Cristina De Vecchi

LA RAPPRESENTAZIONE DEL PAESAGGIO
Funzione documentaria e riproducibilità tecnica
 
     
 
 
I


La rappresentazione del paesaggio tra arte e documento

 
     
   
 
 
§
Il sogno dell'iconoteca universale  
 

Anonimo
Veduta generale delle piramidi,
Il Cairo,
1870 c.a.

   


 
 


La preminenza «oggettiva», deittica, del rappresentato, nella funzione documentaria che stiamo delineando, procede dalla volontà d'inventario, ma l'inventario non è mai un'idea neutra. Inventariare non vuol dire soltanto constatare, come può sembrare a prima vista, ma anche appropriarsi e i vari progetti di iconografie enciclopediche, locali o universali, sono in realtà dei vasti bilanci di proprietà che hanno le loro radici nel concetto stesso di paesaggio che si va affermando nel corso dell'Ottocento.

L'Ottocento vede infatti la nascita dell'idea di protezione del paesaggio: accanto al diffuso sentimento del paesaggio come spettacolo naturale comincia a delinearsi l'idea di tutelare qualcosa che è sentito come una preziosa proprietà.[9]

Nello stesso periodo il bisogno di inventario si manifesta sia nell'invenzione del museo, per le grandi collezioni di opere d'arte, sia nella instancabile attività di raccolta di documenti iconografici che accompagna le esplorazioni e i viaggi geografici.[10] Sempre più spesso gli innumerevoli e avventurosi viaggi del XIX secolo prevedono nel corpo di spedizione il fotografo, al posto del disegnatore; dalle sue preziosissime lastre dovranno essere tratte le incisioni che accompagnano ormai immancabilmente le pubblicazioni geografiche. Per tutto l'Ottocento infatti la fotografia verrà usata, al posto dello schizzo dal vero come un «documento» su cui i «celebri artisti» potranno basarsi per realizzare le loro incisioni dei paesaggi.[11]

Il vecchio sogno della «iconoteca universale», che sembra finalmente realizzarsi grazie alla fedeltà e alla maneggevolezza del mezzo fotografico, anima spesso con intenzioni simili anche i progetti delle ottocentesche «Geografie universali».[12]

Come abbiamo già accennato, l'inventariazione del territorio è anche appropriazione dei luoghi; a dimostrazione di ciò è significativo il ruolo fondante svolto nella seconda metà dell'Ottocento dalla cosiddetta «fotografia di frontiera» nell'inventariazione del territorio americano e nella unificazione reale e immaginaria del paese.[13] Per quanto riguarda l'Italia, all'unificazione politica del paese segue un inventario fotografico della nuova realtà nazionale attraverso la «raccolta delle "bellezze naturali" del Bel Paese (...) compiuta da un esercito di fotografi spesso di basso e infimo livello, capaci però di comporre un mosaico di stereotipi visivi tanto tenaci, che molti luoghi e paesaggi reali ne saranno "sostituiti" per sempre».[14] Ma, se è vero, come nota Benjamin, che la fotografia è destinata a modificare persino i modi stessi della percezione sensoriale[15] è vero anche, a parer nostro, che lo «stile» delle prime fotografie di paesaggio appare a sua volta profondamente influenzato dagli stereotipi della precedente illustrazione del paesaggio.

In ogni caso la versione italiana dell'inventario è in qualche modo erede della tradizione edificante del Grand Tour e antesignana degli archivi fotografici novecenteschi, come quello degli Alinari o del Touring Club. Questi pionieri della visualizzazione e grandi collezionisti di immagini che videro e catalogarono per tutti il paesaggio naturale e artistico dell'Italia, non sembrano tanto guidati da una volontà di appropriazione reale dei luoghi, quanto piuttosto da un programma di «colonizzazione immaginaria» del Paese. Il progetto di rappresentazione documentaria del paesaggio si rivela in questo caso animato da una «poetica» turistica.

Nel 1910 a Parigi il finanziere Albert Kahn intraprende la realizzazione degli Archives de la Planéte. Cogliendo l'importanza della fotografia e della cinematografia come supporto privilegiato della memoria umana, egli recluta i suoi operatori al fine di procedere «a una sorta di inventario fotografico della superficie del globo occupata e trasformata dall'uomo, così come si presenta all'inizio del secolo».[16] Grazie anche alla collaborazione di Jean Bruhnes, professore di geografia al College de Françe, autore nel 1912 della Géographie humaine e direttore scientifico degli Archives de la Planéte, queste collezioni restano un caso emblematico per il loro valore «documentario». Ben presto la nozione moderna, multimediale, di documento prenderà il sopravvento.

[9] Si veda il volume di Yves Louginbuhl, Paysages e l'introduzione di François Dagognet alla raccolta di saggi Mort du paysage?.

[10] Sull'invenzione del Museo e il suo significato nella storia dell'arte e, più in generale, come punto di vista precursore della fotografia, si veda Roland Recht, La lettre de Humboldt, in particolare il paragrafo Le regard sur l'histoire de l'art: l'invention du musée.

[11] Si vedano pubblicazioni come la rivista francese Le tour du monde, pubblicata da Hachette a partire dal 1860 o la versione italiana Il giro del mondo, pubblicata dai Fratelli Treves a partire dal 1863.

[12] Per le geografie universali e il loro rapporto con il documento iconografico si veda Robert Ferras, Les Géographies universelles et le monde de leur temps.

[13] Si veda Robert Traft, Photography and the American scene, cit. in Anne Baldassarri, La photographie, la route, le territoire. Introduction aux paysages véhiculaires.

[14] Giulio Bollati, Note su fotografia e storia, p.33.

[15] Walter Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, p.24.

[16] Les Archives de la planéte, p.6.

 
 
 
 
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