6 - Uno sguardo sul segno

 

 

Il termine «decostruzione» è stato notoriamente proposto da Derrida per tradurre la Destruktion di cui parla Heidegger in Essere e tempo e si pone come scopo una «teoria del discorso filosofico», una teoria strutturalista che o non riconoscendo o rifiutando (è il caso di Derrida) il suo primitivo legame di filiazione con la fenomenologia, spezza il suo legame con le altre scienze dell'uomo. In qusto senso e chiaro che con strutturalismo non si intende per Derrida un metodo, un sistema di segni, un apparato critico che cerchi di determinare il valore funzionale degli elementi del discorso poetico (interessando quindi direttamente l'estetica) ma ci si riferisce a una querelle filosofica e ideologica sul significato della filosofia oggi.

Vi sono peraltro esempi, nella Francia contemporanea di una più diretta interpretazione dello strutturalismo: è il caso di Todorov, della Kristeva, delle teorizzazione del gruppo che, intorno a A.Vich, François Pire, Philippe Minguet, Jean-Marie Klinkenberg, François Edelin, Philippe e Jacques Dubois, cerca un confronto, pur mantenendo le specifiche autonomie, fra estetica, poietica, semiotica e retorica. Non è qui possibile - nè sarebbe questa la sede - fare il punto sullo stato delle semiologie oggi in Francia, semiologie che non solo comprendono le ricche prospettive antropologiche di George Dumézil e Michel Serres ma coinvolgono anche piani, psicologici, sociologici e politico-economici. È infatti noto che Jean Baudrillard ha tentato una «economia politica del segno» riferita agli oggetti di consumo (al di qua di ogni posizione valutativa) poichè il consumo stesso «è un'attività di manipolazione sistematica dei segni» e quindi un oggetto, per divenire «di consumo»,

«deve diventare segno , cioè in qualche modo esterno a un rapporto che significa soltanto, cioè arbitrario e privo di coerenza con il rapporto concreto, coerente invece e carico di senso in un rapporto astratto e sistematico con tutti gli altri oggetti-segni»[96].

L'oggetto stesso

«non comincia veramente a esistere che con la sua liberazione formale come funzione-segno, e questa liberazione non avviene che con la mutazione di questa società in senso stretto industriale in quella che si potrebbe chiamare la nostra tecnocultura, con il passaggio da una società metallurgica a una società semiurgica» [97].

La «riduzione semiologica» di Baudrillard vede dunque l'oggetto soltanto come segno, segno di un consumo che manifesta uno statuto sociale e un mercato «seriale»: «l'oggetto di questo nuovo sapere - scrive Dufrenne commentando - è la forma, che è indifferentemente forma-segno (significante-significato) e forma-merce (valore di scambio-valore d'uso); quindi «seguo e merce si identificano nella loro forma poiché le loro determinazioni specifiche erano abolite» e «il solo oggetto è la forma-oggetto, che è forma-seguo». Per Dufrenne e per tutta l'estetica, invece, «le parole valore e senso hanno ancora senso e valore»[98].

Sono quindi gli stessi presupposti della semiologia (o semiotica) che, se indebitamente assolutizzati a unica dimensione dell'oggetto, portano su campi che sono estranei non solo alla fenomenologia ma anche alla tradizione stessa dell'estetica francese. Se in queste meditazioni si ponga poi il vero e proprio futuro dell'estetica stessa e ipotesi possibile, senz'altro degna di venire discussa, ma che non ha ancora oggi trovato in Francia sufficienti giustificazioni storico-critiche. È comunque indubbio che le correnti semiotiche o struttura-liste (con notevoli influssi heideggeriani) dominano oggi il campo della critica letteraria che, per esempio in Blanchot, sembra a volte trasformarsi in un analisi strutturale ontologicamente fondata. E infatti Blanchot scrive che

«lo scrittore scrive un libro, ma un libro non è ancora l'opera, l'opera non è tale se non quando in essa, nella violenza di un convincimento che le è proprio, si pronuncia la parola 'essere': evento che si compie quando l'opera è l'intimità di qualcuno che la scrive e di qualcuno che la legge»[99].

Il senso dell'essere è qui l'Arte che un artista-Orfeo ricerca, discendendo negli inferi verso Euridice, l'opera: opera che, nello sguardo, viene perduta, anche se il sacrificio, l'assenza, ha portato al disvelamento dell'essere. Blanchot considera dunque nel «non-senso» dell'opera quel momento «autentico» che si contrappone al «senso» del mondo come inautenticità della massa e del quotidiano. Il problema è quello della ricerca dell'essere attraverso l'analisi del linguaggio e di alcune forme poetiche emblematiche.

Vi è stato tuttavia in Francia chi - e in primo luogo Roland Barthes - si è sentito più strettamente collegato alla pratica della critica letteraria, all'analisi strutturale di derivazione saussuriana degli elementi specifici della letteratura: la lingua, lo stile e la scrittura. Se la lingua è soltanto «l'area di un'azione, la definizione e l'attesa di un possibile», la stile ha una sua «verticalità» in cui si rivela come «l'elemento materiale dello scrittore, il suo splendore e la sua prigione».

Cosi «l'orizzonte della lingua e la verticalità dello stile delimitano per lo scrittore una natura, in quanto egli non può scegliere nè l'uno nè l'altra»[100]. A questo livello oggettuale dei primi due piani risponde il livello conclusivo della scrittura, piano funzionale che inserisce l'opera all'interno della società ma che, d'altra parte, caratterizza l'opera stessa come realtà non comunicativa.

Il grado zero, il nuovo modello di scrittura che Barthes propone, è una lingua che egli stesso definisce «strumentale», che si pone in mezzo alle varie scritture, «a queste grida e a questi giudizi senza parteciparvi affatto, essendo propriamente costituita dalla loro assenza». La scrittura del grado zero «è il modo di una situazione nuova dello scrittore, il modo di esistere di un silenzio»[101]. Risulta così nuovamente chiaro, anche se l'approccio è diverso, il fondo «negativo» dell'assenza che già affiorava in Derrida e Blanchot. Barthes tuttavia non si ferma a questo livello di analisi e, nelle opere successive al Grado zero, lascia cadere la tripartizione fra lingua, stile e scrittura per sottolineare il valore della critica in quanto costruttrice del sistema della letteratura, in grado di concepire una rete di senso tale che vi prendono posto elementi che arricchiscono il senso generale dell'opera. La critica tuttavia, in quanto pratica di scrittura, legge per scrivere e quindi crea ancora una volta un «abisso» fra sé e la lettura.

In questi veloci cenni si è forse intravisto che Barthes occupa una posizione del tutto particolare all'interno della semiotica francese, cercando una dimensione dell'oggetto che era rimasta nascosta alle meditazioni degli esthéticiens. In lui è infatti presente, in un contesto strutturalistico che è più un lessico che una scuola o un movimento, un'attività «che si prefigge lo scopo di ricostruire l'oggetto', non staticamente, ma manifestandolo nelle sue funzioni vitali»[102]. Come ben scrive Dufrenne:

«Ciò che seduce Barthes nell'opera come testo è quanto c e in essa di decostruzione: l'éclatement delle strutture. E, nello stesso tempo, il plurale: plurale del testo, plurale delle letture, plurale stesso della. lettura che si fa vagabonda, multipla. Il plurale sta a Barthes come la negazione sta a Sartre: lo strumento della sovversione al cuore del medesimo, dell'identico, dell'immutabile, l'appello alla trasgressione del sistema. La teoria del testo è un'anti-teoria, così come la dialettica è in Sartre una dialettica negativa»[103].

Infatti, come ha notàto un altro strutturalista francese, Gerard Génette, Barthes non identifica il «sistema semiologico» con le opere letterarie ma applica le sue indagini a oggetti che Dufrenne, riconducendo il suo pensiero a tematiche dell'estetica «sans entrave», direbbe multipli e plurali, al campo «disperso» della varietà dei miti di oggi. In questo senso si può scoprire anche in Barthes un substrato etico e politico che, come nell'estetica contemporanea, fonda e giustifica insieme la dispersione delle mitologie dei segni. Il centro d'interesse, scrive Calvet, si sposta ora verso l'emittente «e tale approccio esige uno strumento euristico»: «ecco dove si radica l'interesse di Barthes per la semiologia»[104].

Questo stesso interesse, d'altra parte, allontana Barthes dal contesto storico dell'estetica francese: e lo allontana perchè l'impero dei segni diventa spesso un «imperialismo» dei segni, quei segni che, come scrive Dufrenne,egli ha tracciato e analizzato dappertutto, anche quando la loro sostanza non era linguistica. Un'analisi dove il «potere» è del significante sul significato, «che, può essere definito solo all'interno del processo di significazione: il significato non riporta al reale, resta preso nella chiusura del sistema»[105]. È ovvio che questa posizione non può essere accettata né dalla fenomenologia né dalla tradizione realista e poietica dell'estetica francese, anchè se Barthes e i suoi allievi occupano senza dubbio una posizione privilegiata nel dibattito con gli estetologi, specie con coloro che, teorizzando un'estetica della dispersione, non possono non prestare attenzione all'ipotesi di Barthes che «la semiologia è forse destinata a farsi assorbire da una translinguistica, la cui materia sarà costituita ora dal mito, dal racconto, dall'articolo giornalistico, ora dagli oggetti della nostra civiltà, nella misura in cui essi sono parlati (attraverso la stampa, il volantino, l'intervista, la conversazione e forse anche il linguaggio interiore, di ordine fantasmatico)»[106];

È comunque indubbio che in Barthes non è mai in questione il rapporto - essenziale per la fenomenologia e per l'estetica - fra il seguo, il senso e la cosa; e ciò anche se Barthes non ha mai ceduto alla moda, come scrive Dufrenne, «di ridurre il vissuto al parlato, e per esempio l'avvenimento al racconto o Io storico al discorso dello storiografo», affermando, come alcuni riesumatori mascherati di antichi idealismi, «che il reale è evacuato»[107].

L'unica dimensione in cui Barthes rientra veramente nel discorso dell'estetica è quindi, a parere di Dufrenne, la sua opposizione alla logica della dominazione, il suo discorso politico riferito all'analisì dei rapporti umani nelle loro strutture sociali. Inoltre «l'accesso al reale» e garantito da Barthes attraverso il «piacere del testo» piacere che è direzionato verso un oggetto nella sua realtà[108]. La semiologia si differenzia tuttavia dall'estetica, almeno in questo ambito, perché non offre la dimensione propriamente «estetica» dell'oggetto, la sua espressività extra-rappresentativa, quel significato che deborda la sfera della significazione e che porta alla comunicazione storica e intersoggettiva; bisogna quindi, oltre il segno, riservare attenzione al senso e dal senso alla donazione di senso - al valore. Al contrario Barthes, pur non limitando ad alcun assoluto le sue ricerche, afferma con chiarezza che

«dovremo rinunciare all'idea che la scienza della letteratura possa insegnarci il senso da attribuire a colpo sicuro a un'opera: essa non conferirà né ritroverà alcun senso, ma descriverà la logica secondo la quale i sensi sono generati in un modo che possa essere accettato dalla logica simbolica degli uomini, proprio come le frasi della lingua francese sono accettate dal 'sentimento linguistico' dei francesi»[109].

L'estetica sostiene, invece, al contrario che «il sensò non risiede interamente nella struttura e che c e uno stato selvaggio del senso, che la parola presuppone, che la letteratura rianima, e che la critica strutturale non può ignorare»[110]. Del resto lo stesso Barthes, in un'intervista del 1963 a «Tel Quel», pur riconoscendo il suo debito nei confronti di Blanchot, ammette che «il non senso è solo un oggetto tendenziale, una sorta di pietra filosofale, forse un paradiso (perduto o inaccessibile) dell'intelletto» e quindi «nullificare il senso è un progetto disperato»[111].

Il «non senso» di Blanchot porta invece, dall'interpretazione del testo, a prospettive onto-teologiche, orfiche, forse ispirate dalle teologie neoplatoniche dell'«omnis determinatio est negatio», dove il centro del discorso riguarda l'assenza di senso e di tempo da cui ècaratterizzata la scrittura:

«Scrivere è entrare nell'affermazione della solitudine, dove incombe la fascinazione. È consegnarsi al rischio dell'assenza di tempo, dove regna l'eterno ricominciamento. È passare dall'Io all'Egli, di modo che ciò che mi avviene non avviene a nessuno, è anonimo per il fatto che mi concerne, si ripete in uno sparpagliamento infinito»[112].

Il poeta che parla all'interno dello spazio letterario «dice ma non si riferisce a qualche cosa da dire, a qualche cosa di silenzioso che lo garantisce come suo senso»: l'opera esige dallo scrittore l'assenza, «che egli perda ogni 'natura', ogni carattere e che cessando di riferirsi agli altri e a se stesso con la decisione che lo fa io, diventi il luogo vuoto dove si formula l'affermazione impersonale»[113]. L'opera non afferma un mondo espressivo, la concretezza del senso, il valore come processo radicato nel suo essere storico e intersoggettivo perché è una «esperienza notturna», «l'esperienza stessa della notte» dove «tutto è sparito», dove «si compie e si perfeziona la parola nel profondo silenzio che la garantisce nel suo significato»[114].

Lo stesso Blanchot ammette peraltro che interrogarsi sull'opera come fa l'estetologo è cosa che non ha relazione con la sua «ricerca dell'opera»; infatti,

«l'estetica parla dell'arte, ne fa un oggetto di riflessione e di sapere. La esplica riducendola oppure la esalta dichiarandola, ma, in tutti i modi, l'arte è per l'estetologo una realtà presente intorno alla quale egli solleva, senza rischio, pensieri probabili»[115].

L'estetica non è dunque un'altra faccia della stessa medaglia ma qualcosa dì radicalmente nuovo che, proprio perché ha le sue radici nella realtà percettiva dell'oggetto e nella «sensibilità generalizzatrice» del soggetto, può soltanto opporsi a filosofie dell'assenza, a pensieri che proclamano la morte dell'uomo. È in ogni caso sempre a beneficio del significante, scrive Dufrenne, che Derrida considera il significato, come traccia che è già sempre in posizione di significante: «decostruire il segno è allora superare la distinzione fra il significante e il significato in modo unilaterale: riducendo il significato allo statuto del significante»[116].

L'estetica non può adattarsi a questi sistemi né piegarsi alle esigenze della linguistica e della critica ma deve invece spezzare il logo- centrismo che riduce l'essere-al-mondo, nella sua ricchezza di significati, all'essere del linguaggio, che costringe tutta l'esperienza nell'unicità del dire, che la ordina in un impero dei segni. L'estetica, al contrario, guarda alla nostra realtà e al nostro mondo (così come ad essi guardava la fenomenologia di Merleau-Ponty) attraverso il desiderio, in modo tale che «la presenza sia il luogo e l'oggetto di un'afferma- zione gioiosa»[117]. Come ben scrive Lyotard, quali che siano le implicazioni da trarre, bisogna considerare che l'archiscrittura invocata da Derrida per rendere conto del tatto primitivo della rimozione del senso, «non è in ogni caso una scrittura nel senso stretto, iscrizione di segni arbitrari su uno spazio neutralizzato, ma al contrario la costituzione di uno spazio denso in cui possa rappresentarsi il gioco di mostrare/nascondere»[118].

 

 

Note

[96] J. Baudrillard, Il sistema degli oggetti, cit., p. 251.

[97] J. Baudrillard, Per una critica dell'economia politica del segno, cit., p. 200.

[98] M. Dufrenne, Art et politique, cit., p. 37.

[99] M. Blanchot, Lo spazio letterario, Torino, Einaudi, 1967, p. 147.

[100] R. Barthes, Il grado zero della scrittura, Milano, 19662, p. 26.

[101] Ibid., p. 93.

[102] G. Puglisi, Lo strutturalismo, Roma, Ubaldini, 1970, p. 132. In Barthes è presente la volontà di disvelare l'impegno in ogni discorso. In questo senso è possibile un parallelo con Sartre. Si veda L. J. Calvet, R. Barthes. Uno sguardo politico sul segno, Bari, Dedalo, 1978.

[103] M. Dufrenne, Présentation, alla «Revue. d'esthétique», 1981, n. 2, numero monografico dal titolo Sartre/Barthes, p. 8.

[104] L. J. Calvet, op. cit., p. 102. Calvet mostra anche come questa fase del pensiero di Barthes abbia i suoi correlati de Saussure a Hjelmslev.

[105] M. Dufrenne, Du signifiant au référent, in «Revue d'esthétique», 1981, n. 2, p. 72.

[106] R. Barthes, Elementi di semiologia, Torino, Einaudi, 1966, p. 14.

[107] M. Dufrenne, Du signifiant an réferent, cit., p. 72.

[108] Dufrenne contrappone tuttavia, in modo significativo, la lettura di Barthes a quella di Bachelard. È ben dimostrato che la semiologia può fornire indicazioni validissime all'estetica; ma il campo dell'estetica non si limita certo al segnico-simbolico mentre la semiologia, e con grande acume Barthes in modo specifico, si rivolgono allo studio degli insiemi significanti sul modello del linguaggio.

[109] R. Barthes, Critica e verità, Torino, Einaudi, 1975, p. 55. La critica letteraria è un'altra disciplina collaterale all'estetica che, sin dai tempi di Hennequin e Brunétiere, le ha fornito fondamentali indicazioni e che oggi, in particolare, si è aperta a studiosi di ampio respiro culturale, da G. Bachelard a G. Poulet, da Sartre a Starobinski, da J.P. Richard a Mauron sino a Barthes, Blanchot, Todorov e Genette. Su questo «fiorire» di critici, che rivendicano essi stessi la specificità delle loro ricerche nei confronti dell'estetica, si veda R.E. Jones, Panorama de la nouvelle critique en France, Paris, Sedes, 1968 (con bibliografia).

[110] M. Dufrenne, Esthétique et philosophie, tome I, cit., p. 143.

[111] R. Barthes, Saggi critici, Torino, Einaudi, 1966, p. 281 e p. 282.

[112] M. Blanchot, Lo spazio letterario, cit., p. 19.

[113] Ibid., p. 37 e p.4l.

[114] Ibid., p. 139.

[115]Ibid., p. 204. Il discorso potrebbe venire qui allargato inserendo l'esame di.J. Derrida. Per una prima analisi si vedano V. Descombes, op. cit. e M. Ferraris, Differenze. La filosofia francese dopo lo strutturalismo, Milano, Multhipla, 1981.

[116] M. Dufrenne, Le poétique, cit., p. 15. La scrittura è per Derrida un «trampolino» per lanciare la riflessione verso una «archiscrittura» in cui la traccia si sostituisce al segno, dove la differenza è struttura di un'assenza irriducibile a qualsiasi significato.

[117] Ibid., p. 57. Sul rapporto fra Derrida e Dufrenne si veda D. Giovannangeli, Ecriture et répétition. Approche de Derrida, Paris, U.G.E., 1979.

[118] J.F. Lyotard, Discours/Figure, cit., p. 75.