APPENDICE

 

SCHOPENHAUER E KANT

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Mondo come volontà e rappresentazione, che dedica ampio spazio all'arte musicale, non si pronuncia espressamente sulla teoria di Kant. In assenza di espliciti riferimenti, le pagine che seguono si propongono di illustrare, sulla base di una comparazione condotta dall'esterno, quali siano le analogie e le differenze intercorrenti fra le concezioni, che sembrano sulle prime inconciliabili, espresse nelle due opere.

Emergerà come la distanza che separa le due teorie sia notevole e dipenda strettamente dalla loro collocazione sistematica: all'analisi del giudizio estetico ed alla ricerca dei suoi princìpi a priori, analisi che guida Kant anche laddove volge la sua attenzione all'arte dei suoni, subentra in Schopenhauer la teoria metafisica del mondo come rappresentazione e volontà. Da questa differente collocazione nei due sistemi derivano conclusioni diametralmente opposte. Tuttavia non si potrà passare sotto silenzio come, sotto il profilo contenutistico, gli elementi costitutivi della teoria della musica di Kant si possano ritrovare immutati in Schopenhauer. Dopo alcune iniziali osservazioni sull'orizzonte sistematico dei due autori (1.), il confronto verterà sul rapporto fra musica e acustica (2.), analizzerà quindi il tema “musica e volontà” (3.) e si concluderà con uno sguardo alla collocazione della musica nel sistema delle arti (4.).

1.

 

L'interesse di Schopenhauer per la musica e più in generale per l'estetica si colloca su di un livello ben difficilmente assimilabile a quello che caratterizza la ricerca di Kant; la contrapposizione è sottolineata con chiarezza dall'autore stesso nell'Appendice al Mondo, contenente la Critica della filosofia kantiana. Il metodo inaugurato da Kant è inizialmente oggetto di apprezzamento: Aristotele fra gli antichi, Home, Burke, Winckelmann, Lessing e Herder fra i moderni si erano prefissi di distinguere ciò che piace da ciò che non piace, di ricercare i mezzi in grado di suscitare piacere estetico muovendo dalle particolarità degli oggetti. L'osservazione fondata sull'esperienza, volta a distinguere le qualità specifiche dell'oggetto bello e a coglierne la differenza rispetto agli altri oggetti, la fissazione induttiva di princìpi particolari ed il passaggio a princìpi più generali si erano imposti come lo scopo di questa disciplina. In queste indagini di natura empirica il soggetto era del tutto trascurato e messo fra parentesi; il merito di Kant deve essere scorto proprio nel fatto che egli indirizzò la sua indagine direttamente su di un ambito dimenticato dall'estetica a lui precedente: il soggetto.

 

A Kant [...] - scrive Schopenhauer - anche per questo punto era riservato il merito di indagare seriamente e profondamente l'emozione stessa, in conseguenza della quale chiamiamo l'oggetto che la produce bello, per trovare se possibile gli elementi e le condizioni di essa nel nostro animo. La sua ricerca prese dunque interamente la via soggettiva. Questa via era palesemente la giusta, perché, per spiegare un fenomeno dato nei suoi effetti, si deve esattamente conoscere, per determinare con precisione la qualità della causa, prima questo stesso effetto (W I 627-628; M I, p. 569). 

 

Tuttavia, il modo in cui Kant volle realizzare questa indagine orientata sul soggetto è errato sin dalle fondamenta, poiché egli intese la ricerca soggettiva come analisi astratta e puramente logica del giudizio, trascurando l'intuizione diretta e immediata del bello. Il suo oggetto è dato dal giudizio di gusto astratto, logico, e tutta la sua attenzione si concentra sul fatto che, mentre questo giudizio è da un lato un'asserzione pronunciata da un individuo riguardo ad un processo, quello del piacere estetico, che si verifica nel suo animo individuale, dall'altro esso si rivela dotato di un'universalità tale da valere quasi come una proprietà dell'oggetto. La costruzione della Critica del Giudizio è, dunque, parallela a quella della Critica della ragion pura: se in quest'ultima la conoscenza dell'oggetto era ricondotta alle forme dei giudizi, analogamente, nella Critica del Giudizio, la valutazione estetica dell'oggetto bello e dell'oggetto sublime viene ricondotta ai giudizi che vi sono preposti. Kant è, dunque, paragonabile ad un cieco in grado, nonostante la sua malattia, di formulare una teoria dei colori sulla sola base delle asserzioni udite e senza averne esperienza diretta. Schopenhauer ha qui presente il caso del cieco Saunderson, che insegnò a Cambridge matematica, ottica ed astronomia e che gli era noto attraverso Diderot. Schopenhauer lo cita nella Quadruplice radice, nella edizione del 1847:

 

Specialmente colpisce la sua attenzione la circostanza che un tale giudizio è manifestamente l'espressione di un processo nel soggetto, e tuttavia è così generalmente valido, come se riguardasse una proprietà dell'oggetto. Questo lo ha colpito, non il bello stesso. Egli parte solo sempre da espressioni di altri, dal giudizio sul bello, non dal bello stesso (W I 627-628; M I, p. 569).

 

 

2.

 

La tradizione della teoria musicale che assegna alla matematica un ruolo fondamentale nella determinazione dell'effetto che la musica produce sul soggetto è ben nota anche al filosofo di Danzica: nel Mondo è citata ed apprezzata la definizione di Leibniz, “il quale era […] nel vero”, come “exercitium arithmeticae occultum nescientis se numerare animi” (W I 302, M I 298). A conclusione di un appunto contenuto nel Reisebuch e risalente al 1821 sono menzionati sia l'articolo Klang della Allgemeine Theorie der schönen Künste di Sulzer, nel quale la teoria di Euler è riferita con precisione, sia le Lettere ad una principessa tedesca; la posizione di Schopenhauer rispetto a queste dottrine è di apprezzamento e di assenso. Sotto il profilo della conoscenza, del mondo come rappresentazione, la matematica può a ragione essere considerata il fondamento del piacere estetico suscitato dalla musica. Anche l'edizione del 1847 della Quadruplice radice del principio di ragione sufficiente insiste sull'importanza dell'udito come mezzo attraverso il quale ci è possibile accostarci alla musica; l'udito può comprendere rapporti numerici complicati non solo in astratto, ma direttamente in concreto.

 

L'armonia dei suoni - si legge nel Reisebuch - deve fondarsi in ultima analisi sul fatto che i numeri delle loro vibrazioni siano fra loro in un rapporto razionale […]. Perciò è comprensibile per qual motivo nell'armonia l'udito percepisca con chiarezza tanti suoni contemporaneamente e riesca ciononostante a raccoglierli in un accordo: l'udito conta le veloci vibrazioni delle note più acute, nel cui numero sono contenute le vibrazioni di tutte le note più gravi […] (Schopenhauer 1985, p. 41. Una scelta di passi dai manoscritti è comparsa in traduzione italiana in Schopenhauer 1981).

 

Nel saggio Sulla vista e i colori si afferma tanto che l'armonia si fonda su rapporti numerici fra vibrazioni dell'aria fra loro contemporanee quanto che l'uomo ha la capacità di giudicare, mediante il semplice ascolto, i suoni ad essi corrispondenti. “Ogni persona normale” è in grado di stabilire se un suono sia “la vera terza, o la quinta o l'ottava di un altro” (Schopenhauer 1994, vol. 3, pp. 193-297; Schopenhauer 1988, p. 52): è quasi un'anticipazione soggettiva dei suoni che ci fornisce una norma a priori per giudicarli. Così ogni singolo suono della scala musicale può essere colto nella sua diversità dagli altri grazie all'anticipazione del numero delle sue vibrazioni. Anche qui un motivo kantiano, poiché, come abbiamo visto, al paragrafo 51 della Critica del Giudizio si avverte la presenza di anticipazioni della percezione della Critica della ragion pura. Come in Kant, le dissonanze si rivelano fattore imprescindibile per ragioni legate alla struttura matematica:

 

[…] non si potrebbe calcolare una gamma in cui la relazione col suono fondamentale fosse di 2/3 per ogni quinta, di 4/5 per ogni terza maggiore, di 5/6 per ogni terza minore, ecc. Infatti, se i toni avessero una relazione esatta con il tono fondamentale, non l'avrebbero tra loro, la quinta, ad esempio, dovrebbe essere la terza minore della terza, ecc.; i gradi della scala somigliano a degli attori, che ora debbono rappresentare una parte, ora un'altra (W I 314; M I 308).

 

È impossibile concepire ed eseguire “una musica di rigorosa esattezza”. Se ne deve concludere, quindi, che “ogni musica, per essere possibile, deve più o meno allontanarsi dall'assoluta purezza; se vuole dissimulare le dissonanze che le sono essenziali, deve ripartirle fra tutti i gradi della scala, per mezzo del suo temperamento”. La fonte che ispirò a Schopenhauer questa valutazione viene da lui stesso indicata: il § 30 dell'Acustica e il Breve cenno sulla teoria dei suoni e dell'armonia di Chladni. In queste teorie Schopenhauer ha piena fiducia e vi fa riferimento come a dottrine universalmente note e stabili nelle loro fondamenta (Cfr. W II 511-523; M II 464-474).

Come a Kant è nota a Schopenhauer la teoria ondulatoria di Euler; a questo proposito però si deve segnalare una differenza. Sotto l'aspetto della conoscenza, la teoria fisiologica, che Schopenhauer aveva già esposto nel suo scritto sulla vista e i colori, si trova in netta opposizione rispetto alla teoria proposta da Euler, la quale prevedeva un'analogia completa fra luce e aria, fra vista e udito, fra suoni e colori: Euler riteneva che la sensazione della luce percepita dall'occhio non fosse null’altro che una vibrazione meccanica analoga alle vibrazioni subite dall'udito in presenza dell'aria e che queste vibrazioni colpissero la vista grazie all'etere, Schopenhauer considera invece il colore come il risultato di un'attività della retina (cfr. A. Schopenhauer, Über das Sehn und die Farben. Eine Abhandlung, in Schopenhauer 1994, vol. 3, pp. 193-297; tr. it. Milano 1988).

Quali fonti della sua “nuova teoria dei colori” Schopenhauer considera, oltre alla Teoria dei colori di Goethe, i colori accidentali di Buffon (anche Kant conosceva questa teoria, come risulta dalle Lezioni di antropologia, in AA XXV, p. 1244), la Zoonomia di Waring Darwin e un articolo di Himly pubblicato nella “Ophtalmologische Bibliothek” dal titolo Einiges über die Polarität der Farben (cfr. l'introduzione di Schopenhauer al saggio sulla vista e i colori).

Per questo giudica improponibile la costruzione di un clavicembalo ottico proposta dal gesuita e matematico parigino Louis Bertrand Castel: questi, fondandosi sull'analogia fra suoni e colori, aveva ritenuto possibile progettare uno strumento in grado di rappresentare per la vista ciò che la musica è per l'udito, di suscitare quindi piacere nell'osservatore attraverso un complesso sistema di ampolle di colore diverso corrispondenti ciascuna ad una nota.

Poiché, per Schopenhauer, la natura della vista è attiva e quella dell'udito è passiva, non è assolutamente possibile riuscire a creare qualcosa di analogo alla musica per il senso della vista; una musica per gli occhi è semplicemente un'ipotesi assurda (cfr. W II 30-36; M II 31-36). La differenza netta fra la natura della vista e la costituzione dell'udito può essere resa comprensibile non appena si rifletta sulla loro struttura fisiologica: il processo dell'udire si compie mediante un'azione di vibrazione meccanica esercitata sui nervi, azione che poi è trasmessa al cervello. In tal modo si spiega l'effetto profondo ed immediato che la musica esercita sullo spirito: le oscillazioni dell'aria in cui consistono i suoni, che si succedono secondo rapporti numerici razionali, causano nelle fibre del cervello vibrazioni analoghe. La vista è invece un'effettiva azione della retina per la quale la luce e le sue modificazioni, i colori, non rappresentano che l'occasione esterna.

Anche il fatto che suoni e rumori disturbino l'attività pensante dello spirito mentre al contrario il senso della vista non è d'intralcio all'attività del pensiero, deriva dalla passività dell'udito, per cui si realizza un'azione immediata dell'oggetto sull'attività pensante. Non può quindi suscitare meraviglia che coloro che sono dediti alla riflessione siano disturbati dal rumore e più in generale dai suoni a tal punto che ne risulta gravemente compromessa la possibilità stessa di pensare. Le biografie di Kant e di Goethe, ricorda Schopenhauer, ne danno conferma: entrambi erano molto sensibili al rumore; Goethe giunse perfino ad acquistare una casa pericolante vicina alla sua pur di non dover sopportare il rumore che sarebbe stato prodotto dai lavori di restauro. Le facoltà spirituali sono presenti nell'uomo in modo inversamente proporzionale alla capacità di sopportare indisturbati il rumore; è sufficiente notare che il nostro vicino permette al suo cane di abbaiare per ore ed ore per dedurne un'esatta valutazione delle sue capacità spirituali. Sulla base di queste considerazioni, Schopenhauer non si meraviglia che Kant abbia giudicato negativamente i suoni sgradevoli e il rumore considerandoli di intralcio al libero svolgimento del pensiero, anzi ne condivide pienamente l'atteggiamento.

Confrontiamo ora rapidamente la posizione di Kant con quella di Schopenhauer. La convinzione qui accennata, che troppo spesso è considerata indizio di una personalità insensibile alla vera natura della musica, sopravvive anche nel filosofo che ha collocato l'arte musicale al gradino più alto del sistema delle arti, assegnandole dignità metafisica. Schopenhauer nota che i suoni esercitano un'azione fastidiosa e ostile sul nostro spirito e che coloro che si dedicano ad attività intellettuali e sono dotati di grande intelligenza non possono sopportare alcun tipo di rumore, poiché esso interrompe il flusso costante delle loro idee e paralizza il corso del loro pensiero (WII, p. 47). Qual è il bersaglio polemico di Schopenhauer? Non certo la musica, ma piuttosto il chiasso. Lichtenberg scrive nelle Nachrichten und Bemerkungen von und über sich selbst: “Sono sensibile in modo superiore al comune a ogni tipo di rumore, il quale perde però la sua impressione disgustosa non appena lo si connette con uno scopo razionale” (Lichtenberg 1800, Bd. I, p. 43). I lavori di restauro di una casa, martellate, abbaiare di cani e strilli di bambini sono orribili per Schopenhauer che precisa che l'unico vero e proprio assassino dei pensieri è lo schioccare delle fruste, fenomeno al quale dedica il penultimo saggio (cap. XXX) dei Parerga e Paralipomena, che ha per titolo Del chiasso e dei rumori (si veda Piana 1997, p. 24).

Anche Schopenhauer, come Kant, formula una spiegazione fisica di questo fenomeno: la sensazione dell'udito non si forma nel labirinto, non si forma nella coclea, ma nel punto in cui il pons Varolli include la medulla oblongata, e quindi nel cervello. Il ricorso alla fisica spiega dunque il motivo per il quale certi suoni causano disturbo alla facoltà di pensare e interrompono il flusso costante delle idee; questi passi non analizzano la musica, ma l'effetto dei suoni sull'udito e soprattutto l'effetto del rumore. È sintomatico il fatto che Schopenhauer non solo non critichi Kant per aver espresso questo pensiero, ma anzi lo citi e ne giustifichi l'atteggiamento spiegandoci anche per quale motivo fisiologico egli fosse, come Goethe e Jean Paul, particolarmente sensibile. In questo modo Schopenhauer mostra di credere che la biografia di Kant ne dimostri non già l'incapacità di comprendere la musica, ma l'insofferenza per il rumore (cfr. Piana 1997, pp. 20-27). Poiché la vista è un senso attivo, mentre l'udito è un senso passivo, i suoni esercitano un'azione fastidiosa e ostile sul nostro spirito, e ciò tanto più quanto più lo spirito è attivo e sviluppato: i suoni turbano l'ordine dei pensieri e fiaccano momentaneamente l'energia mentale. Con gli occhi non abbiamo invece nessun disturbo analogo, nessun effetto immediato del dato visivo come tale sull'attività del pensiero; lo spirito pensante vive con gli occhi in un'eterna pace e, per quanto riguarda l'orecchio, in un'eterna guerra (cfr. Piana 1997, p. 24).

Un punto di incontro fra i due filosofi deve essere ravvisato, dunque, anche entro questo orizzonte. Kant non esita a dichiarare che i suoni sgradevoli sono causati dall'assenza di urbanità; essi disturba il vicinato e, valutati secondo quest'angolo visuale, si prestano ad esser collocati sul medesimo piano di un rumore indistinto. Spesso questo passo è addotto a dimostrazione dell'incapacità, da parte del filosofo, di comprendere quell'arte sublime, l'arte di Haydn e di Mozart, che pure nella città Königsberg erano ben noti; qui si condenserebbe la vera motivazione delle contraddizioni che si vorrebbero ravvisare nella teoria kantiana. Il rimprovero mosso da Kant e il bersaglio cui esso è indirizzato permettono però una diversa collocazione di quel giudizio. Innanzitutto, è la natura degli strumenti e il modo in cui avviene la diffusione del suono nell'aria, una diffusione circolare, non lineare, ad offrire la giustificazione di quello sgradevole effetto; l'analisi è qui svolta non entro una dimensione estetica, ma a partire da un interesse per la natura fisica del suono. Inoltre, oggetto di critica non è la musica in generale, come arte del genio e dell'espressione delle idee estetiche, ma sono piuttosto strumenti che producano suoni sgradevoli per l'udito. Chi cita il rimprovero kantiano a testimonianza della scarsa rilevanza della teoria che vi è sottesa non può non tener presente sia che esso ricompare immutato in Schopenhauer sia che la sua presenza non suscita contraddizione entro la generale teoria della musica che il filosofo di Danzica sviluppa; così come non è di intralcio a quest'ultima la considerazione fisiologica, anch'essa già presente in Kant che, dalla natura dell'udito dipendono anche l'effetto immediato e profondo della musica sullo spirito, e lo stato d'animo che consegue ad essa.

 

 

3.

 

Se dal rapporto fra le indagini di Schopenhauer e le teorie del XVII e XVIII secolo da lui citate il discorso si sposta al suo sistema filosofico, si deve rilevare che all'apprezzamento per il nesso fra matematica e musica nel contesto della dottrina del mondo come rappresentazione si contrappone una posizione critica non appena si intravveda la possibilità di un’analisi metafisica fondata sul concetto della volontà. Accettando le teorie matematiche ed annettendo valore alle indagini acustiche sull'udito si compie senza dubbio un passo avanti per quanto concerne la teoria del mondo come rappresentazione, ma la musica viene a coincidere con un'attività di calcolo, inconscia certo, però pur sempre di carattere intellettuale, e ci resta preclusa la possibilità di comprendere l'origine di quel piacere, di quell'intima gioia che essa trasmette. Ciò che deve essere preso in considerazione è proprio il fatto che l'ascolto della musica genera sentimenti e passioni, e solo grazie a questo aspetto ci si rivela il suo nesso con l'essenza metafisica del mondo, con la volontà. Leibniz era nel vero, conclude Schopenhauer, ma si limitava a considerare l'aspetto esteriore e superficiale, la “scorza” della musica.

 

E nondimeno - scrive Schopenhauer - la musica è un'arte così sublime e meravigliosa, di efficacia così grande sui sentimenti più intimi dell'uomo, così facile a comprendersi interamente e profondamente quasi una lingua universale oltrepassante in chiarezza la stessa evidenza del mondo intuitivo, che senza dubbio ci dobbiamo vedere ben più di un puro 'exercitium arithmeticae occultum nescientis se numerare animi', come la definiva Leibniz (W I; M I 298).

 

Per Schopenhauer, dunque, la vera essenza della musica non può essere colta attraverso il semplice riferimento alla struttura matematica delle vibrazioni prodotte dai suoni e, così intesa, la musica ha valore assoluto solo entro la teoria del mondo come rappresentazione; per Kant è proprio questa struttura a rappresentare il fondamento dell'universalità e della necessità del giudizio di gusto. Schopenhauer nomina Leibniz ed Euler come sostenitori di una teoria della musica che si mantiene alla superficie dei fenomeni e non giunge al nesso con la cosa in sé; per Kant, invece, proprio attraverso Leibniz ed Euler si può fondare il giudizio di gusto sulla musica. Inoltre, ed in ciò è ravvisabile un'ulteriore differenza, Kant condivide in toto la teoria ondulatoria della luce proposta da Euler; quando passa ad analizzare il senso dell'udito e il suo rapporto con il senso della vista Schopenhauer, invece, pur recuperando tutta la tradizione settecentesca dell'acustica, valuta criticamente la concezione della vista, della luce e dei colori di Euler. La vista e l'udito sono separati l'una dall'altro, nota, da un abisso incolmabile: se la vista è il senso dell'intelletto, che presiede all'intuizione, l'udito è il senso della ragione, cui spetta l'attività del pensiero. La vista è un senso attivo, l'udito un senso passivo.

Dopo aver discusso del mondo in quanto oggetto di conoscenza, dopo avere insistito sul nesso causale come fondamento di questa conoscenza, Schopenhauer nota come proprio nel nesso causale sia insito il riferimento ad un dato ignoto; il problema che gli si pone ora è come realizzare il passaggio ad esso; esprimendosi con i termini della filosofia di Kant, si chiede come si possa attuare un passaggio dal fenomeno alla cosa in sé.

Volgendo la sua attenzione all'uomo, Schopenhauer trova la via di uscita cercata: l'uomo non è una alata testa d'angelo priva di corpo, non è solo il soggetto della conoscenza del mondo come rappresentazione, ma è anche costituito dal legame con il corpo, il quale, nella sfera della conoscenza, assolve alla funzione di offrire il materiale su cui l'intelletto si fonda per costruire la conoscenza stessa. Il corpo, però, può essere osservato e valutato anche da un altro angolo visuale, diverso rispetto a quello della conoscenza: esso non è solo oggetto fra oggetti, non è dato solo come rappresentazione intuitiva dell'intelletto, ma si manifesta ad ognuno, attraverso i suoi atti, come volontà:

 

Al soggetto conoscente che deve la sua individuazione all'identità con il proprio corpo, esso corpo è dato in due maniere affatto diverse: da un lato come rappresentazione intuitiva dell'intelletto, come oggetto fra oggetti, sottostante alle loro leggi; ma insieme dall'altro lato, è dato come qualcosa di immediatamente conosciuto da ciascuno, e che viene designato col nome di volontà. Ogni atto reale della sua volontà è sempre infallibilmente anche un movimento del suo corpo (W I 119; M I 138).

 

La volontà è desiderio che continuamente si rinnova, desiderio struggente che non ha meta, insoddisfazione; la volontà non è che dispiacere che non ha mai fine. Il piacere non ha, in questa concezione, uno status positivo, ma può essere spiegato solo come momentanea liberazione dal dolore incessante della volontà. Solo il dolore è, quindi, positivo. Che il dolore preceda il piacere non è una semplice e mera constatazione empirica ricavata da un'indagine della mente umana, ma è un'affermazione sulla struttura metafisica del mondo, che diventa anche il fondamento dell'unico movente dell'azione morale, della compassione (cfr. M I 352-364. Sul prevalere del dolore sul piacere in Schopenhauer si veda Invernizzi 1994, pp. 24-28. Su Schopenhauer e la tradizione filosofica dell'Occidente si veda Riconda 1969).

 

Ciò che le presenti considerazioni dovevano chiarire: e cioè, l'impossibilità di una soddisfazione duratura, il carattere negativo della felicità, ha una spiegazione in quanto si disse alla fine del secondo libro: la volontà, di cui la vita umana e ogni altro fenomeno è l'oggettivazione, si riduce a una tendenza senza scopo e senza termine (W I; M I 362).

 

Non mi pare fuori luogo ricordare qui, incidentalmente, come questa concezione del piacere negativo avesse trovato nell'Illuminismo italiano espressione in Pietro Verri, che nel 1773 aveva pubblicato le sue Idee sull'indole del piacere. Discorso, poi riedite nel 1781 con il titolo Discorso sull'indole del piacere e del dolore: anche per Verri l'osservazione rivela il prevalere del dolore sul piacere nel bilancio della felicità, anche per Verri questo prevalere può essere spiegato proprio quando si consideri che il piacere non ha una realtà positiva, ma si deve definire come una rapida cessazione del dolore. L'orizzonte nel quale si muove Verri è, però, ben diverso da quello di Schopenhauer: il Discorso, infatti, non pronuncia affermazioni sulla struttura metafisica dell'universo ma, adottando un metodo di analisi psicologica desunto da Locke, persegue il fine di indagare la nostra sensibilità sin nei suoi recessi per arrivare a chiarire quale sia la natura del piacere e del dolore.

Schopenhauer nota, poi, come l'arte nella quale la volontà si manifesta immediatamente sia la musica; essa è l'immagine stessa della volontà e proprio per questo motivo non si può pretendere che sia descrittiva, né che si presti ad essere adattata alle parole; essa ha, come scrive Fubini, “un carattere d'universalità e mantiene una posizione astratta e formale rispetto a ogni sentimento determinato ed espresso in concetti” (Fubini, op. cit., p. 101). Questa concezione trova il suo sviluppo in una mitologia della musica, nella quale i suoni più gravi dell'armonia, il basso fondamentale rappresentano la natura inorganica, la massa dei pianeti, la terza corrisponde al regno vegetale, la quinta al mondo animale, l'ottava al mondo umano: la musica è quindi melodia, il cui testo è il mondo. Da questa valutazione non poteva non scaturire un avvicinamento della musica alla filosofia: da un lato le scienze, dall'altro le arti belle, e fra di esse la filosofia, sul cui compito si sofferma in particolare il secondo volume del Mondo. Qui si distinguono due tipi di conoscenza: una inferiore, che si fonda sulla percezione e sull'esperienza, ed una superiore, la metafisica, che ci libera dall'inganno del principio di ragion sufficiente e ci conduce ad un linguaggio cifrato, nel quale si esprime la totalità dell'esperienza e che è compito della filosofia decifrare.

Quando si tenga presente il nesso fra musica e volontà, risultano chiaramente comprensibili sia la necessità della presenza delle dissonanze sia il loro valore, che Schopenhauer dichiara di poter spiegare anche in base a considerazioni puramente matematiche. Una musica priva di dissonanze stancherebbe l'animo, apparirebbe vuota e simile a quel languore che è intrinsecamente connesso con la soddisfazione di ogni desiderio. Sebbene causino dolore, le dissonanze debbono essere presenti nella musica, dato il suo intimo legame con la cosa in sé rappresentata dalla volontà; esse, però, devono non già assumerne il dominio, ma essere nuovamente risolte in consonanze; analogamente, la volontà muove dall'insoddisfazione e dall'infelicità e cerca di raggiungere la soddisfazione dei desideri. Proprio le dissonanze permettono di comprendere l'intimo nesso fra quella teoria matematica e fisica della musica, della quale Schopenhauer non dubita affatto, ed il suo fondamento metafisico: l'irrazionale, la dissonanza, la quale non può essere compresa dalla nostra apprensione perché fondata su rapporti e proporzioni matematiche troppo complicate, a cui la musica in ogni caso non può rinunciare neppure se la consideriamo sotto l'aspetto matematico ed acustico, non è che l'immagine di ciò che si oppone alla nostra volontà.

Anche a questo proposito la posizione di Schopenhauer può essere accostata a quella di Pietro Verri. Per quest'ultimo, il motivo per cui le dissonanze sono tanto imprescindibili che non si può concepire una musica risultante solo dai rapporti armonici dati dalle consonanze deve essere scorto proprio nella struttura del sentimento di piacere e di dolore che caratterizza la nostra vita in quanto esseri dotati di un corpo. Solo grazie al dolore momentaneo che l'udito avverte in presenza delle dissonanze è possibile scaturisca il sentimento del piacere; le dissonanze sono, quindi, un elemento necessario del piacere. “A tal proposito io osservo”, scriveva Verri nel 1773, “che sarebbe intollerabile una musica, se non vi fossero opportunamente collocate e sparse delle dissonanze, le quali cagionano una sensazione disaggradevole e in qualche modo dolorosa [...]” (si veda supra cap. I).

Inserita in una costellazione di idee di natura affatto diversa, la meditazione di Schopenhauer va ben oltre: la presenza delle dissonanze viene anche fatta oggetto, nel Mondo, di una considerazione tesa a stabilire un'analogia con le varie manifestazioni della volontà, con gli individui che stanno fra loro in un rapporto di irresolubile antitesi:

 

S'è visto nel precedente libro che, nonostante il reciproco adattarsi delle manifestazioni della volontà considerate in ordine alle specie (il che dà luogo alla considerazione teleologica), resta nondimeno, fra quelle apparenze come individui, un contrasto ineliminabile, che si vede su ogni gradino della scala, e che fa del mondo il teatro di una guerra perpetua fra le varie manifestazioni della volontà sempre una e sempre identica, di cui si rivela in tal modo l'intima contraddizione (cfr. W I; M I 308).

 

Che la musica sia intimamente collegata con la volontà emerge però soprattutto quando si tenga presente che essa genera nel soggetto che la ascolta passioni e sentimenti e che, anzi, costituisce un linguaggio delle passioni. Schopenhauer è consapevole di riprendere una tradizione antica, che muove Platone e prosegue con Aristotele; essa ravvisa nei movimenti dell'animo l'effetto più immediato e notevole della musica. “E perciò sempre si disse che la musica è il linguaggio del sentimento e della passione, come le parole sono la lingua della ragione”. Ma la musica non è l'espressione di un fenomeno, non esprime gioia, afflizione, dolore, terrore ed allegria individuali e particolari: questo o quel dolore, questa o quella gioia; al contrario “ce ne dà l'essenza priva di ogni accessorio” e li esprime in abstracto (cfr. W I; M I 304).

Una prima differenza rispetto a Kant emerge non appena si consideri il problema del rapporto con il corpo. Per Kant piacere e dolore sono sempre corporei, ed in questo egli riprende una concezione che dichiara di aver scoperto in Epicuro nonché nel suo contemporaneo Burke. Il piacere e il dolore, come affermava Epicuro, sono sempre corporei anche qualora provengano dall'immaginazione o perfino da rappresentazioni intellettuali. Il nesso con il corpo non assume però il valore metafisico di un legame con la volontà, come in Schopenhauer, ma fonda la piacevolezza della musica, se considerata da questo punto di vista, e la rende oggetto non già di una critica trascendentale dei giudizi estetici, ma piuttosto di un'antropologia. In Schopenhauer il corpo permette il passaggio alla sfera metafisica della volontà, in Kant esso ha valore solo entro l'ambito di una disciplina empirica.

Una seconda differenza riguarda poi il fatto che Schopenhauer parli di un influsso della musica sulle passioni, laddove, invece, Kant si limita ad affermare che la musica agisce sugli affetti. Se nel Mondo la musica esprime le passioni mantenendosi ad un livello di universalità, la Critica del Giudizio si riferisce ad affetti individuali e soggettivi. Tra affetti e passioni, per Kant, la differenza è notevole, poiché solo le seconde riguardano, a suo avviso, la facoltà di desiderare ed il volere, mentre le prime rientrano nella sfera del sentimento del piacere; solo le passioni costituiscono un ostacolo definitivo del volere, mentre gli affetti possono sì inibire momentaneamente la volontà e la libertà dell'uomo, ma non sono se non passeggeri.

Quanto al tema delle dissonanze Kant, che non vi si sofferma nella Critica del Giudizio, le prende però in considerazione nelle Lezioni di antropologia: anche qui, ancora una volta, l'analogia che avvicina le due teorie dal punto di vista del contenuto deve cedere il passo alla constatazione delle differenze che le separano. In Schopenhauer le dissonanze sono la manifestazione di un nesso strettissimo fra musica e volontà quale essenza metafisica del mondo; in Kant, che esplicitamente riprende questa considerazione da Verri, operano unicamente sul piacere corporeo empirico e soggettivo e sono oggetto dell'antropologia.


 

4.

 

Sulla base di queste considerazioni risulta evidente come la gerarchia delle arti proposta dai due filosofi abbia caratteristiche ben diverse e, soprattutto, diametralmente opposta sia la posizione che la musica vi occupa.

Mentre le analogie contenutistiche fra Kant e Schopenhauer hanno richiamato su di sé esigua attenzione da parte degli studiosi, sulla differenza netta fra i loro sistemi delle arti si soffermano molti studi critici (cfr., per non citare che un esempio, A. Hübscher 1982, p. 41, il quale sottolinea come la gerarchia delle arti proposta da Schopenhauer sia in netto contrasto con la filosofia della sua epoca. Hübscher ricorda Kant, che assegnò alla musica il gradino inferiore nel sistema delle arti, con la motivazione che essa avrebbe a che fare solo con sensazioni e Schelling, che riserva alla poesia un ruolo particolare, mentre inserisce la musica fra le arti figurative (cfr. Moiso 1990). La gerarchia di Schopenhauer decreta, a suo avviso, la fine di questo orientamento.

Nel Mondo, dall'architettura si giunge, grazie ad un processo ascendente di approssimazione all'essenza metafisica della volontà, attraverso la pittura, la scultura e la poesia, sino alla musica. Il processo che ci conduce dall'architettura alla poesia si esplica come una liberazione dell'intelletto dalla schiavitù della volontà, come il sorgere di un soggetto conoscitivo che nega la volontà, di un soggetto che si è liberato da tutte le forme del principio di ragione sufficiente e dalla sofferenza. Nelle arti belle il tempo, il luogo, l'individuo soggetto del conoscere e l'individuale oggetto della conoscenza perdono significato e ad essi subentrano le forme eterne, le idee platoniche; la musica realizza un passaggio ulteriore, in quanto immagine immediata della volontà stessa.

Per Kant, invece, la gerarchia può essere stabilita sotto due diversi punti di vista: se si analizza il sentimento soggettivo dell'attrattiva e gli affetti prodotti dalle varie arti, alle arti della parola spetterà il primo posto, ad esse faranno seguito la musica e, infine, le arti figurative. Se invece le arti saranno valutate in base al loro contributo alla cultura delle facoltà conoscitive, ovvero in relazione ad idee morali, la gerarchia muoverà ancora dalla poesia come arte della parola, ma ad essa seguiranno le arti figurative e solo all'ultimo troverà collocazione la musica. Mentre, infatti, la poesia incentiva maggiormente il gioco delle facoltà e la conoscenza, nella musica l'aspetto fondamentale è costituito non già dall'incremento del rapporto armonico fra le facoltà conoscitive, ma dalla vivificazione della sensibilità. Fra poesia e musica si collocano le arti figurative, che offrono al soggetto una serie di impressioni le quali esercitano un effetto durevole e permanente sull'animo. La musica, invece, opera un'azione esclusivamente transitoria. Kant nota che la musica, considerata non sotto il profilo della struttura matematica che governa il rapporto fra i suoni ed anche, se si accetta la teoria di Eulero, il singolo suono, ma relativamente agli affetti ed all'attrattiva che essa suscita, è piuttosto godimento che cultura.



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