PARTE PRIMA

CAPITOLO PRIMO
FENOMENOLOGIA DELLA FINZIONE


«Dopo tutto che cos'è una menzogna?
Non è che una verità mascherata»

G. G. Byron


Dualismo e ambivalenza

I testi di Vladimir Jankélévitch sono attraversati da una questione cruciale: c'è una realtà dietro l'apparenza o l'apparenza stessa può essere considerata come una realtà? È legittimo considerare l'apparenza soltanto come un involucro esterno di un nucleo ontologico originario?

Fin dalle origini il pensiero filosofico è stato ossessionato dall'alternativa dualista (tra essere e apparire, vero e falso, episteme e doxa) e i suoi sforzi metafisici si sono orientati a una sorta di scavo di una verità profonda, seppellita sotto l'esteriorità sensibile. Questo è stato l'intento di ogni razionalismo intellettualista e di ogni platonismo, i quali considerano la filosofia come una grande scommessa, un enorme sforzo teso alla riconquista della verità nonostante gli ostacoli insormontabili che vi si frappongono. Perciò il senso del pensiero metafisico è stato unilaterale e, per così dire, verticale: si voleva trovare la verità superando la finzione che la nasconde e penetrando la superficie dell'apparenza. È questa una tendenza ottimista, che ha anche aspetti morali: non solamente il vero, ma anche il bene può essere raggiunto superando il male che ci tenta o il piacere che ci seduce. Di fronte al dolore del mondo il filosofo razionalista ci convincerà a sopportarlo, in vista di una felicità futura che permetterà di dimenticarlo. Inoltre, se noi sapremo resistere alle lusinghe del piacere, cioè a una felicità transitoria e illusoria come la voce delle sirene, allora il nostro sacrificio sarà ricompensato con un piacere più grande e più vero, in quanto non sensuale. Il piacere, e la disillusione che ne consegue, saranno allora come dei rivestimenti dietro i quali si potrà intravedere un fondo buono, sincero e puro.

La filosofia dell'essenza, quindi, deve situare la realtà agli antipodi dell'apparenza e la verità all'esatto opposto della menzogna. Così il mondo sensibile può far solo da contrasto al mondo ideale, per consentire alla dialettica di cogliere negativamente una positività autentica dietro la negatività illusoria. Ne consegue che il razionalismo si pone a un livello molto distante da quello dell'esperienza, esaltando esso una forma massimamente pura di conoscenza e di moralità. Infatti tende a misconoscere sia la corporeità umana, che viene paragonata a una prigione o a una malattia, sia l'irreversibilità del divenire, dato che esso considera la morte in modo simmetrico rispetto alla vita, come la sua suprema guarigione (PI, 76ss.). Non a caso i puristi sono spesso ironici nei confronti di coloro che amano troppo la vita, o di coloro che troppo ingenuamente si adeguano all'immanenza dell'esistenza. Il Fedone, per esempio, ridicolizza quegli interlocutori che rifiutano di credere all'immortalità dell'anima. D'altra parte gli asceti e i mistici provano una specie di pietà canzonatoria per tutti gli edonisti e i vitalisti, mentre i razionalisti ottimisti giudicano un'inezia piangere sul male del mondo, sulla sofferenza degli uomini. E la condizione di questo atteggiamento di derisione non può essere che una presa di distanza nei riguardi di una realtà considerata troppo fragile e inconsistente.

Nell'ottica di Jankélévitch la dimensione ontologica più impura è l'empiria, oggetto di quella che egli chiama filosofia terza (PHP, 4ss.): l'empiria è il luogo della nostra mondanità, vissuta tra gli estremi inaccessibili di nascita e morte. Questa dimensione fa riferimento all'empirismo nominalista e alla scuola del senso comune, in cui l'assenso a ogni verità assoluta e soprasensibile viene rifiutato o quantomeno sospeso: l'attenzione del filosofo empirista si rivolge verso il "quaggiù" della nostra temporalità ordinaria e quotidiana, seguendo anche la casistica più concreta e l'opinione della moltitudine. In tal senso si tratta di una «filodossia» che crede nella positività della realtà sensibile e non diffida più della percezione umana. Essa non è toccata per niente dal minimo sospetto che dietro le maschere e al di là dell'immaginifico mondo esteriore vi possa essere una realtà sostanziale. Si può sostenere che la filosofia empirista sia un pensiero sereno e fiducioso, poiché rifiuta nel contempo le preoccupazioni, differenti ma parallele, del realismo e dello scetticismo; secondo il suo punto di vista il mondo che io mi rappresento è dotato di un grado ultimativo di verità. Non c'è nessun sospetto o dubbio metafisico: io posso essere certo che ciò che vedo immediatamente non è altro che ciò che io vedo veramente.

La credulità della filosofia terza è sicuramente sincera e in buona fede, anche se un po' ingenua, dato che rimane imprigionata nel caos dell'esistenza, senza possibilità di uscirne e di osservare la vita con un certo disincanto. Essa non può dare risposta agli enigmi esistenziali più radicali senza invischiarsi in contraddizioni insolubili. Come sarebbe possibile l'esperienza dell'infinito, del tutto, della morte, che per definizione non sono sperimentabili? Si rischia così di cadere in paralogismi come per esempio quello di accedere all'eternità a partire da una somma matematica, o approdare all'escatologia a partire dalla storia (PHP, 11). La filosofia terza non riesce quindi a colmare il salto qualitativo tra empiria e «metempiria» senza condannare se stessa a un regresso infinito o a paradossi «teratologici».

A queste difficoltà la filosofia seconda - ossia la filosofia dell'essenza e la metafisica sostanzialista - fornisce invece delle soluzioni. Sua prerogativa, come dicevamo sopra, è la volontà di ritrovare una verità sostanziale, nascosta dietro i miraggi instabili e le immagini senza consistenza dell'empiria. Suo strumento è il logos, cioè una ragione dialettica a sua volta sostenuta da un linguaggio coerente, univoco e oggettivo. La retorica e i sofismi rappresentano il lato falso e superficiale del linguaggio, poiché vivono delle sue ambiguità semantiche e delle sue oscurità espressive. Il vero e autentico strumento di comunicazione è costituito da una lingua universale e razionale che sappia aderire perfettamente al senso delle cose. Ogni linguaggio deve rimandare a un contenuto-altro, di cui esso rappresenta la forma più fedele: in tal senso, secondo il razionalismo, il vero linguaggio è allegorico, poiché riporta a un preciso ambito semantico al quale è legato da un rapporto di corrispondenza biunivoca. Quindi il linguaggio, pur essendo costituito da segni sensibili, è veridico e non può ingannarci, poiché la sua direzione è inflessibile e infallibile. Naturalmente è bene non sopravvalutarlo, né considerarlo nella sua autonomia; non bisogna giocare con il linguaggio e divertirsi con la complessità delle sue relazioni. Al contrario, bisogna prenderlo per quello che effettivamente è, ossia un puro sistema segnico da decifrare, un semplice mezzo di contatto con una realtà che altrimenti ci sfuggirebbe.

Persino Platone si rende conto che noi non possiamo mai rinunciare né al linguaggio, con tutte le sue imperfezioni, né alla sensibilità, con tutti i suoi trabocchetti. E pur sempre tutto ciò che è terreno, compresa la parola, il corpo e i cinque sensi, è oggetto di diffidenza: è male necessario, ma temporaneo. Noi siamo come in un carcere da cui è possibile uscire solo attraverso due vie: la morte, vista come una nuova vita, e la ragione, la sophia, che sono una sorta di propedeutica alla morte. Il corpo degli uomini è una corazza della quale bisogna liberarsi al più presto, e la filosofia auspica questa liberazione con fiducia, poiché si tratta di un ostacolo del tutto effimero e inconsistente.

Questa fragilità coincide, per l'appunto, con la temporalità, che la filosofia idealista considera una vera maledizione: in quanto inevitabile lasso che ci separa dalla morte, il tempo rappresenta anche la differenza che ci separa dalla verità e pertanto costituisce una barriera che una fatalità metafisica ci impedisce di oltrepassare. In quanto esseri temporali noi siamo necessariamente temporanei e limitati, ma siamo anche quasi condannati a dissimulare la nostra condizione e a ingannarci reciprocamente. Al di là di questa valle di lacrime e di continui sotterfugi c'è, secondo gli idealisti, un mondo perfetto in cui tutto è puro e trasparente; questo mondo intellegibile non può che essere statico e immobile, poiché le vere idee, aderendo simultaneamente al proprio contenuto, sono distanti da qualsiasi inquietudine e non hanno perciò bisogno di muoversi. Questo mondo di glabra e cristallina tranquillità deve essere allora il fine di tutte le tendenze opache che gli uomini vivono in quanto creature gettate nel tempo e nella storia. La conoscenza è lo strumento principale di questa uscita dal tempo nello spazio, dall'inquietudine nella sicurezza ontologica. L'intelletto ci permette di conoscere sia le modificazioni del tempo che tutte le sue trappole, e per questo noi possiamo superarle e mirare fiduciosi alla verità.

Ma succede che tutto ciò che il razionalista considera problema risolto gli si rivolga contro, come un'arma a doppio taglio: la morte, l'irreversibilità del tempo, il male e persino la menzogna possono costituire per lui degli ostacoli insormontabili. Succede che il filosofo della morte muoia, che lo spiritualista si ammali, che il buono d'animo si riveli cattivo e l'anima pura impura; e soprattutto che il sincero divenga mentitore. Come antichi nobili caduti in miseria, tutti coloro che si credevano non contaminati si ritrovano inevitabilmente a fianco di coloro che fino a poc'anzi disdegnavano. A questo punto l'ironista scende dal piedistallo della sua compiacenza e diviene egli stesso oggetto dell'ironia, colui che rideva diviene ridicolo.

Nei suoi testi Jankélévitch ci mostra spesso questo ribaltamento dei ruoli, questa ironia elevata a potenza. Come un altro rappresentante della cosiddetta «scuola del sospetto» (dopo Marx, Nietzsche e Freud), Jankélévitch si contrappone a ogni filosofia che ha la presunzione di credersi infallibile, smentisce tutte le sue pretese ostentate e riconduce alla concreta realtà tutte le sue astrazioni. Anche se ci crediamo puri e perfetti, noi siamo invece tutti, senza distinzioni, mischiati con la nostra corporeità, contaminati dalla nostra malvagità. Siamo immersi, corpo e coscienza, nell'immanenza della confusione (PI, 153) e del caso, senza speranza di salvezza. Siamo come dilaniati tra conoscenza e volontà, piacere e dolore. È il tragico della nostra condizione mediana, intermedia, interiormente lacerata. Il dualismo che la caratterizza non è per Jankélévitch il pretesto per una scelta, ossia un'alternativa da risolvere, ma una sempre presente e oscillante ambivalenza. Il filosofo metafisico cerca di uscire da questa situazione con l'espediente di una costruzione speculativa stabile; ma in ciò assomiglia al naufrago che tenta di alzare la testa al di sopra dei flutti che stanno per inghiottirlo (PI, 153); la sua ultima illusione è di non credere alla morte e far finta di sperare nella vita, coprendo la sua cattiva coscienza con un ottimismo falsamente sorridente.

Bersaglio principale di Jankélévitch non è dunque il fatto empirico di mentire, a cui - egli sembra dirci - siamo pressoché condannati, bensì un tipo di menzogna supremo ed esponenziale: egli preferisce l'uomo che mente sinceramente rispetto a colui che mostra con ostentazione la propria sincerità. Cosciente che il rifiuto della menzogna non sia altro che un pretesto per mentire ulteriormente, Jankélévitch pensa che sia più opportuno percorrere tutte le forme dell'apparenza che eluderle. Quindi occorre abbandonare le presunzioni del dogmatismo moralista e dell'ascetismo e riportarsi al livello della concreta realtà, nella sua particolarità. In tal modo ci si accorgerà non solo che la menzogna è il peccato originale dell'uomo, ma che può anche divenire una virtù. Nella disputa tra Kant e Benjamin Constant, per esempio, Jankélévitch parteggia per quest'ultimo, il quale rivendicava l'opportunità di mentire, contro il dogmatismo della sincerità a ogni costo (TV2,1, 247). Piuttosto che isolarsi in un assolutismo morale «inossidabile», Jankélévitch preferisce affondare le mani nel reale, per quanto disgustoso esso sia. Il filosofo sembra quasi provare piacere a farci stagnare in questa impasse, persuaso che sia sempre meglio prendere coscienza della nostra condizione, anche la più disperata, piuttosto che rimuoverla o far finta di dimenticare l'orrore che ci circonda. Piuttosto che somministrarci illusioni, è meglio mettere fino in fondo il dito nella piaga della nostra infelicità e affrontare la realtà con coraggio. Perché sia possibile scorgere un minimo bagliore, bisogna incamminarsi nell'oscurità, anche se disperati ed estenuati. Come nei racconti di Edgar Allan Poe la salvezza spesso si trova proprio nel fondo dell'abisso, così in Jankélévitch la soluzione dei problemi si trova laddove non vi sono chiavi o formule risolutive. E seguendo Nietzsche, la cui massima fu di «fare della disperazione più profonda la speranza più invincibile», egli preferisce guardare negli occhi l'assurdità e la mostruosità della nostra condizione e sondare con lucidità tutti i casi di un'inevitabile e spesso necessaria menzogna.

Le avventure della dissimulazione

Rovesciando il platonismo, Jankélévitch si chiede dunque se la vera realtà non sia proprio l'apparenza e non ciò che si presume esservi dietro. È per questa ragione che al purismo e al realismo egli oppone la maniera e l'ingenio di Baltasar Gracián, o i giochi da cortigiano di Baldassar Castiglione. E alla politica vista come propedeutica speculativa egli oppone le astuzie e il pragmatismo di Machiavelli (PDP, c. 10). Al filosofo che disdegna l'apparenza e le forme esteriori, preferisce quello che le sfrutta e costruisce su di esse un'arte della grazia. Seguendo Gracián, che stimava come uomo ideale colui che nella vita sociale riusciva a districarsi usando ogni sorta di espediente, Jankélévitch propone di analizzare tutte le diverse sfaccettature della umana propensione a mentire. Una volta spezzato il tradizionale legame che univa verità a sincerità, ci troveremo di colpo nel mare magnum della dislocazione dei valori etici e della finzione estetica.

A tal fine è necessario ribaltare il metodo della filosofia della conoscenza e procedere, studiando il malinteso, la finzione e l'infinita complessità che producono, a una vera e propria filosofia della misconoscenza: attraverso questa specie di gnoseologia di segno opposto, Jankélévitch può deviare il rettilineo cammino del sapere e percorrere a contropelo l'analisi esistenziale. Perciò egli si attarda a discernere minuziosamente tutte le sfumature della propensione umana a fingere. Come la teoria della conoscenza costruisce i suoi schemi e le sue categorie mettendo da parte ogni idea falsa, ogni errore e soprattutto ogni menzogna, così Jankélévitch prende come base queste ultime per informarci delle condizioni di possibilità della facoltà di mentire, ricomponendo uno sconcertante quadro «pseudegorico» della misconoscenza e del malinteso umani.

Secondo Jankélévitch la misconoscenza è una scienza a tutti gli effetti, nonché una tecnica: infatti, a differenza della dotta ignoranza, o «innocenza gnostica», che è coscienza di non poter sapere, la misconoscenza ha la pretesa di sapere ciò che non si può sapere. A tal fine essa costruisce un sistema di concetti, formule, segni e luoghi comuni, la cui perfezione ha lo scopo di interrompere definitivamente il legame con la realtà, facendo dimenticare l'oggetto stesso della conoscenza (JQ, II, 1). La misconoscenza ha due facce diverse ma complementari: l'ipocrisia e la malevolenza. L'ipocrita è un mentitore al quadrato, poiché è lucidamente cosciente della sua impostura e, per questa stessa ragione, la impiega in tutte le sue possibilità. Egli sfrutta l'indefinita libertà del suo ego, in modo del tutto diabolico e imprevedibile. Per far ciò, le sue parole e le sue azioni non sono né interpretabili né decifrabili, perché ogni significato può rivelarsi un nuovo significante, all'infinito. D'altro lato la malevolenza è una specie di seduzione, che approfitta della tendenza umana al piacere e al divertimento per indurre intenzionalmente l'altro in errore: quindi essa è nel contempo una trappola e una valvola, che non fa più uscire coloro che sono entrati nelle sue maglie.

Ipocrisia e malevolenza generano il malinteso, che è per così dire l'accordo tra gli uomini per vivere in disaccordo. Nel mondo umano c'è persino un «ordine del malinteso» (JQ, II, 2) che, come in teatro o nei club esoterici, organizza scientemente la finzione: il cerimoniale, le convenzioni, il linguaggio, la facciata. All'interno di questo ben delimitato circolo la coscienza del malinteso si trasforma in doppio beninteso, poiché ciò che all'esterno appare falso e ridicolo, nella scena e nella società chiusa appare del tutto vero e serio. È per questo che i membri lo considerano e lo comprendono come effettivamente vero. In ugual modo, nella celebre fiaba di Andersen, il popolo e la corte sono convinti dell'esistenza dei vestiti del re, non per via di un'illusione ottica o di un sortilegio, ma per la piena coscienza della falsità di questa falsità, per una sorta di accondiscendenza con il sistema stesso della falsità.

Ma c'è un terzo grado di «imbroglio», che è esponenziale e riguarda un'interrogazione radicale sulla stessa realtà della dissimulazione e sul chiasmo tra essere e apparire. Di fronte all'inevitabilità della finzione ci si può chiedere perché mai la verità non coincida con la sincerità, mentre invece essa si nasconde volentieri dietro la bella apparenza e la menzogna, e inoltre perché essa faccia ciò, al punto che ogni mentitore approfitti della verità apparente per dispensare delle vere falsità. Perché insomma il mondo e gli uomini sono così equivoci e complicati, invece di essere semplici e chiari? In questa imbarazzante situazione è facile smarrirci, una volta persa la chiave interpretativa dei segni sensibili e linguistici. Manca un'ermeneutica che ci possa aiutare a trovare il bandolo della matassa e a decifrare un mondo di simboli e di geroglifici che si intersecano e si confondono per ingannarci. E nessuna buona intenzione si nasconde dietro questo caos, perché anche la buona fede e la benevolenza possono ugualmente divenire la maschera di una cattiva intenzione. Noi non abbiamo alcuno strumento per giudicare se un testimone sia o no credibile: anche il più semplice e banale avvenimento può essere il termine di una riflessione tortuosa, la parte emergente di un iceberg minaccioso.

Così nei fatti di cronaca, negli episodi della storia o in qualsivoglia provvedimento governativo, eventi apparentemente finalizzati alla buona riuscita e alla felicità di tutti, nascondono al contrario un interesse egoista, una volontà di potenza. E persino l'affetto e l'amore possono rivelare aspetti morbosi. Spesso dietro un viso esteriormente amabile e sincero si può celare lo sguardo del perverso. La foresta che ci circonda è piena di mostri travestiti, che ci tendono delle continue imboscate. Ed è molto difficile smascherare questi travestimenti, perché si rivelano essere travestimenti di altri travestimenti, e così all'infinito. È questa una situazione - una specie di homo homini mendax - nella quale è molto probabile che si perda ogni fiducia e ogni speranza. Si tratta di una finzione iperbolica, che secondo Jankélévitch bisogna affrontare in modo lucido per poter trovare una spiegazione nella sua immanenza temporale, ossia nella propria realtà.

Origine temporale della menzogna

In primo luogo l'origine della tendenza umana a mentire riguarda, secondo Jankélévitch, il rapporto tra l'essere pensante e la propria morte. Di fronte alla morte nessun uomo oserà imbrogliare o fingere, perché si tratta di un avvenimento del tutto radicale che mette in gioco, interamente e definitivamente, il nostro essere e la nostra temporalità. In quel momento si è obbligati alla sincerità, in modo assoluto e senza eccezioni, avendo a che fare finalmente con la nostra soglia liminare, chiusa a qualsiasi proroga. Quando succede che tutti i possibili sono compromessi e che la persona non ha più alcuna chance, neanche di pentirsi e di confessare i propri peccati, allora l'io rimane terribilmente solo con le sue responsabilità. Quando la temporalità dell'essere è ormai giunta al collo dell'imbuto e l'irreversibilità del divenire non è più una nozione da discettare ma un fatto da subire, allora l'interesse a mentire non ha più forze e risorse.

La morte è la fine del tempo, anzi, è altra cosa rispetto al tempo: ma proprio per questo essa condiziona la temporalità della vita, fin dal suo inizio. La morte incombe sull'esistenza umana come una presenza sorniona e minacciosa. Tutto il divenire della nostra vita si modella sulla necessità della morte e, di conseguenza, ne reca tutte le contraddizioni: il fatto che essa sia certa e nel contempo enigmatica e incomprensibile determina gli innumerevoli paradossi dell'esistenza, come tra essere e conoscere, volontà e azione. Ma soprattutto essa produce il chiasmo tra tempo obiettivo e tempo metaempirico, cioè tra il tempo ordinario della quotidianità e una temporalità superiore non misurabile, che è la condizione di possibilità del primo.

Nei termini di Jankélévitch il tempo obiettivo è un tempo quidditativo; al suo interno ogni spiegazione appartiene al contesto stesso nel quale la questione si pone. Per esempio: perché (quid) io vivo nel ventesimo secolo e non nel sedicesimo? Risposta quidditativa: perché i miei genitori sono vissuti anch'essi e mi hanno generato in questo stesso secolo, ecc. Invece l'altra è temporalità quodditativa, in cui avviene la messa in questione (quod) dell'intera temporalità, del fatto inesplicabile che essa è e non il contrario. Il primo è la somma aritmetica di tutte le «miserie della vita» (PI, 83), la seconda è il tempo di ogni tempo, e per questo concerne l'essere nella sua totalità e la persona nella sua «ipseità». Il primo comporta inoltre la rimozione del fatto inevitabile di morire, e perciò si prende gioco di una verità serissima. La seconda è la condizione della presa di coscienza della futilità della vita.

Si può quindi dire che la menzogna è un fenomeno precipuamente temporale; il mentitore ha bisogno di tempo per mettere in atto le sue macchinazioni e i suoi machiavellismi. Il suo tempo è meccanico e, seguendo Bergson, spazializzato. L'interesse per la vita e l'azione determinano la propensione a cercare dei punti di riferimento all'interno di una durata altrimenti inconcepibile. La società fornisce all'uomo i mezzi per rendere possibile il suo volere, ma senza alcun potere, mentre la durata gli elargisce tutti i suoi poteri, ma lo priva del volere. Di fronte alla morte invece non si ha l'interesse sociale a mentire né il tempo di allestire alcuna menzogna. Per sopravvivere al meglio, neutralizzare la morte e lenificare l'alternativa tra potere e volere, l'uomo sente la necessità di crearsi uno spazio sicuro e stabile, in cui far alloggiare e proliferare le sue astuzie e i suoi inganni.

D'altro lato è la complessità del tempo a preparare il terreno per qualsiasi imbroglio: le sedimentazioni del passato nel presente e lo spessore «polifonico» delle tre dimensioni temporali si riflettono all'interno della coscienza. Qui il tempo «raddoppia ogni pensiero con un retropensiero, ogni intenzione con una retrointenzione» (PI, 249), all'infinito. La menzogna è infatti immersa nella complessità del tempo e la sfrutta il più possibile. Essa riceve dal tempo, per così dire, l'ossigeno per vivere. Così secondo Jankélévitch le ricchezze «ammassate nei magazzini della memoria» (TV2,1, 189) forniscono nutrimento ed energia a ogni fabulatore e a ogni ciarlatano.

Ma nel contempo la permanenza della menzogna è, paradossalmente, instabile, in quanto vissuta nel corso di un tempo che le dà sia la possibilità di sopravvivenza sia il suo statuto effimero e inconsistente. Il tempo è il lasso in cui la finzione si distende e in cui essa può anche trovare la sua fine, allorché si scoprono e si svelano le imposture. Si sa, il mentitore deve avere una memoria formidabile se vuole salvaguardare e confermare le sue invenzioni contro il pericolo sempre in agguato di una smentita. Il suo «logos» è di corte vedute e la sua astuzia una «caricatura di razionalità» (TV2-1, 200), dice Jankélévitch, dato che «la menzogna è abbastanza sinottica per giocare d'astuzia con l'occasione, non abbastanza sinottica tuttavia per paragonare all'interesse di un momento la durata totale, né abbastanza ragionevole per subordinare questo a quella» (ib., 202). Il mentitore è teso, solo e tallonato senza posa dal rischio di contraddirsi, dalla costante apprensione di tradirsi e di essere infine smascherato. E la comunicazione tra un mentitore e l'altro, o tra un mentitore e la sua vittima, non può essere altro che comunicazione tra monadi separate, tra solitari destinati a parlarsi all'infinito, ma giammai ad amarsi.

La temporalità della compiacenza

Il tempo della finzione è allora un tempo inautentico, poiché è continuamente frazionato e sempre assillato dalla possibile disillusione. Per questo la coscienza si crea una dimensione in cui essa riesca a salvaguardare la sua integrità, a dispetto di ogni sua mancanza e nonostante la sua costituzionale impurità. Sapendosi menzognera e precaria, essa cerca una forma artificiale di sincerità e, per far ciò, modella una temporalità ideologica che possa rispondere alle sue esigenze. Qui tocchiamo un tema che rappresenta per Jankélévitch il prototipo di tutte le differenziazioni della menzogna e che è in cima alla lista delle possibili dissimulazioni. Si tratta del vizio capitale di ogni intenzione morale, il «virus filtrante» in ogni virtù buona (TV3, 387): la compiacenza, ossia la regina delle dissimulazioni, in quanto finzione esponenziale.

Innanzi tutto la coscienza si proclama sincera e, in tal caso, le si può credere, perché la buona fede non le fa certo difetto. Ma al di là di questo primo livello ci si può accorgere che la sua sincerità non è di buona qualità, poiché il sospetto di una riduzione a spettacolo di quella buona intenzione si insinua fin dal momento in cui il soggetto ha cominciato a fare dichiarazioni di fede e proclamazioni di sincerità. Il dubbio è del tutto legittimo, poiché il vizio è identico a quello dell'uomo che non è capace di agire: parla, discute, mette in bella mostra le proprie qualità e disquisisce sui minimi motivi di un'azione che continua a procrastinare. Si ha ragione a diffidare di ogni affermazione fatta ad alta voce, e persino la stessa coscienza non è convinta di se stessa: perciò, dice Jankélévitch, è una semi-coscienza; essa è stata gettata in scena senza volerlo e di ciò si rende conto. Ma a partire da questo momento si trova a suo agio e prende gusto a recitare il suo ruolo e a gonfiarsi il petto. Il peccato di compiacenza, in effetti, può inquinare anche una coscienza buona, perché è capace di portare in scena anche la migliore intenzione. Così la spontaneità, quando vuole una cassa di risonanza, perde il suo slancio e si cristallizza in forme stereotipate. Un'azione eroica e coraggiosa diviene una farsa quando si aspetta l'applauso; un atto di carità è un'impostura quando esige una ricompensa (AVM, 193). Infine, l'io guasta la sua più autentica «ipseità» quando si vuole sostanza o spirito assoluto.

L'origine della compiacenza è, come d'altronde nel caso della menzogna, il tempo. Anche ogni creazione ideologica ha una natura temporale. Infatti la buona intenzione sorge nell'istante, che è il minimum impercettibile di temporalità e per questo impedisce alla coscienza di tornare a sé, di guardarsi allo specchio. L'istante determina il carattere incosciente e innocente dell'azione, al suo livello primario e immediato. Da questo momento la coscienza è tesa tra il bagliore folgorante di questa discontinuità e l'apertura infinita a una temporalità continua, di cui essa ha a disposizione tutti i mezzi: il linguaggio, le maschere, le scene teatrali, gli spettatori. Essa non ha la forza di portare il pesante fardello della dissociazione tra soggetto e oggetto, essere e conoscenza, tempo e morte; per cui cerca di superare la tragicità di questa situazione e aspira a divenire il tutto, si appropria dell'intero mondo e si paragona persino a Dio. Non si accontenta di essere e di vivere, ma vuole vedersi «essente», nel mentre in cui vive, e per questo sfrutta tutti i suoi poteri. Il soggetto pretende così di riunire il ruolo di attore con quello dello spettatore, contemplando dall'esterno ciò che è all'interno e riuscendo a essere simultaneamente io e tu (TV3, 198).

Ciò succede quando il tempo puntuale dell'istante si dispiega nell'intervallo e la scintilla disparente diviene la piena luce del pensiero e dell'idea. Secondo Jankélévitch l'idealismo metafisico non è che il prodotto di un medesimo peccato originale della coscienza, di un'attitudine ad allestire uno spettacolo altrimenti non rappresentabile. Si tratta ancora dei sempre attuali idòla theatri di baconiana memoria, o anche della teoria del divertimento di Blaise Pascal. Inizialmente la coscienza aveva quasi un'esigenza vitale a mascherarsi, per nascondere la realtà della sua finitudine, sottrarsi all'irreversibilità del tempo e rinviare all'infinito la preoccupazione della morte. Ma successivamente ha cominciato ad approfittare di questa legittima difesa e a sovrapporre maschera a maschera. Una volta valicato il limite tra verità e finzione, il soggetto viene preso, dice Jankélévitch, da una «frenesia passionale»; abbondando della propria impurità, l'essere impuro accelera a volontà questo «processo di peggioramento» e «non smette di ispessire la poltiglia in cui si è tuffato» (PI, 160). Come l'apprendista stregone, egli resta vittima dei sortilegi che ha scatenato.

In questo modo la coscienza sfrutta il suo potere di ripetizione: l'istante è novità che sgorga; esso mantiene la sua vitalità grazie alla sua unicità temporale; invece la «secondarietà» è sempre colpevole (PI, 32), perché la ripetizione fa violenza alla «primultimità» originaria. Da qui il soggetto tende ad abusare di questa straordinaria facoltà: se ha potuto ripetere una volta una cosa che non doveva essere ripetuta, nulla impedisce di applicare questo potere alla ripetizione stessa, generando così un processo interminabile. Se la coscienza si è guardata una volta allo specchio, essa potrà aggiungerne un altro che rifletterà il riflesso. Dopo il raddoppio della coscienza dell'intuizione, e in seguito della coscienza di questa coscienza, il soggetto può cominciare a vivere di rendita, mentre la sua forza creatrice comincia a esaurirsi.

Dapprima la coscienza si costruiva architetture stabili in cui poter soggiornare, ma ormai questo edificio si rivela costituito da diversi gradi sovrapposti, una babelica torre arbitraria e non controllata. Nel peccato originale e nella «malattia iniziale» della soggettività si innestano altri peccati e altre «malattie secondarie» (PI, 140), che si moltiplicano e si ripercuotono sui primi. Una tale composizione infinita di elementi si chiama complicazione. Man mano che la coscienza progredisce nelle sue determinazioni esponenziali, l'atto originario indietreggia fino a sprofondare nell'oblio. Come il mercurio esso sfugge a ogni tentativo di afferrarlo, mentre la coscienza che cerca di dirigersi su di esso rimane vittima di una suprema ironia. Da questo momento l'introspezione indefinita e la proliferazione di mostri ha la via libera.

Teoria dei mostri

In L'austerità e la vita morale Jankélévitch, seguendo Nietzsche, rileva che nella modernità vige un certo risentimento nei riguardi del piacere e dello spirito libero e vitale, ai quali l'uomo «puro» risponde con quella forma di espiazione che si chiama austerità. Convinto che la vita sia solo un lusso immeritato, l'uomo moderno s'infligge ogni sorta di penitenza e di autocensura, nell'attesa di meritare in futuro la grazia o la remissione dei peccati.

È questo un aspetto vagamente religioso e integralista della civilizzazione laica. Secondo Jankélévitch lo si può riscontrare nell'arte, nella politica, nella morale. Per esempio: invece di vivere tranquilli e felici, gli uomini del ventesimo secolo hanno scatenato le più terribili catastrofi della storia. D'altro lato il filosofo nota uno spirito quasi ascetico nell'austerità di una certa arte contemporanea, soprattutto quella astratta e nella musica seriale. Egli interpreta queste espressioni di austerità come un velo che si pone al di sopra dell'alternativa tragica tra piacere e dolore (AVM, 119-120). L'uomo moderno si rende conto del dualismo e della dissociazione tra essere e apparenza nella quale si trova la sua esistenza, e per questo ne rifiuta il lato esteriore.

Tuttavia, persino il più austero spirito di rinuncia può essere toccato dal vizio di compiacenza, per esempio quando il suo contegno diviene moralità professionale e quando la sua gravità si manifesta solo per mettersi in mostra. A partire da qui si dischiude il percorso attraverso il teatro teratologico del mondo moderno. Dal momento in cui si è insinuato un minimo di contaminazione, dovuto alla presa di coscienza sull'immediato, l'uomo cessa improvvisamente di aderirvi e inizia a caricarlo freneticamente di pesi metafisici, come concetti, sostanze, idee prestabilite, e di conseguenza a generare e sovrapporre l'una sull'altra strutture ideologiche e culturali. Man mano che procede l'uomo perde il controllo della situazione, che finisce per diventare indipendente e ineluttabile. Il carattere teratologico delle strutture così costruite riguarda l'inquietante sproporzione tra le parti giustapposte. Benché create dallo spirito umano, esse hanno raggiunto delle dimensioni sovrumane, non più dominabili né paragonabili a una forma ragionevole.

All'inizio vi è una alterazione, che è del tutto artificiale, ossia una modificazione qualitativa della realtà a livello immediato e intuitivo. Si assiste inoltre a una deformazione quantitativa, che «ingrandisce o rimpicciolisce il formato» di una cosa; poi vi è l'antegoria, che mente «per contrarium», e la fabulazione, che inventa di sana pianta e crea da capo a fondo una del tutto nuova e falsa realtà (TV2,1, 195).

Jankélévitch ci parla dunque dei differenti tipi di mostri così costruiti. La «coscienza di coscienza» è la prima figura dei mostri della decadenza: avendo dimenticato l'intuizione, lo spirito che non riesce più a rinnovarsi qualitativamente si ingrandisce quantitativamente in una reiterazione sterile e meccanica di se stesso. Si attua qui, secondo Jankélévitch, lo spirito borghese e l'economia capitalistica, fondata sull'accumulazione dei profitti e l'arricchimento a ogni costo. In seguito, soprattutto nell'arte, l'esecutore tende a differenziarsi dal creatore e la forma dal contenuto (testa senza corpo), per via di un'ipertrofia incontrollata del linguaggio (mostri della disgiunzione), il quale diventa, in un certo qual modo, pura effusione barocca, indipendente dal senso e dalla sua originaria natura comunicativa.

L'aspetto temporale di questa propensione riguarda l'impossibilità per l'uomo di cogliere l'istante e di aderire all'intuizione. Piuttosto che esporsi allo scioccante subbuglio provocato dal pensiero della morte e all'impari battaglia contro l'irreversibile, egli preferisce dispiegare la sua esistenza nella «calcificazione» della futurizione e di una durata inautentica. A partire dall'inserimento nel divenire e nel tempo empirico e quidditativo, ha inizio la decadenza; in tal senso ogni civiltà e ogni progresso possono rientrare nell'ambito della decadenza, che si esprime nelle forme dell'austerità, dell'economia, della dissimulazione. È a questo livello che si può toccare il limite estremo dell'aberrazione teratologica.

Ma succede che, nel momento in cui si è completamente smarriti e si è raggiunto il culmine della complicazione e dell'orrore, quando la misura della finzione ha raggiunto il suo massimo, la stessa forma dell'apparire che tanto ci spaventava rivela nel contempo un suo lato nuovo, sì che la nostra diffidenza può trasformarsi in fiducia (AVM, 215ss). È qui che ci si rende conto che le stesse maschere che avevano ricoperto una realtà scomoda ci svelano un lato differente e ci aprono un senso inatteso.

La svolta della litote ironica: dalla sincerità ipocrita all'ipocrisia sincera

Effettivamente è impossibile discernere con precisione dove finisca la menzogna e dove cominci la verità: ciò deriva dal fatto che tutto ciò che è umano non può essere mai localizzato tra due estremità e che il «ribaltamento dal Per al Contro» e il «rimbalzo dal Contro al Per» si alternano continuamente tra loro (PI, 228). Il chiasmo tra piacere e dolore della nostra condizione ibrida e mista è all'origine del raddoppiamento della buona volontà nella possibilità della cattiva; ma, d'altro lato, la cattiva volontà «suppone immediatamente come suo correlato la possibilità della buona» (PI, 120). La coscienza, cessando inevitabilmente di aderire a se stessa (in questa completa aderenza consisterebbe la vera sincerità, l'innocenza purissima), diviene bugiarda; viceversa «la possibilità della menzogna è data con la coscienza stessa, di cui misura insieme grandezza e bassezza» (TV2,1, 182). Al pari di Nietzsche e di Pascal, Jankélévitch caratterizza qui l'umanità come intermediaria tra bestialità e santità, in modo tale che non è più possibile distinguere l'una dall'altra. Succede che «chi vuole fare l'angelo fa la bestia» e chi vuol essere serio fa il buffone; e inversamente chi si mostra bestia può rivelarsi un angelo e le esibizioni dei clown o dei guitti possono contenere maggiore sincerità delle parole di un serioso oratore che ostentatamente si dichiara veridico.

In linea di principio la menzogna non costituisce un ostacolo alla verità: sta all'uomo, alla sua scelta e alla sua volontà, essere o no «l'annunciatore o il buon conduttore» della verità (TV2,1, 204). Grazie alla propria complessità e alla libertà di cui dispone, la coscienza moltiplica i propri poteri, al punto che può emergere una minima possibilità di scorgere in essa la via di una sincerità non sospetta. L'uomo d'altronde può infrangere in un colpo tutte le false superfici e smascherare in modo brusco ogni inganno. Questa à la via più diretta e immediata per scoprire le imposture.

Ma pur essendo chiara e semplice, questa via non è sempre perseguibile. Quando si è immersi in un mondo di continui raggiri, è difficile dare fiducia a chicchessia. Nella nostra condizione esistenziale, ma anche storica e culturale, noi abbiamo a che fare con ogni genere di mostruosità e di travestimento, e per questo, secondo Jankélévitch, siamo pressoché obbligati a seguire vie indirette e affrontare in modo obliquo il reale. Quindi persino chi è animato da buona fede è costretto a mascherare la sua buona intenzione, per metterla al riparo da una cattiva interpretazione. È meglio mentire piuttosto che scambiare la propria verità con denaro falso. Come avviene che in un mondo violento spesso occorre difendersi con la violenza, così contro la menzogna bisogna rispondere con la menzogna. «Nel nostro mondo di miseria - dice Jankélévitch ricordando Baltasar Gracián - e nell'attesa che gli uomini possano amarsi l'un l'altro, l'arte gracianesca dell'inganno, violenza secca, è preferibile ai roghi dell'Inquisizione! In tal senso, ahimè, la menzogna è certamente il male minore!» (TV2,1, 200).

In determinate condizioni è necessario fingere, altrimenti si rischierebbe di non essere creduti da nessuno e il nostro discorso sulla sincerità diverrebbe sterile e inutile. Gli spettatori non crederebbero mai a un'uscita di scena: crederebbero piuttosto a una trovata registica o a un'ennesima bricconata. Il pubblico è troppo avvezzo a essere ingannato; perciò si guarda bene dal farsi ancora una volta raggirare. Esso è ormai abituato a ogni risma di ciarlatani e di imbonitori, anche a quelli che hanno proclamato ad alta voce di non esserlo. Sarebbe allora preferibile che l'attore, per poter trasmettere un messaggio buono, sfruttasse tutti i suoi trucchi e i suoi camuffamenti e, invece di spogliarsi dei suoi costumi e urlare la sua denuncia contro ogni finzione, che stesse al gioco e rivestisse fino in fondo il suo ruolo. Il valore della sua rappresentazione non dipenderà allora dagli abiti in sé o dal senso letterale delle sue parole, ma dalla maniera con la quale li indossa e recita, dall'andatura, dallo charme (PI, 128). In questo caso, infatti, l'esteriorità non assumerà più un'apparenza teratologica, non essendo la forma dissociata rispetto al contenuto; anche il mostro più terribile si rivelerà dotato di un fondo di bontà; si sarà così coscienti che anche i mostri, finora tanto spaventosi, non sono che degli inoffensivi pupazzi di cartapesta. E d'altronde l'imitazione di un gesto, di un'azione, di una frase, non sarà più mera ripetizione meccanica e insulsa, bensì «ri-creazione» intuitiva e mimetica, portatrice di un buon esempio.

Per quel che concerne il linguaggio, dopo questa svolta esso non sarà più appannaggio degli impostori e dei sofisti. Il «logos oratorio» ha una propensione a mostrarsi franco, chiaro e spontaneo, per meglio nascondere la frode. Ma per Jankélévitch «non è sufficiente affettare rigidità per ritrovare la spontaneità» (AVM, 39); «come la bellezza non ha sempre la forza di irradiarsi fino alla superficie di un bel corpo, ma si nasconde dietro l'apparenza di brutte forme, così la verità non si esibisce sempre nella visibilità del discorso verace» (TV2,1, 224-5). Ciò significa che bisogna diffidare di coloro che dicono «io sono sincero» ostentando un'espressione grave. È invece meglio seguire coloro che si travestono da ciarlatani e da buffoni, rimanere sedotti dai loro occhi attraenti, dalle loro melodie, dai loro virtuosismi. È vero, entrambi approfittano del linguaggio, amplificandolo e sfruttandolo con la stessa enfasi. Ma la sottilissima e quasi impercettibile differenza sta proprio nel quasi niente dell'intenzione, che muove la loro andatura e cambia di segno in modo molto netto una medesima espressione. È la maniera di esser bugiardi che muta il senso della bugia. Perfino abusare del linguaggio, che per sua essenza è comunicazione e non misconoscenza, può riferirsi a un'intenzione che regola l'azione e si rivolge all'altro che ascolta.

Vi è allora, paradossalmente, una verità della menzogna, poiché il mentitore lascia esprimere dai suoi travestimenti «un certo genere di verità" (TV2,1, 213). Così la simulazione, come il linguaggio e la materia, diviene nel contempo organo e ostacolo del suo contrario, l'opposizione e parimenti la condizione di possibilità. Ci si deve rassegnare al fatto ineluttabile che «l'uomo secerne la menzogna come il ragno la tela» (PI, 163), ricorda Jankélévitch con una metafora baconiana che sottolinea tanto la necessità vitale della menzogna quanto la sua fragilità; ma anche, in un certo senso, il suo fascino. «Decifrando» la menzogna il mentitore può apparire paradossalmente veritiero (TV2,1, 205ss.). Una volta perduta per sempre la sincerità prima, il risultato della buona intenzione non può essere altro che una «sincerità seconda», o «ipocrisia sincera», nella quale la contaminazione della verità cede il passo alla rovesciata contaminazione della menzogna.

La necessità di mentire

Avvenuto tale ribaltamento dei valori, la menzogna non assume più quel carattere individualista ed egoista sopra descritto, finalizzato a un interesse puramente pratico o anche psicologico. D'ora in poi la dissimulazione può diventare mezzo di comunicazione e di solidarietà con l'altro. Paradossalmente, con un'inversione chiasmatica del tutto singolare, ciò che per definizione impediva la mutua trasmissione tra gli esseri e impediva qualsiasi forma di simpatia intersoggettiva, diviene l'intermediario privilegiato di una comunicazione altrimenti compromessa. Ciò che era ostacolo diviene improvvisamente organo di una benevolenza altrimenti destinata all'oblio.

Un medico mente al suo paziente per senso di pietà, poiché la verità in tal caso potrebbe far lui del male. Chi nasconde la verità ai nazisti mente dal punto di vista logico, ma è veridico dal punto di vista etico, poiché serve una buona causa. E d'altronde un'amante si adopera in mille simulazioni per mettere alla prova la fedeltà del compagno. In questi esempi, che Jankélévitch propone spesso nei suoi testi per sostenere la necessità etica della menzogna, riscontriamo il chiasmo tra verità oggettiva - ossia letterale, secondo lo stato delle cose - e verità «pneumatica», o spirituale, che ha spesso bisogno di dissimularsi per essere efficace. L'incrocio dei valori e l'intersezione tra punti di vista differenti provoca dunque il paradosso di una verità menzognera e di una menzogna veridica.

Innanzitutto chi conosce la verità potrebbe obbedire al principio astratto che impone di dirla a tutti i costi. Ed effettivamente, in assenza di impedimenti, è sempre meglio esser sinceri. Ma una tale astrazione non tiene conto dei casi particolari e delle circostanze concrete. Nel nostro mondo i valori sono incrociati e ogni statica gerarchia ha perso la sua consistenza. Per servire la moralità non possiamo essere fedeli a un modello morale eterno, poiché una veridicità spinta all'estremo finirebbe per virare nel suo contrario e la scelta della verità assoluta potrebbe significare volerla rendere impossibile (TV2,1, 251). Diviene quindi legittimo tollerare delle piccole deroghe e sospendere la legge nei dettagli, «in modo da ammorbidirla nell'insieme» (TV2,1, 260). Se seguissimo dei principi etici inossidabili rimarremmo tranquilli solo con la nostra coscienza, gonfiata dalla compiacenza, senza considerare il male che la nostra apparente purezza riuscirebbe a provocare. Ma allorché abbiamo a che fare con una temporalità che ha definitivamente minato la solidità dei valori e spezzato il cerchio della soggettività autoriflessiva, allora l'interesse non può più essere egoista e imperniato sull'io, ma sarà invece aperto a qualsiasi scambio con gli altri uomini. Per intraprendere questo dialogo sincero e amorevole l'uomo ha ora il diritto e, in un certo senso, il dovere di servirsi della menzogna e della dissimulazione, perché ormai sono divenuti i migliori veicoli della comunicazione altruista.

«Noi dobbiamo permettere che la giustizia e la verità nascondano provvisoriamente il loro vero volto, se questa è la condizione della loro sopravvivenza» - dice Jankélévitch opponendo l'imperativo vitale della menzogna alla sterilità dell'imperativo kantiano (TV2,1, 252). E inoltre: «Il dovere di esser veraci trova naturalmente il suo limite nella cattiva fede che ha a suo servizio la dialettica per sopprimerlo» (ib., 253). Ciò vuol dire che è preferibile la buona fede di una cattiva coscienza bugiarda alla cattiva fede di una buona coscienza sincera. Per Jankélévitch occorre sostituire a una verità letale una «feconda ironia», che è una forma asintotica della litote: colui che «è» ma dice il contrario (TV2,1, 231), colui che dice ciò che non pensa o colui che dice «no» quando è sollecitato a dire si e «si» quando è sollecitato a dire no (AVM, 216), tutti costoro si sottraggono ironicamente alla violenta inquisizione di una morale borghese che ama solo verità logiche e letterali. La loro menzogna è moralmente salvata dallo spirito d'umiltà che manca alla veracità dei cattivi: ed è per questo che una veracità cattiva ed enfatica si rivela tantopiù bugiarda e ingannatrice.

La menzogna insomma ha due facce: la prima è mortifera e «diabolica», perché vuole veramente il male; essa nasconde la sua malevolenza sotto gli abiti eleganti e impeccabili della morale comune e della sincerità ostentata. L'altra invece è vitale e «demonica», poiché si serve dei mezzi e degli abiti del diavolo per sconfiggere il vero diavolo. Se sappiamo che la dissimulazione non è più appannaggio del solo principio della malevolenza, allora si avranno maggiori strumenti critici per discernere tra differenti travestimenti.

Infatti l'intervento del diavolo nel mondo è «metalogico e antilogico» (PI, 155), in quanto inganna anche il matematico che sta sommando 2+2, sposta le lancette degli orologi e fa cadere gli uomini in un iperbolico «stordimento». Se a tale situazione non sappiamo opporre che un principio alternativo, la sovranità dell'Essere contro «l'apostolo del nulla», il male resterà invincibile. Se invece eludiamo la scelta tra il genio buono e il cattivo, il confronto non sarà impossibile: bisognerà combattere il diavolo con le sue stesse armi, con gli stessi artifici e sortilegi che egli ha finora impiegato.

Al livello della menzogna agisce infatti un'intenzione, ossia una tendenza, un'energia infinitesimale, un quasi-niente, e non dei blocchi metafisici rigidamente contrapposti. Il carattere temporale e spirituale («pneumatico») della dissimulazione fa cadere dal suo Olimpo ogni principio assoluto che sia stato innalzato ideologicamente sopra la testa degli uomini, sulla loro sofferenza e sull'ingiustizia che regna nel mondo.

Jankélévitch non esita quindi a rifiutare ogni pregiudizio purista e idealista, che egli denuncia in modo ancor più corrosivo, poiché lo affronta sull'instabile terreno del tempo. Il tempo è indice della nostra debolezza e ricondurre l'essere al tempo significa scoprire la vera natura della realtà, anteriore a ogni mistificazione ideologica. Il tempo agisce da tergo, smaschera e accusa le imposture, come una platea che manifesta la sua insoddisfazione fischiando gli attori sulla scena. Esso assomiglia al gaffeur della fiaba di Andersen, al bambino che con innocenza distrugge la credulità dei benpensanti. Esso porta nel suo flusso continuo ogni impurità e contamina le pretese della soggettività a essere totale e solida.

Solamente così, con l'opera di corrosione del tempo e il disincanto della menzogna, si può ritrovare una dimensione reale che la metafisica razionalista aveva coperto sotto una stratificazione di dissimulazioni successive.
 
 

   Introduzione
I,2 
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