1 - L'estetica oggi

 

 

Dopo la ricca meditazione di M. Dufrenne, ispirata dalla fenomenologia di Sartre e Merleau-Ponty ma comunque sempre attenta ad altri aspetti fondamentali della filosofia contemporanea, da Husserl all'esistenzialismo di Heidegger e Jaspers sino alle semiologie di varie ispirazioni, si potrebbe dire, volendo offrire un quadro armonico delle ipotesi sino a ora presentate, che l'estetica francese ha raggiunto un suo «compimento», portando a piena maturazione elementi teorici che da molti decenni la percorrevano, senza per questo rinnegare la sua tradizione filosofica «razionalista» (da Brunschvicg ad Alain). In Dufrenne tornano infatti, con una «naturalezza» quasi sorprendente, elementi che avevano avuto un loro primo ancora incompiuto svolgimento in Basch, Lalo, Focillon, Malraux, Bayer e Souriau: e tornano in un contesto teorico che, grazie alle connessioni con le voci più vive della filosofia contemporanea, meglio li sa fondere in un contesto teorico che supera sia il soggettivismo sia l'univocità della dimensione critico-descrittiva.

L'estetica francese, tuttavia, al di là di questi armonici raggiungi-menti, ottenuti in effettiva autonomia dalla filosofia contemporanea, presenta in Dufrenne stesso momenti di «rottura» che aprono il confronto fra l'estetica, alcune filosofie contemporanee, i movimenti attuali dell'arte e gli stessi avvenimenti politici e ideologici che hanno percorso la Francia negli ultimi decenni. Si è già notato che, al di là di casi singoli, i maggiori rappresentanti dell'estetica francese tendono a non entrare nei dibattiti politici e ideologici che dall'affare Dreyfus, passando per il Fronte popolare e la guerra d'Algeria, hanno coinvolto numerosi intellettuali francesi suscitando dispute ormai quasi mitiche[1]. Le teorie dell'impegno - fossero quelle «originarie» di Romain Rolland e Henry Barbusse, quelle contraddittorie di Malraux e Gide o, infine, quelle notissime di Sartre e Merleau-Ponty - non sembravano interessare gli esthéticiens, che all'attualità, alla moda, alla cultura che si costruiva nei boulevards e nei caffe della Rive Gauche, oltre che nelle case editrici, e in particolare Gallimard con la sua prestigiosa «Nrf», preferiva l'«inattuale»ricerca universitaria, gli antichi editori come Alcan, le riviste specialistiche e scientifiche, in breve un «impegno» rigoroso nel proprio lavoro specifico - ma un impegno che, nei momenti più tragici, non rifiutava il confronto con la storia, al di là di cartacee dispute fra egotici intellettuali, se ricordiamo che il primo storico dell'estetica francese, V. Feldman, fu martire della Resistenza e che nessuno dei p ensatorì che abbiamo sin qui studiato poté venire accusato del pur diffuso collaborazionismo filo-nazista.

Questo atteggiamento degli estetologi, che è poi, a grandi linee, quello dell'intera cultura universitaria (e dello stesso Bergson, d'origini ebraiche, che rifiuta di convertirsi al cristianesimo, cui pure era molto vicino, per rimanere sino alla morte con i perseguitati), tende a mutare soltanto negli anni sessanta: che sia stato il «sessantotto» il momento scatenante nessuno, almeno in Francia, oserebbe dubitarlo. Ma che in realtà il marxismo, la fenomenologia, l'esistenzialismo, le loro commistioni, le critiche all'ideologia, la semiotica, lo strutturalismo, le filosofie della «morte» e della differenza, avessero già posto l'estetica - e con essa tutta la cultura francese universitaria - in un campo «aperto», dove è difficile porre precisi confini o anche usare antiche terminologie, è, probabilmente, altrettanto indubbio. In ogni caso, sia le tensioni politiche sia quelle filosofiche sono oggi presenti nell'estetica francese e spingono anzi in direzioni che non hanno più come fine l'instaurazione di una «scienza estetica» ma la messa in luce di nuove prospettive e modalità di rapporto con l'oggetto che, per il loro capillare generarsi, sarebbe impossibile (e forse azzardato) sistematizzare in un'unitaria dimensione storica. Vengono infatti in primo piano elementi di carattere sociale, politico e ideologico che, pur innestandosi su filoni metodologici che risalgono sino a V. Basch, spaziano in campi un tempo impensatì e, in primo luogo, sulle opere e i fenomeni delle arti contemporanee, analizzati con metodi spesso critici che fuoriescono sia dai «sistemi» di Souriau e Alain sia da una meditazione orientata in senso filosofico generale.

In questo complesso quadro «giocano» inoltre, a differenza degli anni quaranta, nuove discipline collaterali che, nella loro autonomia, non possono non influenzare l'ambito dell'estetica. È il caso, per limitarsi alla sola cultura francese (ma si dovrebbe spaziare in altre tradizioni e culture), della sociologia dell'arte che studia il valore sociale della tecnica artistica con P. Francastel, il ruolo del teatro con Duvignaud, la percezione estetica con Bourdieu, il mercato dell'arte con P. Gaudibcrt o la sociologia della letteratura con R. Escarpit: segno che quegli interessi che erano predominanti in Guyau tornano, dopo anni di relativo oblio, in assoluto primo piano. Il ruolo e la funzione della società nei campi dell'estetico e dell'artistico èinfatti problema che, nella sua stagione più ricca, sembra non interessare gli studiosi di estetica; e segno di ciò può essere considerata la tardiva ricezione nella cultura francese della teoria estetica di A-domo, la cui traduzione ha inizio solo nel 1973, aiutata, forse, dal clima favorevole alle «ideologie del desiderio» soprattutto dopo le opere di J.F. Lyotard, pensatore che se «ha avuto il merito di ridurre in polvere numerosi edifici pseudomarxìsti che già tentennavano da una dozzina d'anni, favorirà di contro, da parte degli epigoni un po' troppo zelanti, il proliferare di considerazioni spesso schematiche e fumose»[2].

Le particolarità metodologiche delle sociologie dell'arte non avevano infatti permesso un'effettiva «svolta» dell'estetica verso temi che connettessero l'opera d'arte con problemi politici e critici della società, temi che appunto verranno in luce solo con la lettura di Adorno, di Marcuse e di Freud da loro interpretato ma che, posto accanto a certi nuovi modelli di «lettura» dell'opera, rischieranno di annullare le specificità del discorso estetico ponendo le arti «contro l'estetica», [3] e negando la possibilità di un'estetica scientifica, in grado di distinguere la dimensione intuitiva e sensibile degli oggetti da quella storico intersoggettiva e, soprattutto, da posizioni soggettive di carattere critico e valutativo. Queste distinzioni, come già si è notato, pur abbozzate da V. Basch e da C. Lalo, sono storicamente assenti dall'estetica francese ed ancor più lo sono oggi dove il frammento domina il metodo.

Si può quindi affermare, senza la presunzione di un giudizio critico definito e definitivo, che l'opera ancora in svolgimento dei contemporanei rischierebbe di smentire o vanificare, che oggi la «scienza estetica», ovvero l'intero «movimento» (nel senso non di una scuola ma di un gruppo di pensatori diversi che si muovono verso un solo fine), non è più un'organica meditazione su una serie di problemi «classici», offerti, in modo più o meno ingenuo, dalla filosofia o dalle scienze dell'uomo (come accadeva ai primi del secolo e poi, via via, sino a Dufrenne) ma un rapsodico insieme di sguardi sul campo intero dell'artisticità dove, nel frammento, rischia di perdersi, oltre al senso stesso del termine «scienza» applicato all'estetica, il senso della sua autonoma fondazione, pur collegata metodo-logicamente alla filosofia e alle scienze dell'uomo. Del «passato» rimane soltanto quell'intento «descrittivo» - che già Basch auspicava nel suo discorso al II Congresso internazionale di Estetica e Scienza dell'arte del 1937 - e non normativo, ben teorizzato da Bayer, da Souriau nella Correspondance des arts, da Dufrenne in alcune parti della Phénoménologie de l'expérience esthétique, come, peraltro, da Focillon o Malraux: atteggiamento che non diviene comunque, come accadrebbe nella fenomenologia, punto d'avvio per una costituzione assiologico-materiale dell'oggetto estetico.

La prima conclusione è quindi che oggi, in Francia, sia per le influenze strutturaliste o post-strutturaliste heideggeriane, sia, in modo particolare, per le meditazioni «anarchiche» sulle opered'arte o per i non del tutto chiarificanti inserimenti dei processi creativi in progetti utopici, l'estetica non si presenta come un «movimento unitario», anche se, forse più che in passato, dà origine a linee di ricerche comuni, spesso consonanti, come la «poietica» di Passeron o l'estetica «senza ostacolo» di Dufrenne, Lascault e Revault d'Allones. Vi sono, inoltre, numerose altre iniziative, che provengono sia dalla psicologia (per esempio con Ignace Meyerson) sia dalla sociologia sia dalla cosiddetta «estetica sperimentale» che, se ricorda per certi aspetti le teorie di Max Bense, si è autonomamente sviluppata con P. Servien, A. Moles, P. Fraisse e Robert Frances verso indagini collegate a problemi di psicologia, sociologia, fisiologia, pedagogia o statistica che, nell'autonomia dei singoli campi, non hanno, in definitiva, molte relazioni con l'estetica come specifica scienza filosofica, limitandosi a varie esplicazioni di «fatti» già dati.

E invece la tendenza che, in omaggio a Lyotard, si può definire come «desiderante» che predomina oggi nell'estetica francese, cercando un nuovo rapporto fra il soggetto e l'opera d'arte. Bisogna dunque sostenere, come appunto scrive Lyotard in Discours/Figure, che

«il dato non è un testo, che c'e in lui uno spessore, o piuttosto, una differenza, costitutiva, che non bisogna leggere, ma vedere; che questa differenza, e la mobilità immobile che la rivela, è ciò che non smette di dimenticarsi nel significare»[4].

L'estetica potrebbe presentarsi come una «difesa dell'occhio», seguendo una tradizione che è quella di Alain, Breton, Merleau-Ponty e Dufrenne (ma anche di P. Claudel e P. Valéry) e che si oppone, in modo più o meno esplicito, alla semiologia o agli strutturalismi totalizzanti: l'arte non è silenzio ma «indica una funzione della figura» e che «la trascendenza del simbolo è la figura, cioè una manifestazione spaziale che lo spazio linguistico non può incorporare senza essere scossa, un'esteriorità che non può interiorizzare in significazione». L'arte è dunque posta nell'alterità dialettica fra la plasticità e il desiderio: «l'arte vuole la figura, la 'bellezza' è figurale, non legata, ritmica»[5].

 

Note

[1] Sulle prime «teorie dell'impegno» si veda H. Lottman, La Rive gauche, Milano, Edizioni di Comunità, 1983. Si veda anche M. Pianciola, Filosofia e politica nel pensiero francese del dopoguerra, Torino, Loescher, 1979.

[2] M. Jimenez, Réception et interprétation actuelles de l'école de Francfort, in «Revue d'esthétique», 1979, n. 3-4, p.370.

[3] Si veda la parte conclusiva di E. Migliorini, Introduzione all'estetica contemporanea, Firenze, Le Monnier, 1980.

[4] J.F. Lyotard, Discours/Figyre, Paris, Klincksieck, 1978+3, p. 9.

[5] Ibid., p. 13.