4 - La fenomenologia della percezione estetica

 

 

«La fenomenologia dell'oggetto estetico deve ora far posto alla fenomenologia della percezione estetica; in verità, non solo essa la prepara, ma anche la presuppone: così stretta è la relazione dell'oggetto e della percezione, e specialmente nell'esperienza estetica»[97]. Con queste parole si apre il secondo volume della Phénomenologie de l'expérience esthéhique, che ha come fine la costruzione di una fenomenologia della percezione estetica fortemente ispirata dall'insegnamento di Merleau-Ponty e che tende a integrare e completare le considerazioni sviluppate nel primo volume in una compiuta e articolata dottrina della esperienza estetica.

A questo scopo sarà importante confrontare la percezione estetica con la percezione ordinaria; pur nel continuo richiamo tra questi due piani bisognerà infatti mostrare che la percezione estetica «e la percezione reale, quella che non vuol essere che percezione, senza lasciarsi sedurre né dall'immaginazione che invita a vagabondare intorno all'oggetto presente, né dall'intelletto che invita a ridurlo, per dominarlo, a delle determinazioni concettuali»[98]. Mentre la percezione ordinaria cerca una verità sull'oggetto, la percezione estetica cerca la verità dell'oggetto, tale quale è immediatamente data nel sensibile.

Necessari prolegomeni a questo discorso sono le determinazioni dei vari momenti in cui si articola la teoria generale della percezione, che Dufrenne, mai completamente estraneo all'insegnamento kantiano, organizza in presenza, rappresentazione e riflessione, stadi del procedimento della percezione «in generale», facoltà «pre-date» della percezione quale atto unitario e conglobante prima del suo approfondirsi nella realtà più intima, espressiva, dell'oggetto.

In verità Dufrenne non giustifica mai, propriamente, il ruolo della percezione all'interno dell'intenzionalità degli atti soggettivi poiché, seguendo Merleau-Ponty, preferisce considerarla sia un'attività mentale sia il prodotto di questa attività, che rinvia contemporaneamente ad una posizione di pensiero e ad una posizione di realtà: «la percezione è per lui tanto l'atto quanto il prodotto; tanto il riflessivo, quanto il vissuto tanto il costruito quanto il dato»[99]. Dufrenne guarda infatti, più che alla percezione in sé, all'uomo in situazione mondana che sempre di nuovo percepisce la realtà circostante. La nostra percezione, scrive Merleau-Ponty, «mette capo a oggetti e, una volta costituito, l'oggetto appare come la ragione di tutte le esperienze che di esso abbiamo avuto o potremmo avere»[100].

Husserl viene così accusato, anche da questo lato, di avere reso «ipertrofica» la sua soggettività trascendentale e costituente: per Dufrenne, invece, non può esistere un puro Cogito poiché la coscienza non è un'istanza separata, un organo privilegiato ma «un nome per certi atti», «un insieme di funzioni indivisibile e inseparabile dal corpo»[101]. Esistono per lui solo cogito particolari sempre inseriti nell'attualità della percezione, che è l'unico mezzo per avere contatti con il mondo, per conoscerlo nelle sue strutture materiali costitutive, per penetrare in quel chiasmo dove non si riesce mai perfettamente a discernere se gli oggetti che percepiamo traggano il loro senso da se stessi o dal soggetto che li afferra, ambiguità che denuncia il costante ondeggiare di Dufrenne fra il fenomenologico e l'esistenziale[102].

L'analisi congiunta di oggetto e percezione estetica «invita a domandarsi non solo quale è lo statuto dell'oggetto estetico in quanto oggetto percepito, ma anche come è possibile che questo oggetto sia insieme compreso e veridico, vale a dire che il senso immanente al sensibile sia accessibile al sentimento e porti testimonianza sul mondo»[103]. Le analisi che ricercano il senso dell'oggetto estetico mirano quindi, in effetti, «ad introdurre nel problema della conoscenza un fatto che sopprima definitivamente il dualismo dell'oggetto e del soggetto» [104]scaturendo in un'indefinita unità ontologica.

Percepire, per Dufrenne, non è quindi

«registrare passivamente delle apparenze in se stesse insignificanti, è conoscere, vale a dire scoprire, all'interno e al di là delle apparenze, un senso che esse non liberano che a chi le sa decifrare, ed è tirare da questa conoscenza le conseguenze che ci convengono secondo l'intenzione che presiede al nostro comportamento»[105].

Per cogliere questo significato originario della percezione si dovrà in primo luogo portarsi sul suo piano esistenziale, dove cioè si realizza la presenza di un oggetto al mondo, dove le cose ci appaiono senza schemi concettuali interposti, dove si rivelano della «nostra stessa razza». Anche se la teoria della percezione non può limitarsi a questo stadio della «presenza», solo qui può iniziare la sua attività, avendo di fronte «una totalità oggetto-soggetto dove l'oggetto e il soggetto sono ancora indiscernibili»[106]. Come il sensibile era il primo piano costitutivo dell'oggetto estetico, così la presenza è il primo livello della percezione estetica, piano pre-riflessivo dove il corpo è in comunione diretta e immediata con quanto percepisce.

La percezione non può tuttavia rimanere in tale chiasmo originario e deve quindi passare dall'immediatamente vissuto al pensato, dalla presenza alla rappresentazione, così come nell'oggetto estetico si era visto il mondo rappresentato edificarsi sulle basi del sensibile. È qui l'immagine che permette il passaggio dalla «presenza» bruta dove l'oggetto è provato al pensiero dove diviene idea[107], rendendo possibile l'apparizione stessa dell'oggetto, la sua presenza in quanto rappresentazione. L'immaginazione viene dunque ad essere, per Dufrenne, il legame tra lo spirito e il corpo e infatti lo schema attraverso cui un oggetto può divenire oggetto «per» un'intelligenza è operazione spirituale che va attribuita agli schematismi corporei. Solo con l'intervento delle forme schematiche a priori di spazio e tempo si produce la rappresentazione che, «conformemente a Kant, e secondo la lezione di Heidegger, attribuiamo all'immaginazione trascendentale»[108]. Immaginazione trascendentale che implica la rottura della totalità di soggetto e oggetto nel compimento di un movimento intenzionale per cui una coscienza si oppone all'oggetto permettendo a quest'ultimo di prendere forma, forma che deve essere «prolungata» da un immaginazione empirica capace dì convertire l'apparenza in oggetto. Il trascendentale prefigura dunque e rende possibile l'empirico, esprime la possibilità della rappresentazione mentre l'empirico «rende conto della possibilità che tale rappresentazione ha d'essere significante e di integrarsi alla rappresentazione di un mondo»[109].

In definitiva, quindi, il piano della presenza non si oppone bensì integra quello dell'immaginazione: «all'immaginazione - ha scritto R. Barilli - il compito di 'mettere in prospettiva' il piano della presenza, di far sì che l'uomo, a quel livello, non intervenga nudo, simile alla classica tabula rasa, ma disponga di un complesso di memorie, di tendenze anticipatrici, di risposte pronte, di 'immagini' appunto, con cui sollecitare ed integrare il semplice dato percettivo»[110]. L'immagine non e «irreale», come vuole Sartre, né una percezione sregolata come sostiene Alain ma aderisce alla percezione per costituire l'oggetto: da un lato, quello trascendentale, offre la possibilità di vedere, di rendere possibili le conoscenze virtuali, dall'altro, quello empirico, esprime il sapere concreto che accompagna la percezione. L'immaginazione ha cosi un ambiguo statuto, insieme corporeo e spirituale, grazie al quale si pone comunque la rappresentazione, funzione sintetica operata da un'attività spirituale che tuttavia è sempre e soltanto a beneficio e in presenza di un corpo. Tale funzione sintetica attribuita da Dufrenne all 'immaginazione permette di cogliere chiaramente l'influsso su di lui esercitato dalla prima edizione della kantiana Critica della ragion pura, dove si accentua il suo carattere di «ingrediente necessario della stessa percezione» e «facoltà attiva nella sintesi del molteplice»[111]. È forse proprio grazie a questo influsso che si avranno in Dufrenne confini estremamente fluidi tra percepire e immaginare: «non si può scegliere tra presenza ed immaginazione, tra corpo e spirito, collocare unilateralmente il soggetto umano nell'una o nell'altra sfera, poiché il suo connotato più proprio è di porsi nel luogo di incrocio tra questi due piani, di essere 'cerniera', punto di volta del passaggio incessante e sempre reversibile dal singolare all'essenziale, dal materiale all'ideale»[112].

Se la funzione dell'immaginazione, in primo luogo contro Sartre, è per Dufrenne fondamentale per rendere possibile una compiuta teoria della percezione, cioè una teoria capace di rappresentare un oggetto presentandolo con una sua propria realtà di fronte alla nostra corporeità agente, il suo ruolo, come già si è notato, tende a diminuire nella percezione estetica. Anzi, il superamento stesso dell'immaginazione e della rappresentazione dell'oggetto che essa rende possibile, permette a Dufrenne quell'arricchimento che segna il passaggio dalla percezione «ordinaria» alla percezione estetica. L'immaginazione offre la rappresentazione dell'oggetto reale (e non l'irrealtà sartriana), dà consistenza all'oggetto stesso ma non deve, nella percezione estetica, risvegliare immagini che ingombrino la sua specifica portata espressiva. In verità, scrive Dufrenne, «se la percezione estetica reprime l'immaginazione, anche la percezione ordinaria sta in guardia contro di essa» e la controlla attraverso l'intelletto come funzione giudicativa, come organo della riflessione che ha la capacità di meditare su quanto la rappresentazione ha offerto e può quindi correggere gli abusi dell'immaginario. Siamo tuttavia, ancora una volta, in un nuovo livello di ambiguità poiché l'immaginazione è data con l'intelletto, che ha, in ogni caso, il potere di reprimerla.

L'intelletto è concepito da Dufrenne, attraverso moduli kantiani, come l'organo dell'unità dell'appercezione che «imprime al flusso delle apparenze il sigillo della necessità, converte in unità necessaria l'unità contingente delle associazioni suggerite dall'esperienza vissuta»[113]. L'immaginazione presterà così al dato la sua ricchezza di elementi mentre l'intelletto gli darà rigore e obiettività.

L'attività giudicativa e obiettivante dell'intelletto non esaurisce tuttavia l'intera riflessione; essa copre, per dirla con Kant, solo l'area del giudizio determinante, attività intellettuale attraverso la quale le categorie assumono la loro funzione nella percezione ordinaria. Al di là di questo giudizio bisogna però supporre, come vuole Kant stesso con il giudizio riflettente, un accordo della natura con la nostra facoltà conoscitiva. Di fronte all'oggetto possiamo così impegnarci in un'attività più profonda di quella costitutiva, dove il soggetto, invece di riflettere su se stesso come accade in Kant, si volge alla finalità dell'oggetto, alla sua «profondità» e qui afferra, quasi in una spinoziana «intuizione», l'affinità, la consustanzialità fra l'uomo e la natura. È a questo punto che la percezione estetica mostra la sua specificità rispetto alla percezione ordinaria, in questo grado ultimo della percezione dove un sentimento di connaturalità che trascende l'intellettivo va oltre la rappresentazione dell'oggetto rivelandone un'altra interiore dimensione, una finalità che vive nelle sue «leggi empiriche» ma che ne coglie un'espressività sconosciuta all'intelletto. Il sentimento è così «un modo d'essere del soggetto che risponde a un modo d'essere dell'oggetto, è in me il correlato di una certa qualità dell'oggetto attraverso la quale l'oggetto mostra la sua intimità»[114]. È un livello percettivo che si rivela solo di fronte all'opera d'arte, sempre connesso alla funzione espressiva caratteristica dell'estetico, di cui mostra l'essere come profondità alla quale il soggetto risponde con la sua propria profondità interiore.

È possibile giungere al sentimento senza «passare» attraverso rappresentazione e riflessione, poiché si ha qui una nuova, specifica direzione in cui si impegna l'intera percezione. Tuttavia esso si realizza pienamente nella sua funzionalità espressiva solo a condizione che l'immaginazione sia repressa e che la soggettività si apra a un reale che deve essere provato dal fondo di noi stessi in un movimento che potremmo chiamare ontologico. Il sentimento non ha quindi nulla a che vedere con l'immediato ambito emozionale poiché è una forma di conoscenza, anche se di una conoscenza non riflessiva, l'unica modalità del conoscere che può penetrare e comprendere il mondo affettivo, gli a priori costitutivi di quelle specifiche realtà che sono le opere d'arte, estetizzate nel movimento intenzionale della percezione. È chiaro che la teorizzazione del sentimento come facoltà specifica del percepire estetico rivela altri numerosi influssi sul pensiero di Dufrenne, influssi che coinvolgono sia Kant sia, ancora una volta, vari esponenti della cultura francese. Non si può infatti dimenticare il pensiero di Gabriel Marcel, che «insiste sull'unità profonda del corpo e dell'essere in me, negli altri, nella natura»[115], la «simpatia simbolica» di V. Basch che rivela proprio nel sentimento, sia pure considerato come esclusivamente soggettivo, il movimento valorizzante proprio all'estetico, l'estetica del sentimento di J. Segond, dove questo appare come una facoltà conoscitiva superiore. Da tutta una tradizione culturale, dove peraltro è presente, come si vedrà, anche M. Scheler, Dufrenne trae la conclusione che il sentimento permette la lettura dell'espressività, ovvero della quasi-soggettività dell'oggetto estetico, momento di compimento di una genesi in cui esso rivela la comune sostanza con il soggetto che lo vive, riflessione sull'oggetto in cui non gli costruisco intorno schemi culturali, interpretativi, valutativi o storici ma lo colgo come opera che, nella pienezza del suo sensibile, deposita in me il senso del suo essere - senso che non è predato ma che appare con esso e solo in me percipiente trova il suo compimento, il termine della sua autogenesi[116]. È questa una riflessione «simpatica», dove l'Einfühlung non è più soltanto un movimento di identificazione soggettiva ma l'incontro stesso con l'oggetto, che solo qui si compie riempiendosi di quei contenuti che ne rilevano la specificità. Non siamo così di fronte a una costituzione «ideale» dell'oggetto estetico (secondo alcuni canoni dell'estetica fenomenologica) ma a un procedimento percettivo in cui il sentimento, incontrandosi con l'oggetto, vuole coglierne i valori che appartengono al suo particolare essere al mondo. Senza dubbio Dufrenne non compie sino in fondo il cammino per costruire un assiologia materiale, vero e proprio compimento dell'oggetto estetico e della sua «regione» corrispondente, ma ugualmente comprende che la costituzione dell'oggettualità esteticamente intenzionata può avvenire soltanto sul piano del percepito, in un movimento di descrizione prima e di fondazione poi in cui è totale l'«impegno», sia del soggetto corporeo sia dell'oggetto nella sua «affettività materiale» strutturata.

Di fronte all'oggetto estetico la soggettività non è un puro cogito trascendentale, l'intenzionalità non è più (anche a rischio di ingenuità e nuovi momenti ambigui) «mirare a» bensì «partecipare a»: «il sentimento è comunione dove io pongo tutto il mio essere»[117]. Il sentimento si rivela così, e tenderà sempre più a rivelarsi nell'opera di Dufrenne, sino al recente Inventaire des a priori, come il carattere specifico non di un'indagine descrittiva di stampo fenomenologico ma di un movimento ontologico, dove il radicamento stesso del senso, la Lebenswelt, assume la specificità di un Essere naturante. Infatti la profondità dell'oggetto estetico non deriva dalla sua storicità, dalla sua appartenenza a un passato mitico o mitizzato bensì soltanto dal potere che essa ha di esprimere una soggettività, soggettività che conserva nella sua interiorità, nella sua «esistenza autentica», l'intensità del suo essere che è l'essere della natura. L'oggetto estetico è profondo per la perfezione della sua forma, per la finalità interna che lo realizza come un vivente, per l'aura di senso che la sua presenza diffonde irradiandosi in un mondo. Questa profondità presenta tuttavia, ancora una volta, un'ambiguità di fondo dell'oggetto estetico, che in essa si afferma contemporaneamente come oggetto e come sorgente di un mondo, capace di rendersi soggettivo. Ed è proprio questo mondo che possiamo penetrare attraverso il sentimento. Malgrado la specificità e la sostanziale autonomia del sentimento dalla riflessione queste nozioni continuano dunque a richiamarsi l'una con l'altra. La riflessione infatti non riesce ad esaurire in sé la conoscenza di un oggetto inesauribile quale l'oggetto estetico e si apre quindi al sentimento che, a sua volta, ha bisogno della riflessione perché non deve essere, proprio come per Croce, un sentimento immediato, frutto di una prima, primitiva e incompleta percezione.

Il sentimento immediato non è tutto il sentimento:

«il sentimento autentico si conquista come si conquista la percezione e perché essa si conquista: bisogna che l'oggetto estetico ci sia pienamente presente ed esso non lo è sempre al primo colpo»[118].

Promuovere questa «vera» percezione sarà compito della riflessione che, in questo caso, potremmo chiamare atteggiamento critico, atteggiamento che, peraltro, può anche non partecipare al movimento dialettico tra riflessione e sentimento e volgersi alla storia dell'opera e della sua genesi. In generale però il compito della riflessione è mostrare come un'opera è fatta per facilitare l'apertura della percezione verso il sentimento che ne coglierà l'autentico nucleo affettivo. Per cui Dufrenne afferma che «la riflessione non solo prepara il sentimento ma anche lo ratifica»[119]; oltre ad essere atteggiamento critico, oltre a conoscere la tecnica e la storia dell'opera, la riflessione si volgerà dunque alla sua espressività e sarà appunto «riflessione simpatica» diretta dal sentimento verso il nucleo affettivo dell'oggetto estetico, verso la sua vera e propria struttura, data con esso su un piano trascendentale che non è imposto «dall'esterno» come una

forma astratta ma che aderisce interamente alla sua stessa materialità, ai rapporti che collegano nell'unicità dell'opera le singole parti costitutive. Si può quindi affermare che l'espressione estetica si situa all'interferenza di riflessione e sentimento: la perfezione dell'oggetto estetico è di essere un quasi-soggetto ma questa soggettività espressiva gli è data soltanto attraverso la certezza, che solo la percezione corporea gli può dare, d'essere un oggetto obiettivo[120].

 

Note

[97] M. Dufrenne, Phénoménologie de l'expérience esthétique, tome II, Paris, P.U.F., 1953, p. 419.

[98] M. Dufrenne, Esthétique et philosophie, t. I, cit., pp. 54-5.

[99] J.C. Piguet, art. cit., p. 199.

[100] M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 113.

[101] M. Dufrenne, Inventaire des a priori, cit., p. 136. In verità Husserl, nel secondo libro delle sue Idee, ha dato grande importanza al Leib, che, quale organo della percezione, paxtecipa necessariamente a qualsiasi atto percettivo. Anche nel primo libro di Idee, che senz'altro Dufrenne conosceva, ilusserì afferma: «Poiché lo strato fondamentale, portante, di ogni realtà è la corporeità, si arriva sempre all'esperienza sensoriale. A questo proposito va considerata la percezione sensibile che tra gli atti esperienti ha in un certo senso la sua funzione di esperienza originaria, e da cui gli altri atti di esperienza traggono la maggior parte della loro forza fondatrice» (op. cit., p. 84).

[102] G. Morpurgo-Tagliabue, op. cit., pp. 467-8.

[103] R. Bayer, L'esthétique mondiale au XX siècle, cit., p. 96.

[104] J.C. Piguet, art. cit., p. 188.

[105] M. Dufrenne, Phénoménologie de l'expérience esthétique, cit., p. 421. J.C. Piguet, art. cit., p. 200 scrive: «È propriamente miracoloso - e un po inquietante - che nel corso di settecento pagine di un libro consacrato alla percezione Dufrenne non faccia alcun posto alla sensazione».

[106] Ibid., p. 425.

[107] Ibid., p. 432.

[108] Ibid., p. 435. Dufrenne si riferisce a Kant e il problema della metafisica di Heidegger (tr. it., Milano, Silva, 1962).

[109] Ibid., p. 435.

[110] R. Barilli, op. cit., p. 272.

[111] I. Kant, Critica della ragion pura, Bari, Laterza, 1975, p. 665. È un passo della prima edizione, eliminato nella seconda. A questa prima edizione in particolare si richiama Heidegger nel suo volume citato. In questa prima edizione, infatti, Kant attribuisce all'immaginazione un ruolo paritetico a quello di sensibilità ed intelletto: esse sono «tre fonti soggettive di conoscenza su cui si fonda la possibilità di una esperienza in generare» (ibid., p. 662).

[112] R. Barilli, op. cit., p. 279.

[113] M. Dufrenne, Phénoménologie de l'expérience esthétique, cit., p. 464.

[114] Ibid., p. 469.

[115] E. Paci, Filosofia contemporanea, Milano, Garzanti, 1957, p. 233. Nel Journal métaphysique di Marcel (tr. it., Roma, Abete, 1966) è presente un cristianesimo interiorizzato certo estraneo a Dufrenne. Tuttavia, il paragone è permesso dalla convinzione di Marcei che sia necessario superare l'ambito riflessivo per cogliere la profondità dell'essere.

[116] Per il rapporto fra il sentimento di Dufrenne e quello di Basch si veda E. Franzini, Kant e la genesi fenomenologica del sentimento estetico in E. Franzini - R. Ruschi, Natura e sentimento nell'esperienza estetica, Milano, Unicopli, 1983. Qui ci si occupa anche del problema del valore e del sentimento in M. Scheler.

[117] M. Dufrenne, Phénoménologie de l'experience esthétique, cit., p. 503.

[118] Ibid., p. 518.

[119] Ibid., p. 522.

[120] Scrive G. Morpurgo-Tagliabue, op. cit., p. 465, in riferimento all'opera come «quasi-soggetto», che esso è un concetto non rigorosamente fenomenologico «che fa intravedere un'ontologia tra il razionalismo e il personalismo (i due poli dell'esistenzialismo) e che invita a delle prospettive metafisiche». Correlato all'oggetto estetico vi è un atteggiamento estetico soggettivo. A questo proposito tuttavia Dufrenne si richiama in modo esplicito a V. Basch, affermando di condividere le sue analisi relative ai cinque atteggiamenti possibili di fronte all'oggetto, che abbiamo elencato nel secondo capitolo.