INTRODUZIONE

MUSICA E FILOSOFIA IN JANKELEVITCH



 

«Io sono totalmente immerso nella musica»

V. J

.

Musicologia e filosofia della musica

Insieme a Bloch e Adorno, Jankélévitch può essere considerato uno dei grandi filosofi della musica del ventesimo secolo.

Di difficile delimitazione epistemologica, la «filosofia della musica» ha tuttavia una solida tradizione storica, se la si intende sia come riflessione su quest'arte, sia come «estetica musicale» - disciplina relativamente giovane, che si propone non solo di definire il «bello» musicale ma altresì di istituire i fondamenti teorici e percettivi della musica, rapportandosi in tal senso ad altri ambiti congruenti, psicologico, sociologico, antropologico, analitico.

Indubbiamente la riflessione filosofica sulla musica nasce con la filosofia stessa, e lo sviluppo di tutto il pensiero metafisico, da Pitagora e Platone alla Scolastica, da Leibniz a Schopenhauer, si è intrecciato con la questione del possibile significato dell'arte dei suoni. Sembra quasi che la filosofia, nello sforzo di spiegare l'enigma della realtà e dell'essere, abbia trovato nella musica un terreno privilegiato di riflessione. Sempre alla ricerca di oggetti problematici e difficili da cogliere oe da definire, il pensiero filosofico si è imbattuto in un campo doppiamente interessante a tale riguardo: infatti la musica non è solamente un'arte tra le altre, ma è anche una realtà strana, sfuggente e impalpabile, in un certo senso irreale.

Il carattere di realtà non-reale concerne l'elemento primario della musica: il suono è reale per il fatto che scompare nell'istante stesso in cui sorge. Similmente paradossale è il linguaggio musicale, in quanto autoreferenziale e privo di ogni significato esteriore. È per questa ragione che la musica è stata spesso paragonata sia alla matematica sia alla particolare e astratta realtà degli oggetti del pensiero, ossia alle idee e ai noumeni. Ma è stata anche accostata alla magia e alla chiaroveggenza, ossia a tutto ciò che esula da ogni evidenza empirica e da ogni dimostrazione razionale.

D'altro lato, la riflessione sulla musica ha seguito un percorso del tutto diverso, nel quale emergeva laparallelo alla necessità di garantire l'autonomia sia della scienza sia della stessa arte musicale. Per non perdersi nelle congetture della metafisica, si intendeva con ciò ritrovare una dimensione concreta e materiale diella musica quest'arte. Si è assistito quindi alla prolificazione proliferazione di ricerche sul campo, antropologiche, sociologiche e psicologiche, e tutto ciò che sfuggiva all'oggettività di tale analisi non era degno di considerazione. Per sfrondare l'arte musicale tanto da ogni interpretazione trascendente quanto da ogni approssimazione romantica, la scienza della musica ha sfruttato le risorse del positivismo, allo scopo di costruire una disciplina indipendente ed empiricamente giustificata.

Ma al di là di questo intento del tutto lodevole, il discorso filosofico ed estetico sulla musica ha preso spesso una piega oggettivistica, in cui il senso e il valore, emozionale e passionale, di quest'arte sembravano smarrirsi, sommersi da considerazioni rigidamente formalizzate. Perciò, suo malgrado, esso è ricaduto negli errori metafisici che voleva evitare. La legittima esigenza di cogliere la musica nella sua realtà effettuale è approdata a una concezione dell'arte spesso parziale e riduttiva, elusiva della diversità e delle sfaccettature presenti all'interno dell'esperienza estetico-musicale nel suo complesso. Certo, di fronte a simile aporia la stessa musicologia spesso si è interrogata sul suo ruolo e il suo futuro, senza uscire purtroppo da tale impasse in modo soddisfacente. Perciò la distanza tra un approccio scientifico alla musica e la retorica della spontaneità eraè diventata ormai insormontabile, e ciò, inoltre, ha comportato che il musicologo si sia spesso trovato nell'obbligo di scegliere tra un'alternativa radicale, con il rischio sempre in agguato di approfondire l'incomprensione e la diffidenza reciproca esistente tra teoria e pubblico.

La riflessione estetica e musicologica del Novecento ha certamente contribuito a sciogliere questo importante nodo teorico: da un lato l'approccio basato sui risultati della psicologia della Gestalt conduceva a una ridefinizione del concetto di percezione musicale, al fine di ampliarne la portata rispetto ai ristretti limiti della fisiologia e della psicoacustica; dall'altro gli studi di ispirazione fenomenologica facevano riemergere l'istanza di una rifondazione del concetto di «oggetto» musicale, capace di comprendere in sé determinazioni sia di tipo strutturale che di tipo percettivo ed emozionale. Comune era l'esigenza di riproblematizzare la realtà musicale prescindendo da pregiudizi ideologici e riferendola a un contesto più vasto di concettualizzazione e di interpretazione.
 
 

Jankélévitch e la musica

La riflessione musicologica di Vladimir Jankélévitch è assai prossima, a nostro parere, alla problematica qui sopra abbozzata. Pur se al di fuori di un impegno diretto nel dibattito intorno al ruolo della critica e dell'analisi musicale, la posizione del filosofo francese rivendica similmente l'importanza di un modo nuovo di prendere in considerazione la realtà musicale.

La sua prospettiva si muove sulla scia della riflessione bergsoniana applicata alla musica. Denunciando gli «idoli ottici» di ogni «metafisica della musica», ossia la pretesa di sottomettere «l'ordine diffluente e temporale» della musica sotto delle coordinate spaziali, Jankélévitch sente infatti l'esigenza di un altro Bergson che «dissipi nell'estetica musicale i miraggi della spazializzazione» (MI, 114).

È noto che Henri Bergson rimproverava alla scienza positiva e alla metafisica tradizionale l'aporia di ridurre la realtà a concetto e a idee precostituite, dimenticando il suo carattere specifico di durata concreta e di temporalità. Per Bergson soltanto l'intuizione può cogliere il tempo, la durata reale; e l'intuizione è quella «simpatia tramite la quale ci si trasporta all'interno di un oggetto per coincidere con ciò che vi è di unico e perciò di inesprimibile» [1]. Quindi essa si oppone all'analisi, che è invece «l'operazione che riconduce l'oggetto a elementi già noti, cioè comuni a quell'oggetto e ad altri». Per cui analizzare vuol dire «esprimere una cosa in funzione di ciò che essa non è». «Dobbiamo rinunciare ad approfondire la natura della vita? - si chiede egli nell'Evoluzione creatrice a proposito della differenza tra il metodo determinista e quello vitalista - dobbiamo attenerci alla rappresentazione meccanicistica che sempre la comprensione ci fornirà, rappresentazione necessariamente artificiale e simbolica, poiché essa restringe l'attività totale della vita alla forma di una certa attività umana, che è solo una manifestazione parziale e locale della vita, un effetto o un residuo dell'operazione vitale?» [2]Per Bergson dunque ogni analisi è «una traduzione, un'elaborazione simbolica, una rappresentazione presa da punti di vista successivi, da dove si notano tanti contatti tra il nuovo oggetto che si studia e gli altri, che si crede già di conoscerlo. Nel suo eternamente inappagato desiderio di abbracciare l'oggetto intorno al quale essa è condannata a girare, l'analisi moltiplica senza fine i punti di vista per completare una rappresentazione sempre incompleta, varia senza posa i simboli per perfezionare una traduzione sempre imperfetta. Ma l'intuizione, se essa è possibile, è un atto semplice» [3].

Se si estende la critica bergsoniana alla musica, l'aporia così emersa risulta ancor più grave, applicandosi a un'arte che, oltre a rapportarsi alla temporalità ricettiva della soggettività, comprende il tempo come una delle sue componenti primarie e specifiche. Come in La pensée et le mouvant Bergson aveva denunciato il «movimento retrogrado del vero», ossia la prima difficoltà del metodo intellettuale, così Jankélévitch ha spesso trovato l'occasione di rimarcare il carattere retrospettivo dell'analisi musicale: «Se la grammatica non può localizzare lo charme né assegnare la diaphora del non-so-che, una sorta di sintassi retrospettiva permette almeno di fissare le idee e di attribuire un nome a certe figure del linguaggio musicale. Quando si sono decifrate tutte le cifre, etichettato o analizzato tutto ciò che era analizzabile, e quando, al colmo di questa analisi, resta ancora qualcos'altro, un altrove all'infinito, un alibi lontano, un orizzonte chimerico, solo allora si rivendica il diritto di invocare un non-so-che» (F, 283-284).

Nei suoi espliciti oe impliciti riferimenti a Bergson, si può dire allora che la prospettiva musicologica di Jankélévitch segua questa estensione del bergsonismo, anche se l'applicazione della filosofia del suo maestro alla musica riesce a sfuggire a ogni rischio di banalizzazione, basandosi essa su punti di riferimento molto precisi. Inoltre le istanze teoriche di Jankélévitch sono in perfetta coerenza con le strade seguite da certe tendenze della musicologia contemporanea, anche se indipendentemente da relazioni dirette, che hanno rivendicato la specificità della realtà musicale nel suo distanziarsi da ogni riduzionismo linguistico.

Certo, la formazione e la prospettiva musicologica di Jankélévitch ci appare dotata di molta autonomia e sembra preferire rivolgersi all'oggetto diretto, la musica, o tutt'al più agli scritti dei compositori e ai loro ascendenti letterari e artistici. Tuttavia è evidente che egli fosse ben consapevole dei fondamenti e dell'evoluzione della cultura estetica e musicologica contemporanea, all'interno della quale aveva fatto le sue scelte: Alain, Souriau, Simmel, Guyau, Brelet, Roland-Manuel, Stravinskij, e poi Gabriel Marcel, Stéphan Jarocinskij, fino a Philippe Fauré-Fremiet e Jean-Michel Nectoux.

Si sa che Jankélévitch ha sempre messo a fianco dei suoi studi filosofici un interesse vivo e attivo per la musica. Egli impara a suonare il pianoforte da una zia e da sua sorella Ida, valente pianista. Suona e legge la musica tutti i giorni, alternando continuamente il leggio al tavolo di lavoro filosofico e obbedendo a una sorta di imperativo etico-musicale: seduto al piano, sentiva spesso la necessità di passare improvvisamente alla scrivania, per trascrivere sul foglio le intuizioni suscitate dall'ascolto di un pezzo musicale, quasi che lo strumento fosse una specie di laboratorio concreto e vivente del pensiero filosofico.

Dopo aver frequentato il liceo Louis-le-Grand e l'Ecole Normale Supérieure, consegue l'agrégation in filosofia nel 1926; insegna quindi all'Istituto francese di Praga fino al 1932: i suoi corsi concernono sia la mistica di San Francesco di Sales che la musica di Liszt, tanto la definizione delle virtù etiche quanto il problema dell'interpretazione musicale. Per far ciò, egli fa noleggiare un pianoforte all'Istituto, in modo da usarlo per citazioni musicali nelle sue conferenze. Nel frattempo scrive un libro su Bergson e prepara la tesi di dottorato su Schelling, che sostiene nel 1933; dopodiché insegna ai licei di Caen e Lione e all'Università di Tolosa. Ma nel 1940 viene sospeso dall'insegnamento, per le leggi antiebraiche emanate dal governo di Vichy. Già entrato nel 1934 al Fronte popolare, partecipa senza esitazione ai movimenti tolosani della Resistenza. Appena terminata la guerra, dirige per un anno le trasmissioni musicali di Radio Toulouse-Pyrénées. Una volta reintegrato all'Università, insegna a Lilla dal 1947 e alla Sorbona dal 1951 fino al 1979. Muore a Parigi il 6 giugno 1985, a ottantadue anni.

Metafisica e musicologia

Da queste brevissime note biografiche emerge soprattutto che il pensiero di Jankélévitch considera l'esperienza empirica della musica come base per elaborazioni di tipo filosofico, in modo non intellettualistico ma intuitivo, secondo la concezione bergsoniana dell'intuizione. Ciò comporta è conforme a un superamento sia dell'intuizione romantica sia di quella idealistica, la prima troppo vaga e irrazionale, la seconda troppo ancorata a un modello visivo della conoscenza della realtà. [4]

Si può dire che la sua filosofia, più di quanto non faccia la critica bergsoniana, dia una risposta decisa e radicale alle questioni sopra sollevate: il pensiero di Jankélévitch è tanto distante da ogni musicologia specialistica quanto la sua peculiare «metafisica» lo è da qualsiasi settorializzazione o diramazione «sul campo», da lui considerate «filodossie», lontane da un'istanza di adesione all'oggetto e di immediata comprensione della realtà. Non a caso ogni -logia (psico-logia, socio-logia, musico-logia, ecc.) per Jankélévitch non è che «eterologia» (PHP, 129), volta sia alla costruzione di un sistema sia a stabilire solamente determinate relazioni biunivoche tra i propri elementi e il reale, quest'ultimo ridotto a delle datità fisse e contrassegnato da formule o simboli linguistici. In altri termini, facendo assegnamento sulla stabilità del dato di fatto e della cosa, ovvero creando essenze e modelli ideali cui sottomettere la ricerca, la scienza e la metafisica a essa legata intendono conoscere il reale nella sua totalità, eludendo in tal modo l'indicibilità del mistero intrinseco alla vita e alla morte. Proprio questa strategia annullerebbe quelle dimensioni paradossali e asimmetriche che rappresentano il fondo inestricabile su cui si staglia la conoscenza: e cioè, oltre alla morte, l'istante e l'irreversibilità del tempo. Conseguentemente il linguaggio, per mascherare la propria impotenza a nominare una realtà «ineffabile» e sfuggente (che Jankélévitch chiama «quodditativa»), si pone al servizio di una «metafisica del nominare quidditativo» (PHP, 147), descritta come una specie di vana rincorsa sul posto, circolare e priva di sbocchi, costituita da una successione potenzialmente infinita di aggettivi, avverbi e apposizioni.

Poste di fronte all'oggetto della conoscenza, dunque, le filosofie-di per un verso lo distanziano, al fine di poterlo meglio osservare, e per un altro lo fissano in forme inerti, numerabili e catalogabili, per poterlo meglio afferrare - come la preposizione del loro genitivo oggettivo evidenzia, riproducendo sia la presa di distanza dal complemento, sia il percorso dell'intenzione reificante che si dirige sull'oggetto.

Ben diverso è invece il movimento che Jankélévitch chiama «levitazione derealizzante», assunto nel momento in cui ci si libera dalle zavorre metafisiche e dai pregiudizi ideologici - prospettiva verso la quale si muove esplicitamente la sua filosofia. Sicché, se la pars destruens è volta a denunciare gli idòla fori e gli idòla theatri della scienza e della metafisica «sostanzialista», la pars costruens è un percorso, talora tortuoso e accidentato, una vera e propria «odissea» che attraversa e sperimenta i residui della tradizione filosofica occidentale, quasi per assumerne coscientemente e tragicamente le aporie; oppure per indossarne le maschere disperse e visitare le quinte del loro teatro abbandonato, in modo da scorgere il vuoto retrostante.

La filosofia di Jankélévitch va interpretata allora come un vero e proprio ribaltamento metafisico, un ironico e trasgressivo rimescolamento delle carte in tavola. Come l'Eugenspiegel straussiano o il Jolly stravinskiano di Jeu de cartes, il filosofo francese si prefigge sia di rompere i legami con la scienza speculativa sia di sconvolgere i piani e il sistema dei valori prestabiliti della cultura dominante, la quale implicitamente o esplicitamente appare compromessa con il potere politico e responsabile indiretta degli orrori della storia.

Ma un'ulteriore questione emerge all'interno di tale prospettiva: infatti se questa anarchica trasgressione da un lato può rischiare di apparire un'inconcludente sovversione nichilistica, tale da condurre a un iperbolico scetticismo etico, dall'altro rischia di riproporre surrettiziamente la medesima tendenza fondazionista. La «filosofia prima» jankélévitchiana infatti, pur disvelando la contingenza di ogni supposta necessità e «il non-senso del senso», intende accedere a un «sovraordine inintellegibile» che «fonda» l'intellegibilità della filosofia seconda, ossia della metafisica tradizionale (PHP, 89); perciò l'audace scommessa filosofica di Jankélévitch è sempre in bilico tra il rifiuto di ogni ordine precostituito e il tutt'altro ordine - che è pur sempre un «ordine». La sua è una filosofia che oscilla fra precarietà e fondazione, esponendosi al pericolo che questo gioco equilibristico diventi uno spettacolo di virtuosismo, soggetto anch'esso a rimanere imbrigliato nel vizio dell'autocompiacenza. Il nodo gordiano che la avvolge è lo stesso che concerne l'azione morale: com'è possibile che l'amore, la carità, la generosità mantengano la loro originaria spontaneità, senza che divengano inganno e finzione e senza che l'istante in cui emerge l'atto creativo si tramuti in intervallo temporale e dunque in «ottica contemplazionista»? Com'è possibile rendere «virtuoso» questo circolo vizioso? Ebbene, qui vogliamo sostenere che proprio il rapporto tra filosofia e musica permette al pensiero jankélévitchiano di approdare a un esito non-sostanzialistico.

In tal senso il passaggio dal genitivo oggettivo al genitivo soggettivo, nell'espressione «filosofia della musica», diventa decisivo per consentire lo scioglimento di quegli interrogativi e di quei nodi teoretici che sorgono in modo ricorrente all'interno della riflessione del filosofo francese. E questo perché, essendo la musica l'arte più prossima al mistero e all'ineffabile, la distanza rispetto alle determinazioni teoriche che cercano di afferrarla e spiegarla affiora con maggiore evidenza e drammaticità. La difficoltà nella quale si vede stretto il logos musicale fa così trasparire con maggiore chiarezza il vertiginoso limite invalicabile cui il pensiero di Jankélévitch tende, che può essere abbordato seguendo una teoria del tempo talmente sottile e trasparente da rendersi immune da qualsiasi tentazione spazializzante. Il che condurrebbe, in ultima analisi, a una sorta di «teoria non-teorica» del tempo, capace di contenere al suo interno, come ferite aperte, le proprie contraddizioni irrisolte.

Tempo e musica

E' noto che l'intento di Jankélévitch poco prima di morire era di scrivere un'opera sul tempo. Le poche righe, solamente abbozzate, rimasteci testimoniano, anche per la loro incompiutezza, le difficoltà di una simile impresa: «Il tempo non è soltanto il più inafferrabile tra gli inafferrabili, poiché esso è, in quanto divenire, il contraddittorio stesso dell'essere: non appena ci apprestiamo a definire il divenire, ecco che il divenire è già altro da se stesso: il divenire è essenzialmente instabile. (...) Innanzi tutto il tempo non è una cosa, una res, un questo o quello; esso non dà risposta alla questione di che cosa esso sia in sé». [5]Il fallimento di questo tentativo è quindi interno al problema stesso e risulta ancor più rilevante se si tiene conto che la morte - e quindi il tempo -copre per Jankélévitch la quasi totalità della ricerca filosofica: «...decisamente è l'unico problema della filosofia - scrive nel 1960. Non ce ne sono di altri e tutti vanno ricondotti a questo» (C, 344).

Infatti, la ragione per cui Jankélévitch non avrebbe mai potuto portare a termine un tale progetto deriva non solo dall'impossibilità di affrontare questo specifico problema, bensì dal fatto che egli in realtà ha sempre scritto e teorizzato su di esso, in tutte le sue opere: nel Traité des Vertus, capolavoro di Jankélévitch, le virtù vengono sondate grazie alla temporalità che informa sia la loro nascita nell'istante sia la loro continuazione e anche il loro fallimento, che avviene nell'intervallo temporale. Philosophie première d'altra parte ha lo scopo di rendere conto della temporalità del tutt'altro ordine della metafisica. Le Je-ne-sais-quoi et le Presque-rien approfondisce la misconoscenza e il malinteso a partire dai loro contrappesi, che sono l'occasione, la maniera, il volere, cioè problemi specificatamente temporali. E se l'Irreversibile è la prerogativa della temporalità, la Nostalgia è il corrispettivo sentimento umano. Infine il Puro e l'Impuro rappresentano a loro volta la temporalità e la sua negazione, mentre la Morte, come abbiamo già notato, è per Jankélévitch il tempo in se stesso.

Ma soprattutto si può affermare che una concezione del tempo è sostanzialmente attiva all'interno del suo pensiero filosofico-musicale. Infatti per Jankélévitch la musica è «essenzialmente arte del tempo», tale da non poter essere una cosa; a rigore il mistero è la sua cosa, ossia la non-cosa per eccellenza. Come l'istante, la musica è «problema impossibile»; come l'ipseità dell'io, essa è l'«anti-res, il contrario di una sostanza», «impalpabile posizione senza essere» (PHP, 234), quindi realtà de-realizzata, de-essenzializzata, «mistero insondabile che rende caduche e precarie le verità eterne e con esse tutte le evidenze le più rigidamente stabilite» (PHP, 130). Nell'arte di compositori come Debussy, Séverac, De Falla, Rimskij-Korsakov e altri ancora, è in atto secondo Jankélévitch una promotion déréalisante, un «esponente di irrealtà» ravvisabile nella loro appassionata e paradossale ricerca di un «alibi», di una «bizzarria fantastica» come mezzo di estraneità e «spaesamento» (MH, 172-173). Ondine e fatine, folletti e fantasmi che popolano la produzione di questi autori non sono che «fluide creature sempre sul punto di divenire altro»; anche personaggi come Mélisande e Fevronia sono principesse «evanescenti e confondenti, inconsistenti o, per meglio dire, inesistenti»; così i riflessi sull'acqua, i fuochi d'artificio e le bolle di sapone appaiono per scomparire, «volatilizzano» insomma ogni materialità massiva e compatta. «Datemi ciò che non esiste» diceva Anatol Ljadov; mentre per Gabriel Fauré la musica è «desiderio di cose inesistenti».

Similmente, il carattere «derealizzante» riguarda il suono, che paradossalmente è reale perché si rende di per sé irreale, ossia scompare nel momento in cui sorge, e nessun processo speculativo può riuscire a recuperarne l'anti-teticità. Se nel pensiero idealista l'autonegatività del suono veniva tolta nella sintesi dialettica, che ne tramutava la natura immateriale in concettualità verbale, per Jankélévitch invece quella negatività è già valida in sé, senza dover essere necessariamente sottoposta a una qualsiasi mediazione che ne giustifichi il valore. Apparendo e negandosi, il suono allora compie già l'atto fondamentale di porsi, prima di inserirsi in un orizzonte di senso, ovvero prima di essere fissato nell'ulteriore positività del fondamento. Quindi il logos musicale si converte in «scintilla», l'essere in «apparizione disparente». I termini contraddittori non sono più visti come provvisori momenti di un percorso univoco volto alla loro risoluzione logica: la loro antitesi non è più destinata a risolversi in sintesi conciliante, ma si presenta come un'oscillazione che li rinvia «eternamente l'uno all'altro» (PHP, 106).;

Jankélévitch esemplifica questa dialettica nel rapporto tra organo e ostacolo:. lL'ostacolo impedisce una conoscenza positiva, però è nel contempo organo, ossia lo strumento medesimo della sua possibilità; infatti, senza una polarità oppositiva qualsiasi elemento conoscitivo perderebbe la sua stessa ragion d'essere, anche se la loro relazione non risiede in un processo speculativo ma in un «complesso stazionario».

Oltre al suono in sé, anche il modo in cui lo si produce è per Jankélévitch significativo della condizione mediana della musica tra sonorità e silenzio. Le paradossali indicazioni che si incontrano tra i righi musicali, come «dolce ma sonoro», «quasi niente», «pianissimo sonoro», «forte con sordina», ecc., evidenziano uno spirito di pudore e di litote, quel «desiderio di sottrarre o di attenuare» (PL, 45), che è una peculiare «intenzione» della musica. Neanche le dita di un arcangelo, dice Jankélévitch, riuscirebbero a rendere quei silenzi latenti e quegli slanci sottintesi, o quel «grado di impalpabile, di imponderabile, di impercettibile», al quale persino cinque p costituirebbero solo un'approssimazione (PL, 47).

Ma anche la tecnica e certe sue componenti strutturali mettono in luce il carattere diffluente del tempo musicale. Le successioni di accordi perfetti, di settima, di nona, che si ascoltano spesso nella musica di Debussy, intendono affermare l'autonomia della pura sonorità rispetto alla sua contestualizzazione linguistica: perciò una dissonanza perde il suo univoco senso direzionale rivolto verso la consonanza, mentre la staticità di quest'ultima viene dissolta dal suo inserimento nella mobilità temporale e destabilizzata dall'indebolimento della polarizzazione assegnata al tono principale.

Parimenti i suoni della scala si svincolano dalla rigida gerarchia in cui il sistema tonale li aveva costretti. La scala esatonale, per esempio, è il paradigma di questa raggiunta uguaglianza tra i gradi, in cui ogni suono - poiché situato all'identica distanza intervallare (un tono) dal precedente e dal successivo - acquista gli stessi diritti rispetto a qualsiasi altro. La «stagnanza» creata dall'allentamento delle tensioni dialettiche colloca i suoni in una dimensione temporale a-temporale, ossia nell'«istante in istanza» (DM, 78-81) della loro inquieta immobilità; inoltre, essendo sciolti da ogni legame gravitazionale con le forze magnetiche stabilite dalle leggi dell'armonia classica, sono pronti ad assumere conformazioni atipiche, come la rapsodia e la libera variazione.

Lo stesso vale per quello che Jankélévitch chiama «regime della serenata interrotta» (DM, 52-57), ossia quel procedimento compositivo basato essenzialmente sull'uso di staccati, pizzicati, note ribattute e melodie frammentate, che si pone in ironica contrapposizione all'espressività del legato romantico; infatti, rendendo il decorso sonoro aspro e spigoloso, incoerente e sconnesso, si oppone alla concezione della musica come «prosaica» espressione di un «messaggio», come tramite allegorico di un contenuto da decifrare e interpretare concettualmente e verbalmente.

Dunque per Jankélévitch, ai margini della tradizione classica e tardoromantica - appartenente in prevalenza all'area austro-tedesca (da Bach a Haydn, da Beethoven a Wagner) - nella quale il suono viene superato per creare il soggetto (il tema) e il decorso temporale si identifica con la retorica dello sviluppo tematico (in cui il rapporto tra tema A e tema B, e tra tonica e dominante, diviene supporto formale e linguistico di un'elaborazione logica coerente e di una struttura architettonica stabile e simmetrica) vi è una musica più dimessa, antiaccademica, decentrata anche geograficamente (latino-mediterranea e russo-slava), nella quale figurano personalità come Satie, Fauré, Chopin e Debussy, nonché i meno conosciuti Joaquim Nin, Louis Aubert, Federico Mompou, ecc. La loro musica è «incapace di sviluppare, inadatta al procedimento discorsivo» e perciò può esprimere solo «a grandi linee» (MI, 84). Impiegando in modo diverso la tonalità e la struttura tematica, essa non distrugge nichilisticamente il soggetto, ma lo depotenzia delle sue pretese assolutistiche: i temi e i toni musicali non vengono infatti considerati come molle in tensione, né coacervo di energie nascoste (PHP, 219) e di virtualità da sprigionare nel corso del loro svolgimento dialettico, ma sono ricondotti al ruolo puramente ostensivo della loro semplice presenza e trattati quindi come materiale da rivitalizzare - quasi fossero pupazzi e marionette che il burattinaio deve muovere e animare. Oppure - ed è il caso per esempio di Debussy - essi assumono il loro valore effettivo solo nel momento in cui stanno per scomparire nel silenzio, quando nella coda riappaiono per l'ultima volta, simili a nostalgiche rievocazioni o tracce mnestiche di un passato destinato a perdersi nell'oblio.

Musica e stupore

In tal senso questa musica è parallela a un pensiero che, sottraendosi alle preoccupazioni metafisiche dell'identità e all'alternativa tra essere e nulla, rende caduche e precarie tutte le verità eterne e tutte le ipostasi. Questo stato «vacillante» corrisponde alla situazione di un'esistenza estremamente fragile, poiché privata della sua base di sostegno (PHP, 250) costituita dal continuum temporale su cui prende forma e si consolida ogni idea di essere. Ma è solo a partire da questa posizione instabile, da tale angolatura marginale che è possibile scorgere trasversalmente la realtà del mondo oggettivo e della quotidianità nella loro inessenzialità: questa è l'esperienza dello stupore che, in virtù di istanti e bagliori imprevisti, rende conto della gratuità dell'esistenza e del fatto misterioso della sua presenza. I momenti di stagnazione nella musica di Debussy sono autentiche esperienze di stupore; ma in generale è la musica stessa il vero linguaggio dello stupore, in quanto paradossale linguaggio a-linguistico e luogo nel quale i contrari non divengono contraddittori, come il balbettio del bambino che apre la sua coscienza innocente al mondo o l'afasia del mistico nei confronti della pienezza dell'essere (PHP, 123).

Lo stupore non è certo la visione narcisistica di chi si compiace dell'opera compiuta, bensì lo sguardo rivolto all'opera nel suo compiersi, nel suo farsi immediato, precedente il fatto. In tal senso la relazione di distanza tra lo stupito e il suo oggetto, sempre sul punto di divenire contemplazione, si ricompone subito in un'inattesa prossimità: prima ancora di aver avuto il tempo di apprestarsi a dare un'interpretazione del mondo e a decifrare un qualche messaggio cifrato contenuto sotto il dato oggettivo, lo stupito si ritrova a essere già, «personalmente», egli stesso il messaggio (PHP, 87). Prima di divenire coscienza di sé, la coscienza si trova ad essere nello stesso tempo «inglobante e inglobata», poiché l'oggetto che essa aveva di fronte, scappandole sfuggendole di mano, l'ha avvolta nel suo flusso, è divenuto per lei mistero e destino. Nello stupore infatti la coscienza della morte e della propria morte, lo sguardo sulla vita e sul fatto stesso di vivere si ricompongono in una sola coscienza superiore. L'istante liminare della morte precipita la temporalità ripetitiva della vita nella propria inconsistenza e fa emergere la realtà del tempo vissuto nella sua immediatezza. Il movimento pendolare della coscienza produce una presa di distanza da ciò che aveva preso le distanze dal mondo empirico (la scienza e la metafisica); e grazie a questa «negazione della negazione», riesce a recuperare l'autenticità dell'esperienza primaria. Liberata dalle maglie delle interpretazioni allegoriche, lo spirito ritorna all'apparenza e l'empiria può rivelare la sua vera natura mostrandosi autenticamente come dimensione fattuale e concreta.

E' questo il percorso che si ritrova nell'esperienza musicale. Essa, interrompendo ogni rapporto con il mondo fenomenico e negando ogni oggettività, porta alla consapevolezza di un ordine temporale diverso, né essenzialmente oggettivo (com'è la temporalità «seconda» della metafisica dell'eternità) né empiricamente oggettivo (la temporalità «terza» del senso comune e della scienza).

Nel presente lavoro noi cercheremo di seguire questo particolare percorso: occorrerà innanzi tutto giustificare teoricamente la musica all'interno dei due temi principali della filosofia di Jankélévitch, la finzione e la temporalità. In questo modo avremo gli strumenti necessari per affrontare il terreno musicale specifico, prendendo in considerazione anche degli aspetti tecnici. Infine queste riflessioni ci permetteranno forse di ritrovare un senso possibile di quella temporalità tutt'altra che il filosofo cerca con inquietudine tra le crepe e le fessure della realtà. La musica risulterà essere il tempo stesso in cui agisce l'atto della creazione, un atto libero ma non arbitrario, produttivo ma non cumulativo né dispersivo. Essa riproduce quindi la temporalità nella quale le finzioni e i malintesi che avevano avviluppato la coscienza, i dogmi e i sofismi che l'avevano irrigidita, le stesse barriere, maschere, veli e dissimulazioni provocatori che avevano coperto l'espressione autentica della semplicità si dissolvono come nebbia al sole. [6]

Note

[1] Henri Bergson, Introduction à la métaphysique, in Oeuvres, par André Robinet, P.U.F., Paris 1959, p. 1394

[2] Henri Bergson, Oeuvres, cit., p. 491

[3] ib., 1396

[4] V. Henri Bergson, La pensée et le mouvant, I, in Oeuvres, cit., pp. 1253-1330

[5] Guy Suarès, Vladimir Jankélévitch, La Manufacture, Lyon 1986, p. 129

[6] Voglio qui ringraziare coloro che hanno reso possibile la realizzazione e la pubblicazione di questo lavoro: innanzi tutto Lucienne Jankélévitch, per il suo aiuto prezioso e la sua squisita disponibilità, Olivier Revault-d'Allonne, per i consigli e l'incoraggiamento, Lluís Sala-Molins, che con grande professionalità e amabilità ha diretto la tesi di dottorato di cui il presente libro è una revisione, Giovanni Piana, che con la sua consueta benevolenza ne ha patrocinato la pubblicazione italiana, Enrico Fubini, Ivanka Stoianova e Jésus Aguila, per i loro apprezzamenti e le acute osservazioni, Alessandro Guetta, per la fiducia con cui mi ha spinto ad affrontare questa fatica, e infine, last but not least, Claudia e Laura, per la pazienza con la quale mi hanno sopportato durante le travagliate fasi della stesura.
 
 

  Introduzione
 I.1
Indice