2 - Estetica e fisiologia

 

 

La scienza dell'arte - scrive C. Lalo - possiede tre grandi idee che, pur essendo acquisizioni definitive, sono destinate a evolversi ulteriormente: «la concezione del gioco, quella dell'esperimento ed infine la nozione del tutto recente dei fatti sociologici» [28].

La teoria del gioco, che trova in Spencer i suoi moderni presupposti ma che ha origine in Kant e Schiller, è la sfera di analisi che nella seconda metà dell'Ottocento ha permesso di collegare il fatto artistico con la psicologia e la fisiologia.

L'estetica francese contemporanea, volgendosi a tali scienze e ai principi a esse correlati, nasce quindi come un'estetica «sperimentale», un'estetica che, pur avendo in Fechner il suo fondatore, ha trovato sviluppi e applicazioni in Francia nel pensiero di Charles Henry e anche negli stessi Lalo, Guyau, Séailles, Griveau e Basch, che pur non ne condividono la veste matematizzante e le finalità psicofisiche[29]. È quindi una «estetica dal basso», attenta alla sperimentazione e non asservita a teorie metafisiche: un'estetica che si sviluppa nell'incontro psico-fisiologico del soggetto con l'oggetto cercando di determinare le regole costanti di tale incontro.

L'estetica sperimentale, infatti, «è lo studio delle condizioni astratte dei fatti estetici, non quello dei fatti estetici stessi» e si dirige quindi verso l'esame dell'impressione diretta delle rappresentazioni o dei loro rapporti, delle associazioni che esse evocano e dell'armonia o dei conflitti che vengono suscitati dalla combinazione di questi due fattori[30]. Concetti «assoluti» quali «bellezza», «arte», «stile» o «forma» sono completamente abbandonati per rifarsi soltanto all'esperienza sensibile del «piacere» e del «dispiacere». Pur nell'evidente pericolo di costruire senza consapevolezza una nuova «metafisica dell'esperienza», il merito indubbio dell'estetica sperimentale di Fechner, che va pur sempre inquadrato ideologicamente nel vasto ambito delle reazioni anti-romantiche, è quello di aver posto la necessità di presentare la estetica come una «scienza» svincolata da soggettivismi di varia specie. In Fechner poi, tale scienza deve assumere l'aspetto di una «scienza esatta» che dà origine a conoscenze cui può applicarsi una misura matematica; misurazione che ricade essa stessa nel soggettivismo in quanto sono proprio i sentimenti del soggetto, visti come reazioni psicofisiche di fronte al bello o al brutto, a dover essere numericamente e statisticamente considerati. L'estetica sperimentale è così «una branca della psicofisica esterna, cioè uno studio dei rapporti dei fenomeni psicologici con i fenomeni fisici»[31].

Quel che ora interessa, più che l'esame delle dottrine fechneriane, è mostrare l'influsso che esse hanno avuto all'interno dell'estetica francese, sia nell'ambito della tradizione razionalistico-cartesiana con Paul Souriau sia nel settore della vera e propria psicofisica di Charles Henry, curiosa figura di pensatore che tenta di sintetizzar ogni umana conoscenza ed esperienza in un tutto costituito dai risultati della scienza e del misticismo orientale.

Il concetto generatore dell'estetica sperimentale di Henry quello del ritmo che, come accade in Fechner, va studiato nei suo elementi costitutivi di sensazione, risonanza sentimentale e legge di successione. Henry considera infatti l'estetica una ricerca del determinismo fisico che regola i fenomeni del bello e dell'arte a partir dalle loro condizioni organiche: «la scienza dell'arte - scrive - è un, fisica psico-biologica» e l'arte cerca «l'espressione fisionomica delle cose»[32]. La «chiave» di tale ricerca si trova nel «numero», in un sorta di nuova mistica pitagorica che fa della matematica il principi di sviluppo dell'arte. In un contesto di «evoluzionismo totale», l'arte ha così «una funzione dinamogena, e la funzione del movimento dell'azione dinamogena è di espandere la coscienza», di divenir protagonista dell'evoluzione generale dell'umanità[33]. I mutamenti della funzione dinamogena dell'arte costituiscono il suo ritmo intrinseco mentre gli arresti aprono le porte al problema correlato della misura[34]; ritmo e misura devono essere studiati come i principi psicofisici di evoluzione dell'umanità.

Se in tali aspetti Henry, di fatto, non supera il pensiero di Fechner, vi è da considerare che, a differenza di quest'ultimo come di molti autori apparentemente più vicini ai classici problemi del «bello», il pensiero di Henry giocherà un ruolo di primo piano nell'arte francese contemporanea, e in particolare nella pittura di Seurat e Signac. È stato infatti scritto che «la pubblicazione di Introduction à une esthétique scientifique di Henry è un significativo punto di volta nel clima artistico di Parigi nell'ultimo quarto del XIX secolo» e segnale del «conscio inizio dell'era simbolista»[35]. Henry fu infatti amico di artisti e musicisti e in primo luogo di Seurat, Signac, Mallarmé e Valéry, le cui opere hanno preso senz'altro ispirazione dal simbolismo matematicamente organizzato di Henry per il quale l'estetica, «fisiognomica delle cose», «studia le condizioni in cui queste cose sono soddisfacenti» e le scopre «ridotte a forme, a colori e a suoni»[36]. Anche se non va enfatizzata la presenza dell'opera di Henry nei lavori di Seurat, bisogna considerare che Henry, alsaziano trasferitosi a Parigi nel 1875, dopo avere studiato con C. Bernard, figura centrale del panorama scientifico francese, divenne «maître de conferences» all'Ecole des Hautes Etudes nel 1892 e, nel 1897, assunse la direzione del laboratorio di fisiologia delle sensazioni alla Sorbona, acquistando così un grande prestigio che, unito alla sua multiforme e geniale personalità, non poteva non esercitare una notevole influenza formativa presso circoli di giovani artisti e poeti[37].

In analogia con Fechner, Henry riduce l'esperienza della realtà a due sensazioni di base, il piacere e il dolore, cui corrisponde, nella fisiologia, il ritmo ordinato di espansione e contrazione. Il ritmo, come aveva già scritto Levêque e come nel nostro secolo riprenderanno Bachelard, Bayer e Servien, è «l'ordine del tempo», ciò che permette di comperendere la cinestesia quale centro, in tutte le direzioni, di tutti i fenomeni.

È tale finalità che ha fatto scrivere che Henry copre, anche se in modo diverso, lo stesso «campo» dell'opera di Bergson: la dinamogenia è naturalmente espansiva e, nelle sue azioni ritmiche, è il meccanismo stesso evolutivo della vita. La nuova arte che nascerà da questa estetica farà si che «i cambiamenti ritmici di direzione delle rappresentazioni creino reazioni corrispettivamente ritmiche, continue e dinamogene».

La sua estetica quindi «è la visione della integrazione delle facoltà, la tensione verso una nuova era di simbolismo in cui l'arte esprimerà conoscenza e conoscenza sarà l'espressione di ciò che è universalmente conosciuto esperito»[38].

Il movimento è naturalmente produttore di piacere e dispiacere: ma lo è secondo leggi ben precise che possono essere ridotte a un diagramma di misurazione dello sforzo inversamente proporzionale al «piacere estetico», che può in ogni caso venire misurato attraverso formule algebriche. Nel 1888 infatti Henry pubblicò un rapporteur esthétique, che era un vero e proprio misuratore matematico delle linee che originavano il ritmo. Ugualmente impostati gli studi di Henry sul colore raccolti nel Cercle chromatique del 1889, dove si esaminano le «distanze angolari» fra i colori per determinarne una razionale classificazione, di conseguenza, le leggi della loro armonia e dei valori espressivi. Anche se il punto di partenza e «ingenuo», ovvero la considerazione empirica che esistono colori «tristi» e «allegri», il passo successivo considera ogni colore connesso a una «direzione lineare».Unite insieme, tali linee possono venire rappresentate da un cerchio dove i colori allegri (rosso, arancio e giallo) corrispondono alle direzioni dall'alto verso il basso mentre i colori più tristi (verde, blu, violetto) vanno dal basso verso l'alto e da destra a sinistra. Il colore più «dinamogeno» è quindi il rosso, che occupa la parte alta centrale del cerchio. Gli otto colori del circolo sono situati in raggi separati l'uno dall'altro di 45 gradi e, partendo dall'alto e muovendosi in senso orario, si dispongono in rosso, arancio, giallo, verde, verde-blu e violetto, passando gradualmente dall'uno all'altro grazie alla piccola quantità di colore bianco posta nel centro del cerchio. Studiando questo cerchio cromatico si può, per Henry, comprendere l'armonia «universale» dell'espressione coloristica. Usando poi il «rapporteur» per determinare gli angoli ritmici che separano i raggi corrispondenti, si coglie l'attività dinamogena del colore. Tutte queste teorie sono ben conosciute da Seurat, che però già prima dell'incontro con Henry aveva ampia conoscenza di questi temi, grazie soprattutto all'opera del danese Humbert de Superville, dal titolo Essai sur les signes inconditionnels de l'art, pubblicata a Leida nel 1827-32, dove già si sottolineava l'importanza del colore e della linea nell'armonia dinamica delle forme[39].

Lo sforzo di Henry è dunque quello di studiare in modo oggettivo e scientifico i fatti artistici attraverso le reazioni dinamiche che suscitano nei ricettori ed indipendentemente dal ruolo svolto dall'autore. È questo uno dei punti che differenzia il suo pensiero da quello di Eugéne Véron, che pure si oppone al dominante accademismo spiritualista di Cousin e di Léveque cercando per il bello una definizione «oggettiva».

Il valore della sua Esthétique - che fu pubblicata nel 1878 - è immediatamente riconosciuto da L. Tolstoi che, nel suo Che cosa è l'arte, vede in Véron e nella sua opera «un'eccezione per la sua chiarezza e ragionevolezza; anche se non definisce esattamente l'arte, per lo meno elimina dall'estetica il nebuloso concetto di bellezza assoluta»[40]. Tolstoi, inoltre, convinto che «l'arte contemporanea si interessa sempre meno alle esigenze della classe operaia, si fa tutto e si scrive tutto per i superuomini, per il tipo superiore, raffinato dell'uomo ozioso»[41], scorge in Véron, autore di numerosi scritti di storia operaia e di istruzione popolare, un rappresentante di quel socialismo filantropico e umanitario di cui egli stesso è sostenitore.

Il punto di partenza dell'estetica di Véron è comunque apparentemente legato all'estetica fisiologica di Henry o, in modo più generale, al clima culturale del positivismo europeo. È infatti ancora Tolstoi che pone un interessante parallelo fra Véron e M. Schasler, autore di Kritische Geschicthe der Aesthetik (1872), poiché entrambi credono che l'estetica sia una «scienza» che deve essere liberata dalle rêveries dei metafisici e, di conseguenza, «fare a meno del concetto di bellezza»[42]. Véron scrive infatti che «l'arte altro non che una risultante naturale dell'organismo umano, che è costituito in tal modo da trovare una gioia particolare in certe combinazioni di forme, di linee, di colori, di movimenti, di suoni, di ritmi, di immagini»[43]. A tali fattori fisico-organici devono aggiungersi, nello studio scientifico dell'opera d'arte, gli influssi dell'ambiente storicoculturale sull'artista, anche se, a differenza di quanto sostiene lame, essi non sono una causa primaria nella formazione della soggettività. ma un giusto strumento per considerare l'opera dell'artista nella su realtà completa e per evitare la formazione di canoni metafisici e antistorici di bellezza.

Véron dunque, ponendosi a metà strada fra il positivismo e l'accademismo, sostiene che l'arte «e un prodotto spontaneo, immediato e necessario» dell'attività umana[44]. Egli accetta le spinte antimetafisiche e l'esigenza di uno studio obiettivo dell'opera d'arte presenti nel pensiero di Taine ma ne rifiuta le finalità guardando molto più all'aspetto fisiologico che a quello psicologico. L'arte è infatti «la manifestazione di un'emozione che si traduce all'esterno sia attraverso combinazioni espressive di linee, sia attraverso una serie gesti, di suoni e di parole sottomesse a dei ritmi particolari»[45]. Tutto ciò ricorda le «forze dinamogene» di Henry che, nel loro movimento sistole-diastole, espansione-contrazione, costituiscono i ritmi fisiologici propri al fatto estetico e ai sentimenti soggettivi de ricettore. Véron introduce tuttavia un nuovo elemento, tratto dall'estetiche «simpatetiche» che, a partire da Jouffroy e precedendo teorici tedeschi dell'Einfühlung, si affermano in Francia, ovvero I potenza con cui si esprime l'emozione di fronte ad un'opera d'arte, emozione «corporea» che può dare origine a un :«piacere diretto» e ad una «ammirazione simpatica». Il piacere è provocato in noi dai sentimenti estetici legati a sensazioni visive e auditive così come il dispiacere sorge dalla sensazione non accompagnata da questi sentimenti. Attraverso tale interpretazione «psico- fisiologica» del piacere estetico, Véron, in analogia con Henry, amplia la sfera dell'estetico sino a coprire l'amplissima area del benessere fisiologico, indipendentemente da ogni interesse per il problema specifico della presenza di un oggetto estetico artisticamente intenzionato.

Se il «piacere diretto» si riferisce al soggetto che contempla l'opera e alle sue reazioni psico-fisiche, l'«ammirazione simpatica» e invece rivolta all'autore dell'opera d'arte, al «genio» produttore che noi ammiriamo per la potenza e l'originalità attraverso cui ha trasformato un'impressione soggettiva in un oggetto compiuto e definito. La «gioia estetica» non è quindi rivolta a quanto viene rappresentato nell'opera o dall'opera ma, tramite ciò, all'artista stesso. «Quest'idea dell'importanza della personalità dell'artista - scrive Mustoxidi - a cui Véron sacrifica tutto, costituisce il leit-motiv del suo libro»[46], leit-motiv che riconduce, peraltro, a tutte quelle forze nascenti dell'estetica francese sorte intorno ad una psicologia di matrice ribotiana, rivolta verso gli elementi caratteristici della creazione sin dentro i processi dell'elaborazione tecnica. Perché dunque si provi un'emozione estetica e ci si senta pervasi da una «ammirazione simpatica» è necessario guardare all'autore, «ritrovare l'uomo nell'opera»: «è precisamente questo sentimento di ammirazione che ci fornisce la nozione di bello artistico»[47]. La personalità dell'artista e il suo talento geniale e non il piacere corporeo prima definito costituiscono così il valore dell'arte e il vero piacere estetico.

L'arte, in quanto non è imitazione, non può essere ridotta alla natura o a forme di bellezza ideale: la sua realtà si trova integralmente nella personalità dell'artista a diversi gradi determinabili attraverso l'intensità e la potenza della nostra penetrazione simpatetica. La «realtà» (o la «verità») delle cose e la personalità dell'artista bastano a comprendere e spiegare il fenomeno artistico che fonde in sé questi suoi due aspetti poiché «la verità delle cose nell'arte è soprattutto la verità delle nostre proprie sensazioni, dei nostri propri sentimenti, è la realtà quale noi la vediamo e la comprendiamo in virtù del nostro temperamento, delle nostre preferenze, dei nostri organi, è la nostra stessa personalità»[48].

Véron costruisce così un'estetica che raccogliendo spunti d'ispirazione tedesca (Fechner) e anglosassone (Grant Allen) ha il suo inizio, in analogia con Henry, nella sensazione e nei movimenti fisiologici a essa connessi, inizio che permette di abbandonare il criterio della ricerca del bello come metodologia di base per l'estetica e dì rivolgersi piuttosto ai processi soggettivo-psicologici della creazione e all'esame della personalità geniale. Ciò che noi oggi potremmo chiamare il campo originario e fondativo di un'estetica generale che colga i nessi e il senso dei rapporti esperienziali soggetto/oggetto è infatti qui «coperto» da analisi fisiologiche che, per specificare la realtà dell'opera, tendono via via a trasformarsi in indagini psicologiche sulla personalità dell'autore nella complessività affettiva della sua stessa vita morale.

È peraltro proprio quest'ultimo aspetto - l'identificazione implicita dell'autore con i suoi sentimenti morali - ciò che suscita l'interesse di Tolstoi verso Véron. Il lato «stilistico-formale» dell'opera d'arte, con il suo «formalismo estetico», con la stessa vita interiore delle materie che costituiscono i processi tecnici di formazione dell'opera, fuoriescono dall'ambito di studio di questi autori tesi a sottolineare il valore morale dell'arte e non la sua perfezione e bellezza. La differenziazione fra arte e bello non comporta tuttavia in Véron alcuna consapevolezza teorica della separazione tra un'estetica «soggettiva» e un'«oggettiva» scienza dell'arte, anche se comprende che l'arte dà origine a una sfera di emozioni corporeo-comunicative tra l'autore e lo spettatore che di per sè i valori formali della bellezza non sono in grado di generare: come affermerà Guyau e sosterrà anche Tolstoi, l'arte è caratterizzata, più che dalla bellezza, da un'attività comunicativa. A Véron, tuttavia, a differenza di questi due autori, manca una chiara consapevolezza del valore sociale, oltre che morale e simpatetico, della comunicazione artistica. La sua Esthétique, soprattutto, un osservazione obiettiva delle opere d'arte come fatti regolati da leggi invariabili, una «fisica delle opere d'arte completata da una fisiologia del sistema nervoso»[49], che rifiuta le formule logiche e sistematiche di Taine ritenendo della Philosophie de l'art solo lo spirito determinista e le istanze antiaccademiche. Anche quando parla del rapporto simpatetico fra lo spettatore e l'opera d'arte, Véron non incentra l'attenzione, come Lipps, Volkelt e Basch, sui sentimenti soggettivi del ricettore ma sull'oggettività analizzabile della personalità morale dell'autore. Vi è quindi una «correzione» in senso psicologico dell'estetica inglese di Grant Allen che, nella sua Physiological Aesthetics del 1876, riduce il piacere estetico al massimo stimolo con il minimo di fatica riprendendo quegli aspetti della «teoria del gioco» di Spencer ancora assenti in Véron (anche se destinati a venire più volte ripresi all'interno dell'estetica francese). Già Lipps, peraltro, aveva precisato, prima di Grant Allen e dei francesi e venendo subito ripreso da Bain, Marshall e Vernon Lee, «che quando il compito è adeguato al quanto psichico disponibile, c'è piacere, altrimenti dispiacere»[50].

Dalla teoria del gioco e dalle estetiche fisio-psicologiche, che caratterizzano la tarda fase del positivismo europeo, positivismo che ha con evidenza abbandonato la ricerca comtiana delle leggi di regolarità dei fenomeni e tende via via ad ampliare il campo delle scienze - psicologia, fisiologia, sociologia - connettendole con problemi classici quali la funzione morale dell'arte, si allontana, almeno nei suoi concetti portanti, l'estetica di Paul Souriau, che risente in misura maggiore dei suoi contemporanei della tradizione del razionalismo francese e dell'estetica kantiana, senza peraltro porsi il problema, presente in Véron, del superamento del concetto di «bellezza». Cercare anzi «ciò che è veramente bello e degno d'essere ammirato» [51] è il caposaldo della sua «estetica razionale».

Il problema sociologico delle preferenze o quello psicologico della produzione del sentimento del bello sono ricerche di carattere sperimentale che, pur utili per la loro scientifica «imparzialità», non possono da sole esaurire l'intero campo dell'estetica che si identifica con l'ambito vastissimo del bello, che non agisce solo nell'arte ma in qualsiasi manifestazione vitale. Lo stesso Souriau ha quindi offerto notevoli contributi all'estetica «sperimentale» del suo tempo con monografie che studiano aspetti specifici di estetica psicologica e fisiologica. Tali sono, per esempio, L'esthétique du mouvement del 1889, contraltare «razionalista» all'Essai di Bergson, La rêverie esthétique (1906), che sarà ripresa da Delacroix e forse da Bachelard, L'esthétique de la lumière (1913) e La suggestion dans l'art (1893) dove, attento ai risultati della moderna psichiatria, affronta il problema del ruolo dell'ipnosi e della suggestione nella contemplazione estetica.

Il nucleo originale della sua estetica è tuttavia contenuto essenzialmente nella Beautè rationelle del 1904, dove Souriau afferma che il compito dell'Estetica «è fornire all'arte dei metodi più sicuri per produrre la bellezza; aiutarci a meglio discernere il bello sostituendo alle impressioni vaghe che determinano ordinariamente le nostre preferenze qualche criterio infallibile; dare ai sentimenti estetici, senza nulla togliere della loro forza e del loro fascino, un migliore orientamento»[52].

Le teorie estetiche non sono un semplice epifenomeno letterario o artistico ma influiscono, sia pure in modo indiretto, sull'arte, se non altro attraverso il gusto del pubblico. Il genio dell'artista non è infatti romanticamente refrattario a ogni disciplina intellettuale ma, come già aveva affermato Séailles, è la facoltà di inventare «portata alla sua più alta potenza» e presente in chiunque sia capace d'invenzione. Tale capacità inventiva suppone un «lavoro spontaneo dell'immaginazione» «controllato nei suoi risultati dall'intelligenza e dal gusto»[53]. Si sarà compreso, in queste parole, un influsso kantiano per cui il gusto «e una facoltà di giudicare un oggetto in relazione con la libera regolarità dell'immaginazione», un'immaginazione che si presenta come produttiva e spontanea in un accordo «soggettivo» con l'intelletto e le facoltà del Geist [54].

I temi kantiani sono elaborati da Souriau in un quadro rivolto in primo luogo al momento produttivo; il libero gioco di immaginazione e intelletto permette di identificare due momenti nell'elaborazione delle opere d'arte, momenti che verranno ripresi ed a fondo analizzati nell'opera di H. Delacroix, «l'uno di rêverie spontanea, l'altro di meditazione riflessiva»[55]. Nell'uomo di genio, così come già aveva sostenuto Kant, queste due attività sono ugualmente necessarie anche se la produzione geniale implica sempre, in primo luogo, un «raddoppiamento» delle funzioni intellettuali finalizzato alla costruzione della bellezza suprema che è, per tale motivo, il trionfo stesso della ragione. Il gusto non è più semplicemente uno specifico e irriducibile «senso del bello», soggettivo e impressionistico, ma una costruzione «intersoggettiva» che si fonda sul perfezionamento costante e finalistico della nostra sensibilità e del nostro lucido giudizio messi alla prova nei vasti campi delle scienze, della logica e della morale. «Non vogliamo - scrive Souriau - che i nostri gusti estetici restino isolati, rinchiusi in loro stessi»: «noi mostreremo il rapporto che devono avere con le forme più serie e più elevate della nostra attività»[56], con la ragione non come astratta dialettica ma in quanto organizzazione, finalità e armonia.

L'idea di bellezza, come già in Véron, non è quindi qualcosa di per sé esistente, un'idea innata o un oggetto la cui natura potrebbe esserci impenetrabile ma semplicemente «una qualità che attribuiamo alle cose»[57]. Non è allora, in verità, molto chiaro dove questa «qualità secondaria» possa fondare la propria oggettiva «evidente perfezione». Forse sulla kantiana universale del Giudizio estetico, forse, più probabilmente, su un «accordo armonioso» fra i sentimenti soggettivi e la realtà dell'opera d'arte, accordo che peraltro costituirà l'oggetto degli studi posteriori di R. Bayer, E. Souriau e M. Dufrenne. La bellezza estetica posseduta da alcuni oggetti consiste dunque «nei sentimenti che essi ci danno, a condizione dichiarata che tali sentimenti abbiano di per sé un carattere di pagine sull'immaginazione» è una caratteristica generale dell'estetica francese nei primi anni del Novecento «bellezza»: la bellezza estetica nasce così da «una più completa armonia fra l'oggetto e noi»[58].

È quindi evidente che la bellezza non riguarda in modo specifico il mondo dell'arte: bello è ciò che, nei campi più svariati si avvicina alla «perfezione», alla perfetta armonia. È questa la «bellezza razionale», che può essere concepita e definita solo attraverso l'idea di perfezione, idea razionale che possiede un fine in sé. In questo punto Souriau si allontana allora da Kant, che nettamente distingue la bellezza dalla perfezione, e determina una serie di gradi del bello come perfezione che inerisce all'intera sfera della spiritualità.

La prima specie di bellezza che Souriau esamina è la «bellezza sensibile», base generale dell'estetica nelle sue componenti psicofisiologiche. Essa riguarda infatti il vastissimo campo delle sensazioni che, ricordando Henry e Véron, ha il suo inizio nelle sensazioni interne che comportano un benessere fisico e un valore estetico come «segno costante di una perfezione interiore»[59]. Le sensazioni si costituiscono in un'interrelazione fra gli oggetti e la percezione dei nostri sensi, che posseggono essi stessi delle elementari qualità estetiche[60].

A un livello superiore si pone per Souriau la «bellezza intellettuale», che completa la contemplazione estetica attraverso il soddisfacimento dell'intelligenza, che è la finalità stessa, «la facoltà di ordinare le azioni in vista di un fine»:

«fra l'oggetto e me stesso percepisco un'armonia perché esso è fatto come se l'avessi io stesso costruito; risponde non solo al mio desiderio di conoscere ma all'istinto più profondo della mia intelligenza»[61].

All'interno di questa bellezza si inserirà infine la «bellezza geometrica», che «consiste nella regolarità, nella semplicità delle forme e delle proporzioni» [62] ed in particolare nelle forme che si muovono regolarmente nella natura e nell'arte. È infatti interessante notare che Souriau, sin dall'Esthétique du mouvement, parla di «forme» che si muovono con un implicito quanto chiarissimo riferimento polemico alla continuità indistinta e assoluta della durata bergsoniana. Così come faranno il figlio Etienne, H. Delacroix e R. Bayer, egli contrappone alla durata quale pura intuizione di un movimento ontologico che non può essere né simbolizzato né oggettivato in forme compiute, la regolarità «razionale» delle forme che rende più intellegibili gli oggetti e giustifica il sentimento di soddisfazione intellettuale durante la contemplazione. Al bergsonismo, filosofia monista che esclude qualsiasi finalità delle forme all'interno della durata, Souriau contrappone una bellezza intellettuale che è essenzialmente bellezza di organizzazione, dove la natura manifesta in modo evidente la propria finalità. La bellezza intellettuale si identifica quindi con tutto ciò che è organizzato finalisticamente e comprende le forme della natura come quelle dell'arte sino alle forme espressive del pensiero - verbale e letterario - dove la bellezza non e più segno ma cosa significata che unisce in se «pensiero, immagine e sentimento»[63].

Nel campo specifico dell'arte la bellezza si misura secondo il grado di originalità dell'immaginazione e delle sue immagini, complessi che vanno comunque riportati al pensiero che, quando è «giusto», «armonico», «potente» e «ampio» possiede quel valore obiettivo che pone la bellezza finalistica dovunque intervenga.

Questa «bellezza razionale», seguendo in ciò influssi derivati da Véron, deve venire ricondotta al grado più alto della «bellezza morale» come «bellezza del sentimento». Il sentimento infatti, come sarà nel quadro fenomenologico del pensiero di M. Dufrenne, e quella facoltà che unifica soggetto ed oggetto e mostra l'espressività, cioè l'animazione vivente di una cosa, che «sarà tanto più bella quanto sarà più chiaramente espressiva»[64]. L'espressione come concreto manifestarsi dei sentimenti vive nella natura, in tutti gli esseri animati e in primo luogo nell'uomo dove «la bellezza fisica e la bellezza d'espressione morale sono in correlazione costante e necessaria»[65].

Una volta giunti all'uomo, ovvero al vertice teleologico dell'estetica di Souriau come forma organizzata «per eccellenza», si può forse passare, dal piano generalissimo della bellezza attribuita alla totalità dell'esistente, al campo vero e proprio dell'artisticità produttiva, che rimane comunque quasi un postulato della bellezza razionale e della sua conseguente capacità espressiva. Il fine dichiarato dell'intera sua opera è infatti mostrare l'affinità di natura ed essenza fra bello e bene, distinguibili solo per una «differenza di grado» dove «il bello è il bene portato ad un grado tale che merita di suscitare l'ammirazione» e mira comunque, come il bene, all'ideale teleologico della perfezione.

Souriau quindi, pur rifacendosi a diverse tradizioni di pensiero, è qui molto vicino a Véron, per il quale «ogni creazione artistica deve riunire in sé la bellezza della forma sensibile e la bellezza dell'espressione morale»[66]. Se però Véron insiste sul lato sensuale dell'arte e sulla personalità dell'autore, Souriau, partendo da basi kantiane, costruisce un'estetica idealista dove i sentimenti estetici sono sottomessi al controllo razionale. Il suo merito maggiore - od almeno il punto che verrà ripreso dagli estetologi a lui posteriori - sarà allora quello dì avere affermato che la perfezione ideale della bellezza può venire costruita come «forma» dall'artista, dall'artista che è, in ogni caso, soprattutto un «lavoratore»:

«quale che sia l'arte alla quale si dedica, prima di produrre qualcosa, ha bisogno di un apprendistato serio, prolungato, che lo metta in possesso di tutte le risorse di quest'arte»[67].

 

 

 

Note

[28] Ch. Lalo, L'esthétique expérimentale contemporaine, Paris, Alcan, 1908, p. 1. [29] Bisogna tuttavia considerare che l'influsso di Fechner è stato in realtà molto più evidente nelle estetiche psicofisiologiche anglosassoni.

[30] C. Lalo, op. cit., p. 202. Si può cosi vedere che, più che a Fechner, l'estetica fran-cese guarda ai suoi stessi autori del Settecento.

[31] Ibid., p. 40.

[32] C. Henry, La lumiere, la couleur et la forme, in «Esprit Nouveau», 1922, p. 86.

[33] J.A. Arguelles, Charles Henry and the formation of a psychophysical aesthetic Chicago, University of Chicago Press, 1972 (opera con ampia bibliografia).

[34] Si veda C. Henry, Le cercle cromatique, Paris, Verdin, 1888.

[35] Arguelles, op. cit., p. 81.

[36] C. Henry, Introduction à l'esthétique scientifique, in «Revue contemporaine», 1885, p. 441.

[37] Si veda W.I. Homer, Seuràt and the Science of Painting, Cambridge (Mass.), MIT Press, 1964, pp. 189 sg. e le note 23 e 24.

[38] Arguelles, Op. cit., p.130 e p. 101.

[39] Per tutte queste tematiche e per i rapporti con il mondo degli artisti si veda sempre il volume citato di W.I. Homer.

[40] L. Tolstoi, Scritti sull'arte, Torino, Boringhieri, 1964, p. 175.

[41] Ibid.,p. 574.

[42] Ibid., p.182. Opinione simile era espressa anche dall'inglese J. Sully, i cui Studies in Psychology and Aesthetics del 1874 influenzarono in certa misura i contemporanei psicoestetologi francesi.

[43] E. Véron, Esthétique, Paris, Reinwald, 1878, p. V.

[44] Ibid., p. 34.

[46] T.M. Mustoxidi, op. cit., p. 197.

[47] E. Véron, op. cit., p. 309.

[48 ] Ibid., p. 447.

[49] G. Séailles, La science et la beauté, in «Revue philosophique», 1879, p. 610.

[50] A. Manesco, op. cit., p. 276.

[51] P. Souriau, La Beauté rationelle, Paris, Alcan, 1904, p.1.

[52] Ibid., p. 7.

[53] Ibid., p.18.

[54] I. Kant, Critica del Giudizio, a cura di A. Gargiulo e V. Verra, Bari, Laterza, 1979 p. 87. Come si potrà notare anche in seguito l'infanza di Kant (ed in particolare delle sue pagine sull'immaginazione) è una caratteristica generale dell'estetica francese nei primi anni del Novecento.

[55] P. Souriau, op. cit., p. 19.

[56] Ibid., p. 98.

[57] Ibid., p. 101.

[58] Ibid., p. 183. Ancora una volta si sottolinea che il discorso di P. Souriau si svolge essenzialmente all'interno di una terminologia e di problematiche che derivano direttamente dalla Critica del giudizio (mediate da una tradizione spiritualistica di fondo).

[59] Ibid., p. 230.

[60] Ibid., p. 292 sgg. Di una bellezza legata in qualche modo al senso dell'olfatto ha recentemente parlato in Francia E. Roudnitska, L'esthétique en question, Paris, Gallimard, 1977.

[61] P. Souriau, La Beauté rationelle, cit., p. 350.

[62] Ibid., p. 352.

[63] Ibid., p. 422.

[64] Ibid., p. 436.

[65] Ibid., p. 456.

[66] H. A. Needham, Le développement de l'esthétique sociologique en France et en Angieterre au XIX siècle, Paris, Champion, 1926, p. 274.

[67] P. Souriau, op. cit., p. 486.