1. Il problema dell'arte in Bergson

 

 

Se ci riagganciamo idealmente alle conclusioni delle estetiche di Guyau e Séailles mettendo fra parentesi quegli aspetti sociologici e psicologici che avevano ispirato Delacroix e Lalo per sottolinearne invece i lati «vitalisti», avremo senza dubbio uno dei precedenti più rilevanti della filosofia bergsoniana che, come si può vedere in Matière et mémoire, è rimasta influenzata, pur non condividendone, ed anzi ribaltandone le conclusioni, da tutto il dibattito sulla psicologia della creazione svoltosi fra Ottocento e Novecento con protagonisti, oltre che Guyau e Séailles, Ribot e Paulhan. C. Lalo, infatti, che pure è stato influenzato da Guyau nella sua sociologia dell'arte, non esita ad accusarlo di misticismo, che è «la tendenza comune a molti pensatori diversi, che consiste nel diffidare della ragione ed a sostituire alle sue analisi metodiche una credenza senza prove: intuizione psicologica irriflessiva, attività libera di una volontà capace di determinarsi senza motivi, o rivelazione sovrannaturale: un atto di fede qualsiasi, irrazionale, cio è confuso e ribelle all'analisi»[1]. Queste critiche, che potrebbero venire estese alle teorie dell'Einfühlung, oltre che ai «mistici» Brémond e Segond, partono dal giustificato presupposto che la nozione di vita, che vorrebbe risolvere i vari enigmi dell'estetica, è a sua volta un enigma che ha aperto la via alle molteplici e complesse questioni metafisiche presenti nella filosofia di Bergson.

L'errore di Guyau, a parere di Lalo, non è avere collegato l'estetica e l'arte alla morale e alla psicologia, esigenza caratteristica di ogni studio «positivo» ed «oggettivo» del fatto artistico, ma di averle invece ricondotte in un'unica formula che ne nasconde la particolarità ritrovando dappertutto, in ogni campo e in qualsiasi disciplina, sempre e soltanto l'iniziale e confusa nozione di vita, attraverso cui l'arte vorrebbe ricongiungersi alla forza pulsante dell'intera natura. È questo-scrive D.Formaggio - «il mondo dei poeti-filosofi o dei filosofi-poeti, di J. M. Guyau e di G. Santayana: oppure il mondo dei filosofi dell'esperienza totale, di J. Dewey»[2]. Ma l'arte, afferma lo stesso Formaggio, va oltre, al di là del vitalismo e dell'Einfühlung, supera l'indistinzione analitica fra soggetto e oggetto che vieta l'indagine sul loro necessario correlarsi nei processi percettivi, prassistici, storici della creazione e della ricezione. L'arte è senza dubbio collegata alla vita, è essa stessa «una delle innumerevoli forme in cui si manifesta la vita dell'umanità»: ma «ogni vera spiegazione dell'attività estetica consiste nell'analizzarla pazientemente, e non a rifiutare di distinguerla fra le altre, per confonderla con loro con il pretesto di meglio rispettarne la realtà»[3]. Se Guyau lascia spazio alla «sensazione intelligente», Séailles, privo di simile acume teorico, allarga il concetto di genio alla generalità della vita e della natura preparando con ciò, malgrado le basi scientifiche comuni anche a Ribot, il misticismo assoluto dell'evoluzione creatrice di Bergson.

«In questo stato ibrido - scrive Lalo - l'estetica è soltanto una sterile scolastica» che «rende conto della bellezza attraverso la vita pressapoco come gli antichissimi fisici spiegavano i fenomeni naturali attraverso la natura, l'ascensione dei liquidi nel tubo barometrico con l'orrore che la natura prova per il vuoto, o la guarigione di una malattia con 1a lotta delle forze vitali contro le altre»[4]. Su queste stesse basi, J. Benda, polemico «razionalista» anti-bergsoniano, critica l'estetica francese antecedente il 1914, anno in cui scrive il suo Belphegor, per il suo piegarsi alle vuote ideologie della società contemporanea che solo domandavano alle opere d'arte emozioni e sensazioni prive di qualsiasi piacere intellettuale. L'arte così si riduce ad un'unione mistico-simpatetica con una presunta «essenza delle cose», accede «ad uno stato di puro amore dove svanisce ogni specie di attività intellettuale»[5].

Il vitalismo estetico è dunque soltanto «lo sviluppo letterario di una metafora» [6] che ha le sue lontane origini in certa tradizione neoplatonica, nel pensiero di Schelling e nello spiritualismo e che, a parere di Lalo e Benda, non potrà comprendere nella loro pienezza né il significato dell'opera d'arte né gli atteggiamenti soggettivi ad essa variamente connessi. Questa reazione, che sarà con vari accenti sviluppata, fra gli altri, da E. Souriau, R. Bayer, il. Delacroix, G. Bachelard e G. Brelet, è il segnale di una «frattura» all'interno del pensiero estetico francese, dove assume rilievo centrale, in positivo e negativamente, l'opera di H. Bergson e che è tuttavia comunque preceduta da un momento unitario, ben rilevato da Feldman, derivabile da una generica reazione alle estetiche di fine Ottocento. L'estetica del Novecento, infatti, sia nelle sue posizioni romantico-simpatetiche con Basch e Bergson, sia in quelle che riconducono l'opera d'arte, attraverso il «realismo razionalista» di E. Souriau e R. Bayer, che di Basch fu allievo, ad una autonomia formale, rifiutano di asservire l'opera d'arte (o, più in generale, il fatto estetico) ad una determinata scienza, sia essa la psicologia, la fisiologia o la sociologia. Tale rifiuto, che non conduce tuttavia a un totale oblio di pensatori come Guyau, Séailles o P. Souriau, che anzi continueranno a far sentire la loro influenza, è il segnale di una raggiunta consapevolezza che spinge a superare i principi riduttivi per costituire i fondamenti certi di una «scienza estetica».

È appunto all'interno di questo consapevole tentativo di fondazione epistemologica che l'opera di Bergson acquisterà un ruolo di primo piano, sia, come visto, nelle polemiche psico-sociologiche di Delacroix e Lalo, sia nelle opere dei vari «formalisti». Anche se, come scrive Feldman, la tradizione dell'estetica francese non è strettamente connessa alla storia della filosofia (e, aggiungiamo, agli specifici «poteri universitari» che caratterizzano la filosofia nella Francia del primo Novecento), la fondazione di una scienza estetica è, nella sua autonomia sostanziale, pur sempre riferibile al pensiero di Bergson, che pure mai produsse una compiuta «filosofia dell'arte».

Da una parte avremo allora coloro che, riprendendo Guyau e Séailles, si pongono, anche al di là di un preciso richiamo testuale, nell'universo culturale dell'intuizionismo bergsoniano, considerato come il vertice del pensiero spiritualista e orientato verso un cattolicesimo «giansenista» venato da coloriture mistiche. In questa corrente, oltre a V. Basch che di Bergson è contemporaneo e che, anche per le matrici culturali tedesche occupa un ruolo del tutto particolare, dovremo porre J. Segond, l'abbé Brémond e la cosiddetta «scuola di Aix-en-Provence» nella sua generalità.

Dall'altra parte, che si potrebbe dividere in molteplici «sottosettori», si pongono tutti quei pensatori che reputano impossibile fondare un'estetica scientifica su basi metafisiche o puramente soggettivistico-sentimentali e si rivolgono allora non all'intuizione sovraintellettuale ma all'analisi razionale dei «fatti estetici» nella loro concreta realtà culturale e tecnico-formale. Essi non sono, seguendo una «tradizione» dell'estetica francese, esclusivamente filosofi, come Lalo, Bayer e Souriau, ma anche storici dell'arte come Focillon, poeti come Valéry, pittori come Denis, letterati come Malraux.

Questa «frattura», che vede sempre più affermarsi sia nelle università sia nella «Revue d'esthétique» la corrente «razionalista», sebbene utile per schematizzare il quadro generale, non è l'unico elemento capace di caratterizzame la molteplicità dei significati. Alla «presenza» bergsoniana dovremo infatti aggiungere l'«assenza» quasi assoluta - con l'eccezione di Croce - dei contemporanei tedeschi o anglosassoni, che, a loro volta, mai hanno prestato attenzione al pensiero francese[7]. Infine è da rilevare che l'influsso bergsoniano cade quasi totalmente dopo la seconda guerra mondiale, quando la lettura delle «tre H» - Hegel, Husserl e Heidegger - porterà l'estetica francese, in primo luogo con M. Dufrenne, verso orientamenti di carattere fenomenologico. Ma è soprattutto importante ricordare che l'estetica francese pur con diversi atteggiamenti, affronta tematiche comuni e, nella sostanza, unitarie che hanno la loro origine in Guyau, in Séailles e in V. Basch, i cui influssi permangono pur nelle critiche, facendo di loro gli insostituibili «fondatori» dell'estetica francese contemporanea. Non si può infatti scordare che due pensieri in apparenza opposti quali il positivismo di Lalo e il soggettivismo di Basch hanno entrambi origine negli studi di psicologia di fine Ottocento e nelle varie psicofisiche tedesche e anglosassoni.

Bergson stesso, inoltre, arricchisce questa tradizione autonoma inserendovi l'estetica «totale» dello spiritualismo di F. Ravaisson, che è per Segond la figura maggiore fra coloro che, opponendosi al relativismo positivista, affermano che i problemi dello spirito si pongono in funzione dell'Arte piuttosto che della scienza. La vera Arte, per Ravaisson, evolve con Leonardo verso l'affermazione della «Bellezza vivente», che è il significato reale e segreto della Natura, la sua «anima»[8]. La Bellezza come «segreto del mondo» indica quindi, in Ravaisson come in Bergson e nello Spiritualismo in genere, che il problema dell'arte va ricondotto non a fattori tecnico-costruttivi ma, agostinianamente, all'interiorità o all'autocoscienza. Scrive infatti Bergson interpretando Ravaisson: «l'oggetto della metafisica è riafferrare nelle esistenze individuali, e seguire sino alla fonte da cui emana, la ragione particolare che, conferendo a ciascuna di esse la sua propria sfumatura, la ricollega da qui alla luce universale»[9]. L'oggetto «bello» non viene analizzato come risultato di un processo costruttivo ma come un dono metafisico che partecipa a una Bellezza che è ideale anche quando è identificata con la vita della Natura. È infatti sempre Bergson a informarci che Ravaisson, discreto disegnatore egli stesso, amava citare quelle pagine del Trattato della pittura dove Leonardo parla della linea generatrice di ogni disegno, linea più pensata dallo spirito che percepita dall'occhio: il pittore si pone al di là del modello e sviluppa una visione mentale riproducendo nella figura lo sforzo generatore della natura.

«Tutta la filosofia di Ravaisson - scrive Bergson - deriva dall'idea che l'arte è una metafisica figurata, che la metafisica è una riflessione sull'arte, e che è la stessa intuizione, diversamente utilizzata, che fa il filosofo profondo e il grande artista»[10]. Sin dal famoso «rapporto» del 1867, La Philosophie en France au XIX siècle, era infatti presentata l'idea che la filosofia deve cogliere nella natura il principio vitale riconducendolo a una forma spirituale superiore completamente svincolata dalla materia: «l'universo visibile ci èpresentato come l'aspetto esteriore di una realtà che, vista dal di dentro e colta in se stessa, ci apparirebbe come un grande atto di liberalità ed amore»[11]. Nelle pagine che dedica all'arte e al disegno Ravaisson specifica che è la vita a offrire una linea di sviluppo al mondo non organizzato, ad accentuare la bellezza risalendo dall'inorganico all'organico in una rivelazione progressiva dell'intimo lavoro della natura. La Bellezza appartiene alla forma, che ha origine nei movimenti «ritmati», cioè nei movimenti della «grazia», che già per Leonardo era la categoria principale della bellezza. La bellezza è forma e la forma è grazia: parole che appariranno nel differente contesto di R. Bayer come origine per un'estetica oggettivista e che in Ravaisson conducono invece l'estetica verso la metafisica e la teologia.

La vita, come affermerà in seguito Bergson, è dunque il superamento attivo delle distinzioni fra soggetto e oggetto: il mondo si spiega come una rivelazione progressiva della divinità creatrice, come una tendenza costante verso la perfezione della Bellezza di cui l'umanità «è la misura estetica come la misura scientifica»[12]. La filosofia diviene integralmente «estetica» solo in virtù di un principio metafisico di armonia e perfezione cosmica: la simmetria, il movimento ritmato della gràzia e il divenire della vita verso l'uomo costituiscono la Bellezza come essenza finale della Natura. La Natura tende infatti a un fine che è sempre più o meno ostacolato e che solo l'arte permette di raggiungere «per far vedere allo stato puro la tendenza, la volontà della natura, cioè, al posto della realtà con le sue imperfezioni inevitabili, l'ideale e assoluta verità»[13]. L'arte ha dunque la funzione di porre in una luce più chiara la legge fondamentale della vita e dell'organizzazione mostrando la «felicità» di cui è pervasa l'anima, ovvero l'amore reciproco che circonda l'esistente a imitazione della «vita divina». Essa è così un'astrazione metafisica dove Ravaisson riunisce non solo il disegno o le «arti liberali» ma anche la morale, «arte superiore» che ha per oggetto la bellezza dell'anima.

In simile senso la filosofia di Bergson, autentica metafisica che procede con le modalità di un'indagine psicologica, sarà «estetica» non come teoria speciale dell'arte capace di analizzare scientificamente i processi costruttivi l'opera e il suo contesto storico-categoriale, ma come «metafora» di un sistema dove qualsiasi oggetto è il prodotto vivente di uno slancio creatore, di un movimento di qualità pura di cui la vita interiore offre la ricchezza dei molteplici ritmi. «Estetica» dunque la filosofia di Bergson, come quella di Ravaisson, solo in un ambiguo senso «generale», come mistica e immediata intuizione unitaria di un divenire costruttivo che assorbe gli oggetti nella sintesi armonica di una «durata» o di uno «spirito».

Se tale posizione e «marginale» nel quadro dei movimenti episternologici dell'estetica francese, costituisce pur sempre lo sviluppo in Senso metafisico-spiritualistico, o addirittura mistico, di alcune vaghe intuizioni di Guyau e Séailles, il cui vitalismo, come nota Lalo, spesso sembrava opporsi alla vita riflessiva: «questa vita interiore, superiore a quella della ragione ragionante, questa rivelazione di se stessa e di Dio e di tutte le cose che risiede in un sentimento o meglio in un'intuizione del tutto personale e incomunicabile, questa ultima della morale, della metafisica e dell'arte, di tutto ciò che non è ancora un oggetto di scienza incontestabile» è «la base comune di ogni misticismo, che sia scettico o sapiente, confessionale o laico, estetico o morale, religioso od ascetico»[14]. Bergson è il punto culminante del misticismo e lo dimostra quando, nell' Evolution creatrice, critica il concetto di «vita» di Séailles perché è, malgrado tutto, ancora un concetto che in sintetizza elementi virtualmente separati quando invece «noi reputiamo che, nel campo della vita, gli elementi non hanno esistenza reale e separata»[15].

L'intelligenza, che costruisce simboli e concetti statici, non può comprendere la vita, che è invece afferrata dall'in intuizione nell'unità ontologica del suo slancio. Intuizione che tuttavia, come hanno notato Jankélévitch, Maritain e Deleuze, è in Bergson esenzialmente «metodo», un metodo rigoroso che si identifica cofl il divenire vero Sapere, della durata, del tempo nella molteplicità costruttiva dei suoi molteplici ritmi; un metodo che «invece dì preparare una deduzione dottrinale dei concetti, si genera a mano a mano che si svolge il Progresso spiritu-ale di cui è soltanto la fisionomia o il ritmo interiore»[16].

L'istanza suprema della filosofia è per Bergson l'esperienza interiore intuitivamente acquisita, esperienza che, trasferita nel campo dell'estetica, può facilmente identificarsi con il potere assoluto della soggettività ispirata dell'artista in comunione con il mondo degli oggetti: «intuizione - scrive Bergson - chiamo qui la simpatia per cui ci si trasporta all'interno di un oggetto, in modo da coincidere, con ciò che esso ha di unico e, conseguentemente, di inesprimibile»[17]. È una modalità di comprensione e azione esattamente antitetica all'analisi, che riporta l'oggetto a elementi già conosciuti; ma non per questo, proprio per la sua essenza di metodo elaborato, può venire considerata, in modo estremistico, un mero sentimento, un'ispirazione o una simpatia confusa: attraverso l'intuizione si presenta un edificio filosofico che, oltre alla genialità della costruzione, è in grado di offrire un'estetica generale che esamina, superando gli schematismi positivisti e ribotiani, i rapporti fra la percezione, l'immaginazione e la memoria, ovvero fra i piani corporei fondativi di ogni esperienza. Inoltre Bergson, «filosofo degli artisti», come lo chiama S. Langer, è, con la sua filosofia, in comunione reale con molti aspetti dell'arte a lui contemporanea: «il disciogliersi dei corpi nella qualità della luce, che avviene con l'impressionismo, le diafane figure evanescenti dei drammi di Maeterlinck, il puro variare qualitativo d'una linea melodica continua e sfumata che troviamo in Debussy - scrive Mathieu - possono darci un 'idea di ciò che Bergson intende per durata, assai più fedele che qualsiasi ricostruzione concettuale»[18].

Non si può tuttavia scordare che in Matière et mémoire le differenze di natura tra le immagini corporeo-percettive (e i ricordi-immagine ad esse legate) e il ricordo-puro, che rivela l'intimità della vita dell'essere, hanno come «punto di passaggio» uno stato di rêve, un sogno fantasticante che ci allontana dalla corporeità materiale del ricordo per condurci verso la sua più pura essenza spirituale, verso «la memoria pura». Memoria che è pur sempre, nella sua stessa spiritualità, intuizione «estetica» che deriva la sua realtà da una situazione di carattere percettivo-immediato e non intellettuale e mediato. Il concetto di intuizione può dunque divenire «un principio d'interpretazione del fenomeno poetico» e costituire «un criterio critico e metodologico che ha una straordinaria influenza sulla cultura e sul gusto ed anche sull'ispirazione letteraria e musicale della sua epoca»:

«cosi l'arte è un'adesione intima, totale e senza pregiudizi, un abbandono del soggetto al suo universo in una dimensione qualitativa e al limite un'abolizione completa dei parametri del bello (lo spazio e il tempo) e un assorbimento nel corso della memoria»[19].

Per Bergson dunque, ricordando Guyau, vita e coscienza non sono soltanto, come scrive Maritain, «un 'esigenza di creazione» [20] ma una vera e propria «potenza di creazione», sempre sul punto - un punto costantemente sfiorato e mai raggiunto - di trasformarsi in teoria dell'arte, teoria che, accanto all'estetica generale di Matiére et Mémoire, è presente solo frammentariamente nel saggio La perception du changement e in Le rire, ma che può essere colta, se non nel «bergsonismo di fatto», in quell'insieme di spunti molteplici presenti nelle sue opere che Maritain chiama «bergsonismo d'intenzione» L'essenza della realtà, cui Bergson giunge analizzando la percezione pura e la memoria pura, è la realtà ontologica della durata, del tempo come flusso inarrestabile di eterogenei compenetrantesi che si identifica con l'intuizione, che è nel contempo lo strumento del suo rivelarsi e che comunque non si trasforma, in Bergson, in una facoltà specifica produttiva di opere d'arte. Le basi della teoria dell'arte di Bergson si trovano infatti nelle estetiche psico-fisiologiche il cui ambito viene contraddittoriamente esteso a un campo metafisico. Ogni arte è così collegata a un particolare organo corporeo, per esempio la vista alla pittura, e la grandezza dell'artista misurata sulla sua capacità di «distaccare» dalla vita pratica tale organo per indìrizzarlo verso la realtà più profonda, verso la creazione. L'artista èquindi per Bergson un «privilegiato» che, distaccandosi dalla visione pratico-utilitaria del mondo, ha di esso, attraverso il suo senso «distaccato», una visione profonda e intuitiva, sia pure mediata dall'oggettività statica dell'opera costruita. L'artista coglie dunque la realtà ontologica della durata solo in modo parziale perché parziale è il suo distacco dall'utilitarismo mondano. L'arte è esoterica in tutti i suoi aspetti mentre solo la filosofia può estendere all'intera umanità la visione intuitiva delle cose: Bergson non ha sviluppato un estetica perché essa avrebbe in qualche modo occultato lo scopo ultimo della sua filosofia, filosofia intuizionistica che può «ispirare» - come è accaduto - gli artisti ma che non può essere, nel senso tradizionale, «teoria estetica».

Come scrive R. Bayer nel suo noto saggio L'esthétique de Bergson, Bergson non ha scritto un'estetica perché non poteva scriverla, perché la sua stessa filosofia gli vietava la possibilità teorica di analizzare un oggetto compiuto ed a sé stante quale l'opera d'arte. Anche se, come afferma Lalo, «l'attività creatrice dell'artista nell'ispirazione è l'immagine favorita con cui i mistici amano rappresentare l'evoluzione creatrice degli esseri e delle cose»[21], essa resta in Bergson solo la «metafora» di un processo filosofico che deve necessariamente superare l'ambito dell'arte o, se si vuole, rendere artistico, cioè «produttivo-concreto», l'intero divenire della nostra esperienza.

Ciò non toglie che in Bergson l'arte offra della realtà una visione «più profonda di quella che ci dà la nostra intelligenza, e ciò perché essa partecipa più di questa alla 'durata concreta', all'evoluzione perpetuamente nuova e perpetuamente inventiva che è il carattere irriducibile e irrazionale di tutta la vera vita, di cui la spontaneità creatrice non si ripete mai»[22]. L'arte è solo una «via privilegiata» per un compito extraestetico, cioè metafisico, e una sua teorizzazione filosofica non potrà quindi avere un autonom o ambito categoria-le e costruttivo. Essa è soltanto «una visione più diretta della realtà» che ha il solo obbiettivo «di scartare i simboli praticamente utili, la generalità convenzionalmente e socialmente accettate, infine tutto ciò che ci nasconde la realtà per metterci di fronte alla realtà stessa»[23].

L'estetica come «scienza autonoma» era quindi disciplina cui Bergson non poteva dedicarsi. Già Delacroix, come si è notato, aveva affermato che l'intuizione-ispirazione del bergs onismo impediva di comprendere i momenti stratiticati e correlati del processo concreto dell'operare artistico. Inoltre, la stessa concezione della temporalità indistinta e fluente non aderiva alla temporalità specifica dell'opera d'arte, che è sempre in relazione con la vita temporale dell'autore, del «contemplatore», con la temporalità psicologica e con quella «storica». Sull'inadeguatezza del «tempo bergsoniano» per una teoria dell'arte insiste anche G. Bachelard nella sua Dialectique de la durée del 1936, sostenendo che la durata bergsoniana, nel suo indistinto fluire, è incapace di costruire una «dialettica» del tempo, dialettica che costituisce la sua vera realtà profonda: il tempo costruttivo non è infatti un'incessante creazione poiché èformato da un ritmo di vuoto e di pieno, di creazione e di pausa che riflette la nostra interna temporalità e la temporalità degli oggetti facendoli uscire dal regno confuso dell'indistinzione.

Neppure per quanto riguarda l'arte musicale il tempo come «fusione» di eterogenei relativamente «non-indipendenti» 1 l'uno rispetto all'altro può identificarsi con il tempo della musica. È vero che Bergson scrive che la melodia, continuità indistruttibile in cui tutto il passato entra nel presente e con questo forma un tutto indiviso ed indivisibile, può venire assimilata alla durata interiore nella sua «musicale» fluidità, ma egli aggiunge anche che l'identificazione è impossibile perché la melodia musicale ha ancora troppa qualità e determinazione mentre invece occorrerebbe «cancellare la differenza fra i suoni, poi abolire i caratteri distintivi del suono medesimo, e non conservare che la continuazione di ciò che precede in ciò che segue - molteplicità senza divisibilità e successione senza separazione - per ritrovare, infine, il tempo fondamentale»[24]. Inoltre, come scrive la musicologa d'ispirazione formalista G. Brelet, il tempo «interno», il tempo «psicologico», pur fondamentale per un discorso sul tempo musicale, non puo comprendere la sua specifica essenza autostrutturantesi, i rapporti «razionali» che all'interno della musicasi organizzano fra le differenti modalità del tempo[25].

In queste considerazioni la Brelet si richiama al saggio citato di R.Bayer, che, a sua volta, ha come riferimento H. Delacroix e G. Bachelard, Bayer, partendo dal presupposto che «metafisica bergsoniana ed arte bergsoniana sono entrambe intuizioni presentative»[26], ritiene che arte e percezione siano accomunate in un tentativo di restaurare una tecnica «naive» della percezione pura. Al di fuori di questo discorso, che è filosofico, un artista, secondo Bayer, «non saprebbe parlare il linguaggio della metafisica bergsoniana» perché l'arte è in primo luogo lavoro e solo «la realizzazione sensibile del tecnico», che Bergson non considera, «rende possibile che si oggettivi, nella cosa creata, l'esperienza interiore dell'intuitivo»[27]. L'istante dell'intuizione e quello dell'opera sono dunque di natura contraria perché quest'ultimo presuppone necessariamente uno «sforzo» intellettuale, una «energia», per usare un termine caro a Delacroix, che tende all'espressione e alla comunicazione. L'arte è «un artificio dell'homo faber», è «dialettica sensibile», «figlia dell'intelligenza» e dell'industria.

Il tempo «estetico» si esprime dunque, come voleva Bachelard, in un sistema discontinuo di valori psichici, «in un insieme di intensità dell'impressione, in un seguito di battiti di cui ciascuno ha il suo proprio accento»[28]. L'esperienza estetica non è formata da una serie di impressioni che si «sciolgono» l'una nell'altra ma è, per essenza, «un insieme di istanti fissati». Come dimostrerà in seguito il Bachelard della rêverie - stato «di passaggio» fra ricordo immagine e ricordo puro cui dà una certa importanza lo stesso Bergson - ogni istante affettivo, ogni «momento ritmato» dell'opera d'arte ha una sua propria temporalità che si radica tutt'intera nella presenza percettiva, immaginativa e memorativa di ciascun soggetto concreto.

A parte le acute indagini sulla categoria del «comico», che per il suo carattere mobile e fuggitivo ben si addiceva alla dinamicità del suo pensiero, ogni volta che Bergson ha «cercato» l'estetica «si e trovato, suo malgrado, faccia a faccia con la sua propria filosofia» [29] ed è ricaduto nelle aporie e nelle indecisioni che essa stessa comporta. Queste considerazioni non devono peraltro sminuire né l'importanza intrinseca della filosofia bergsoniana né il suo notevole influsso, se non altro per l'impulso di «confrontarsi», con l'estetica francese del Novecento e con l'intero mondo dell'arte.

 

Note

[1] C. Lalo, Les sentiments esthétiques, Paris, Alcan, 1910, p. 101. Lalo ironizza sul vitalismo che sarebbe, a suo parere, il «Sesamo, apriti» dell'estetica contemporanea. L'influssodi Guyau e Séailles su Bergson è riscontrato anche da Harding (op. cit., p. 114).

[2] D. Formaggio, Fenomenologia della tecnica artistica, cit., p. 61.

[3] C.Lalo, op. cit., p. 106.

[4] Ibid., p. 106. Il giudizio di Lalo su Guyau e Séailles è durissimo, a parere nostro, persino inclemente. Scrive infatti (ibid., p. 111): «Ci si è già potuti convincere che la teoria estetica della vita si presenta ordinariamente come una valanga di affermazioni categoriche e di parole ad effetto. È la sua più grande forza. Essa è un esempio sorprendente della facilità con cui si lasciano accettare idee confuse abilmente presentate. Il prestigio dello stile e l'ingegnosità innegabile degli sviluppi lirici e descrittivi possono solo spiegare l'affliggente successo di una simile concezione presso il pubblico francese contemporaneo».

[5] J. Benda, Belphagor, Paris, Emile-Paul, 1918, p. 10. In altri luoghi si vedrà appariva l'acume polemico di Benda. Se qui appare vicino ai «razionalisti» critici del bergsonismo, come Alain, Valéry o Bachelard, in altre sue opere criticherà anche queste impostazioni culturali, a suo parere ugualmente «dilettantesche». Questa breve opera, nella sua critica feroce all'estetica francese spiritualista e accademica, suscitò un ampio dibattito in cui tuttavia, ancora una volta, rimasero quasi estranei i principali veri e propri rappresentanti dell'estetica.

[6] C. Lalo, Les sentiments, cit., p. 113.

[7] Se si esclude Guyau, che a volte viene citato, per esempio da Brentano nelle Lezioni di psicologia ed estetica, del 1885-86 (tr. it. in E. Franzini-R. Ruschi, Il tempo e l'intuizione estetica, cit., pp. 97-153) e, in seguito, V. Basch, che Geiger ricorderà nei suoi scritti del 1911 sull'Einfühlung. Si veda, a questo proposito, G. Scaramuzza, Le origini dell'estetica fenomenologica, Padova, Antenore, 1976. Inoltre, l'intervento di M. Geiger al Congresso di Estetica berlinese del 1913: Das Problem der Scheingefühle in Bericht des Kongresses für Aesthetik und allgemeine Kunstwissenschaft, Stuttgart, 1914, pp. 19 1-94. Su questo Congresso si veda la relazione di C. Lalo, Le premier Congrès d'Esthétique, in «Revue philosophique», gennaio 1914.

[8] J. Segond, come vedremo in seguito, sottolineerà la validità dell'interpretazione di Ravaisson, nei suoi scritti del 1887, dell'opera leonardesca, in opposizione all'interpretazione «razionalista» di Valéry.

[9] H. Bergson, Notice sur la vie et sur les ouvres de M. Felix Ravaisson-Mollien in F. Ravaisson, Testament philosophique et fragments, Paris, Boivin, 1933, p. 11.11 discorso di Bergson, letto nel 1904 all'Accademia di Scienze morali e politiche, ora inserito in Le pensée et le mouvant.

[10] Ibid., p. 18. Ravaisson, pur esercitando negli ultimi anni della sua vita, un notevole influsso sulla filosofia francese, non insegnò mai nelle Università francesi, forse per i contrasti di carattere con il vero e proprio dittatore delle nomine universitarie (di diretta pertinenza del Ministero, al di fuori di qualsiasi concorso) Victor Cousin. Ravaisson fu infatti impiegato alla Pubblica istruzione con le mansioni di ispettore di biblioteche.

[11] F. Ravaisson, La philosophie en France au XIX siécle, Paris, 1867, p. 29.

[12] F. Ravaisson, Testament philosophique, cit., p. 77.

[13] Ibid., p. 87.

[14] C. Lalo, Les sentiments esthétiques, cit., p. 115. Scrive J. Wahl, Il pensiero moderno in Francia, cit., p. 101, che Guyau, sviluppando la teoria delle «idee-forza» di Fouilé, «perviene a una concezione della vita analoga a quella di Ravaisson, ma forse più dinamica».

[15] Bergson, Evolution creatrice, Paris, Alcan, 1907, p. 31.

[16] V.Jankélévitch, Bergson, Paris, Gallimard, 1931, p. 2.

[17] H. Bergson, Introduzione alla metafisica, a cura di V. Mathieu, Bari, Laterza, 19703, p. 45.

[18] V. Mathieu, Bergson. Il profondo e la sua espressione, Torino, 1954, p. 62.

[19] G. Morpurgo-Tagliabue, L'esthétique contemporaine, Milano, Marzorati, 1960, p.14.

[20] J. Maritain, La philosophie bergsonienne, Paris, 1914, p. 26.

[21] C. Lalo, Les sentiments esthétiques, cit., p. 117.

[22] Ibid., p. 119.

[23] H. Bergson, Il riso, Bari, Laterza, 1982, p. 102. Il volume è del 1900.

[24] H. Bergson, Durée et simultaneité, Paris, Alcan, 1922, p. 55.

[25] G. Brelet, nota musicologa francese, si richiama direttamente a Hanslick. In riferimento al problema del tempo si veda il suo Le temps musical, 2 voi., Paris, P.U.F. 1949.

[26] R. Bayer, Essais sur la methode en esthétique, Paris, Flammarion, 1953, p.10.

[27] Ibid., p. 26.

[28] Ibid., p. 65. Questo fondamentale saggio di Bayer, scritto nel 1944, riprende tematiche che erano già presenti in Delacroix e soprattutto nella Dialectique de la durée, pubblicata da Bachelard nel 1936. Qui è presente una concezione del tempo come realtà «discontinua», che in seguito meglio esamineremo. È comunque interessante notare che le critiche alla non scritta filosofia dell'arte di Bergson possono fondarsi in primo luogo sulla aspecificità della sua concezione temporale in relazione alle opere d'arte.

[29] Ibid., p. 98.