Cristina De Vecchi

LA RAPPRESENTAZIONE DEL PAESAGGIO
Funzione documentaria e riproducibilità tecnica
 
     
 
 
II


Pittura e fotografia

 
     
   
 
 
§
Continuità e discontinuità tecnica e ideologica  
 
Philippe Hachert
Palo del Colle, Bari, 1759
   


 
 


Muovendo dall'affermazione che la funzione documentaria della raffigurazione s'impone senz'altro nella fotografia, è indispensabile chiarire la natura dell'immagine fotografica. Un'occhiata alla letteratura sull'argomento può aiutare a capire che cosa caratterizza la fotografia rispetto alle immagini che l'hanno preceduta.

Il problema del passaggio dall'immagine raffigurativa all'immagine fotografica è stato per lo più analizzato all'interno del rapporto tra arte e fotografia. Il quesito, se la fotografia si collochi in continuità o in rottura rispetto alle poetiche e alle tecniche artistiche precedenti, può forse apparire di scarso interesse. Tuttavia l'interrogativo appare fondato sulla storia stessa dell'invenzione fotografica che si colloca interamente all'interno dell'ambiente e del clima artistico del momento. Come molti autori hanno rilevato, l'epoca della scoperta era matura e molti artisti «perseguivano lo stesso fine: fissare quelle immagini della camera oscura, che al minimo erano note fin dall'epoca di Leonardo».[20]

Non stupisce quindi che il rapporto tra arte e fotografia sia stato indagato anche da chi, pur volendo evitare l'interrogativo sulla natura artistica della fotografia, è interessato a reperire le tracce di una continuità o i segni di una rottura. Esistono partigiani dell'una e dell'altra tesi ma, in ogni caso, è interessante vedere quali sono gli argomenti sui quali sia la continuità sia la discontinuità vengono fondate; il problema riguarda la tecnica, lo stile, oppure la funzione?

Fin troppo nota è la teoria di Benjamin sulla caduta dell'«aura», già avviata dalla stampa e compiuta dalla fotografia. Minor attenzione è stata invece posta dai commentatori al rapporto tra stampa e fotografia. Pur riconoscendo un'evoluzione sul piano della funzione (la fotografia non fa che proseguire il processo di riproducibilità iniziato con la stampa), Benjamin segnala un salto logico proprio sul piano della tecnica riproduttiva. «Con la fotografia nel processo della riproduzione figurativa, la mano si vede per la prima volta scaricata delle più importanti incombenze artistiche, che ormai venivano ad essere di spettanza dell'occhio».[21] Dei due testi di Benjamin - tanto spesso citati quanto spesso velatamente condannati, come rappresentanti di un'epoca pionieristica e di un pensiero fortemente ideologico - non sempre è stato raccolto il suggerimento più importante e tuttora valido: il passaggio dalla mano all'occhio pone problemi di natura filosofica che restano da indagare. Si può dire che bisogna aspettare l'opera di Barthes sulla fotografia perché i problemi segnalati da Benjamin vengano chiaramente posti e affrontati.

A parte Benjamin e, come vedremo, Barthes, i sostenitori della fotografia sono per lo più inclini alla tesi della continuità. La discontinuità invece è spesso sostenuta dai detrattori, come motivo per una condanna inappellabile. Ma in realtà il panorama è ben più complesso ed entrambe le posizioni si suddividono a loro volta in più partiti. Come osserva Svetlana Alpers, in uno studio sulla pittura del Seicento olandese, «curiosamente sono i negatori della natura artistica della fotografia, quelli cioè che la ritengono ... "sostanzialmente diversa dalla pittura, dalla scultura e dal disegno", a risultare più convincenti».[22] Molto efficace in questo senso è anche la distinzione proposta da Giselle Freund tra predecessori «ideologici» e precursori «tecnici» della fotografia[23]

Sul versante della continuità si collocano, pur con ambizioni differenti, due studi molto noti, uno di Aaron Scharf del 1968 e l'altro di Peter Galassi del 1981. Il libro di Scharf è un classico, indispensabile per una storia dell'invenzione fotografica e del genere del paesaggio. Scarf fonda la sua tesi «continuista» sull'osservazione innegabile che «la fotografia fu inventata dagli artisti, a vantaggio degli artisti, sfruttando le scoperte degli scienziati»[24] e volge la sua analisi a quel complesso organismo stilistico cui diede vita la simbiosi fra arte e fotografia. «Parlarne semplicemente come dell'arte influenzata dalla fotografia o della fotografia influenzata dall'arte è un'ipersemplificazione».[25] Non mancano esempi sia nell'uno sia nell'altro senso, tuttavia è innegabile che l'inventiva pittorica sia stata stimolata dalla comparsa della fotografia. Anzitutto la fotografia «servì ad acuire nell'artista la percezione sia della natura sia dell'arte», al punto che «l'uniformità e la logica descrittiva dell'immagine fotografica entrarono nel sangue dell'arte del XIX secolo».[26] In secondo luogo fornì soprattutto all'artista paesaggista un valido supporto documentario.[27] La continuità si specifica in una reciproca influenza di tipo stilistico, oltre che in una subordinazione della fotografia - documento - in funzione della creatività artistica.

Più originale e discutibile la tesi di Galassi. L'invenzione dell'immagine fotografica si inscrive, a pieno titolo, nella storia dell'arte, in continuità con l'invenzione quattrocentesca della prospettiva, anche se ne costituisce una delle tante interpretazioni particolari: «Le origini prime della fotografia - tecniche ed estetiche - risiedono nell'invenzione quattrocentesca della prospettiva lineare».[28] Per quanto la prospettiva rinascimentale adotti il canone rigido del punto di vista fisso, secondo Galassi molti e vari furono i modi in cui gli artisti intesero il ruolo della visione nell'arte, compresa quella volutamente frammentaria e internamente discontinua, tipica della fotografia, come mostra già il quadro di Pieter Jansz Saenredam dell'interno della chiesa di Haarlem del 1636-37.[29]

La tesi, posta all'inizio del saggio, è suffragata da un gran numero di studi di «paesaggio dal vero» sette e ottocenteschi, che si presentano come una riproduzione frammentaria, non compositiva e non inquadrata, del mondo visibile. Se l'argomento della continuità prospettica - che vuol fondare una continuità tecnica oltre che stilistica - è discutibile,[30] molto ricche sono invece, nel saggio di Galassi, le pagine dedicate all'étude o schizzo dal vero. Il ruolo che lo schizzo dal vero, come registrazione della realtà, assume nella pittura di paesaggio dell'Ottocento, deve essere fatto risalire alla neoplatonica distinzione fra reale e ideale. A questa distinzione teorica fa seguito il divario funzionale e formale tra schizzo e dipinto ufficiale. «La spaccatura coinvolse particolarmente la pittura di paesaggio, la categoria artistica che aveva sempre occupato un gradino basso nella gerarchia accademica. La collocazione più prestigiosa era toccata al dipinto storico...».[31]

«Gli schizzi di paesaggio... si caratterizzano per una nuova sintassi pittorica, fondamentalmente moderna, di percezioni immediate, sinottiche, e di forme discontinue e inusuali. E' la sintassi di un'arte volta al singolare e al contingente piuttosto che all'universale e all'immutabile... un'arte esplorativa più che didattica... Una sintassi che appartiene anche alla fotografia».[32] Queste pagine propongono un'affinità tra lo schizzo di paesaggio e la fotografia, sulla base di una comune attenzione alle qualità contingenti della percezione (inquadratura, campo limitato, punto di vista relativo), ben più convincente di quella prospettica. Messa così da parte l'ipotesi della continuità tecnica, si rafforza l'affermazione di omogeneità dei canoni stilistici e dei criteri formali, che rinviano a una comune funzione documentaria.

Entriamo nel cuore della polemica con gli argomenti, sempre in favore della continuità ma di natura ben diversa, di Svetlana Alpers, alla cui posizione abbiamo già accennato. La critica, radicale, non riguarda tanto le ricerche di Galassi, quanto la sua affermazione di principio: «Il materiale raccolto da Galassi è pertinente, mentre lo è meno la sua sistemazione concettuale. L'affermazione secondo cui queste opere sarebbero un ramo secondario della prospettiva lineare non sembra corretta».[33] Le vere origini della fotografia andrebbero cercate - secondo la Alpers - nel modo descrittivo dell'arte nordica: «Se cerchiamo un antenato dell'immagine fotografica, lo possiamo trovare in quella densa sintesi di vedere, conoscere e raffigurare che caratterizza le immagini del Seicento. L'immagine fotografica può, come la pittura olandese, imitare il modo albertiano. Ma le condizioni della sua genesi la situano in quello che ho chiamato il modo kepleriano, o, per usare un'espressione moderna, tra quelli che Peirce chiama segni indessicali».[34]

Ma la posizione della Alpers rispetto alla fotografia non può essere compresa fuori dal riferimento alla costruzione teorica del suo studio, interamente dedicato alla pittura del Seicento olandese. In primo luogo si deve riconoscere che lo studio dell'arte e la sua storia sono modellati sui caratteri stilistici dell'arte del Rinascimento italiano, essenzialmente retorica. Di qui la «smania di interpretare», tipica della critica d'arte, che costa un prezzo molto alto in termini di esperienza visiva. I caratteri stilistici su cui gli storici dell'arte contemporanea hanno elaborato la loro terminologia e educato la vista e la sensibilità sono, oltre all'evocazione retorica, la definizione albertiana di quadro: «una superficie o una tavola incorniciata, posta a una certa distanza da un osservatore che guarda, attraverso di essa un mondo altro o sostitutivo. Nel Rinascimento questo mondo era un palcoscenico.. E' un'arte narrativa... ut pictura poesis...».[35]

Una delle caratteristiche salienti della tradizione nordica, dunque, nella quale si collocherebbe anche la fotografia, di essere un'arte descrittiva e non narrativa, come quella italiana. E il valore di tale distinzione «dipende da quanto essa può aiutarci a vedere».[36] Un nuovo linguaggio deve essere trovato per affrontare un intero gruppo di immagini non conformi a tale modello. «Il termine "descrittivo" è in realtà un modo per caratterizzare molte di quelle opere che siamo soliti definire realistiche, e che abbracciano... il modello figurativo della fotografia». Si tratta perciò di difendere il puro piacere visivo della descrizione contro il primato di un'arte narrativa, e nel contempo di mostrare come le immagini descrittive, «lungi dall'esser un momento di pura sospensione ideale hanno, almeno nel Seicento, una funzione decisamente attiva nella comprensione della realtà».[37]

L'immagine descrittiva possiede una funzione conoscitiva: la rappresentazione esatta della natura risponde a un interesse non selettivo, volto a tutti gli aspetti, anche secondari. Questa passione per il rappresentare si caratterizza come descrizione del mondo visto, e perciò stesso anche del paesaggio, piuttosto che come imitazione delle azioni umane, tipiche del genere storico. Inoltre questa si specifica in numerose caratteristiche distintive: la mancanza di un punto di osservazione (il mondo ha la priorità sull'osservatore); il giocare con grandi contrasti di scala; la mancanza di una cornice preesistente; un senso fortissimo del quadro come superficie (specchio o carta geografica ma certamente non finestra albertiana) su cui possono essere iscritti oggetti e parole; infine una straordinaria abilità tecnica.[38] Ne emerge, in posizione centrale, una forte cultura visiva che, come vedremo, viene fatta risalire all'ottica di Keplero, dove l'occhio è il mezzo fondamentale dell'autorappresentazione del mondo e l'esperienza visiva la forma fondamentale dell'autocoscienza. Notiamo L'assenza, in questa cultura, del soggetto psicologico, centrale nella cultura narrativa e nella smania di interpretare della critica d'arte.

Quel che colpisce, infine, è la quantità e la varietà tipologica di immagini che si trovano nella vita della società olandese: «...vediamo che le immagini proliferano dappertutto: le troviamo stampate nei libri, ricamate nei tessuti delle tappezzerie e delle tovaglie, dipinte su mattonelle, e naturalmente, incorniciate alle pareti».[39] «Le carte geografiche stampate in Olanda descrivono il mondo e l'Europa a se stessi... Il formato dell'atlante olandese arriva nel Seicento, con l'opera di Bleau, in dodici volumi in-folio. E nell'Ottocento esso darà il nome a intere raccolte di volumi illustrati».[40] Questa sorprendente iconografia popolare, estranea ai confini dell'arte vera e propria - dalle carte geografiche ai disegni degli insetti o degli indigeni brasiliani -, non ha certo il carattere della narrazione storica, bensì un'intenzione esplicita di documentazione, se non di conoscenza vera e propria. Le immagini olandesi puntano su una capacità tassonomica della raffigurazione, hanno una funzione descrittiva più che normativa: « Si sente lo sforzo continuo di distinguere, di ritrarre ogni cosa... in modo da farla conoscere».[41]

[20] Walther Benjamin, Piccola storia della fotografia, p.59.

[21] Walther Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, p. 21.

[22] Svetlana Alpers, Arte del descrivere, nota 37 al cap. secondo, pp.385-6.

[23] Giselle Freund, Fotografia e società, cfr. in particolare il capitolo Precursori della fotografia, pp.7-15.

[24] Aaron Scarf, Arte e fotografia, p.16.

[25] Ibid., p.3.

[26] Ibid., p.4.

[27] Cfr. il capitolo La fotografia di paesaggio e di genere, ibid., pp.75-83.

[28] Peter Galassi, Prima della fotografia, p.18.

[29] Ibid., p.20-21.

[30] Cfr. a questo proposito il già citato volume della Alpers che, come vedremo meglio in seguito, denuncia una profonda alterità tra la fotografia e la prospettiva albertiana. Questa estraneità trova i suoi lontani motivi nella tradizione descrittiva dell'arte olandese del Seicento e nella natura ottica delle sue immagini.

[31] Ibid., pp.29 e sgg.

[32] Ibid., p.38.

[33] Svetlana Alpers, Arte del descrivere, nota 37 al cap. secondo, p.385.

[34] Ibid., p.63.

[35] Ibid., p.5.

[36] Ibid., p.6.

[37] Ibid., nota 11 all'introduzione, p.378, sott. nostra.

[38] Ibid., p.13.

[39] In realtà quest'abitudine negli altri paesi europei è molto più tarda, connessa all'avvento della borghesia ottocentesca e al formarsi del suo particolare gusto per il paesaggio.

[40] Ibid., p.14.

[41] Ibid., p.16.

 
 
 
 
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