso e) garantisce che il movimento può esistere allo stato puro, senza alcun portatore.

Nel caso del «lancio», abbiamo a che fare con un evento unitario e continuo, benché distinto in due fasi; le due fasi sono due «spostamenti», ma la continuità è rappresentata da un unico «movimento» che li collega; fintanto che A cammina, movimento e spostamento sono tutt’uno: ma appena A si arresta e B immediatamente parte, ha luogo la scissione tra spostamento e movimento. B, da quel momento cambia progressivamente la propria posizione relativa ad A, cioè si «sposta» (si sposta, potremmo dire, di spostamento proprio), ma contemporaneamente è portatore del «movimento» che prima era di A, il quale non ha subito alcuna interruzione nel momento dell’urto (cioè, B si muove di movimento non proprio).

Il carattere generale dell’impressione causale sta appunto, secondo Michotte, in questa estensione del moto di A al proiettile B. È così che viene fondata empiricamente l’idea di «ampliamento del moto», essenziale per l’edificazione di una teoria della causalità meccanica.

 

§ 10. Lo «spingimento».

 

(B) All’inizio di questo capitolo abbiamo già descritta la struttura dell’effetto «spingimento», in cui - come scrisse Aristotile - «da una parte soltanto A muove e dall’altra solo B è mosso», pure procedendo essi insieme uno accanto all’altro.

I concetti elaborati sulla base dell’analisi del «lancio» facilitano molto, naturalmente, l’interpretazione di questo caso di causalità percepita. Ma per applicarli in maniera appropriata occorre realizzare un certo numero di verifiche sperimentali analoghe a quelle condotte nel caso dell’analisi precedente.

Innanzitutto si presenta un problema: quale relazione passa tra i casi di «trasporto» (le autovetture sui vagoni merci, l’uomo a cavallo ecc.) e la situazione dello «spingimento»?

La somiglianza tra le due strutture è intuitiva: nell’un caso e nell’altro un oggetto si muove passivamente in quanto è coinvolto nel movimento dell’oggetto su cui, o accanto a cui si trova.

Ma vi è una differenza fondamentale.

Se facciamo partire insieme i due quadrati A e B già l’uno accanto all’altro (seconda fase dell’esperienza paradigmatica) non si ha mai l’impressione che uno agisca sull’altro, ma si vede solo il moto solidale di due corpi o, peggio, il moto di un corpo oblungo che per metà è dipinto con un colore, e per l’altra metà con un colore diverso.

Un primo esperimento da fare è questo:

C’è un rettangolo bianco di 10 x 15 cm che, grazie a un dispositivo meccanico, può viaggiare lungo un itinerario rettilineo ed orizzontale sul piano di un tavolo. Il rettangolo è disposto verticalmente, in piedi, e si staglia contro uno sfondo qualunque. Davanti a questo rettangolo (a mezzo cm) si trova un disco colorato di 5 cm di diametro, il quale a sua volta -mediante un dispositivo analogo al primo, ma indipendente - può compiere un tragitto parallelo a quello del rettangolo.

Il disco e il rettangolo vengono messi in moto assieme, e procedono con la stessa velocità nella stessa direzione.

Ciò che si vede, è semplicemente un rettangolo in moto con su dipinto un disco colorato; cioè, si vede un oggetto unico, non un oggetto che trasporta un altro.

Quando il meccanismo viene fermato, è possibile notare che si tratta di due oggetti diversi, l’uno davanti all’altro; ma durante il movimento questa impressione sparisce, per dar luogo a quella ora descritta.

Ma proviamo a modificare la situazione.

Il disco colorato ora compie tutto il tempo delle piccole oscillazioni verticali, ampie un paio di millimetri.

L’effetto «trasporto», in queste nuove condizioni, si realizza molto chiaramente: il disco appare attaccato poco solidamente al rettangolo e in tutti i casi è visto «dipendere» da esso: è distinto, e «prende parte» al suo movimento.

Il trasporto si realizza, e sembrerebbe ovvio che una struttura d’esperienza così organizzata debba comportare la presenza di un rapporto causale esplicito; ma non è così. Il fatto che tra i due movimenti sussiste un innegabile rapporto di causalità fisica (il trasporto) non basta a determinare l’esistenza di una connessione causale osservabile.

Per modificare il risultato dell’esperimento in questo senso, però, basta introdurre un piccolo cambiamento: basta che lo schermo incominci a muoversi prima del disco colorato. In questo caso, lo schermo aggancia e traina il disco. Ma solo per qualche momento. Se l’osservazione viene prolungata oltre un certo tempo, piuttosto breve, questo rapporto sparisce per lasciar posto alla struttura tipica del «trasporto».

La somiglianza con i casi dell’effetto «lancio» è evidente, primo, perché il rapporto causale ha luogo solo se un movimento ha la priorità temporale sull’altro; secondo, perché l’impressione causale possiede anche in questo caso un definito raggio d’azione, oltre il quale si realizza una impressione diversa.

Un’altra somiglianza notevole è la seguente. Possiamo realizzare due situazioni a partire da quella paradigmatica, e con gli stessi mezzi tecnici: a) l’oggetto A raggiunge B, e dal momento del contatto procedono insieme con una velocità inferiore a quella che aveva A nel tratto che ha percorso da solo; b) dal momento del contatto procedono insieme con una velocità superiore a quella che aveva A nel primo tratto.

Avendo presenti i risultati ottenuti con il lancio, è facile prevedere quel che succede in questi due casi: nel caso a), al momento del contatto c’è un urto, tanto più forte quanto maggiore è la differenza intercorrente tra la velocità della prima fase e quella della seconda; nel caso b) è come se l’oggetto A si avvicinasse quatto quatto, per sorprendere B e portarlo via: «come un gatto - scrive Michotte - che si avvicina al sorcio, poi gli salta addosso e lo trascina con sé»[19].

A eguali variazioni delle condizioni, abbiamo dunque uguali variazioni dei caratteri espressivi, tanto nel «lancio» che nel «trainamento».

 

§ 11. La trazione.

 

Un caso particolare può essere realizzato mediante una piccola modifica, ed è quello della «trazione».

Fermi nel campo, alla solita distanza l’uno dall’altro, sono gli oggetti A e B. A si mette in moto, raggiunge B e lo sorpassa completamente procedendo oltre con velocità ridotta; B, appena è sorpassato, si mette in moto a sua volta, restando in contatto con A. In questo caso - lungo la direzione del movimento - A è in testa e B gli tiene dietro.

Il risultato è che A aggancia B e se lo tira dietro.

È possibile ottenere una situazione non dissimile evitando che A sorpassi B, nel seguente modo: A e B sono immobili, ad una certa distanza l’uno dall’altro; A si mette in moto allontanandosi da B e a un certo momento B parte a sua volta, nella stessa direzione di A e con la sua stessa velocità. Anche qui si vede una trazione: come se tra A e B si fosse tesa una funicella, grazie alla quale B viene tirato.

Un terzo esempio, particolarmente degno di nota, è questo:

A si mette in moto e prosegue fino a toccare B, ma non appena lo ha toccato inverte la marcia e torna al posto di prima accompagnato da B. In questo caso l’esito dipende interamente dalla velocità con cui l’evento si svolge: se essa ha un valore (sia nell’andata che nel ritorno) inferiore a quello di 12 cm/sec., il momento del contatto dissocia completamente le due fasi, che si realizzano come due eventi cinetici indipendenti; una velocità maggiore, invece, produce l’impressione dell’agganciamento: cosicché nella seconda fase si vede A che tira con sé B.

Michotte attribuisce l’evidenza del risultato, in questo secondo caso, al fatto che la elevata velocità dei movimenti funge da «fattore di integrazione», ed ha come effetto quello di stabilire «la continuità del movimento di A malgrado il suo cambiamento di direzione»[20]. Ma si tratta di una spiegazione certamente errata.

Dagli esperimenti condotti sul lancio e sullo spingimento appare chiaro che la collocazione di una sensibile pausa tra le due fasi dell’evento svolge un ruolo di segregazione decisivo: la struttura si rompe in due parti indipendenti, annullando l’azione dei fattori d’integrazione.

Orbene, se nel caso ora considerato fosse vero che la maggiore velocità nell’andata e nel ritorno facilita la struttura in quanto funge da «fattore d’integrazione», l’introdurre una pausa al momento del contatto dovrebbe comportare la sparizione della connessione causale.

Ma non è cosi. La prof. Passi Tognazzo ha realizzato, nel 1959[21], un interessante esperimento, nel contesto di una più ampia ricerca intorno alle condizioni dello spingimento e della trazione: ha collocato appunto alcune pause di diversa durata (1/18 di sec., 1/8 di sec. e 1/4 di sec.) tra il momento in cui A entra in contatto con B e il momento della partenza di A e B insieme.

Contro ogni aspettativa, è risultato che tale pausa agisce nettamente a favore della struttura causale, come se A avesse bisogno di qualche attimo a sua disposizione per effettuare l’agganciamento. Nel caso della prof. Passi Tognazzo la velocità in andata e in ritorno dei mobili era di 16,2 cm/sec., quindi ottima, secondo Michotte. Senza la pausa, però, solo il 62% degli osservatori avvertiva il nesso causale; con l’introduzione della pausa di 1/18 di secondo, l’82% degli osservatori erano d’accordo sulla presenza dell’effetto, e ancora di più - se pure di poco - con l’introduzione della pausa di 1/8 di sec. Pause più lunghe, ad ogni modo, sembrano compromettere l’unità della struttura.

Questi due grandi gruppi di connessioni causali, cioè le forme del lancio e le forme dello spingimento e della trazione, malgrado la grande varietà di modi in cui possono presentarsi, fanno capo - secondo Michotte - alla stessa nozione fondamentale: quella di «ampliamento del moto».

§ 12. L’ampliamento del moto.

La causalità è «un processo fondato sul fatto che il movimento dominante, quello del mobile agente, appare estendersi al mobile paziente, ma restando del tutto distinto dal cambiamento di posizione che questo ultimo subisce per suo conto».

Questa definizione è assai generale. Ma secondo Michotte è sufficiente per stabilire un certo numero di conclusioni importanti.

La prima di queste conclusioni suona come una limitazione: non è possibile che esistano altri casi di causalità fenomenica, al di fuori delle due classi di fatti presi in considerazione fin qui: i lanci, e i casi di spingimento e trazione. Nuovi casi particolari, naturalmente, potranno essere trovati; ma rientreranno sempre in una di queste due classi. Infatti, dati due mobili, e date le condizioni generali accertate, i movimenti o saranno tra loro successivi, o contemporanei. Nel primo caso l’ampliamento del moto avrà luogo nella forma del «prolungamento» del moto del primo mobile sull’altro; nel secondo caso l’ampliamento del moto si realizzerà come «fusione» dei movimenti di A e di B, in seguito alla loro somiglianza dal punto di vista cinetico.

«Estensione per prolungamento ed estensione per fusione sono i due termini di un’alternativa al di fuori della quale non sussistono altre possibilità; data tale alternativa, il lancio e lo spingimento devono essere considerati come i soli tipi teoricamente realizzabili di impressione causale. Ne consegue che i nostri studi sono, da questo punto di vista, esaustivi» [22]

Un’altra conseguenza di importanza decisiva è la seguente: dato che la causalità fenomenica si realizza esclusivamente sulla base di ben definite condizioni (proprietà degli oggetti, velocità, spazi percorsi, direzioni del moto ecc.), diventa possibile progettare a piacere situazioni in cui la connessione causale è visibile, laddove non potrebbe aver luogo dal punto di vista fisico.

Una palla da biliardo in movimento, che venga raggiunta da un’altra palla animata da velocità maggiore, tutte e due su di un unico itinerario rettilineo, è impossibile che rallenti, secondo la fisica. Fenomenicamente, il rapporto causale è evidente.

Nell’effetto lancio, tanto più evidente risulta la connessione causale quanto minore è la velocità di B rispetto a quella di A: «il carattere causale si trova dunque rinforzato (in seguito all’accentuazione della dominanza del movimento dell’oggetto motore) proprio quando l’efficacia della causa dovrebbe, logicamente, apparire diminuita»[22].

Argomenti come questi hanno un ruolo specifico nella teoria: è escluso che la connessione causale sia un aspetto dell’esperienza attuale dovuto all’accumularsi dell’esperienza passata. Non possiamo mai aver assistito a urti tra corpi che abbiano dato luogo ad esiti di questo tipo: cioè, non possiamo avere imparato a vedere dove c’è o non c’è una connessione causale.

Una terza conseguenza è la seguente.

Hume aveva scritto: «qualcuno ha preteso di definire la causa dicendo che essa è qualcosa che produce un’altra cosa, ma è evidente che ciò non significa nulla. Che cosa può significare «produzione»? Si può dare di essa una definizione, che non sia quella stessa che si dà per la causa? Se qualcuno lo può, vorrei che me lo insegnasse. Se non lo può, egli gira in un circolo vizioso, e fornisce un termine sinonimo al posto di una definizione»[24]. E altrove: «ho già mostrato che l’idea di produzione è la stessa che quella di causazione».

Difatti, se noi partiamo dal punto di vista che la causalità empirica si riduce all’abitudine di constatare più volte la ricorrenza di sequenze regolari, diventa impossibile trovare in queste ricorrenze qualcosa di più che la successione temporale dai fatti, e quindi qualcosa come la «produttività».

Ma se ci mettiamo in un’altra prospettiva, e consideriamo il rapporto causale come una struttura fenomenologica peculiare, dotata di caratteristiche irriducibili al puro gioco degli stimoli fisici sui nostri organi di senso, diventa possibile isolare il processo di «produzione» all’interno del complessivo processo causale, in modo che tra questo e quello non corra una relazione meramente tautologica. Michotte sottolinea i seguenti punti essenziali:

1) Quando si realizza l’ampliamento del moto, ha luogo «l’apparizione di un fatto nuovo» - cioè le varie forme di cambiamento che interessano l’oggetto paziente (traslazioni, modificazioni della forma, ecc.).

2) Tale fatto nuovo «appare in continuità con un avvenimento preesistente, e corrisponde ad una evoluzione di questo». L’ampliamento, infatti, si estende al paziente.

3) La fase iniziale dell’evento non cessa di esistere dopo l’apparizione del «fatto nuovo». Il processo di ampliamento non implica trasformazioni nel motore, «il movimento primitivo continua ad esistere come tale»[25].

4) Infine, nell’attimo in cui l’ampliamento del moto si realizza., sul piano fenomenico abbiamo a che fare con una doppia esistenza: quella dell’evento primitivo, e quella del fatto nuovo.

Cioè, come scrive Michotte: «il processo primitivo si sviluppa, e, senza cessare d’essere quello che era prima, diventa ugualmente qualcosa d’altro, distinto da sé»[26].

Tutte queste affermazioni, messe insieme, costituiscono una descrizione di ciò che appunto è la «generazione» nel corso di un processo organico. Vi è un organismo-madre, che è protagonista di una doppia esistenza: in un primo tempo questa doppia esistenza costituisce una unità profonda, di base; successivamente, la dualità diventa progressivamente più radicale, fino all’indipendenza completa del secondo organismo dal primo. Il «raggio d’azione» è il limite oltre il quale si realizza la totale autonomia dei due eventi.

Michotte insiste a lungo su questo concetto, benché - così ci sembra - esso non possa essere preso altro che per una suggestiva analogia. Ciò che ha veramente importanza, invece, è il fatto che mediante questa descrizione è possibile mettere in luce che la «produzione» è una caratteristica distintiva delle connessioni causali, e non un puro sinonimo della «causalità».

§ 13. La base fenomenologica dei concetti fisici.

A questi commenti, Michotte aggiunge un ultimo gruppo di considerazioni, veramente degne di nota.

L’analisi delle strutture causali mette chiaramente in luce un certo numero di aspetti fenomenologici rilevanti, connessi con altrettanti concetti appartenenti alla storia della dinamica.

Intanto, come già aveva sottolineato Koffka[27], è possibile scoprire per questa via la base fenomenologica del concetto di «forza». Quando A urta B, siamo in presenza della forza viva impiegata nell’urto[28]. Questa forza è 1’ «energia cinetica» di A. La risposta cinetica di B è l’ «equivalente meccanico» dell’ «energia cinetica» di A.

L’ampliamento del moto, grazie al quale l’azione di A si prolunga in B implica la conservazione del processo attraverso lo spazio ed il tempo. E questa è, sul piano fenomenologico, la «conservazione dell’energia cinetica».

Al di là dei limiti del raggio l’azione spazio-temporale, B appare muoversi di moto proprio, non più causato. Questa è l’«inerzia» del proiettile nel corso della sua traiettoria.

Le traiettorie dei mobili devono essere allineate, affinché sia evidente la connessione causale: ed è noto che succede così anche nella meccanica, dove «il lavoro di una forza è nullo quando il punto d’applicazione di essa si sposta perpendicolarmente alla direzione di quella forza»[28].

E, insomma, la connessione causale come dato dell’esperienza diretta è «la percezione del lavoro di una forza meccanica, come l’impressione del movimento di un’automobile è la percezione del suo dislocarsi nello spazio fisico».

Tutto questo non è affatto strano, se si pensa che i concetti fisici riguardanti la meccanica sono stati elaborati, (in ogni tempo, si tratti di Archimede o di Galileo) a partire da un linguaggio descrittivo già esistente, prescientifico, e quindi legato strettamente alle proprietà direttamente osservabili nei movimenti, e nell’ azione di un movimento sull’altro; od osservabili introspettivamente nell’atto di compiere uno sforzo, nell’avvertire la resistenza di un ostacolo, ecc. La migliore testimonianza di questo stato di cose è costituita dalla distinzione aristotelica tra movimenti « naturali» e movimenti «violenti». Tale distinzione, come è noto, ha impedito per secoli la costruzione di una coerente teoria fisica del moto; Galileo ha impiegato molte decine di pagine per smantellarla pazientemente, con esempi, osservazioni ed esperimenti, ma soprattutto con un grande lavoro di logica applicato direttamente alle basi filosofiche di essa. Tuttavia, anche per noi, è del tutto intuitivo che vi sono certi movimenti i quali si svolgono in modo naturale, ed altri che si realizzano grazie a cause esterne, più o meno «violente»: il moto di un proiettile non è quello di un corpo che cade liberamente. Nella stessa fisica d’oggi sussistono termini certamente legati a tale origine intuitiva: vi si parla, ad es., di oscillazioni « forzate» e di oscillazioni «smorzate», benché si tratti - in tutti e due i casi - di oscillazioni libere, quali si realizzano in particolari condizioni.

«Forza viva», «urto», moto per «inerzia», sono termini che fanno capo ad altrettanti tipi particolari di esperienze, e non è escluso che - sia pure attraverso vie assai complesse - risalendo a ritroso la storia dei loro significati - ci si possa trovare alla fine di fronte ad usi, che da tali esperienze dipendono strettamente. Quest’idea di Michotte è condivisa da più di uno degli psicologi d’oggi, come Köhler[30], Guillaume [31] e Musatti[32], ed è già confortata dai risultati di qualche ricerca sperimentale[33].

 

§ 14. La causalità qualitativa.

 

Considerando nell’insieme il contributo dato da Michotte allo studio della causalità fenomenica, dopo il quale è diventato impossibile sostenere seriamente qualche tesi ispirata a quella di Hume, può sorgere spontanea la seguente domanda: come è avvenuto che, esistendo il rapporto causale nell’esperienza diretta da che mondo è mondo, ed in molte forme diverse, l’opinione più diffusa tra filosofi e psicologi - anche in climi culturali abbastanza dissimili - sia stata orientata in senso opposto?

Certo, è possibile che la teoria renda ciechi nei confronti dei fatti. L’accettazione di una tesi comporta spesso come effetto l’incapacità di vedere sia le ragioni di chi la pensa diversamente, sia i fatti che potrebbero mettere in crisi la tesi accettata.

Michotte, però, prospetta una spiegazione meno generica e più suggestiva, dalla quale si può indubbiamente dissentire, benché sia difficile negare ad essa una notevole plausibilità.

Nel corso della vita, quotidiana le circostanze in cui applichiamo consapevolmente i giudizi causali a determinate relazioni tra fatti sono, nella grandissima maggioranza, contraddistinte dall’ assenza di connessioni causali fenomenicamente esplicite. Proprio questo fatto ci obbliga a costruire giudizi della forma «A causa B», o «se A, allora B».

Due capitoli della «Perception de la causalité» sono dedicati allo studio sperimentale di una classe particolare di eventi tra i quali il rapporto causale non affiora mai. Si tratta di situazioni in cui il mutamento qualitativo di un oggetto è accompagnato da un movimento (entro rapporti spazio-temporali suggeriti direttamente dai risultati delle ricerche precedenti); oppure di situazioni in cui il mutamento qualitativo di un oggetto è accompagnato dal mutamento qualitativo di un altro oggetto.

L’idea di esplorare questo territorio della «causalità qualitativa» deriva direttamente dalla constatazione che, nel corso della vita d’ogni giorno, veniamo a trovarci quasi ad ogni momento di fronte a fatti che giudichiamo dipendenti l’uno dall’altro, pur senza che siano connessioni tra movimenti, come quelle analizzate nelle pagine precedenti. I casi sono praticamente infiniti: il ferro che diventa rosso essendo esposto alla fiamma, l’acqua che nella pentola bolle per il fuoco che c’è sotto, i panni che asciugano all’aria, lo zucchero che fonde nell’acqua, l’apparizione delle ombre degli oggetti quando il sole esce dalle nuvole, il cambiamento di colore del latte quando ci versiamo dentro il caffé, la luce che si accende premendo un pulsante, i suoni che si ottengono picchiando insieme due oggetti solidi, o premendo i tasti del pianoforte, ecc.

Queste circostanze di comune esperienza possono venire semplificate in modo opportuno, e studiate come s’è fatto per la causalità meccanica. Michotte ha realizzato una ventina di tentativi in questo senso. «Gli oggetti A e B sono in contatto l’uno coll’altro. L’oggetto A è rosso, mentre B è bianco. A diventa bruscamente verde e in quel momento B si scosta da A per una distanza di 5 o 6cm». Nessuna impressione causale: il movimento di B è autonomo. Oppure: «L’oggetto B, un cerchio bianco, si staglia al centro di un grande quadrato rosso di 50cm dilato, che costituisce l’oggetto A. Il colore del quadrato cambia improvvisamente e diventa verde. In quell’istante B esegue un movimento simile a quello dell’esperienza precedente». Nessuna relazione tra i due fatti: per uno degli osservatori, solo una «vaga impressione di dipendenza, di «sganciamento» del moto da parte del mutamento di colore»[34].

Ancora: «Si possono raggruppare in un caso solo diverse prove, tutte con risultati analoghi. L’oggetto visivo era costituito da un cerchio di 5 o di 3 cm di diametro, e, quando si spostava, procedeva alla velocità di 30 cm/sec. La distanza dall’osservatore era di due metri e mezzo. I cambiamenti visibili, che precedevano di 20 millesecondi la produzione di un rumore, erano i seguenti: sparizione dell’oggetto, apparizione dell’oggetto, cambiamento momentaneo della chiarezza dell’oggetto -restando esso, in tutti questi casi, immobile; oppure, arresto brusco dell’oggetto in movimento, attraversamento di un oggetto immobile da parte dell’oggetto in movimento»[35]. Pochi osservatori, e in pochi casi, hanno usato espressioni di tipo causale per descrivere tali situazioni.

In presentazioni come queste sono coinvolti due fatti: un mutamento qualitativo ed un movimento, secondo uno schema assai comune nella esperienza d’ogni giorno.

Nell’esempio seguente, Michotte ha cercato di mettere in relazione due mutamenti qualitativi in concomitanza.

Un cerchio verde ed uno rosso sono collocati l’uno accanto all’altro. All’improvviso, quello verde diventa giallo, e un attimo dopo quello rosso diventa blu. Generalmente, ciò che si vede è una successione di avvenimenti indipendenti. Se la situazione è variata in modo che i due cerchi si scambiano i due rispettivi colori, ha luogo - talvolta - un curioso tipo di movimento stroboscopico: i due colori passano da un disco all’altro, fermi restando i dischi al loro posto.

«La conclusione di queste analisi è dunque negativa. Non abbiamo potuto scoprire alcun caso di causalità dovuta a cambiamenti puramente qualitativi o d’intensità, malgrado il numero dei tentativi realizzati in questo senso»[36]. «L’esperienza diretta della causalità è dunque appannaggio della sola causalità meccanica»[37].

Ma, come abbiamo detto, proprio le connessioni tra mutamenti qualitativi sono quelle che più frequentemente popolano l’orizzonte delle nostre constatazioni. E in questi casi la causalità non è data, ma inferita. Inferita, ovviamente, in modo molto spontaneo e diretto: non come quando dobbiamo fare un certo numero di calcoli per arrivare ad un risultato, o come quando dobbiamo ripercorrere un ragionamento al fine di vedere se un evento particolare rientra in una classe o in un’altra tra più possibili. «L’apparizione di un avvenimento qualitativo in alcune circostanze determinate richiama in modo particolarmente pressante un’interpretazione causale»[38].

É possibile formulare un’ipotesi intorno alla natura di queste circostanze: può darsi che l’immediatezza con la quale a volte si formano i giudizi causali a proposito di un evento qualitativo sia favorita fortemente dal fatto che tale evento - in quella specifica circostanza - si trova inserito all’interno di una sequenza causale meccanica (dunque fenomenicamente esplicita), oppure all’interno di una «sequenza di attività», cioè nel corso di una nostra azione.

Vi è un esempio molto chiaro, in questo senso: se realizziamo la situazione paradigmatica dell’effetto «lancio», e nell’attimo dell’urto viene prodotto un rumore, si sente quest’ultimo come chiaramente causato dall’urto.

L’evento qualitativo (il rumore) è «ingiobato» nella sequenza causale, e partecipa del suo carattere causale.

In base a quest’ipotesi, innumerevoli connessioni di causalità qualitativa, che ordinariamente si producono mentre stiamo facendo qualcosa, troverebbero la loro spiegazione: il suono emesso da uno strumento a fiato mentre ci soffiamo dentro, lo squillo di un campanello quando premiamo un bottone, l’improvviso inizio del tic-tac nell’orologio mentre stiamo effettuando la carica del meccanismo, ecc.; in tutte queste circostanze noi siamo protagonisti di «esperienze d’attività», durante le quali ha luogo l’evento qualitativo. Così esso risulta, assimilato, «inglobato» in una struttura caratterizzata dalla causalità.

Nello stesso tempo - se tale ipotesi è corretta - avremmo una spiegazione del fatto che i nostri giudizi causali spesso connettono spontaneamente certi eventi qualitativi tra loro, o eventi qualitativi con eventi meccanici, anche senza che siano «inglobati» dentro a strutture fenomenicamente esplicite. Possiamo ragionare così: se questi eventi sono stati incontrati più volte nel corso di rapporti causali chiaramente avvertibili, o nel corso di «esperienze d’attività», essi potranno in seguito entrare in relazione tra loro più facilmente anche al di fuori di tali contesti. Questo fatto giustifica - almeno sotto un certo profilo la tesi di Hume secondo la quale nella formazione dei giudizi causali interviene l’abitudine e l’esperienza pregressa.

Infine, si comprenderebbe come mai gli esempi di relazione causale che più facilmente vengono in mente si rivelino, ad un esame attento, per nulla più che successioni o concomitanze di fatti fenomenicamente indipendenti. Diventa assai facile arrivare alle conclusioni di Hume, e diventa chiaro come mai tanti altri le abbiano accettate se si considera che:

a) le unioni spazio-temporali tra mutamenti qualitativi sono proprio le più frequenti e rilevanti per l’esperienza comune; e

b) l’idea di andarle ad analizzare in contesti di «attività» o di «causalità» più ampi non ci sfiora nemmeno; volendo ragionare «scientificamente», si finisce coll’andarle ad analizzare allo stato puro, e si trova ciò che ha trovato Hume; tolto il caso delle palle da biliardo, negli altri egli aveva ragione: non si «vede» che il sole causa le ombre, non si «avverte» che il fuoco provoca il bollore, ecc.

 

§ 15. Nuove ricerche nel territorio della causalità.

 

L’ipotesi è molto convincente, ed apre la possibilità ad ulteriori controlli sperimentali.

Tuttavia, non fa altro che approfondire ancora di più la divisione netta che la teoria di Michotte traccia tra i fatti fenomenicamente causali e quelli fenomenicamente non causali.

Nel libro «La perception de la causalité» non è offerto alcuno spazio alla possibilità di ammettere sfumature tra la classe dei fatti causali meccanici e la classe dei fatti indipendenti. Come il lettore ricorderà, Michotte ha preso posizione assai chiaramente, su questo punto. La teoria predice che non si potranno trovare casi di causalità fuori dell’ambito dei fenomeni del lancio e delle trazioni o spingimenti.

L’atteggiamento categorico di Michotte - qualunque sia il giudizio che noi vogliamo dare sulla sua fondatezza scientifica - ha prodotto fortunate conseguenze nel campo delle ricerche sperimentali. Una schiera di ricercatori si è messa al lavoro, un po’ in tutto il mondo, alla caccia di situazioni in cui non ricorrono le condizioni giudicate da Michotte necessarie per la realizzazione di rapporti causali, ed il campo di esplorazione si è allargato fino a coinvolgere praticamente tutto il problema dell’espressività dei movimenti.

Abbiamo già descritto le ricerche di Kanizsa e Metelli sull’attrazione e il lancio inverso. Quelle ricerche hanno dimostrato che almeno una delle condizioni prescritte da Michotte non è necessaria: l’identità del verso dei movimenti di A e B. Kanizsa e Metelli presentarono alcuni dei loro esperimenti già al Congresso di Milano nel 1956.

Nel 1957 Grüber, Fink e Damm [39] trovarono, con una serie di esperimenti, che gli osservatori impiegano espressioni causali nel descrivere accadimenti anche assai diversi, ben lontani dalle regole di Michotte. La loro tecnica sperimentale era così congegnata: una sbarra con una estremità incernierata ad un punto fisso era tenuta in posizione orizzontale da un’elettrocalamita applicata all’altra estremità, ma invisibile agli osservatori. Ciò che invece gli osservatori potevano vedere, era il fatto che questa estremità della sbarra poggiava su di un supporto; quindi, la posizione orizzontale della sbarra risultava visibilmente come dovuta alla presenza di questo supporto.

Lo sperimentatore poteva comandare due operazioni: togliere il supporto visibile, e interrompere il circuito dell’elettrocalamita. Come è ovvio, la prima. di queste operazioni senza la seconda non poteva spostare la sbarra dalla sua posizione. Gli esperimenti venivano realizzati compiendo le due operazioni insieme, e variando l’intervallo temporale intercorrente tra il momento in cui il supporto era sottratto e quello in cui l’elettrocalamita, non agendo più, lasciava cadere la sbarra.

Gli osservatori utilizzati nel corso di questa ricerca erano al corrente del funzionamento del dispositivo, e furono divisi in due gruppi: il primo gruppo era avvertito del fatto che a volte «può sembrare» che la caduta della sbarra dipenda dalla sottrazione del supporto, e dovevano riferire nel caso che avessero avuto quest’impressione; il secondo gruppo doveva semplicemente decidere se la sbarra casca perché viene a mancare il supporto, oppure perché l’elettrocalamita stacca. I risultati ottenuti dai due gruppi furono strettamente simili: tanto in un caso che nell’altro l’impressione della caduta causata dalla sottrazione del supporto coincideva con intervalli temporali della stessa grandezza.

Se anche in questo caso il rapporto causale si instaura veramente sul piano percettivo (e sia pure a causa dell’esperienza passata) e le risposte degli osservatori non sono dovute semplicemente all’attesa di ciò che deve accadere (come ha supposto Michotte) [40] in circostanze simili, si potrebbe concludere che anche l’«energia potenziale» esiste come dato fenomenico, alla stessa stregua dell’ «inerzia», dell’ «urto», ecc. È da notare, comunque, che lo psicologo giapponese Akio Ono ha ottenuto risultati analoghi utilizzando una leva la quale, anziché cadere dopo la sottrazione del supporto, sale verso l’alto; stato di cose, questo, che potrebbe corrispondere solo ad un’esistenza amodale di un contrappeso collocato fuori campo[41].

Fig. 117

Nel 1958 padre Gemelli e il dott. Cappellini [42] hanno realizzato un esperimento destinato ad appurare se esiste la possibilità che un oggetto immobile attragga a sé un oggetto in movimento. Un disco nero era collocato su di un grande rettangolo bianco, nell’angolo inferiore destro. Un secondo disco nero, all’inizio della presentazione, si trovava collocato nell’angolo superiore sinistro dello stesso rettangolo; questo secondo disco, a un certo momento, entrava in movimento lungo una traiettoria orizzontale, procedendo verso destra. A metà strada, compiva a un tratto una deviazione, secondo una curva parabolica, aumentando di velocità ed immobilizzandosi accanto al disco immobile. La posizione di partenza del disco mobile e quella del disco fermo venivano variate in diversi gruppi di esperimenti.

Spesso gli osservatori dicevano di vedere la brusca deviazione come dovuta alla presenza del disco fermo, il quale aveva «attratto» l’altro non appena era entrato nella sua zona d’«influenza» (37,5%). Kanizsa e Metelli, nella ricerca già menzionata, hanno ripetuto una di queste prove con esiti anche migliori (65%). Nel lavoro di Gemelli e Cappellini viene sottolineato il fatto che tale attrazione poteva essere avvertita anche come «caduta sull’oggetto immobile», nel caso in cui l’oggetto mobile avesse iniziato il suo percorso da un punto più alto di quello occupato dalla «calamita»; la deviazione dal basso verso l’alto, invece, poteva apparire come quella propria li un oggetto «calamitato» da un altro; infine - secondo le osservazioni di Kanizsa e Metelli - la deviazione può anche essere vista come un movimento intenzionale: «in altre parole, piega verso A ed aumenta la sua velocità per il fatto che cerca di raggiungere A» [42]. Questa ipotesi interpretativa può essere messa in relazione con il fatto che l’aumento della velocità non giova certo a conferire carattere di «passività» al moimento dell’oggetto attirato. L’aumento di velocità è un fattore d’attività, e se questo carattere espressivo è accompagnato dall’andare verso una meta definita, è abbastanza ovvio che la situazione nel complesso debba apparire come un itinerario «intenzionalmente» abbandonato all’improvviso per quella meta.

Un analogo problema - mutamento di stato cinetico «intenzionale» o «causato»? - compare in una ricerca di W. J. M. Levelt, pubblicata nel 1962[44], sulla percezione dei movimenti frenati. Levelt ha lavorato con un certo numero di situazioni così congegnate: lo sfondo contro cui si muove un oggetto rosso da sinistra a destra è un rettangolo diviso in due parti, bianco a sinistra e nero a destra. L’oggetto rosso viaggia inizialmente con la velocità di 31 cm/sec., ma appena tocca la parte nera dello sfondo assume una velocità di 4,7 cm/sec.; mantenendo questa velocità, si inoltra nella zona nera fino a sparire dallo schermo, oltre il limite di destra. Altre volte l’oggetto rosso rallenta prima di toccare il limite che divide la zona bianca da quella nera; altre volte ancora, rallenta dopo averlo oltrepassato, o anche solo un attimo prima di uscire dal campo. Pochi osservatori descrivono queste situazioni in termini causali («l’oggetto è frenato dal mezzo») (14%), e il fatto veramente strano è che la frequenza di risposte causali muta assai di poco nelle varie situazioni. In tutti i casi prevalgono le risposte di tipo «intenzionale»: l’oggetto rosso ha rallentato di sua volontà. Parrebbe che il passaggio da uno sfondo di un colore a quello di colore diverso non svolga alcun ruolo nel determinare un carattere specifico nel mutamento di velocità dell’oggetto.

Oppure: lo schermo è diviso in tre parti; l’oggetto rosso parte da una zona bianca, entra in una zona nera perdendo istantaneamente di velocità (nello stesso modo del caso precedente), l’attraversa tutta, ed entra in una successiva zona bianca senza modificare ulteriormente il suo stato cinetico. Qui si ha il 34% di risposte causali. Se invece all’uscita dalla zona nera il mobile riprende la velocità che aveva all’inizio, la frequenza delle risposte causali sale al 58%.

Ancora: l’oggetto svolge il suo movimento sempre contro uno sfondo bianco ininterrotto, marciando in tre successive tappe a velocità diversa, rapido-lento-rapido. La fase lenta viene assai raramente descritta come il risultato di una azione frenante da parte di qualche forza esterna (20%): poco più che nei casi in cui lo sfondo è diviso in due parti diversamente colorate.

Tutte queste situazioni, ed altre analoghe studiate in modo da imitare le normali condizioni in cui ci succede di assistere ad azioni di frenaggio, sono - secondo Levelt - nulla più che occorrenze adatte a suggerire agli osservatori una certa interpretazione per le modificazioni della velocità del mobile. Se si trattasse di «percezioni di una azione frenante», argomenta Levelt, modificando le condizioni di presentazione dovremmo trovarci di fronte a effettive modificazioni dei «contenuti» delle descrizioni: nei casi studiati da Michotte ad es., ogni volta che una delle condizioni importanti viene alterata, muta tutta la struttura dell’evento; cioè passiamo dal «lancio» allo «sganciamento», dalla «trazione» alla «spinta» ecc. Qui no. Solo che l’interpretazione del «freno» si affaccia più o meno frequentemente a seconda delle circostanze. Passando da un caso all’altro, ciò che cambia è la frequenza delle risposte causali, non la loro natura.

Naturalmente, resta da stabilire se Levelt ha modificato realmente le condizioni importanti, quelle decisive per la struttura. Stando ad un recente studio di Minguzzi [45] parrebbe che non è cosi. Ad esempio, nel caso in cui il mobile passa attraverso tre zone (bianco, grigio, bianco) modificando ogni volta la sua velocità (veloce, lento, veloce), l’evidenza dell’effetto «freno» dipende in modo decisivo dalla larghezza della zona centrale. Minguzzi ha lavorato con tre larghezze differenti: cm 8, 26, cm 27,60 e cm 55,20. Ebbene: nel primo caso la penetrazione del mobile nella banda critica appare nettamente come «frenata»; molto meno nel secondo caso e ben poco nel terzo. Ciò fa pensare alla presenza di un «raggio d’azione» inteso nel senso di Michotte, fondato su di uno specifico rapporto intercorrente tra le differenze di velocità nelle tre fasi e l’ampiezza della banda centrale, in cui il mobile rallenta. Dopo l’attimo della penetrazione, l’impressione di «freno» dura solo per qualche momento, e si disperde se il mobile deve percorrere uno spazio ancora abbastanza grande alla stessa velocità. È chiaro che l’esistenza di un «raggio d’azione» c’è solo nel caso in cui il fenomeno sia autenticamente percettivo; e le circostanze addotte da Mingizzi ci sembrano, in questo senso, decisive.

Un’altra ricerca in cui viene messa in luce l’esistenza di un rapporto causale fenomenico realizzantesi in condizioni diverse da quelle indicate da Michotte come uniche possibili, è dovuta a L. Houssiadas[46], ed è stata pubblicata nel 1964. Si tratta di un rapporto causale intercorrente tra un oggetto elastico compresso ed un oggetto rigido mobile. Le situazioni studiate sono di due tipi: 1) su di uno schermo vi è, a sinistra, un rettangolo abbastanza allungato disposto orizzontalmente; verso destra sullo stesso schermo - vi è un quadrato di lato uguale all’altezza del rettangolo ora menzionato. Il quadrato parte verso sinistra, raggiunge il rettangolo e procede ancora per un breve tratto rallentando, mentre il rettangolo si accorcia seguendo il suo movimento, come cedendogli il posto; immediatamente il quadrato riparte verso destra, cioè verso il luogo donde era venuto, mentre il rettangolo si riassetta nella sua posizione primitiva.

Oppure: 2) alla sinistra dello schermo c’è il rettangolo nella stessa posizione della situazione 1), e alla sua destra, accanto, il quadrato. Ad un tratto, il quadrato compie un lieve spostamento verso sinistra, mentre il rettangolo gli cede il posto necessario a quest’operazione; ma quasi subito torna indietro, verso destra, allontanandosi dal rettangolo che si riassesta nella sua posizione e grandezza primitiva.

In tutti e due i casi, la struttura dell’evento complessivo può essere descritta così: il quadrato preme contro un oggetto elastico, il quale cede per un attimo, ma subito riassumendo la sua posizione iniziale (cioè reagendo alla deformazione subita) lancia l’oggetto lontano da sé. La differenza tra la situazione 1) e la situazione 2) sta in questo: nel primo caso l’oggetto mobile arriva da lontano e rimbalza sul corpo elastico; nel secondo, preme sul corpo elastico e ne viene respinto. In tutte e due le situazioni il rapporto causale è evidente; e nella seconda, a dispetto del fatto che non vi è «priorità di movimento» da parte di alcuno dei due oggetti. Houssidas ha variato queste due situazioni frapponendo in mezzo ai due corpi - quello mobile e quello elastico - spazi vuoti progressivamente sempre più grandi, da mm 1,5 a mm 90. L’impressione di compressione seguita dalla risposta elastica è ottima quando questo spazio vuoto è di 5-10 mm (100% di risposte causali), ma buonissima anche quando i due corpi sono in contatto (91%). Diminuisce progressivamente d’intensità quando lo spazio vuoto occupa più di 15-20 mm. Minguzzi, nella già citata ricerca, ha trovato che un’impressione analoga si ottiene anche quando è il corpo mobile a deformarsi in seguito all’urto, mentre l’oggetto urtato resta rigido (pag. 180): «il mobile si schiaccia conro l’oggetto per la violenza dell’urto».

 

§ 16. Discussioni intorno alle tesi di Michotte. Causalità ed espressività.

 

Le ricerche compiute dopo la pubblicazione del libro di Michotte e riferite fino a questo punto rappresentano una sola delle vie battute dai ricercatori: la caccia a nuovi paradigmi di esperienze causali in condizioni non riconducibili (almeno direttamente) a quelle che Michotte ha voluto indicare come necessarie e sufficienti. Non ci soffermiamo a descrivere tutto un gruppo di ricerche destinate ad appurare con metodi quantitativi rigorosi, con nuovi accorgimenti tecnici e con soggetti di diverso tipo (bambini, adulti esperti nelle ricerche o del tutto ignari del significato che possono avere, dotati di un vocabolario ricco ed espressivo oppure povero, ecc.) i molteplici aspetti ulteriormente analizzabili presenti nelle esperienze classiche di Michotte. Queste ricerche hanno un significato ben preciso per chi è direttamente impegnato nel lavoro sperimentale, e sono indispensabili per qualunque ulteriore progresso: esse tuttavia approfondiscono, non allargano il campo della ricerca; contributi in questo senso sono dovuti al lavoro di R. A. Yela, che ha misurato i rapporti tra spazi percorsi, velocità e tempi nei casi fondamentali di Michotte, pervenendo ad una precisa formula che esprime il «raggio d’azione»[47]; di V. Olum [48] e di Piaget e Lambercier [49] che hanno studiato la percezione della causalità nei bambini; di Piaget e Maroun che l’hanno studiata in campo tattile[50]; di P. F. Powelsand[51], che ha studiato gli effetti dell’addestramento nella percezione dei rapporti causali; di D. G. Boyle, che ha studiato particolarmente a fondo le condizioni spazio-temporali e cinetiche dell’effetto «sganciamento»[52]; di Thinès, che ha pubblicato un volume di ricerche sullo «spingimento» e la «trazione»[52], e di G.Crabbè, che ha studiato una complessa serie di rapporti causali risultanti dalla combinazione delle condizioni del «lancio» con quelle dello «spingimento-trazione»[54]; e di altri ricercatori che a tutt’oggi sono impegnati a chiarire ulteriormente i problemi della psicofisica del rapporto causale. Particolarmente originali, in questo filone di ricerche, due studi di T. Natsoulas [55] volti ad approfondire uno dei più interessanti suggerimenti di Michotte, secondo il quale l’analisi fenomenologica della causalità conduce a scoprire le prefigurazioni fenomenologiche dei concetti fisici in essa implicati (cfr. pag. 368 e segg.); Natsoulas ha studiato l’urto causale in funzione delle velocità dei mobili e del «peso apparente» di essi, al fine di scoprire le connessioni fenomenologiche tra il momento inerziale e l’energia cinetica impiegata. Tutti questi contributi allo studio delle condizioni della causalità sono stati ripresi, sintetizzati e ridiscussi da Geneviève Crabbé in un recente volume, destinato a fare il punto allo stato delle cose, oggi - su tredici anni di lavoro in questo campo. Rimandiamo ad esso [56] i lettori che volessero essere informati con chiarezza intorno agli argomenti non trattati in questo capitolo.

Ci siamo imposti questa limitazione per poter arrivare direttamente, dalle ricerche su riferite, ad un grosso problema che esse pongono sui piani più generali della teoria.

Sulla base del principio dell’ampliamento del moto, come il lettore ricorderà (vedi pag. 365), Michotte ha operato un taglio netto tra le situazioni causali e le situazioni non causali: se non ricorrono le condizioni per un ampliamento del moto, gli eventi sono fenomenicamente indipendenti. Il fatto che a volte siamo indotti a descriverli come connessioni causali dipende interamente dall’estensione del campo d’applicazione della nozione di causalità: questo campo costituisce una classe assai vasta di eventi, che ha come sottoclasse il campionario relativamente ristretto delle connessioni dovute all’ampliamento del moto, unici veri esempi di causalità immediatamente data. Michotte stesso, come abbiamo già detto, fornisce un’ipotesi per spiegare come mai molte e diverse combinazioni tra eventi possano venire spontaneamente assimilate allo schema causa-effetto.

Ma l’esistenza di fatti come quelli scopertsi da Grüber et alii, Kanizsa e Metelli, Gemelli, Levelt (che tuttavia nega, proprio in base alla teoria di Michotte, trattarsi di un’autentica connessione causale), Houssiadas ecc., obbliga a riprendere la discussione.

Michotte ha commentato tali ricerche nel modo seguente[57]. Nella costruzione in laboratorio di situazioni causali è possibile produrre casi paradossali, e casi non paradossali. I primi hanno importanza perché dimostrano che la percezione della causalità non dipende dall’esperienza acquisita, ma da fattori d’organizzazione analoghi a quelli che regolano la costituzione delle gestalt (unità, forma, spazio, identità, ecc.). I secondi hanno un’importanza forse ancor più decisiva: dal momento che non sono in contrasto con le esperienze d’ogni giorno, essi servono a spiegare l’esistenza di strutture causali nell’esperienza comune.

In breve: le situazioni paradossali consentono di enucleare le leggi del fenomeno; e le situazioni non paradossali - in quanto regolate da quelle stesse leggi - danno ragione della fenomenologia degli accadimenti comunemente constatati.

Lavorando con la prima classe di fenomeni abbiamo la garanzia che la loro struttura non è dovuta all’esperienza pregressa; ma lavorando sui fenomeni appartenenti all’altra classe questa garanzia non c’è più: resta sempre possibile l’ipotesi che la loro struttura sia - in varia misura, di caso in caso - legata a processi di apprendimento. «È dunque possibile a priori che le risposte causali siano provocate dalla somiglianza con altre situazioni, anche nel caso in cui non ci sia alcuna struttura causale percettiva in gioco, e in cui le risposte siano semplicemente dettate da conoscenze acquisite nel campo della fisica, spontanea o scientifica che essa sia»[58]. Dunque, facendo gli esperimenti, non basta constatare che determinate presentazioni danno luogo a risposte causali più o meno frequenti. Questo non è ancora un indice del fatto che siamo in presenza di una connessione causale fenomenicamente esplicita.

Può succedere, come nel caso di Levelt, che si tratti di una interpretazione estremamente spontanea, la quale, però, per il fatto stesso di indicare la causa in qualche fatto che non è percettivamente presente, mostra d’essere un interpretazione, non un dato immediato[59].

In nuce, ciò si realizza già nel caso classico dello sganciamento: l’urto da parte di A non provoca il salto di B, ma gli dà solo l’occasione per realizzarsi: il balzo in avanti ha senz’altro una causa diversa, da cui «evidentemente dipende, in un modo o nell’altro, senza che sia possibile precisarla»[60]. In casi come questo «i soggetti provano spesso il bisogno di cercare e d’immaginare una spiegazione, dal momento che questa non si presenta loro in modo immediato»[61].

Insomma, se la causa non è data, bisogna inventarla; e può essere data solo se vi è ampliamento del moto, perché li si vede il movimento che provoca un altro movimento.

Naturalmente, l’analisi viene resa difficile dal fatto che l’uso quotidiano del linguaggio tende a confondere la nozione di «causa» con quella di «condizione», come abbiamo spiegato in più punti del capitolo precedente. Ma è giusto, a questo punto, chiedersi «quale è la ragione psicologica in virtù della quale ciò che non è altro che una semplice condizione logica possa apparire come una 'influenza causale'»[62]. Proprio in base all’esistenza di questo problema speciale si possono giustificare ricerche come quelle di Grüber, Kanizsa e Metelli, Levelt, ecc.

Questi autori - sostiene Michotte - hanno realizzato situazioni in cui la connessione causale «pensata» affiora in modo particolarmente spontaneo, in quanto tra l’antecedente ed il conseguente sussistono modi di integrazione ovvii, «sensati» potremmo dire: danno occasione all’immediato realizzarsi di «rapporti intelligibili» nel senso di Köhler[63], illustrato nel capitolo V di questo volume. Non è escluso che a volte tali rapporti abbiano un’origine empirica.

Quando tra le varie fasi di un evento hanno spontaneamente luogo integrazioni di questo tipo, siamo di fronte ad esempi di «dipendenze funzionali», e probabilmente esse sono legate a precise condizioni di stimolazione, a leggi spazio-temporali e cinetiche ecc., oltre che alla preparazione dei soggetti, alla loro esperienza e così via.

In questo senso, formano una classe a parte, non confondibile né con quella degli eventi autonomi, indipendenti, connessi da pure coincidenze spaziali o temporali, nè con quella delle vere connessioni causali fenomeniche.

Per maggiore chiarezza, i rapporti fra queste tre classi secondo Michotte possono essere schematizzati così:

Questo commento di Michotte è molto bene impostato e ricco di suggestive osservazioni. Tuttavia, è difficile credere che esso possa chiudere definitivamente la questione.

Innanzitutto, uno dei suoi argomenti sembra svolgersi in modo circolare.

Egli afferma che è possibile ottenere, nel corso degli esperimenti, risposte causali in rapporto a situazioni in cui non appare alcuna connessione causale fenomenicamente esplicita. E ciò può essere benissimo. Le conoscenze di fisica che ciascuno ha, elementari o no che siano, possono suggerire interpretazioni in cui il concetto di causa - in una forma o nell’altra - compare.

Ma come facciamo a sapere se in una situazione data c’è o non c’è un rapporto causale immediatamente avvertibile? Dobbiamo escludere che esso possa essere fissato in riferimento alle descrizioni, proprio per il motivo che ora abbiamo detto. Dunque, deve riguardare la struttura delle configurazioni. Qui, la risposta di Michotte è del tutto esplicita: se c’è ampliamento del moto, c’è causalità fenomenica.

Ma il problema è proprio quello di vedere se esistono relazioni causali percepibili al di fuori di quelle che si possono dedurre dalla premessa dell’ampliamento del moto. Non è detto che debba valere la relazione opposta: se non c’è ampliamento del moto non c’è causalità fenomenica.

In secondo luogo - come osserva Minguzzi nel lavoro già citato - Michotte tende a identificare come relazioni causali «pensate», non realmente «avvertite», tutte quelle in cui la descrizione degli osservatori menziona come causa qualcosa di non immediatamente dato nella situazione stessa. Ad es., l’impressione di movimento «frenato» non può essere una genuina impressione, perché non è visibilmente presente l’oggetto che frena. Scrive Minguzzi: «secondo questa posizione, perché si abbia una certa impressione occorre un certo stimolo; se manca questo, l’impressione non può essere un fatto percettivo. È un atteggiamento non dissimile da quello di Hume, che sosteneva essere impossibile vedere il passaggio dell’energia dalla palla urtante a quella urtata. Lo strano è che proprio Michotte ha dimostrato sperimentalmente quanto quell’analisi fosse infondata; ma d’altra parte, con i ragionamenti fatti a proposito dell’«attrazione» e del «freno», mi sembra che egli cada nella stessa fallacia»[64].

Inoltre - ci sembra di poter aggiungere - una causa «assente» nel regno degli stimoli può essere - come avviene appunto nel caso del movimento frenato - direttamente presente quale proprietà fenomenica del campo: molti soggetti di Minguzzi hanno visto, nel caso in cui il mobile passando dal campo bianco al campo grigio rallenta, che la causa del rallentamento è la «viscosità», la «densità» del mezzo in cui il mobile penetra. E questo è un carattere percettivamente reale, quindi non «pensato». In questo stesso senso può darsi che anche la «gravità» possa., a determinate condizioni, essere presente nel campo attuale dell’esperienza (ad es. nel caso degli oggetti di Grüber et alii), oppure il «campo magnetico» (vedi Gemelli e Cappellini), o la forza elastica ecc.

Dobbiamo a Minguzzi anche un’altra obbiezione alla distinzione operata da Michotte tra eventi «causali» ed eventi di «dipendenza funzionale».

Perché si possa dire di aver trovato un caso di causalità vera e propria, secondo Michotte, devono ricorrere le seguenti condizioni:

«a) esiste una configurazione cinetica davanti alla quale il 100% dei soggetti prova la stessa impressione;

b) questa configurazione ha caratteristiche strutturali ben individuate (partenza di B dopo il contatto con A; velocità di A maggiore di quella di B);

c) il fenomeno ha una durata limitata («rayon d’action»);

d) le caratteristiche fenomeniche del movimento di A sono diverse da quelle del movimento di B (distinzione tra movimento e spostamento)» [65]

Orbene: Minguzzi, lavorando con situazioni derivate da quelle di Levelt, ha trovato che:

a) Nel caso in cui il mobile passa, procedendo da sinistra a destra, da un campo bianco ad un campo grigio ad esso adiacente, rallentando bruscamente al confine tra essi ed arrestandosi definitivamente all’interno del campo grigio, il 100% degli osservatori parla di «attrito», di «frenaggio», di «viscosità», come cause del rallentamento.

Lo stesso accade quando il mobile, compiendo un analogo movimento, passa attraverso una banda grigia compresa tra due campi bianchi, e rallenta fortemente nell’attraversamento[66].

b) Il rallentamento deve comportare una differenza di velocità notevole (da 1 a 1,/7), il mutamento deve essere istantaneo e deve accadere in coincidenza con il passaggio da. una zona all’altra.

c) Esiste un limite spazio-temporale all’impressione di «movimento frenato», al di là del quale il movimento torna ad essere «naturale».

d) La caratteristica della fase lenta del movimento rispetto alla fase più veloce è appunto quella di un rallentamento «forzato» : un moto «frenato» è qualitativamente diverso da un moto semplicemente lento o rallentato.

In base a questi dati risulta impossibile discriminare - almeno sul terreno dell’analisi fenomenologica - tali situazioni da quelle classiche di Michotte. E se la distinzione non può essere compiuta né su questo terreno, né in base all’analisi del linguaggio impiegato nel corso delle descrizioni (per le ragioni esposte prima), né su quello delle condizioni di stimolazione (come è assolutamente ovvio), non si vede più in che altro modo possa venir tracciata. È molto probabile - inoltre - che una analisi attenta compiuta su altre classi di fenomeni, diversi da questi di Levelt (per esempio: sui fatti scoperti da Grüber, da Kanizsa e Metelli, da Houssiades ecc.) possa condurre alle medesime conclusioni.

Del resto, se è vero che non esiste un taglio netto tra situazioni di causazione vera e propria e situazioni in cui compaiono eventi percettivamente indipendenti, giudicati più o meno come membri di una relazione causale inferibile, ciò torna a tutto vantaggio per una teoria generale dell’espressività.

Sarà bene ricordare che lo stesso Michotte, fin dal 1950, ha realizzato una interessante analisi delle caratteristiche espressive dei movimenti compiuti dai mobili A e B nelle situazioni paradigmatiche della connessione causale (lancio, spingimento), in condizioni compatibili o anche non compatibili con quelle dell’ampliamento del moto, e giungendo alla conclusione che tali caratteristiche espressive sono immediate, non inferite, non generate dalla mediazione del giudizio; la maggior parte dei casi citati per sostenere questa tesi risultano articolati proprio in forma di connessioni funzionali tra due oggetti[67].

Ad esempio: A si accosta a B. Può farlo con un movimento rapido, o con un movimento lento. Nel primo caso abbiamo a che fare con una collisione violenta, dopo la quale i due oggetti restano come fusi insieme. Ma nel secondo caso A si avvicina «gentilmente» a B e si unisce con lui.

Oppure, se B si scosta dopo essere stato toccato: nel caso in cui la velocità di B è molto maggiore di quella di A, B «vola via»; e vola via perché ha paura. Ma se la velocità di B è minore di quella di A, B appare colpito da A, e indietreggia con ira. Infine, se A e B stanno accanto per un tempo abbastanza lungo (dopo l’arrivo di A e prima della partenza di B) , è come se si fermassero a complottare per qualche momento. Nelle situazioni di spingimento, quando i movimenti sono assai lenti, la seconda fase, in cui A e B procedono insieme, è vista come una passeggiata amichevole di A e B. Se c’è una pausa al momento dell’incontro, essi decidono di andarsene insieme, ecc.

Recentemente, Kanizsa e Vicario hanno allargato questo tipo di indagini, compiendo una esauriente analisi di un movimento «reattivo» [68] del mobile B nei confronti di A.

Ad es.: «All’inizio, A e B sono fermi in un campo per il resto omogeneo, a 50 mm di distanza l’uno dall’altro... L’osservatore è seduto a 2 m dallo schermo, e gli spostamenti avvengono all’altezza dei suoi occhi. Dopo un secondo dalla comparsa dei due quadratini, A si mette in moto verso B alla velocità uniforme di 4 cm/sec., e prosegue nel suo spostamento finché non ha raggiunto una posizione che dista 5 mm dalla posizione iniziale di B. Qualche tempo prima, però, e precisamente 100 msec. prima, quando A è a 10 mm di distanza da B, e a 5 mm dal punto in cui poco dopo si arresterà, anche B si mette in moto nella stessa direzione e con lo stesso verso. B si sposta alla velocità uniforme di 36 cm/sec. e si arresta dopo aver percorso 40 mm»[69].

«Il rendimento percettivo di questa situazione stimolo è il seguente: il quadratino B non viene visto semplicemente spostarsi lungo la traiettoria con movimento «naturale», ma viene visto «fuggire da A», «saltare indietro», «scostarsi», «evitare con un salto il contatto con A», ecc. In altre parole, il movimento di B è vissuto come una reazione intenzionale all’avvicinarsi di A» [70].

Questo modo di apparire della situazione è strettamente legato a determinate condizioni di stimolazione: rapporti tra le velocità dei due mobili, grandezza temporale dell’anticipazione del moto di B sull’arrivo di A, distanza tra A e B al momento in cui comincia la «reazione» ecc. Ma, nella situazione ottimale, la struttura descritta è assolutamente evidente, sia per gli osservatori esperti che per quelli non pratici in questo tipo di ricerche, e tanto nel corso di presentazioni isolate che nel contesto di altre situazioni sperimentali più o meno analoghe.

Altri casi di «reazione» proposti dagli stessi Autori - forse più interessanti, ma meno adatti ad una analisi accurata delle condizioni, data la loro complessità, - sono i seguenti:

a) Su di uno schermo c’è, in basso a sinistra, un cerchio abbastanza grande; dall’angolo in alto a destra arriva un piccolo oggetto ovale, procedendo con velocità moderata. Quando il piccolo ovale giunge in prossimità del cerchio, da quest’ultimo esce di colpo una specie di protuberanza in direzione del nuovo arrivato, il quale torna indietro a gran velocità : cioè, «reagisce scappando».

b) Sullo schermo, in basso a sinistra, c’è una massa nera fornita di pseudopodi, tesi in direzione dell’angolo opposto. Di li, a un certo momento, viene il solito piccolo ovale e si approssima alle estremità degli pseudopodi. Allora la massa nera comincia ad agitarli, e l’oggetto «fugge».

c) Lo schermo è diviso in due parti da una sbarra verticale nera: «la zona di destra è più piccola di quella. di sinistra; al centro della sbarra c’è un’ «apertura». Nel campo ci sono anche due cerchietti neri disposti sulla stessa orizzontale (sulla quale si trova anche l’apertura), il primo aderente al bordo sinistro del quadro, il secondo aderente al bordo destro del medesimo. Il primo inizia a muoversi a velocità moderata lungo una traiettoria rettilinea verso l’apertura; non appena è giunto a poca distanza da essa, il secondo cerchietto si stacca dalla sua posizione e muove a grande velocità in direzione del primo, arrestandosi nelle vicinanze dell’apertura. A questo punto il primo cerchietto inverte il senso di marcia e si allontana a grande velocità, raggiungendo il punto dal quale era partito»[71]. Qui, il punto che tentava di entrare nella zona di destra è stato evidentemente «respinto», «fatto fuggire», dal punto che la occupava.

A partire da situazioni cosi, un ricercatore dotato di buona fantasia può procedere nelle direzioni più imprevedibili, alla caccia di movimenti espressivi. La vita quotidiana offre numerosi spunti adatti ad allargare il campo delle indagini, e in modo particolare la vita di relazione; ma a parte questa naturale fonte di nuove idee, la stessa analisi sistematica delle strutture espressive analizzate sperimentalmente è in grado di fornire indicazioni particolarmente interessanti. Infatti, spesso una piccola variante introdotta nel corso di una sperimentazione muta la struttura studiata in un’altra, che è dotata di nuovi caratteri espressivi. In teoria ciò permetterebbe di costruire una vera e propria «sistematica» dell’espressività, in cui i vari casi non sono semplicemente accostati o giustapposti, come in un campionario più o meno ordinato, ma derivati uno dall’altro mediante modificazioni progressive delle condizioni di stimolazione. Le difficoltà tecniche a procedere in questo senso, naturalmente, sono molto grosse; ma non è detto che un progetto simile non possa mai essere condotto in porto.

Una serie di indicazioni interessanti, in questo senso, sono date in alcune pagine del già citato studio di Kanizsa e Vicario[72].

Gli Autori propongono due schemi, uno per i movimenti considerati in se stessi, e un altro per la classificazione dei rapporti tra movimenti.

Il primo di essi traccia una distinzione fra tre gruppi di movimenti: i) i movimenti naturali: quelli connessi in qualche modo con la «caduta libera» : cioè la discesa lungo i piani inclinati, le oscillazioni dei pendoli in date condizioni, il moto della ruota, ecc. Alcuni di questi movimenti sono già stati studiati[73]; ii) movimenti passivi: questi hanno luogo in situazioni di causalità meccanica: l’oggetto «lanciato», «trascinato», «attratto», ecc. Questi sono stati ampiamente studiati da Michotte, come abbiamo riferito; iii) i movimenti espressivi: cioè a) quelli fisiognomici, che permettono di riconoscere un oggetto, un animale o un comportamento tipico. Ad es., «il movimento di un corpo elastico, di una molla, della gelatina, delle onde, il movimento felino, vermiforme, serpentino, ameboide, lo strisciare, il nuotare, il barc oliare, il movimento tipico dell’ubriaco, del maldestro, il movimento furtivo, prepotente, cauto, curioso, compassato, sicuro»[74]; b) i movimenti che permettono, per così dire, di «leggere gli stati d’animo»: l’ira, il dolore, la simpatia, l’odio, la. sorpresa, la paura ecc. Alcuni di questi sono stati già visti, in condizioni specifiche, da Michotte, come abbiamo riferito poco fa; c) i movimenti «intenzionali» «attraverso i quali si esprime un’intenzione e sono perciò percepiti come movimenti di «qualcuno», voluti e diretti dall’interno»[75]; i movimenti compiuti da chi esplora un ambiente, ad esempio, rientrano in questa classe. In genere, però, «i movimenti intenzionali... sono vissuti come movimenti di qualcosa o di qualcuno in rapporto al movimento di qualcosa o di qualcun altro, sono cioè una fase di una struttura cinetica più complessa» [76] come nei casi di causalità meccanica; a differenza di questi, però, «qui non avviene.., alcun passaggio di energia cinetica, ma la causazione è vissuta come puramente psicologica». La «reazione intenzionale» studiata dagli stessi Autori fa parte appunto di questa categoria.

I rapporti tra movimenti, a loro volta, possono essere suddivisi in due grandi categorie:

i) quella dei movimenti indipendenti (tra i quali «il rapporto è puramente temporale e spaziale «, dato che essi «sono contigui nello spazio e nel tempo, ma fenomenicamente sono completamente privi di rapporto reciproco»[77]), i quali possono essere sia naturali che intenzionali;

ii) quella dei movimenti interdipendenti, come le varie forme di causalità meccanica studiate da Michotte, e come le varie forme di «reazioni intenzionali» : la fuga, il balzo (visti da Michotte), l’attesa (studiata da Minguzzi[76]), i diversi modi di «avvicinamento», ostile, affettuoso, ecc. (notate da Michotte).

I due schemi danno un quadro completo ed ordinato di tutti i caratteri espressivi del movimento finora studiati, inserendo tra essi, al posto che «logicamente» loro compete, quelli che potrebbero essere ulteriormente analizzati.

In molti casi è chiaramente visibile la «derivazione» di un caso dall’altro, per mezzo di una modifica apportata alla costellazione di stimoli (mutamento di velocità, mutamento di un rapporto tra velocità, introduzione di un nuovo oggetto nel campo, sottrazione di un oggetto, ecc.); in altri casi è abbastanza facile immaginare la situazione in cui tale derivazione potrebbe essere messa in luce (il moto «naturale» di un pendolo forse diventa «passivo» se alla fine di ogni oscillazione un oggetto appare colpirlo; ecc.).

In questo quadro, la causalità meccanica trova il suo posto come qualunque altro dei casi citati: allo stesso titolo di movimenti veramente «espressivi» come la fuga o l’aggressione, o di movimenti «inespressivi», come è il moto uniforme e indifferente di una ruota intorno al proprio asse.

 

§ 18. Sulla teoria generale della causalità. (Nota) .

 

Probabilmente il tema della percezione della causalità occuperà i ricercatori ancora per molto tempo: infatti, è ragionevole supporre che i casi finora studiati - pur nella loro notevole varietà - rappresentino solo una parte delle strutture causali fenomenicamente possibili; inoltre, le discussioni riferite nel corso degli ultimi due paragrafi fanno pensare che l’elaborazione di una teoria generale delle condizioni su cui le esperienze causali poggiano sarà suscettibile di continue revisioni, finché l’esplorazione del territorio dei fatti non avrà raggiunto limiti abbastanza avanzati.

Tuttavia, ci sembra possibile utilizzare il materiale già raccolto in rapporto a qualche aspetto del problema generale della causalità.

I fatti trovati da Michtte e quelli raccolti dai ricercatori che hanno battuto strade anche molto diverse dalla sua, fuori dalle restrizioni che la tesi dell’«ampliamento del moto» sembrava imporre, hanno in comune qualche tratto saliente.

1) Intanto, questi eventi causali sono eventi contrassegnati da una sensibile «unità interna».

2) In questa unità sono tuttavia sempre distinguibili almeno due fasi, o due momenti - la «causa» e l’ «effetto» -; non importa qui se il confine tra essi sia spaziale, temporale, o fondato sulla presenza di due oggetti, o se tutti questi fattori insieme concorrano a determinarlo (questo è un problema riguardante lo studio delle condizioni).

3) L’«unità interna» dell’evento è garantita da una «saldatura» tra la causa e l’effetto, che ha luogo in modi diversi nei diversi casi, ma sempre dentro i confini di un determinabile raggio d’azione (che varia con il variare delle condizioni).

4) Infine, la fase o il momento che si costituisce come effetto possiede caratteristiche tali, quali non avrebbe se fosse comparso nel campo dell’esperienza n o n saldato alla causa.

(i) Una prima considerazione può essere svolta, sulla base di questi quattro punti, in rapporto alle formulazioni logiche della connessione causale discusse nei primi paragrafi del Cap. V; ci sembra interessante sottolineare il seguente fatto: anche sul piano logico vi è

1) una struttura formale [79] «- - -»

2) con almeno due termini «A-B»

3) legati da una definita relazione «A (R) B»

4) che è asimmetrica «A ® B»

Tale relazione asimmetrica può poi essere scelta, a seconda del contesto in cui si svolge il discorso, tra le varie forme di implicazione discusse nei paragrafi 3 e 4 del Cap. V, o tra le espressioni del rapporto di condizione necessarie o sufficienti elaborate da Keynes[80].

(ii) Proviamo ad applicare, ora, un analogo tipo di schema allo stato di cose descritto da Laplace (cfr. Cap. V, § 1): «dobbiamo considerare lo stato presente dell’Universo come l’effetto del suo stato anteriore e come la causa del suo stato futuro. Un’Intelligenza che, per un dato istante, conoscesse...».

In un quadro così concepito possiamo immaginare innumerevoli eventi, i quali hanno un inizio, una durata, una fine, e si succedono l’uno all’altro; questi eventi hanno luogo in un ambiente spazio-temporale in cui le quantità di spazio e di tempo possono essere suddivise a piacere, e considerate come aggregati di punti o di istanti privi di estensione.

Consideriamo un evento il quale abbia un decorso uniforme, e che si svolga dall’istante t0 all’istante t1. Potrebbe trattarsi di un oggetto che a un tratto si mette in moto e dopo un poco si arresta, oppure di un oggetto che a un certo momento compare, dura, e infine istantaneamente si annienta.

Il decorso uniforme dell’evento può essere assunto come criterio della sua unità 1[ )] ; in questo senso, l’unità dell’evento è un «fatto».

Accanto a questo fatto, collochiamo ora alcune finzioni.

Dividiamo arbitrariamente il decorso dell’evento in due fasi, A e B, scegliendo in un momento qualunque tra t0 e t1 un istante t’, elemento di separazione. Questa finzione soddisfa l’esigenza 2).

L’esigenza 3) è soddisfatta. da questa stessa finzione: infatti, B viene immediatamente dopo A; basterà aggiungere che: 1) se t’ appartiene alla fase B, allora tutti gli istanti che lo precedono, regredendo fino a t0, definiscono l’ambito di svolgimento della fase A; e 2) se t’ appartiene alla fase A tutti gli istanti successivi ad esso, fino a t1, appartengono alla fase B. In questo modo vi è «contiguità» fra A e B. Mancando tale contiguità, verrebbe ad esistere una fase intermedia I fra A e B, e allora il rapporto causale non correrebbe più tra A e B, ma tra A e I, e successivamente tra I e B.

Naturalmente, l’intero evento può essere piccolissimo: A può ridursi ad uno stato momentaneo in corrispondenza di t’, purché in corrispondenza dell’istante successivo vi sia uno stato momentaneo in cui consiste B. Oppure, se vogliamo dire che a t’ corrisponde uno stato momentaneo che è «effetto», allora dovrà esserci un altro stato momentaneo in corrispondenza dell’istante precedente, A. Di conseguenza, l’evento a decorso uniforme che abbiamo considerato all’inizio e che supponiamo dotato di una certa durata, può essere suddiviso in una serie infinita di connessioni «causa-effetto». Proprio per questo possiamo praticare la resezione tra la fase A e la fase B in qualunque punto del suo percorso.

Ma occorre soddisfare ancora un’esigenza, quella enunciata in 4): dobbiamo supporre che la fase B sia legata alla fase A da una relazione asimmetrica fondata non solo sul fatto che vi e ne d o p o (e il flusso temporale è irreversibile), ma su qualche proprietà concernente la struttura dell’intero evento: ad esempio, qualcosa come «la fase B non sarebbe accaduta, o accaduta in quel modo, se non fosse stata preceduta dal completo svolgimento della fase A»; oppure: «è impossibile che abbia luogo la fase A senza che ad essa succeda la fase B «, ecc.

Anche questa è una finzione, che va ad aggiungersi alla divisione arbitraria in parti, e alla contiguità temporale di A con B.

(iii) Però, può darsi che operando tale sezione del flusso temporale avvenga che alcuni altri eventi in atto, articolati in due fasi discernibili, risultino tagliati nel preciso momento del passaggio dall’una all’altra.

Questa potrebbe essere una nuova e più restrittiva definizione per il rapporto causale.

Potremmo dire che non ogni stato istantaneo scelto nel corso di un evento è «causa» ed «effetto». Perché ci sia un rapporto di causalità, occorre che un evento risulti almeno sotto qualche profilo articolato in due momenti ben differenziati (un punto luminoso verde che a un tratto diventa blu; un oggetto animato da moto uniforme che improvvisamente muta di velocità, ecc.).

In questo caso non occorre fingere che l’evento sia diviso in due fasi, perché il confine che le divide non è fissato arbitrariamente, come nel caso discusso in (ii). La. condizione 2) non compare, dunque, come costrutto logico, ma come proprietà del fatto. Allo stesso modo, non sarà fittizia la condizione 3), visto che la fase B è legata alla fase A dalla relazione «immediatamente dopo» non più in forza di una definizione.

Qui, per poter dire che A è la causa di B, basta supporre che A e B costituiscano una unità in qualche modo definibile, (1), e che tra A e B intercorra una relazione asimmetrica diversa dalla pura successione, come quelle suggerite in (ii) (4).

In questo quadro vanno inserite le seguenti parole di Schopenhauer: «se subentra un nuovo stato di un oggetto reale o di parecchi oggetti reali, è necessario che un altro lo abbia preceduto, il quale è seguito dal nuovo regolarmente, cioè, ogni volta che il primo ricompaia. Un tal seguire si chiama un risultare ed il primo stato si chiama causa, il secondo effetto... Perciò la legge di causalità si trova esclusivamente in relazione coi mutamenti e sempre ha da fare solo con essi». E: «la legge di causalità si riferisce esclusivamente ai mutamenti, cioè all’apparire ed al cessare degli stati nel tempo»[81].

In breve:

- secondo Laplace, ad ogni istante del tempo corrisponde uno stato istantaneo dell’Universo che è effetto dello stato istantaneo precedente e causa dello stato istantaneo successivo, indipendentemente dalla natura e dalla struttura degli eventi che in quell’Universo hanno luogo; basta che tali eventi ci siano: la suddivisione in «cause» ed «effetti», come la dipendenza di questi da quelle, risulta dall’applicazione di alcuni costrutti logici agli stati momentanei in cui un dato evento può essere scomposto; tali costrutti stanno per le condizioni 2), 3) e 4);

- secondo Schopenhauer, il rapporto causa-effetto ha luogo solo nell’istante in corrispondenza del quale un evento passa da uno stato ad un altro; occorre però supporre che sempre tali stati siano stati di uno stesso evento (1), e che al mutamento di stato corrisponda un rapporto di dipendenza, oltre che di successione: l’applicazione di un costrutto logico è, in questo punto, indispensabile (4).

Alla luce di queste due definizioni, considerate insieme, risulta evidente che:

- l’unità di un evento può presentarsi come un fatto, o essere stabilita mediante una finzione (1)

- la dualità delle articolazioni può essere un fatto, o può essere stabilita mediante una finzione (2)

- la connessione spazio temporale, se l’unità e l’articolazione sono fatti, è un fatto; se è un fatto la sola unità, è una finzione (3);

- la relazione asimmetrica (dipendenza, ecc.) è sempre una finzione (4) .

Queste conclusioni ci sembrano inevitabili nel quadro di ogni teoria in cui il presente dell’esperienza venga identificato con un istante. Contro tali teorie la critica al concetto di causa sviluppata da Hume avrà sempre ragione: l’esperienza può contenere stati e successioni di stati, non rapporti del tipo 4), come il «potere» di uno stato su un altro, o la «dipendenza» di uno stato da un altro.

(v) Michotte, nell’opera sulla percezione della causalità, ha espresso il parere che Hume - se mai avesse avuto l’occasione di osservare i fatti studiati nell’Istituto di Lovanio - non avrebbe trovato in essi materia sufficiente per modificare il proprio punto di vista.

Ci sembra di poter dissentire da questa. opinione. Hume ha proposto ai suoi possibili obiettori la seguente sfida «noi non possiamo avere un’idea di potere o efficacia, a meno che uno non ci metta innanzi un esempio in cui quel potere lo si pereepisca nel suo attuarsi»[82]. Le situazioni sperimentali discusse nel Cap. VI sono altrettanti esempi del tipo richiesto da Hume: la dipendenza. di B da A, e cioè l’azione di A su B è appunto percepita nel suo attuarsi, nel momento in cui l’osservazione ha luogo.

Non bisogna. dimenticare che per Hume le sensazioni non sono rappresentazioni sensibili di una realtà trascendente, ma sono l’unica realtà con cui abbiamo a che fare, l’unico materiale di cui l’esperienza è fatta. Nell’ambito di questa impostazione non gli sarebbe stata possibile una risposta elusiva come la seguente: «c’è la sensazione di un rapporto causale, ma nessuno mi garantisce che gli oggetti rappresentati sensibilmente siano realmente (in sé) legati da un rapporto di connessione necessaria».

L’ «in sé» non c’è; e se si può dimostrare che tra gli eventi percettivi possono intercorrere relazioni di dipendenza, e che l’ «azione» di un evento sull’altro è fenomenicamente possibile, questa costituisce una risposta alla sfida di Hume, esattamente nei termini in cui egli ha voluto porre la questione.

(vi) In una realtà fatta di punti e di attimi è impossibile distinguere un rapporto causale da una pura successione. Se noi assumiamo uno schema simile per rappresentare la «nostra» realtà, il mondo delle nostre esperienze, le connessioni causali possono esservi introdotte solo con l’ausilio di opportune finzioni, cioè nella forma di costrutti logici.

Noi abbiamo, invece, la possibilità di distinguere una semplice successione da una connessione causale proprio perché l’esperienza reale del mondo che ci sta intorno non può essere rappresentata adeguatamente da uno schema costruito in tale modo.

Il fatto è questo: il presente dell’esperienza attuale non deve essere pensato come un attimo privo di spessore temporale, al modo di un punto matematico su una retta assunta per rappresentare il tempo, il quale, dividendo tale retta in due semirette, permette di definire la classe di punti corrispondenti al «futuro» rispetto a quella dei punti corrispondenti al «passato».

Il presente dell’esperienza (comunque venga rappresentato nei modelli teorici) ha già al suo interno una dimensione temporale[83].

Non importa, in questo luogo, stabilire quale sia la sua ampiezza, nè se tale ampiezza possa essere misurata in modo convincente. Per l’argomento che stiamo trattando è importante sottolineare solo che nell’ambito del presente attuale possono essere contenuti eventi dotati di articolazioni interne a volte ben discernibili e disposte in un ordine definito. Un arpeggio tratto dal pianoforte, una scala musicale eseguita rapidamente, una fitta scarica di colpi[84], sono successioni bene articolate di eventi nel corso delle quali c’è sempre un «prima» e un «dopo», pur essendo impossibile individuare in esse un elemento (una nota, un colpo) corrispondente al «presente», all’ «adesso». Nel loro decorso non vi è un’articolazione che sia fenomenicamente più «attuale» delle altre; men che meno ve n’è una rispetto alla quale la prossima articolazione possa dirsi «attesa» e la precedente «ricordata» - nel senso in cui, ascoltando il tempo centrale di un concerto, ricordiamo di aver sentito il primo tempo e ci aspettiamo il finale.

In circostanze come quelle ora dette emerge con particolare evidenza la temporalità interna del presente attuale.

Ma tale proprietà è rilevabile - benché meno appariscente - anche quando un unico brevissimo evento trova improvvisamente posto nell’ambito delle constatazioni dirette.

Invece di ascoltare un séguito di note, ascoltiamo un suono solo, isolato, brevissimo. Il battito di un orologio a pendolo o quello di un metronomo possono servire molto bene, in questo senso, purché si susseguano abbastanza ampiamente intervallati (ad es., più di i sec. e 1/2).

Un battito di questo tipo può esser considerato - sul piano fenomenologico - come un esempio concreto di «istante» privo di dimensioni temporali. Non c’è nulla di paradossale in questa affermazione: ascoltando il tac di un metronomo è impossibile distinguere il momento in cui esso ha inizio dal momento in cui cessa: questi due margini temporali sono indiscernibili, dunque non vi è un frammento di flusso temporale vissuto compreso fra essi - dunque, coincidono. Non ha alcuna importanza il fatto che qualunque tac, su una registrazione fisica, deve occupare un certo posto, cioè un certo tempo, dal momento che qui stiamo discutendo del tempo dell’esperienza diretta e non di quello degli orologi, o delle misurazioni[85].

Il tac è un esempio di ciò che significa la parola «attimo», o l’espressione «evento temporalmente inesteso», nel presente della percezione.

Un evento così giace sempre dentro il presente, e ne è interamente contenuto: se anche ascoltiamo i colpi del metronomo già sapendo il ritmo con cui si succedono, e quindi essendo in grado di attendere al varco il realizzarsi del prossimo tac, non ci accadrà mai di avvertire il suo ingresso nel presente - cioè di vivere in qualche forma fenomenicamente esplicita il suo passaggio attraverso il supposto confine che dovrebbe dividere il presente attuale dall’immediato futuro.

Quando il nuovo tac è avvertito, è già tutto intero all’interno della durata reale, adesso[86]: e ciò per gli stessi motivi che ci impediscono, ascoltando un arpeggio o una rapida scala di note, di dire quale tra le note sia più presente, o più attuale, rispetto alle altre.

In breve: un evento fenomenicamente istantaneo, mentre accade, è già accaduto.

(vii) In una rappresentazione dell’esperienza che sia schematizzata in configurazioni di punti e di istanti è impossibile distinguere la pura successione da altri tipi di connessione. Io posso mettermi idealmente in un dato istante, e non so che cosa succederà dopo. Il prossimo istante, se io sono in questo, è fuori dalla realtà.

Ma una finzione simile non può essere applicata all’ordine delle esperienze reali, in atto. Se la connessione tra due eventi successivi, immediatamente contigui o legati da intervalli brevissimi (vedi il raggio d’azione) , sta ora accadendo, mentre accade, essa è già accaduta.

La connessione, mentre ha luogo, è già strutturata all’interno del presente esperito; in questo senso, è già presente come una mera successione o come un rapporto in cui B dipende da A «nel suo attuarsi».

Gli eventi tutti indipendenti dello schema di Hume e quelli tutti dipendenti dello schema di Laplace sono proiezioni concettuali di queste due classi di connessioni esemplificabili nel mondo percepito. Possono costituirsi come due descrizioni del mondo transfenomenico: in questo senso noi, come psicologi, siamo liberi di collocare gli «stimoli», i «processi» ecc. nell’uno o nell’altro di tali quadri teorici.

Naturalmente, se accettiamo questo punto - che ci sembra inevitabile - non ha più alcuna consistenza il problema se la causalità fenomenica denoti o no, nelle circostanze in cui si realizza, la presenza di un analogo rapporto nel mondo fisico.

Infatti, o tutti gli eventi fisici sono pensati come causalmente connessi, e allora il realizzarsi di una connessione causale fenomenica non indica, negli stimoli fisici concomitanti (o nei processi), una proprietà speciale che non caratterizzi anche qualunque altro ordine di stimoli comunque costruito; oppure, tutti gli eventi fisici sono aggregati di stati in successione, e allora le connessioni causali esperite non mostrano alcuna proprietà sensatamente riferibile ad un mondo che non sia quello stesso della percezione.

 

 

Note


 

[1] A. Michotte, La causalité physique est-elle un donnée phénoménale? « Tijdsch. v. Phil. «, 1941, pag. 290.

[2] A. Michotte, La perception de la causalité, Lovanio, 1954; pag. 19. Nel testo di Michotte, al nostro termine «spingimento « corrisponde il termine «entrainement», di significato più ampio. Per comodità del lettore italiano abbiamo preferito tradurre, nei vari casi, l’«entrainement» con «spingimento «, «trazione», «spinta» ecc., scegliendo i termini che meglio calzano in rapporto a ciascun tipo di evento.

[3] Op. cit., pag. 21.

[4] Vedi Cap. I, pag. 68.

[5] Op. cit., pag. 41.

[6] Op. cit., pag. 50.

[7] Op.cit., pag.50.

[8] Uno studio molto accurato sulla natura del «raggio d’azione» è stato eseguito da M. Yela, ed è pubblicato nel «Journal de Psychologie normale et pathologique», 1954, pagg. 330-348. Lo stesso Yela ha scoperto che l’«effetto Lancio» av-viene anche se tra il luogo dell’arrivo dell’oggetto A e quello di par. tenza dell’oggetto B vi è uno spazio vuoto: si tratta, in questo caso, di una connessione causale «a distanza» (M. Yela, Phenomeal Causation at a Distance, «Quarterly Journal of Experim. Psych», 1952, pagg. 139 e segg.).

[9] Op. cit., pag. 54.

[10] W. Metzger, Beobachtungen über Phänomenale Identität, «Psych. Forsch». 1934, pagg. 1-60.

[11] La perception de la Causalité, pag. 60.

[12] J. F. Brown, The Visiual Perception of Velocity, «Psych. Forsah»., 1931, pagg. 199 e segg.

[13] Vedi nota a pag. 344.

[14] Op. cit., pag. 99.

[15] G. Kanizsa & F. Metelli, Recherches expérimentales sur le perception visuelle d’attraction, «J. de Psych. normale et pathol. «, 1961, pagg. 385 e segg.

[16] Op. cit., pag. 129.

[17] Op. cit., pag. 130.

[18] Op. cit., pag. 132.

[19] Op. cit., pag. 156.

[20] Op. cit., pag. 159.

[21] D. Passi Tognazzo, Contributo all’analisi degli effetti causali «entrainement» e «traction», Memorie della Accademia Patavina di SS.LL.AA., 1959 (LXXI).

[22] Op. cit., pag. 215.

[23] Op. cit., pag. 217.

[24] D. Hume, Treatise, vol. I, pag. 379.

[25] Op. cit., pag. 219.

[26] Op. cit., pag. 220.

[27] Vedi Cap. V, pag. 316 e segg.

[28] Vedi in questo Capitolo, pag. 347.

[29] Michotte, op. cit., pag. 225.

[30] W. Köhler, The Place of Value in a World of Facts, pag. 145.

[31] P. Guillaume, Introduction à la Psychologie, Paris, 1960, pagg. 109 e segg.

[32] C. L. Musatti, La teoria generale della misura, in «Condizioni dell’esperienza e fondazione della psicologia», Firenze, 1964, pag. 386.

[33] P. Bozzi, Fenomenologia del movimento e dinamica pregalileiana, Aut-aut, Milano, 1961.

[34] Op. cit., pag. 233.

[35] Op. cit., pag. 235.

[36] Op. cit., pag. 247.

[37] Op. cit.. pag. 248.

[38] Op. cit., pag. 252.

[39] Grüber, Fink e Damm, Effects of Experience on Perception of Causality, «J. of. Exp. Psych», 1957, pagg. 89 e segg.

[40] A. Michotte, Théorie de la cansalité phénoménale. Nouvelles perspectives; sta in «Causalité Permanence et Realité phenomenales «, Lovanio, 1962. pag. 75.

[41] Akio Ono, An investigation on perception of causal relation, « Tohoku J. of exp. Psych.», 1960, pagg. 164 e segg.

[42] A. Gemelli e A. Cappellini, The influence of the subject’s attitude in perception, «Contributi dell’Ist. di Psic.», Università Cattolica del S. Cuore, XV, 1958, pagg. 31-32.

[43] G. Kanizsa e F. Metelli, Recherches expérimentalles sur la perception visuelle d’attraction, «J. de Psych. normale et pathologique», 1961, pagg. 406-407.

[44] W. J. M. Levelt, Motion braking and the perception of causality, in «Causalité permanence et réalité phénoménales», Parigi-Lovanio, 1962.

[45] G. Minguzzi, Sulla validità della distinzione tra percezione di nessi causali e percezione di dipendenze fnnzionali, in «Ricerche Sperimentali sulla percezione», a cura di G. Kanizsa e G. Vicario, Trieste, 1968.

[46] L. Houssiadas, An exploratory stndy of the perception of causality, «J. of. Exp. Psych «, Monograph Suppl., XXXVI, 1964.

[47] Vedi nota a pag. 344.

[48] V.Olum, Developmental differerences in the perception of causality, « Am. J. of. Psych.», 1956, pagg. 417 e segg.

[49] J. Piaget e M. Lamberciere, La causalité perceptive visuelle chez l’enfant, «Arc. de Psych.», 1958, pagg. 77 e sega.

[50] J. Piaget e J. Maroun, La localisation des impressions d’impact dans la causalité perceptive tactilo-kinesthésique, «Arch. d Psych.», 1958, pagg. 202 e segg.

[51] P. F. Powelsand, The effect of practice upon perception of causality, «Canad. J. Psych.», 1959, pagg. 153 e segg.

[52] D. G. Boyle, A contribution ot the study of phenomenal causation, «Quart. J. of Psych.», 1960, pagg. 171 e segg.

[53] G. Thinès, Contribution à la theorie de la causalité perceptive, «Nouvelles recherches sur l’Effet-Entrainement «, Lovanio, 1962.

[54] G. Crabbé, Rivalité entre différentes types d’organization structurale de causalité perceptive, «Causalité, Permanence et Réalité phénoménales», Lovanio-Parigi. 1962, pagg. 259 e segg.

[55] T. Natsoulas, Judgements of velocity and weights in a causal situation, «Am. J. of Psych.», 1960, pagg. 404 e segg.

[56] G. Crabbé, Les conditions d’une perception de la causalité, Parigi, 1967.

[57] A. Michotte, Theorie de la causalité phénoménale. Nouvelles perspectives, «Causalité, permanence et realité phénoménales», Parigi-Lovanio, 1962, pagg. 9 e segg.

[58] Op. cit., pag. 73.

[59] Op. cit., pag. 80.

[60] Op. cit., pag. 80.

[61] Op. cit., pag. 80.

[62] Op. cit., pag. 80.

[63] Vedi cap. V, § 13.

[64] Minguzzi, Op. cit., pag. 187.

[65] Minguzzi, Op. cit., pag. 186.

[66] Cfr. pag. 378.

[67] A. Michotte, The emotions regarded as functional connections, «Feelings and Emotions», N. Y., 1950.

[68] G. Kanizsa e G. Vicario, La percezione della reazione intenzionale, in «Ricerche sperimentali sulla percezione», Trieste, 1968.

[69] Op. cit., pagg. 90-91.

[70] Op. cit., pag. 92.

[71] Op. cit., pag. 88.

[72] Op. cit., pag. 80 e segg.

[73] P. Bozzi, Analisi fenomenologica del moto pendolare armonico, in «Riv. di Psicol.», 1958, pag. 281 e segg.; P. Bozzi, Le condizioni del movimento « naturale» lungo i piani inclinati, in « Riv. di Psicol. «, 1959, pag. 337 e segg.

[74] G. Kanizsa e G. Vicarico, Op. cit., pag. 82.

[75] Op. cit., pag. 83.

[76] Op. cit., pag. 84.

[77] Op. cit., pag. 85.

[78] G. Minguzzi, Caratteri espressivi ed intenzionali dei movimenti: la percezione dell’attesa, «Riv. di Psic.», 1961, pag. 157 e segg.

[79] «Una» non in senso psicologico, ovviamente, ma proprio dal punto di vista delle regole del calcolo. Scrivendo «p É q» nella forma «~ (p . ~q)» dobbiamo usare la parentesi per evitare equivoci, cioè la lettura «~p.~q». L’eliminazione delle parentesi - teoricamente possibile - presuppone la formulazione di una scala delle intensità dei connettivi: intensità che riguarda appunto la loro «forza di unificazione» (V. Quine, Mathematical Logic, Cambridge, 19513 §7 e: Quine, Methodos of Logic, N. Y., 1950, § 4) .

[80] Questo isomorfismo fra strutture formali e strutture dell’esperienza può ragionevolmente essere assunto come spiegazione del fatto che spesso - nella storia del pensiero - causalità e deducibilità sono state trattate parallelamente o insieme, o sono apparse la stessa cosa («causa seu ratio»); anche se può esser dimostrato che la causalità non contiene nulla di logicamente necessario (Hume), né l’implicazione alcunché di causale (Cap. V, 5). Vedi: L. S. Stebbing, A Modern Introduction to Logic, N. Y., 19618; pagg. 257-90; e: A. Pap, Semantics and Necessary Truth, Yale, 1958; pagg. 302-60.

[81] Vedi: A. Schopenhauer, Über die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde (1813); trad. it. di E. Amendola Kühn, Torino 1959; pagg. 67, 68, 70. Gli stati e la loro successione appartengono, secondo Schopenhauer, all’ambito della presenza immediata delle rappresentazioni; quella che noi indichiamo come condizione 4), naturalmente, non è per Schopenhauer una finzione: è una categoria applicata dall’intelletto sul materiale delle sensazioni, nel momento del passaggio tra stati successivi, in conformità agli schemi di Kant (vedi: op. cit., pag. 94).

[82] Treatise, ed. it. cit., pag. 199.

[83] Nell’ambito della psicologia sperimentale, vi è una letteratura amplissima intorno a questo punto. La psicologia italiana ha contribuito allo studio del problema con quattro lavori di importanza fondamentale: V. Benussi, Psychologie der Zeitauffassung, Heidelberg. 1913; E. Bonaventura, I problemi attuali di psicologia del tempo, Arch. It. di Psic., 1928; F. Calabresi, La determinazione del presente psichico, Firenze, 1930; G. Vicario, La microstruttura del tempo psicologico, Riv. di Psic., 1964. Quest’ultimo studio contiene un’ampia bibliografia sull’argomento.

[84] G. Vicario, op., cit., pag. 218-224.

[85] Cfr. Cap. III, § 6 e G. Vicario, op. cit., pag. 195.

[86] Allo stesso modo, non è possibile avvertire come un’esperienza specifica il passaggio del tac dallo stato di esperienza attuale allo stato di evento appartenente alla memoria immediata. Il fatto è che - per quanto il presente attuale possieda uno spessore temporale abbastanza ampio - non siamo mai in condizione di vederne i due confini, quello verso il futuro e quello verso il passato; è chiaro che non possiamo collocarci mai «dall’altra parte» di uno di questi margini; né concretamente, e neanche coll’immaginazione.


Sommario dei Capitoli Quinto e Sesto

La causalità

 

Il rapporto causa-effetto è un processo riscontrabile direttamente nell’esperienza?

Nel linguaggio d’ogni giorno le espressioni di tipo causale ricorrono frequentissime, spesso in contesti puramente descrittivi: l’azione di qualcosa su qualche altra cosa sembra essere un fatto pienamente scontato, nell’ambito del senso comune.

Tuttavia, l’analisi logica delle espressioni causali e del concetto di causa hanno spesso condotto ad una conclusione affatto diversa. Parrebbe che, ragionando sulle cause e gli effetti, ci si debba sempre imbattere o in un nuovo fatto (compreso tra il fatto A «causa» e il fatto B «effetto») o in una relazione logica, puramente pensata, cui non può corrispondere nulla nel mondo delle esperienze.

Qualcuno ci dice: «A ha causato B»; supponiamo che si tratti di un evento di una certa complessità, come lo scoppio di un pneumatico e la morte della persona che in quel momento stava guidando l’automobile. Come è successo? - A ha provocato C’, C’’ ha provocato C’’’,... C’’’’» infine ha provocato B. Questa è una lista di fatti intercorsi tra il fatto A ed il fatto B; una lista di fatti che può benissimo - al livello del senso comune -rendere comprensibile, o meglio comprensibile, come mai da A è risultato B. Ma nessuno di questi fatti può essere identificato con la relazione causale.

Possiamo cercar di chiarire, allo stesso modo, come mai C’ ha provocato C» (o qualunque altro pezzo della catena); forse tra C’ e C» troveremo altri fatti; ma non per questo si sarà compiuto un passo avanti nel senso desiderato.

Tra A e B, il rapporto causale può essere risolto in «fatti»; ciascuno di essi, però, non è identificabile con il rapporto cercato. Anzi, il rapporto causale finisce ogni volta col trovarsi tra ciascuno di essi ed il suo successivo per quanto a lungo l’analisi venga protratta.

Questo stato di cose appare con particolare evidenza quando prendiamo in considerazione una connessione causale talmente elementare da non ammettere la possibilità di una ricerca di fatti intermedi (come il rapporto che lega - supponendo la pressione costante - l’energia cinetica e potenziale delle molecole di un dato corpo con il suo volume complessivo). In casi come questi, benché ci troviamo ad aver a che fare indubbiamente con eventi empirici e con connessioni empiricamente ben determinate, la causalità si risolve in un’idea: generalmente nella forma logica dell’implicazione (è falso che A sì, e, insieme, B no). L’esame della tecnica formale escogitata da J. M. Keynes per definire i vari tipi di causa - causa necessaria, sufficiente, ecc. - conduce alle medesime conclusioni: i fatti a cui le formule possono venire applicate non contengono nulla di causale, e la causalità resta solo un modo particolare di connettere i simboli.

Occorre sottolineare che tutto ciò non significa, ancora, che il rapporto causale non esiste come dato esperibile. Le interpretazioni formali della causalità potrebbero funzionare bene tanto in un mondo in cui il rapporto di causalità è esperibile, quanto in un mondo di eventi sempre isolati l’uno dall’altro, di cui si possa semplicemente registrare la frequenza e l’ordine di successione.

Un mondo di questo tipo è quello tratteggiato da Hume: le relazioni tra eventi non sono mai oggetto di esperienza, ma sempre inferenze più o meno bene costruite. Il materiale dell’esperienza è costituito da sensazioni scollegate, e nessuna di esse contiene qualcosa che rimandi direttamente alle altre. Se abbiamo un’idea della causalità, questo avviene solo in forza di abitudini acquisite attraverso il tempo, che ci inducono all’attesa di B dopo aver registrato la presenza di A - se in precedenza più volte si è trovato che B veniva dopo A. L’azione di una palla di bigliardo su un’altra non è affatto visibile; noi parliamo di «azione» solo perché da parte nostra in quel momento vi è l’ «attesa» di ciò che avverrà dopo, fondata sulle esperienze precedenti e sulla fiducia che debbano ripetersi.

Tale «attesa» è - secondo Hume - priva di fondamento logico. Proponendo questa teoria, egli ha assegnato il problema della causalità all’indagine psicologica, come aspetto particolare del problema delle abitudini.

I suoi oppositori (da Maine de Biran a Bergson), negando che la causalità sia il frutto di una abitudine, hanno cercato di individuare il fondamento di quest’idea nel campo delle esperienze dirette.

Percorrendo questa nuova strada, è emerso che il rapporto causale può essere un dato fenomenico: è un errore, ad es., ritenere che l’azione di una palla di bigliardo sull’altra non sia visibile (Sommer). Innumerevoli situazioni d’esperienza sono caratterizzate dalla presenza di relazioni causali fenomenicamente esplicite; proprio dall’analisi di tali situazioni W. Koehler ha tratto gli elementi di base per la sua teoria dell’ «insight» (relazioni immediatamente evidenti).

Qui sta la risposta al problema posto all’inizio: se il mondo in ciii viviamo fosse composto da una congerie di eventi di cui possiamo solo registrare la frequenza e l’ordine di successione, non sarebbe mai possibile stabilire che B è causato da A senza aver compiuto numerosi rilievi secondo un opportuno piano sperimentale; mentre nelle normali occorrenze dell’esperienza quotidiana questo procedimento non si rende quasi mai necessario, dato che i rapporti di dipendenza tra gli eventi esperiti sono già direttamente presenti nella percezione.

Tali organizzazioni percettive possono essere sottoposte all’analisi sperimentale esattamente come i colori, le forme, il movimento e gli altri aspetti salienti del mondo percettivo. Esistono condizioni di stimolazione specifiche in cui la connessione causale si realizza, ed altre in cui non ha luogo.

Muovendo dall’esempio delle due palle di bigliardo, A. Michotte ha compiuto una esauriente analisi fenomenologica della causalità meccanica. Le situazioni base da cui si sviluppa la sua ricerca sono l’effetto «lancio» (un oggetto A si accosta con una data velocità ad un oggetto B, gli si ferma accanto, e in quell’attimo l’oggetto B si mette in moto nella stessa direzione precedentemente tenuta da A, ma con velocità ridotta) e l’effetto «entrainement» (l’oggetto A, raggiunto l’oggetto B, prosegue la sua corsa e B gli resta a contatto). In queste due situazioni - rispettando particolari condizioni di presentazione - è chiaramente visibile l’azione di A su B, e il carattere «attivo» del movimento di A rispetto al carattere «passivo» del movimento di B.

Le analisi sperimentali dimostrano che gli oggetti devono essere due, che debbono essere entrambi presenti nel campo, che devono moversi lungo determinate traiettorie e con determinate velocità; inoltre, nell’evento non devono esserci soluzioni di continuità particolarmente rilevanti. Queste condizioni (insieme a numerose altre dettagliatamente analizzate) possono essere suddivise in due classi: i fattori di integrazione e i fattori di segregazione; dall’interrelazione dinamica di questi due ordini di fattori nasce la connessione causale.

Un evento, dunque, per realizzarsi nella forma di una connessione causale, deve essere u n evento: cioè deve possedere una struttura unitaria. Ma deve anche essere articolato in fasi nettamente distinguibili: solo a questa condizione una di esse può costituirsi fenomenicamente come lo sviluppo naturale dell’altra, e determinato dall’altra.

La base del fenomeno causale risiede, secondo Michotte, nel principio dell’ «ampliamento del moto»: quando i fattori di segregazione e di integrazione si trovano in un determinato equilibrio, il moto dell’oggetto A può proseguire nell’oggetto B anche nel caso in cui A si sia già arrestato; proprio questo particolarissimo fenomeno permette di dire che A agisce su B. Hume aveva sostenuto che non è possibile rintracciare nel campo delle esperienze immediate nulla che possa esser chiamato «produzione»; la «produzione», secondo la sua critica, è solo un sinonimo di «causalità». L’esistenza di un fenomeno come l’ampliamento del moto permette di dare a tale parola un senso fenomenologicamente ben definito: in realtà, nelle situazioni di Michotte, si vede nettamente che qualcosa intercorre tra A e B, in modo che B non si sarebbe comportato così se A non avesse compiuto a quel modo il suo percorso.

L’ampliamento del moto ha assunto agli occhi di Michotte un ruolo così importante per la teoria della causalità fenomenica, da indurlo alla affermazione che nell’esperienza immediata non si possono dare fenomeni causali se non in base ad esso.

Questa tesi ha indotto molti ricercatori a battere nuove strade, alla ricerca di fenomeni causali che possano aver luogo al di fuori dalle condizioni indicate da Michotte come necessarie.

L’accumularsi di tali nuove ricerche comporta un notevole lavoro di revisione teorica, che è tuttora in corso.

Indipendentemente dalle conclusioni a cui condurranno tali ricerche sul terreno della psicologia della percezione, occorre sottolineare fin d’ora l’importanza che esse rivestono nei confronti del problema generale della causalità: le analisi logiche del concetto di causalità, grazie alla duttilità e alla ricchezza dei mezzi formali sviluppati nell’ultimo mezzo secolo, tendono concordemente a ridurre tale concetto nei termini di una formula puramente astratta; e il compimento di questo passo comporta la rinuncia al comune concetto di «causalità fisica». Su questa nuova base, dovremmo concludere che l’uso delle espressioni con significato causale è privo di senso.

In realtà, se definiamo i «fatti» come strutture percettive presenti nel campo dell’esperienza diretta, la varietà di tali espressioni trova piena giustificazione in una corrispondente varietà di situazioni fattualmente evidenziabili, e legate a condizioni che possono essere sperimentalmente analizzate.

 

Elenco delle illustrazioni

 

Figure di Kopfermann (figg. 1a, 1b, 2)

Scissione di una superficie omogenea in due oggetti (fig.3)

Scissione di una superficie omogenea in più oggetti (fig.4)

Esempi musicali di unificazione per vicinanza (fig. 6)

Formazione di parti per vicinanza (fig. 7)

Vicinanza e somiglianza (figg. 8, 9, 10)

Destino comune (fig. 11)

Impostazione obbiettiva (fig. 12)

Continuità della direzione (figg. 13, 14)

Continuità della direzione (figg. 15, 16)

Chiusura (figg. 17, 18)

Vicinanza (fig. 19)

Chiusura e quasi-chiusura (fig. 20, 21, 22)

Regolarità (fig. 23)
Figura di Galli e Zama (fig. 24)
Unificazione per simmetria (fig. 25)

Simmetria (fig. 26)

Unificazione in base all’esperienza (fig. 27)

Linee virtuali e margini quasi-percettivi (fig. 28, 29)

Figure di Gottschaldt (fig. 30)

Figura di Gottschaldt (fig. 31)

Figura di Gottschaldt (fig. 32, 33)

Figura di Gottschaldt (fig. 34, 35, 36)

Figura di Gottschaldt (figg. 37, 38, 39)

Il tutto e le parti (figg. 40 e 41)

Il tutto e le parti (fig. 42)
Il tutto e le parti (fig. 43)
Il tutto e le parti (fig. 44)
Il tutto e le parti (fig. 45)
Esempi musicali di Wertheimer (figg. 46, 47)

Fattori controstrutturali e prostrutturali (fig. 48)

Mascheramento di una configurazione familiare (fig. 49)

Oggetti percepiti come «parti» (fig. 50)

Oggetti percepiti come «parti» (fig. 51)

Parti, sezioni, frammenti (figg. 52, 53)

Parti, sezioni, frammenti (figg. 54, 55)
Parti, sezioni, frammenti (fig. 56)
Valutazione numerica di collettività (flgg. 57, 58)

Valutazione numerica di collettività (flgg. 59, 60)

Situazioni di von Schiler (fig. 62)
Situazioni di von Schiller (figg. 63, 64)
Situazioni di von Schiller (fig. 65)
Situazioni di von Schiller (fig. 66)
Situazioni di von Schiller (fig. 67)
Il movimento apparente di una ruota (flgg. 68, 69)
Il movimento apparente di una ruota (fig. 70)
Il movimento apparente di una ruota (fig. 71)
Il movimento apparente di una ruota (fig. 72)
Movimento stroboscopico nella terza dimensione (fig. 73)

Figure dotate di «direzionalità» (figg. 74, 75)

Schemi degli esperimenti di Ternus (figg. 76, 77, 78)
Schemi degli esperimenti di Ternus (figg. 79, 80, 81, 82)
Schemi degli esperimenti di Ternus (flgg. 83, 84)
Schemi degli esperimenti di Ternus (figg. 85, 86)

Schemi degli esperimenti di Ternus (fig. 87)
Completamento amodale (fig. 88)
Funzione unilaterale e bilaterale dei margini (fig. 89)

Funzione unilaterale e bilaterale dei margini (figg. 90 e 91)

Il «passare dietro» (fig. 92)
Il «passare dietro» (fig. 93, 94, 95)
Il «passare dietro» (fig. 96)
Il dispiegamento (Knops) (fig. 97)
Schermaglietto per l’esperimento di Knops (fig. 98)

Schema della presentazione dell’effetto f-puro (fig. 99)

L’«accorciamento» (Sampaio) (fig. 100, 101)

Attrezzatura per lo studio dell’effetto «Tunnel» (fig. 102)

L’effetto «Tunnel» (fig. 103)

Altre situazioni di effetto «Tunnel» (fig. 104)

Scissione di una superficie omogenea in due oggetti (fig. 105)

Il cerchio inscritto nel quadrato (Duncker) (fig. 106)

Fasi separate degli effetti « lancio» e «spingimento» (fig. 107, 108,109)

Il «lancio» (fig. 110)

Lo «spingimento» (fig. 111)
«Lancio» senza allineamento (fig. 112)

Casi di «attrazione» (fig. 113, 114)
Casi di «attrazione» (fig. 115)
Il «lancio inverso» (fig. 116)

L’«attrazione» da parte di un oggetto immobile (fig. 117)

 

 

Elenco dei nomi citati

Akio Ono

Antistene

Archimede

Aristosseno

Aristotile

Ayer

Bacone

Baumaunn

Benussi

Bergson

Berkeley

Bonaventura

Bonnet

Boring

Boyle

Bozzi

Brown

Burke

Calabresi

Cappellini

Carr

Cartesio

Cornelius

Crabbé

Damm

De Marchi

Duncker

Ebbinghaus

Enesidemo

Engel

Eraclito

Esiodo

Euclide

Eulero

Fechner

Finch

Frege

Galilei

Gemelli

Ghiselli

Goethe

Gottscaldt

Grfiber

Guillaume

Harrower

Hartley

Helmholtz

Hering

Houssiadas

Hume

Jevons

Kanizsa

Kant

Kenkel

Keynes

Kirchhofi

Knops

Koffka

Kopfermanu

Korte

Köhler

Lagrange

Lambercier

Langford

Lao-Tse

Laplace

Leibniz

Levelt

Lewis

Lindemann

Lipschitz

Locke

Mach

Maine de Biran

Malebranche

Maroun

Maupertuis

Merleau-Ponty

Metelli

Metzger

Miller

Minguzzi

Mokre

Molineux

Musatti

Müller

Natsoulas

Olum

Papp

Passi

Perky

Petter

Piaget

Piovesan

Platone

Ponzo

Powelsand

Reichenbach

Ross

Rubin

Russell

Sacchieri

Sampaio

Schopenhauer

Schroeder

Sesto Empirico

Sommer

Spinoza

Stebbing

Steinig

Stumpf

Suart Mill

Taine

Teofrasto

Ternus

Thinès

Titchener

Toguazzo

Tolman

Vicario

von Ehrenfels

von Schiller

Weber

Wertheimer

Whitehead

Wittgenstein

Yela


introduzione capitolo 5