4 - L'assoluto e le forme

 

La comunanza tematica del dibattito estetico nella Francia del Novecento, favorita senza dubbio dalla caratteristica autarchia culturale francese, trova un ulteriore riscontro, oltre che in Valéry, nelle varie opere che i creatori stessi hanno dedicato alla teoria dell'arte, occupandosi in modo particolare del ruolo costruttivo della tecnica nei processi della produttività artistica.

Maurice Denis, per esempio, teorico e protagonista del cosiddetto «simbolismo» pittorico, sostiene che un dipinto, «prima di essere un cavallo di battaglia, una donna nuda o un qualsiasi aneddoto, e essenzialmente una superficie piana ricoperta di colori riuniti in un certo ordine»[70].

L'arte non è «imitazione» pura e semplice della natura ma una sua più complessa trasposizione sentimentale: questa asserzione di Denis trova un sostenitore anche in Apollinaire, che nelle sue Méditations esthétiques, rifiuta la verosimiglianza come criterio estetico e valutativo per le opere d'arte figurative. L'arte non deve conformarsi al gusto naturale ma trasformarlo, modificando con ciò anche la stessa sensibilità degli uomini[71].

André Malraux, che è fra gli artisti colui che ha scritto la più importante opera di estetica esercitando un notevole influsso anche nei riguardi dei «professionisti», riprende anch'egli questa posizione anti-mimetica sostenendo che, più che a vedere il mondo, la pittura tende a crearne un altro, nuovo e irriducibile. È questo il punto di partenza della sua Psychologie de l'art, ampio studio che, al suo apparire, venne considerato non l'estemporanea meditazione di un brillante e discusso letterato ma «la più importante opera d'estetica del nostro tempo»[72]. Oggi dobbiamo forse ridimensionare tale giudizio e riconoscere, con Morawski, «che Malraux si è valso di vari e numerosi motivi, da lui assimilati in conformità ad alcune idee di fondo derivanti dalla sua visione del mondo». Più che un'estetica sistematica

«si tratta di un insieme di tesi definite, che possono essere desunte da una o più idee di fondo, esposte in un linguaggio discorsivo, mosso da ambizioni, più che persuasive, chiarificatrici; e che prende in esame solo alcuni di quei problemi che tradizionalmente sono ritenuti i principali problemi estetici»[73].

Tale impostazione deriva peraltro dalle generali (e generiche) basi filosofiche di Malraux che, conoscitore della fenomenologia, sposa piuttosto la tradizione dell'esistenzialismo nelle sue varie manifestazioni francesi e tedesche tentando di cogliere la potenza dell'uomo e il significato del suo destino, ricerca in cui dobbiamo comprendere e interpretare sia l'adesione sia la successiva rottura con il marxismo e con il partito comunista francese quanto, d'altra parte, l'idea che la ricerca della libertà dell'uomo debba essere affidata all'arte.

Questi ondeggiamenti ideologici, forse drammatici[74], sono implicitamente presenti in tutta la sua opera lettararia ed estetica, dove si nota sempre il tentativo di ridurre la frammentarietà dell'esistente a un principio sovraestetico che ne comprenda l'intima unità. Infatti l'estetica di Malraux è, in primo luogo, l'elogio del museo, il tentativo anzi di costruire il «museo dei musei» dove, se l'opera d'arte e il suo stile appaiono al centro dell'attenzione e dell'interesse, va presupposto tuttavia un criterio soggettivo di selezione delle opere che in esso sono poste: le «voci del silenzio» delle opere d'arte implicano pur sempre una voce, ovvero una «psicologia» dell'arte stessa, un esame dell' anima nel divenire delle sue stesse forme.

Il museo offre infatti alle opere d'arte un nuovo ruolo non più sottomesso alla loro funzione sociale ma indirizzato invece alla determinazione degli specifici caratteri stilistici. L'opera d'arte non è qui limitata dalle intenzioni del suo creatore ma possiede una vita propria, un autonomo universo in cui si muovono, si interpretano e «metamorfizzano» le forme e gli stili. Come già aveva sostenuto Focillon (e prima ancora Baudelaire) l'arte è creazione di un universo concreto distinto dalla natura e non sottomesso alle leggi storiche del reale: «questo universo 'distinto della natura' l'artista l'imporrà attraverso il suo stile e non attraverso una qualità di visione»[75]. Il campo dell'arte, il «museo immaginario» non è dunque quello individuale e limitato dell'artista ma una presenza oggettiva che ha in sé il divenire delle forme e degli stili. L'arte non ha per scopo l'espressione di sentimenti soggettivi, di sogni o giochi né è riducibile alla biografia dell'artista «geniale» ma deve invece affermare l'intrinseca specifica storicità degli stili.

Dunque, anche se il museo «separa l'opera dal mondo profano»,

«le opere non entrano nel museo immaginario ripudiando la storia, come entravano nelle collezioni opere classiche; vi mantengono con la storia un legame complesso, che talvolta si spezza, perché, se la metamorfosi anima anche la storia, non incide su questa quanto le opere d'arte»[76].

Ciò significa che la nostra relazione con l'arte tende sempre più a «intellettualizzarsi» poiché il Museo non implica pura e semplice contemplazione ma una ricreazione dell'universo di fronte alla creazione, un ricreare che tiene conto dei processi di metamorfosi oggettiva delle opere che ci giungono dal passato.

L'arte è un mezzo per accedere all'assoluto e, in tal senso, l'artista si esprime per creare un suo proprio universo (come dirà in seguito anche Dufrenne) e non per un'istintuale o sentimentale necessità di espressione: la creazione non nasce dall'abbandonarsi all'ispirazione ma, come già aveva affermato Valéry, dal saperla dominare.

L'influsso di Mallarmé, così evidente in Valéry, sembra dunque presente anche in Malraux: il mondo è fatto per costruire una sola grande opera d'arte che non è, in questo Caso, un «bel libro» ma il Museo, vivente espressione di quell'unitaria «vita delle forme» di cui aveva parlato Focillon. E, in comunione con quest'ultimo, per Malraux

«studiare l'arte è studiare la vita delle forme, la successione degli stili attraverso le età, stili che vengono costruiti con il concorso di numerosi fattori, fra cui lo sviluppo delle tecniche, l'interpretazione delle differenti arti, le tradizioni accettate o respinte lo spirito delle civiltà, la ripartizione geografica»[77].

È dunque. «formalista» l'estetica di Malraux? Senz'altro se, generalizzando e semplificando, consideriamo «formalismo» qualsiasi teoria dell'arte dove sia predominante la nozione di «forma». È allora formalista come il pensiero di Focillon, Valéry, Souriau, Bayer, in parte persino Dufrenne; come Faure, Wölfflin e Fiedler.

È tuttavia proprio la diversità dei nomi citati a suggerire che il termine stesso di «formalismo» ha perso, nel nostro secolo, che ha visto sorgere numerosi distinti «formalismi» (dalla storia dell'arte alla linguistica e al cinema), la sua pregnanza significante o, almeno, quel significato originario che possedeva in Herbart e Zimmermann. Malgrado, dunque, l'indubbia importanza che ha avuto per Malraux il pensiero di Wölfflin e di Focillon, egli ha Come fine della sua opera (e quindi del suo Museo) un'idea di valore Supremo, di assoluto che è estranea ai pensatori dei vari «formalismi». Più che vedere il mondo, la pittura serve infatti a crearne uno nuovo, a servire lo «stile», che non è solo un carattere comune alle Opere di una scuola o di un'epoca ma «l'oggetto della ricerca fondamentale dell'arte, per la quale le forme viventi sono soltanto una materia prima»[78]. L'arte è ciò per cui «le forme diventano stile», abbandonano ogni pretesa mimetica e tendono alla costruzione (all'instaurazione, direbbe Souriau) di un «altro» mondo, del mondo dell'assoluto: l'arte è invenzione di forme ed «e sempre nelle forme che l'autore scopre i valori artistici fondamentali»[79], che costruisce il «valore» stesso dell'arte.

Viene dunque rimessa in gioco la nozione stessa di «storicità» dell'arte che in un primo tempo sembrava accettata. L'artista infatti, pur parlando il linguaggio del suo tempo, non ne è il risultato necessario, né le sue opere, come affermano alcune interpretazioni sociologiche, esprimono le condizioni socioeconomiche della loro epoca storica:

«quando scopriamo - scrive Malraux - che la chiave della creazione, invece d'essere nel processo per il quale essa succede e che l'ha originata, è invece nella rottura, l'arte, senza separarsi dalla storia, vi si ricollega in senso inverso. Il legame di cui il falsario ci costringe a riconoscere la forza, non unisce l'artista alla storia ma alla storia delle forme»[80].

Il Museo immaginario è dunque il Museo degli stili, «la ricomposizione di un mondo tanto diverso dal vero come l'opera d'arte lo è dal reale»[81], l'affermarsi della «metamorfosi d'Apollo» nei confronti del confuso divenire dionisiaco. La storia dell'arte sembrerebbe dunque avvicinarsi, per Malraux, a quella «storia dell'arte senza nome» di cui aveva parlato Wölfflin: bisogna tuttavia precisare che, malgrado notevoli analogie, la radicalità e l'univocità della posizione di Wölfflin è, come ricorda anche Morawski, diversamente orientata rispetto a quella di Malraux. Allo stesso modo non è possibile assimilarlo a Focillon pur ammettendo che ha da lui tratto notevoli spunti integrandoli con la teoria del Kunstwollen di Riegl e forse, malgrado l'opposto parere di Morawski, anche con le influenze delle estetiche «universitarie» francesi[82].

È tuttavia certo che le influenze sul pensiero di Malraux non possono venire limitate ai nomi di filosofi o storici dell'arte; in lui si trovano, infatti, analogie con la tragica poetica di Camus, con la teoria dell'arte di Heidegger (mai esplicitamente ricordata), con il volumetto Esprit des formes che Elie Faure pubblicò nel 1927 e, soprattutto, con le teorie espresse da W. Worringer in Abstraction und Einfühlung, oltre che con le meditazioni di artisti quali Gauguin, Denis, Apollinaire, Baudelaire e gli stessi surrealisti. La densità indubbia di tali spessori culturali ha dato origine a una brillante e piacevole opera che tuttavia, per quanto riguarda il suo lato specificamente estetico, troppo spesso rivela la mancanza d'intrinseca unità, l'ispirazione letteraria che ne fa piuttosto, anche aiutato dallo splendido apparato iconografico, un «romanzo delle forme». E del romanzo, in primo luogo della Condition humaine, la Psychologie de l'art possiede anche la pessimistica impostazione ideologica, secondo la quale il mondo è in preda al caos, un caos che l'uomo subisce e che può sfuggire solo creando un nuovo mondo, il mondo delle forme artistiche.

Per questo motivo soprattutto l'opera estetica di Malraux non può venire considerata l'espressione di un puro e semplice formalismo: essa risponde a un'esigenza esistenziale che, attraverso le forme artistiche, vuole creare un nuovo mondo da contrapporre alla tragicità dell'esistente. L'arte non è al servizio della natura, della storia o dell'ideologia ma risponde soltanto alla volontà dell'uomo di manifestare la propria libertà imponendo un mondo che egli stesso ha faticosamente conquistato. Si tratta quindi di un laico «umanesimo integrale» dove, come in Maritain, l'arte è al servizio di una trascendenza, ma di una trascendenza che non è qui il Dio dei cristiani bensì il valore supremo dell'arte come totalità delle forme e degli stili costruiti dall'uomo. Le opere d'arte, nella loro «presenza» immanente, ma trascendente rispetto alle varie diverse espressioni del loro mondo circostante, sono le vere protagoniste dell'estetica di Malraux, i principi costruttivi per l'unico vero e proprio «umanesimo universale».

L'Arte è tuttavia fenomeno così profondamente e integralmente umano che, pur finalizzato alla costruzione di un Assoluto, assume, nell'atto del suo stesso esistere, posizioni politiche e sociali:

«L'ammirevole rifiuto - scrive Malraux - opposto dai pittori moderni all'arte rispettata del loro tempo ci porta a vedere nell'arte stessa una delle più alte forme d'accusa». Infatti «dalla Pietà di Villeneuve fino a Van Gogh (come da Villon a Rimbaud e Dostoevskj) l'ululo prometeico che trova il suo più ampio accento in Rembrandt e Michelangelo si dispiega sull'arte fino a divenire il grido che l'Europa urla di fronte alla morte»[83]. Vi è così in Malraux un paradossale (in quanto ricorda Adorno e posizioni critiche a lui completamente estranee) «filo rosso» di rivolta nell'arte di fronte al caotico reale che circonda il mondo: «più che un cristallizzarsi dell'arte intorno ad una storia preesistente, abbiamo dunque un'azione della storia su di un processo costante di creazione»[84].

L'arte vive quindi in un proprio mondo che non è solo il mondo delle forme ma un campo che l'uomo ha la capacità di creare riaffermando così la propria libertà e, con termine jaspersiano, trascendenza. Ogni arte è l'espressione, lentamente conquistata, del sentimento fondamentale che l'artista prova davanti all'universo connettendosi in modo concreto (e non epifenomenico) al divenire della storia. L'artista, in quanto creatore, «non appartiene alla collettività che subisce la cultura ma a quella che l'elabora»: «la sua facoltà creatrice non lo sottomette ad una fatalità divenuta intellegibile ma lo lega al millenario potere creativo dell'uomo, alle città ricostruite sulle rovine, alla scoperta del fuoco»[85]. Non è quindi l'uomo, in verità, a costruire un altro mondo bensì l'artista, essere privilegiato: e qui si rivela l'atteggiamento aristotelico di Malraux nei confronti dell'arte che, come nota giustamente Munro[86], riporta le sue teorie al pessimismo profetico di uno Spengler o di un Toynbee. L'arte che libera l'uomo dal suo destino caotico e che costruisce un nuovo destino non è quindi un orizzonte utopico intersoggettivamente valido ma una fede personale degli artisti, un loro specifico privilegio trascendente.

«Psicologia dell'arte» assume dunque, come scrive Formaggio, quel «senso lato» che le è stato spesso attribuito in Francia:

«non fa riferimento ad alcuna ricerca di carattere strettamente scientifico, ma sta ad indicare un'analisi sotto la superficie, un'indagine condotta sulle sotterranee connessioni che legano le attività individuali tra di loro e all'interno delle leggi di sviluppo di un'epoca, come Pure sulle parentele profonde che, nello spazio e nel tempo, continuamente corrono tra le forme apparentemente più lontane e più diverse delle umane civiltà»[87].

In questo caso, infatti, la psicologia dell'arte non si rivolge più agli specifici processi tecnici della creazione o a una determinazione di atteggiamenti e facoltà interiori in essa presupposte, ma scopre, attraverso un totale rivolgimento dei canoni iconografici della tradizionale Storia dell'arte, il significato di anti Destino attribuibile all'arte stessa, il suo significato «inattuale» che tende all'instaurazione di un esoterico Assoluto.

Vi è infatti, a parer nostro, una certa differenza fra ciò che l'opera di Malraux a prima vista appare, ovvero «un continuo dialogo, scintillante e barocco, coi capolavori di tutte le epoche» [88] e i vari significati teorici e ideologici che si nascondono nel dialogo degli stili e delle forme. Questi significati' implicano un'inter-pretazione, più che della storia dell'arte, della «condizione umana», della sua tragedia e della possibile esoterica catarsi attraverso l'arte. Al di là dunque di quella che sembra la principale proposizione teorica di Malraux nel campo dell'estetica, ovvero che l'arte è un'azione metamorfica che trasforma il mondo in stile, vi è un substrato ideologico che fa della sua opera una critica all'attuale rapporto arte/società e ai valori a tale rapporto connessi, in primo luogo la Bellezza, una critica che sfocia nella teorizzazione di un umanismo che solo l'arte è in grado di instaurare.

Ha quindi ragione Malraux stesso a sostenere che la sua opera non è né di estetica né di storia dell'arte ma, se proprio si vuole definirla, di filosofia generale o di filosofia della storia dell'arte. L'esperienza artistica assume, oltre al già rilevato carattere «formale», una dimensione soggettiva che si riferisce non alla psicologia dell'artista ma alla sua «volontà di creare», indipendente da qualsiasi istinto mimetico. In ciò, difficile dire con quanta consapevolezza, attraverso il «museo», Malraux introduce il discorso della «civiltà delle immagini» e della connessa questione, notoriamente affrontata da Benjamin, relativa all'aura dell'opera d'arte ed al suo valore cultuale. Malraux apre infatti il suo museo non alla totalità delle opere d'arte ma al valore costante in esse presente, cioè, in ultima analisi, al capolavoro. Tuttavia ciò che il museo immaginario «è» deriva dal nostro attuale esserci in quanto «se il museo è la proiezione dei nostri bisogni e delle nostre aspirazioni attuali, allora è l'arte contemporanea a decidere dei capolavori classici»[89]. Ricordando tuttavia che il fine ultimo di Malraux è pur sempre l'instaurazione di un Assoluto, si può concludere, con Morawski, che la sua visione del mondo, ovvero il museo immaginario creato su basi anti-realistiche ed anti-mimetiche, «è il risultato della reciproca azione di due fattori: la visione del mondo dell'autore della Psychologie de 1'art e i processi artistici del nostro secolo»[90].

Instaurazione di un assoluto, umanesimo integrale, trascendenza dell'arte sono termini fondamentali nell'estetica di Malraux e, quasi paradossalmente se consideriamo il suo indubbio spirito non confessionale, ricordano l'arco di pensiero di un suo contemporaneo, Jacques Maritain, grandissimo filosofo e teologo neoscolastico oltre che uomo di cultura, come dimostra il suo libro su Bergson, di rara profondità analitica. Accostare tuttavia Maritain e Malraux potrebbe venire considerato arbitrario dato che i loro obiettivi sono senza dubbio opposti. Infatti, come scrive Dufrenne, «Malraux è il profeta di un umanismo disperato» mentre «Maritain ingaggia la lotta disperata della scolastica»: bisogna però considerare che «sono sempre gli abissi dell'anima che entrambi pretendono di esplorare, l'uno per trovarvi le energie di una volontà capace di dare un senso al non, senso fino ad appropriarsi della morte, l'altro per cogliere le tracce del sovrannaturale nella natura e svelare l'azione della grazia divina». Per entrambi, dunque, «l'esperienza estetica testimonia a favore di un misticismo»[91].

Cogliere nel sovrannaturale le tracce della natura significa per Maritain rendere espliciti i processi dell'intuizione creativa che, pur operando con organi sensibili e attraverso la materia, contengono in sé un «germe» divino:

«l'arte, come l'intelligenza (essa, in realtà, non è altro che l'intelligenza creatrice), considerata a parte e nella sua pura essenza, realizza tutta quella perfezione che è postulata dalla sua natura soltanto passando all'Atto puro»[92].

Tale «misticismo», che è tuttavia ben più «saldo» filosoficamente di quello che Maritain stesso critica in certo bergsonismo, non è quindi distruzione dell'analisi intellettuale nell'atto creativo né adesione estatica a una «poesia pura» in quanto Maritain ha il suo punto di partenza nel rigore filosofico della filosofia tomista.

È tuttavia evidente che egli oscilla - seguendo in verità il movimento della stessa estetica francese - fra la concezione aristotelica dell'arte come virtù dianoetica che presiede al fare e quella platonica (o neoplatonica) che guarda alla poesia come divino «poiein»; e, in tali posizioni, si riavvicina sia alla «psicologia della creazione» quanto alla psicologia introspezionistica di Segond che, come lui, proviene da basi culturali cattoliche[93]. Entrambi sostengono infatti che l'arte deve «lottare» nel mondo, cercare di assomigliare non alle apparenze materiali delle cose «ma a qualcuno di quei sensi nascosti di cui Dio soltanto vede brillare l'iride sul volto delle sue creature, e proprio in questo assomiglierà allo spirito creato che ha percepito, alla sua maniera, questo colore invisibile»[94].

Se si getta un rapido sguardo alla sua opera maggiore, Creative Intuition in Art and Poetry (senza quindi considerare in modo specifico l'«aristotelica» Responsabilité de l'artiste), si potrà notare che Maritain distingue l'intelletto speculativo dall'intelletto pratico, ovvero l'amore dell'essere e l'amore del fare. Su tale distinzione si basa quella fondamentale fra poesia e arte che, pur non potendo fare a meno l'una dell'altra, sono ben lungi dall'identificarsi. Per arte bisogna infatti intendere «l'attività creativa o producente, l'attività operante della mente umana» mentre per poesia non il semplice «scrivere versi» ma, come affermerà in altro contesto, decisamente «laico» ed «immanentista», anche Dufrenne, «un processo più generale e di fondamentale importanza: quella intercomunicazione fra l'essenza interiore delle cose e l'essenza interiore della creatura umana che è una specie di divinazione». In tal senso poesia «è vita segreta di ciascuna e di tutte le arti» [95] che ci obbliga a considerare l'intelletto sia nelle sue fonti segrete all'interno dell'anima umana, sia in alcune sue funzioni non razionali e non logiche: poesia è «poiein», e il fare che permette una specie di interpenetrazione fra natura e uomo. Se quindi l'intelletto speculativo conosce solo per amore del sapere, l'intelletto pratico conosce solo per amore dell'azione; la sua attività si divide in azioni umane da compiersi e in opere da farsi, ovvero, in altri termini, in «attività morale» e «attività artistica».

L'intelletto lievitato dal bisogno è «l'organo della creatività dello spirito»: orienta l'intuizione creativa «senza in alcun modo limitarla, anzi, rispettando e potenziando la sua libertà e integrità, le infonde intenzionalità, la trasforma da creatività pura automatica, quasi narcisisticamente beata di sè, in creazione di» [96]. La conclusione di Maritain - che lo conduce dal discorso analitico della creatività al problema della sua fonte originaria - è dunque che, se l'arte è una virtù creativa dell'intelletto che tende a generare in bellezza e che afferra, nel mondo creato, le segrete operazioni della natura per produrre una nuova natura, allora si può affermare che l'arte continua a suo modo la fatica della creazione divina. In quest'opera il senso logico non si perde nel divenire creativo ma sussiste assimilato al senso poetico come una sua stessa sostanza multiforme, si radica in quel «fondo» di creatività che Maritain chiama inconscio o preconscio spirituale. E'qui che la poesia e l'ispirazione poetica hanno la loro fonte essenziale, la radice comune di tutte le potenze dell'anima, attività fondamentale «in cui l'intelletto e l'immaginazione come le facoltà di desiderio, amore ed emozione, sono impegnate insieme»:

«le facoltà dell'anima si avvalgono l'una dell'altra, l'universo della percezione dei sensi è nell'universo dell'immaginazione, che è nell'universo dell'intelligenza. E sono tutte, entro l'intelletto, animate e attivate dalla luce dell'intelletto illuminante»[97].

Dal momento che la poesia nasce in questa «vita profonda», in questa «unità originaria» dove le potenze dell'anima agiscono in connessione, essa richiede, e porta in sé come principio di creatività, un elemento essenziale di totalità o di integrità, un'unione, nell'uomo, di senso, immaginazione, intelletto, amore, desiderio, istinto, sangue e spirito insieme. Il poeta, attraverso la poesia, viene riportato a quel «luogo nascosto» dove la totalità di tutti gli elementi è la vita creativa stessa. La soggettività del poeta sarà quindi una soggettività «ontologica», ovvero «una totalità sostanziale della persona umana, un universo nei riguardi di se stesso che la spiritualità dell'anima rende capace di contenersi attraverso i propri atti immanenti, e che, al centro di tutti i soggetti che essa conosce come oggetti, afferra solo se stessa come soggetto»[98]. L'intuizione creativa è un oscuro afferrare la propria personalità e le cose nell'incontro di connaturalità che sorge nel «fondo» dell'inconscio spirituale e che solo in esso, nel fare l'opera, diviene fertile. La «conoscenza poetica» è così espressa pienamente solo nell'opera dove la poesia afferra i sensi segreti delle cose, di se stesso e della materia formantesi e formata.

Arte, poesia e opera d'arte emergono dunque come tre apetti complementari del movimento creativo ed espressivo dell'anima che si specifica in due momenti, uno immaginativo ed emotivo e l'altro propriamente costruttivo e operativo. Non è quindi la forma o lo «stile» il fine della creatività bensi una bellezza come «fine oltre il fine» della poesia e suo necessario correlato intenzionale. È con ciò evidente che in Maritain si offre una prospettiva culturale che non è predominante nell'estetica francese del Novecento: non solo per l'evidente substrato neotomista delle sue teorizzazioni ma anche per l'inserimento di termini psicanalitici che, sia pure con nuovi significati, non troveranno in Francia, con la notevole eccezione del surrealismo, grande successo nel campo della teoria dell'arte. D'altra parte il suo implicito riferimento neoplatonico lo avvicina a Segond e Brémond stesso facendogli affermare che il valore intenzionale della poesia è in primo luogo il senso poetico vicinissimo alla «fonte creativa», un significato che manifesta immediatamente la soggettività del poeta, «in quanto rivelata nella notte dell'intuizione emotiva non concettuale»[99]. A questa intenzionalità che disvela la natura della creazione all'interno del soggetto creatore si affianca la creatività libera dello spirito, la mousikè di Platone che è conoscenza intuitiva emozionale che trascende e permea tutte le arti, che ha, di per sé, valore universale.

Il messaggio di Maritain, così come quello di Malraux, non si chiude tuttavia in un ottimismo edificante poiché il poiein, la poesia non può costituire né la salvezza né il nutrimento soprasensibile dell'uomo né, infine, un inno positivo alla gloria di Dio. Infatti

«un'arte sottomessa alla legge della grazia è una cosa così difficile, esige degli equilibramenti rari che l'uomo, anche se cristiano e per quanto abbia il dono della poesia, con le sue forze non ne è capace. È necessario a ciò lo spirito di Dio»[100].

La «condizione tragica» dell'arte contemporanea si situa quindi nella difficoltà di convertirsi e ritrovare Dio, ovvero il proprio radicamento trascendente. La Bellezza invece «continua a subire il fascino vergognoso del dio Estetica, considerato fine ultimo della vita umana» e cade, spesso senza consapevolezza, in concezioni simili a quella di Oscar Wilde che spingono l'uomo verso il peccato distruggendo in lui il pentimento, la speranza, l'assenso alla verità capaci di renderlo disponibile alla misericordia.

Il ritratto «demiurgico» dell'artista non basta quindi ad evitare che i risultati dell'estetica di Maritain siano senza dubbio «extra estetici» e indirizzati invece ai principi della teologia morale cattolica. Ciò è peraltro chiaro sin dalla sua prima opera, Art et scolastique del 1919, lavoro non isolato nel panorama culturale francese se consideriamo che, sempre riferendosi al neotomismo, è del 1920 il volume di Maurice De Wulf L'oeuvre d'art et la beauté e a noi più vicino (e in verità solo relativamente orientato in senso metafisico) il Peinture et realité (1958) del notissimo medievalista Etienne Gilson che, ben più di Maritain, e in connessione con l'estetica francese contemporanea, presta attenzione all'atto costruttivo radicato nell'energia stessa dell'essere.

È comunque grazie al volume di Maritain che si scoprì l'esistenza di un'estetica medievale e la sua utilità per i dibattiti contemporanei. Come scrive U. Eco, «la rivelazione di un'arte come recta ratio factibilium, fatto tecnico operativo, disposizione di materiali secondo un ordine dettato non solo dalla sensibilità ma principalmente dall'intelligenza; e la bellezza sintetizzata nei tre criteri dell'integrità, della proporzione e della chiarezza non potevano non rivestire una funzione liberatrice nei riguardi di tante ipoteche romantiche e decadenti che gravavano ancora abbondantemente sulla speculazione estetica»[101]. In tal senso, pur partendo da presupposti differenti e con finalità per nulla comuni, l'esigenza filosofica di Maritain, simile a quella di Focillon, Souriau o Bayer, è di rovesciare l'indubbio fascino del creazionismo bergsoniano in un «ordine», nella stabilità di una dottrina controllabile razionalmente come se uno spirito di «nuova oggettività» mirasse a ricostruire la concreta realtà indubitabile dell'opera d'arte, un'oggettività che percorre peraltro alcuni aspetti della «decostruzione» e «ricostruzione» joyciana che, in Dedalus, romanzo del 1916, pure si richiama ai criteri tomistici della integritas, consonantia e claritas nel definire la quantità della bellezza universale.

Si può quindi ipotizzare che, entro certi limiti, il «tomismo» e quasi un pretesto: e infatti il discorso di Maritain non è affatto filologico ma elaborazione originale di una teoria della conoscenza fondata sul poiein/poesia. E, in tal senso, la costruzione di un «ordine poetico» recupera anche il messaggio delle avanguardie, e in primo luogo del surrealismo che, come aveva compreso anche Segond, ha evidenziato il valore gnoseologico della poesia e del poetare. La conoscenza poetica è radicata, come già si è notato, in un «preconscio spirituale» (di memoria surrealista) che è «la fondazione di un primum psicologico e ontologico a un tempo, di una sorta di regno archetipo delle Madri da cui la realtà oggettiva e la stessa attività spirituale personale traggono nutrimento»[102]. Da qui una serie di suggestioni che, nel rapporto carnale uomo-natura, in una neoromantica spiritualizzazione della natura stessa, troveranno oltre Maritain e oltre, ovviamente, la filosofia neotomista, sviluppi ed interessanti elaborazioni nello stesso ambito fenomenologico con Merleau-Ponty e, nell'estetica, con M. Dufrenne.

Peraltro, altre correnti del cattolicesimo francese non avranno la stessa tensione verso la mistica ma, come accade nell'Introduction àl'esthétique, scritto da M. Nedoncelle nel 1963, vorranno costruire una vera e propria scienza dell'arte" che abbraccia tre gruppi di discipline: la storia degli artisti, della loro produzione; delle loro scuole; alcune tecniche materiali o formali; la critica d'arte, cioè il giudizio che si può dare sul valore delle opere. Essa costituisce la «migliore introduzione all'estetica» in quanto «questa è una riflessione su quella, fatta per trarne i principi e le conclusioni più generali»[103]. L'artista è un demiurgo che cerca di creare un mondo autonomo partendo dai materiali che gli sono offerti dalla natura. Su tale base demiurgica si innesta, per così dire, l'ispirazione «escatologica», secondo la quale l'arte anticipa uno stato di cose «finale», una conclusiva «metafisica del bello». Ciò significa che, non potendo rivaleggiare con Dio, l'artista deve rivaleggiare col mondo e cercare in continuazione di superarlo attraverso la funzione demiurgica che lo caratterizza.

Note

[70] M. Denis, Du symbolisme au classicisme, a cura di O. Revault d'Allones, Paris, Hermann, 1964, p. 33. M. Denis, nato nel 1870 e morto nel 1943, dal punto di vista teorico si occupò in particolare di arte religiosa. I suoi interessi per l'estetica, piuttosto marginali, sono in connessione alle arti plastiche e alla pittura nel rapporto che esse instaurano con la natura. Scrive (ibid., p. 45): «L'arte la santificazione della natura, di questa natura di tutto il mondo, che si Contenta di vivere». L'essenziale, per l'artista, non è dunque «i imitare» bensi trasporre «nel piano prioprio all'opera d'arte l'emanazione che ci dà la natura» (ibid., p. 45). E ciò è conforme al sentimento religioso.

[71] Apollinaire presenta un certo interesse di carattere estetico filosofico, in particolare apprezzato dai surrealisti. Si vedano le sue Méditations esthétiques, Paris, 1913.

[72] J. Vuillemin, Les statues et les hommes, in «Les temps modernes», maggio 1950, p. 1921. D. Huisman, nell'Estetica francese negli ultimi cent'anni, cit., sembra condividere l'alta stima per Mairaux dedicandogli un intero capitolo del suo lavoro.

[73] S. Morawski, L'assoluto e le forme, Bari, Dedalo, 1971, p. 94 e pp. 94-5.

[74] Il persistente ondeggiamento e l'incompiutezza stessa delle dottrine estetiche di Malraux (ma anche delle sue posizioni politiche) hanno fatto si che G.A. Bianca, L'estetica di Malraux: un dramma senza soluzione, Padova, Cedam, 1975, considerasse drammatica la sua stessa teoria dell'arte.

[75] A. e J. Brincourt, Les ouvres et les lumieres, Paris, La Table ronde, 1965, p. 71.,

[76] A. Malraux, Il museo dei musei, Milano, Mondadori, 1957, p. 123.

[77] A. e J. Brincourt, op. cit., p. 142.

[78] A. Malraux, op. cit., p. 268.

[79] S. Morawski, op. cit., p. 112.

[80] A. Malraux, Psychologie de l'art, tome III, Paris, Skira, 1950, p. 150.

[81] Ibid., vol. I, p. 115.

[82]S. Morawski, op. cit., p. 413. Si vedano anche le pp. 150 sgg.

[83] A. Malraux, Il museo dei musei, cit., pp. 336-8 7.

[84] Ibid., p. 410. G.A. Bianca fa notare le contraddizioni in cui cade Malraux: l'arte è «fuori dal mondo» ma attinge «nel mondo». La sua estetica è appunto un dramma perché «le tesi contrastanti non debbono essere superate in un concetto superiore capace di conciliarle insieme, ma debbono rimanere ognuna di fronte alle altre e ognuna con le proprie irrinunciabili esigenze a cui vuole soddisfare» (op. cit., p. 55).

[85] Ibid., p. 412.

[86] T. Munro, in «The Journal of Aesthetics and Art Criticism», giugno 1957, pp. 48 1-84.

[87] D. Formaggio, Studi di estetica, cit., p. 296.

[88] C. Rosso, Ragguaglio sul più recente pensiero estetico francese, cit., p. 133.

[89] S. Morawski, op. cit., p. 313.

[90] Ibid., p. 315.

[91] M. Dufrenne, L'estetica francese nel XX secolo, in M. Dufrenne-D. Formaggio, Trattato di estetica, cit., p. 406, vol. I.

[92] J. Maritain, Frontiere della poesia, Brescia, 1981, p. 10 (l'edizione originale risale al 1935).

[93] Su questo problema si veda D. Pesce, Arte e moralità in un'opera recente diJ. Maritain in AA.VV., Jacques Maritain, a cura di A. Pavan, Brescia, Morcelliana, 1967, pp. 125-13 2. L'opera aristotelica sarebbe dunque The responsability of the Artist del 1960 (tr. it., Bresci: Morceiliana, 1963) mentre quella platonica, ispirazione filosofica forse più consona al Maritain teorico dell'arte, è Creative Intuition in Art and Poetry del 1954 (tr. it., Brescia, Morcelliana, 1957).

[94] J. Maritain, Frontiere della poesia, cit., p. 17.

[95] J. Maritain, L'intuizione creativa in arte e poesia, cit., p. 3.

[96] G. Derossi, Fonti ed espressioni della poesia in AA.VV. J. Maritain, cit., p. 136.

[97] J. Maritain, intuizione creativa in arte e poesia, cit., p. 119.

[98] Ibid., p. 123.

[99] Ibid., p. 390.

[100] J. Maritain, Frontiere della poesia, cit., p. 34.

[101] U. Eco, Definizione dell'arte, cit., p. 105.

[102] Ibid., p. 118.

[103] M. Nedoncelle, Introduzione all'estetica, tr.it., Roma, p. 196.