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CAPITOLO SECONDO
L'ORDINE TUTT'ALTRO DELLA TEMPORALITA'


«Mi accontenterei di essere ricordato come una leggera brezza.

La pittura è un pensiero che esita e che non finisce»

Zoran Music

Tempo e istante

Nelle pagine precedenti abbiamo posto l'accento più volte sul forte legame esistente tra temporalità e finzione, tra tempo e menzogna. Per fingere e truffare occorre almeno un lasso di tempo, così come occorre tempo per saper mantenere i propri propositi bugiardi e restare coerenti con l'intenzione menzognera. D'altronde abbiamo notato che persino la sincerità è implicata con il tempo, ma in modo negativo, poiché nell'interruzione del corso del tempo, ossia nell'istante, non si può più continuare a mentire; e d'altra parte solo l'istante può inaugurare l'inizio di una nuova temporalità, quella della verità e della fedeltà.

Sembra dunque che il tempo sia la condizione di possibilità dell'opposizione dialettica tra verità e menzogna, che caratterizza completamente la nostra esistenza. Esso appare come il bilanciere su cui due pesi opposti possono oscillare e nel quale la nostra vita si equilibra. Per queste ragioni ora ci sembra opportuno analizzare questo problema in modo più approfondito.

Innanzi tutto è l'esistenza empirica a seguire fedelmente il corso del tempo, poiché è immersa nella temporalità della natura e dell'evoluzione biologica. Come tutte le cose e gli esseri viventi, noi subiamo questo tempo senza potervi intervenire attivamente. Ma, nello stesso tempo, noi stessi siamo questo tempo, poiché la nostra vita naturale e la nostra azione volontaria trovano la loro coincidenza solamente a livello temporale. Perciò, immersi nella continuazione del divenire, non ci è dato modo di osservare il tempo con uno sguardo d'insieme nella sua totalità. Noi viviamo senza vederci vivere: questa è la condizione di un'innocenza incurante della propria condizione, che vive felicemente senza affrontare i gravi problemi dell'origine dell'essere o della morte. In questo modo l'istante è vissuto - come direbbe Ernst Bloch - nella sua oscurità, nella sua «latenza». [1] Per conoscere il tempo invece occorre in un certo modo sottrarvisi, ossia osservarlo come un oggetto separato, come una realtà statica.

La sola possibilità di guardare il tempo è, paradossalmente, di fermarlo, ovvero, il che è lo stesso, di negarlo. Questa operazione, tipicamente scientista e intellettuale, trova la sua giustificazione nell'intenzione utilitaristica e pragmatica dell'uomo d'azione, sia egli scienziato o borghese, che deve necessariamente porre dei punti di riferimento nel reale, per poterlo controllare e prevedere. La spazializzazione del tempo, già denunciata da Bergson, diviene allora condizione di possibilità della scienza, dell'economia e persino della vita quotidiana. Quanto all'istante, esso sembra qui essere ridotto alla sua insularità puntuale e atomistica, a una cifra o all'anello di una catena. Il tempo globale, d'altra parte, risulta essere la somma spaziale e aritmetica di ogni istante preso singolarmente.

Vista in questi termini la temporalità è sicuramente chiara e trasparente, nonché maneggevole, dato che i suoi elementi sono intercambiabili; essa però ha perduto il suo carattere specifico di tensione dinamica e di movimento imprevedibile, poiché il tempo e l'istante sono qui solidali e non opposti in modo dialettico. La loro opposizione emerge allorché ci si rende conto della specificità dell'istante, ossia il suo carattere di frattura in rapporto al tempo. Se il tempo scorre, l'istante interrompe; esso è un taglio improvviso, senza alcun legame o compromesso con la continuità. L'opposizione è affatto radicale: non è il caso più di contabilizzare il tempo disponibile o di ridurlo al suo minimo concepibile, in modo che esso si presti a una qualche manipolazione. L'istante sfugge alla suddivisione metronomica, in quanto per definizione non dura. Esso è un'uscita, drastica e brusca, dal divenire e dalla dicotomia del tempo.

In questa particolare opposizione il problema tuttavia si complica: certo, l'istante può essere considerato soltanto come la negazione di ogni temporalità; ma esso è inserito pur sempre nella temporalità. L'istante infatti non nega il tempo in modo nichilistico, come un assoluto che si oppone a un altro assoluto. Non vi è qui una negazione iperbolica per la quale il positivo cancella totalmente il termine contraddittorio. L'istante non annulla che una certa maniera di considerare il tempo, non nega che una sfaccettatura, e attraverso questa negazione fa emergere per contrasto un'altra temporalità, la quale può sorgere solo a condizione che la negazione precedente sia stata superata. L'istante quindi nega il tempo confermandolo. D'altra parte il tempo può dispiegarsi solo se oltrepassa l'insularità dell'istante. Per essere efficace esso ha bisogno del momento intemporale del cominciamento, così come la volontà, per produrre un'azione, ha bisogno dell'istante della decisione.

Al di fuori di questa dialettica il tempo non sarebbe che ripetizione meccanica e iterazione, mentre l'azione sarebbe soltanto imitazione pedante di un modello. Tra la temporalità iterativa e la temporalità creatrice esiste una differenza di natura, stabilita dall'incommensurabilità reciproca esistente tra l'istante e l'intervallo. Tra essi vi è soluzione di continuità, non passaggio concreto. Rifacendosi a Kierkegaard, Jankélévitch dice spesso che l'istante è un salto immediato e inatteso al di fuori del tempo, anche se ugualmente resta al suo interno. [2]Ma per saltare bisogna pur sempre prendere uno slancio, combattere una resistenza e, per definizione, passare da un «luogo» all'altro. La negazione di cui abbiamo parlato si pone a un livello superiore e diverso, che è un ordine «tutt'altro».

Le ragioni di un ordine «tutt'altro»

Per Jankélévitch la determinazione di un ordine «tutt'altro» riguarda il superamento del razionalismo e del connesso dualismo. Per il platonismo l'ordine coincide con l'intellegibilità dell'essenza che si oppone al disordine della realtà sensibile e diviene prototipo e paradigma di quest'ultima. In tal senso il tempo è da un lato degradazione e transizione, dall'altro si solidifica in eternità e immortalità, cioè la negazione e l'idealizzazione del divenire. Ma secondo Jankélévitch questo dualismo rimane imprigionato nelle aporie della filosofia del logos assoluto, del formalismo e dell'ottimismo razionalista, che per lui sono filosofia seconda. Secondo questa prospettiva l'esistenza empirica troverebbe un'astratta duplicazione nel mondo metaempirico del sistema speculativo, ma perderebbe tutta la sua immanente vitalità e la sua forza creatrice. Per uscire da questa alternativa occorre secondo Jankélévitch rivolgersi completamente in un'altra direzione ontologica, che non sia una mera riproduzione di un ordine di valori e una nuova gerarchia di concetti: si tratterebbe di una terza via, i cui parametri non sono più paragonabili ai precedenti. Qui non si avrebbe più a che fare con l'intellezione, ma con l'intuizione; tra soggetto e oggetto non ci sarebbe più un rapporto di coincidenza o di comprensione, ma di tangenza; l'essenza poi non sarebbe staccata dall'esistenza, ma quest'ultima si ritroverebbe, nel modo più spontaneo, a essere, senza perdere il suo carattere specifico di concreta immanenza.

Dal punto di vista temporale la dimensione tutt'altra è una temporalità che Jankélévitch chiama quodditativa, distinguendola dal tempo quidditativo del razionalismo e della scienza. L'istante è la possibilità del tempo e il tempo è la possibilità dell'istante, ma entrambi hanno come imprescindibile condizione di possibilità la temporalità del tempo, cioè una dimensione superiore che conferma e supera le precedenti. È una temporalità che sfugge a ogni tentativo di spazializzazione e di nichilizzazione: essa è, dice Jankélévitch, «insopprimibile», poiché sorge continuamente anche quando si cerca di rimuoverla o di eliminarla. Si tratta del tempo irreversibile, che non può sfuggire al destino di nascita - invecchiamento - morte, e per questo non può essere né rivoltato né eluso. Noi possiamo, da un punto di vista quidditativo, riprodurre un avvenimento passato, ripetere le medesime circostanze in cui è accaduto e quindi annullare la distanza che lo separa dal presente. Ma nessuna finzione e nessuna memoria può restituirci il passato nella sua unicità semelfattiva, ossia il fatto che esso una volta e una sola volta sia stato.

Similmente in Matière et mémoire di Bergson, il passato attinge a una dimensione assoluta e incancellabile, superiore agli stessi tentativi della memoria di coglierla, mentre in Durée et simultanéité la temporalità unica e reale della durata concreta supera ogni ipotesi fisica e matematica. Anche Jankélévitch si avvicina a una temporalità indipendente, a livello ontologico, sia dalla psicologia e dalla volontà sia dalla scienza e dal pensiero teorico. In effetti il nostro rapporto con il passato sfugge all'alternativa dualista tra essere e non essere, poiché se è vero che il passato non può ripetersi, così esso non può essere nullificato. La morte e il nulla possono distruggere l'essere, ma non hanno tuttavia alcun potere sull'esser stato di questo essere, ossia sul fatto che una vita sia stata vissuta. Ciò implica che un fatto appartiene all'esperienza empirica, vissuta al di qua di ogni operazione intellettuale, come la negazione e l'idealizzazione.

Ma per meglio comprendere questo rapporto ontologico occorre fare un salto dalla temporalità in cui si pone questa alternativa alla temporalità quodditativa in cui può essere legittimo individuare un tertium datur, che è un quasi-essere o un quasi-niente. La passeità del passato si riferisce infatti all'ordine della temporalità superiore in cui l'essere, benché sprofondato nell'oblio e divenuto ormai non-essere, rimane tuttavia qualcosa. Il fatto di essere stato costituisce un surplus intermediario tra essere e nulla, tra presente puro e passato puro. Il passato non c'è più ma l'essere-stato è qualcosa; il passato non è niente, ma la sua «passeità» è un quasi niente.

Tutto ciò non sembrerà paradossale se si distinguono bene i differenti livelli in cui si situano il dato quidditativo e la cosa quodditativa. Sono due gradi da non confondere, perché tra il puro fatto e il fatto-che vi è un abisso invalicabile. In un certo senso il quid sta al quod come il contenuto sta alla forma; nell'ordine superiore della temporalità non si può più considerare questo o quel fatto nelle sue connotazioni precise, ma solo il fatto di quel fatto, il fatto irrevocabile che è stato fatto. Si può manipolare, intercambiare e ripetere un dato nella sua insularità empirica. Si può anche accelerare e rallentare il tempo in cui tale fatto avviene, che è perciò tempo empirico (IN, 106). Ma il livello del tempo metafisico è completamente diverso: per quanto si cambino le cose, dissimulandole dietro l'apparenza o ripetendole a piacere, il tempo del tempo, ossia la quoddità del tempo, non viene minimamente lambita da queste operazioni, che rimangono fisiche, meccaniche e intellettuali.

Si ha quindi una sorta di impassibilità del tempo superiore, un'indifferenza a ogni umana macchinazione, a ogni tentativo di eludere l'irreversibile e sfuggire alla morte (IN, 115). Questi tentativi assomigliano ai movimenti del viaggiatore che crede di aumentare la velocità della barca semplicemente spingendo la parete della sua cabina (PI, 191). Il suo sforzo è evidentemente vano e illusorio, mancandogli punti d'appoggio esterni per poter influire sul movimento generale dell'imbarcazione; i due moti sono del tutto incomparabili, rappresentano degli assoluti inconciliabili, poiché appartengono a degli ordini completamente differenti. Il movimento superiore ingloba ovviamente l'inferiore, ma non avviene il contrario. Tuttavia la sua influenza inglobante non intacca la ragione sufficiente dell'ordine inferiore, cioè lo spostamento fisico delle pareti all'interno della cabina, mentre al livello superiore tutti gli oggetti della stessa, compreso il viaggiatore, devono necessariamente seguire lo spostamento generale della barca, indipendentemente dalla loro posizione nello spazio interno. Ne consegue che l'ordine temporale cui la barca appartiene è tutt'altro rispetto a quello della cabina. Nello stesso rapporto si trovano temporalità quodditativa e realtà quidditativa. I due ordini sono indifferenti dal punto di vista empirico; invece, dal punto di vista metafisico, la quoddità influenza la quiddità, ma non ne è influenzata e ne è indifferente, come il destino, che non viene intaccato dalle umane preoccupazioni ma influenza la vita di tutte le creature.

I gradi della coscienza

La differenza di livelli, verificata in campo ontologico, si riflette sulla coscienza producendo la relativa stratificazione.

Innanzi tutto l'incoscienza è immersa nella confusione del tempo: essa si pone al di qua di ogni cura temporale, vivendo il tempo con un'innocenza pressoché infantile. Perciò l'incoscienza è sia noncuranza che innocenza «citeriore», ossia non ancora rinchiusa nello «statuto dell'alternativa» (TV3, 199): la creatura non è ancora costretta a scegliere tra essere e sapere, tra vivere e conoscere. La sua unica preoccupazione è di cogliere al volo le brevi e fuggitive occasioni di una temporalità istantanea e «folgorante» (PI, 224).

Quando il soggetto opta per un estremo dell'alternativa, cioè per il sapere, allora diventa coscienza; ma dal momento stesso in cui conosce la sua innocenza esso l'ha già perduta (se si sa innocente non lo è più e se è innocente allora non lo sa ancora). Questo secondo livello si sovrappone al precedente come l'esigenza della chiarezza si sovrappone alle ambiguità del regime di confusione. Ormai la coscienza si pone sul piano dell'intellegibilità e per questo ha la pretesa di essere totale: riduce il tempo allo spazio, lo sottomette al sistema delle categorie, lo «sorvola» credendo di non venire intaccata dalla temporalità di questo tempo, dall'irreversibile, dalla caducità e fragilità dell'essere. Ciò dà allo spirito una certa sovrana tranquillità, mettendolo al riparo da ogni pericolo metafisico. Raggiunge quasi una forma di immortalità, poiché riesce in questa maniera a esorcizzare persino il pensiero della morte.

Ma tale coscienza, per quanto si voglia completa e inglobante, rimane incompleta e inglobata da una sovracoscienza di ordine superiore, una coscienza «sopralucida», sincera e trasparente, che riesce a sciogliere ogni confusione e tutte le ambiguità dei gradi precedenti in nome dell'ideale dell'innocenza perduta. Essa vorrebbe tornare all'età dell'oro dello stato di natura o al paradiso del buon selvaggio. Grazie a questa ingenuità la sovracoscienza conserva una dose di innocenza e di sincerità. Tuttavia, benché in buona fede, essa rischia di cadere, come la coscienza egoista, nel vizio della compiacenza, allorché, divenendo coscienza di coscienza, rimane ancora vittima del proprio ego. Se la sovracoscienza pura soffre in modo sincero della perdita dell'innocenza, la coscienza di questa coscienza inizia a «occhieggiare i propri meriti» e preferisce recitare la parte del sofferente piuttosto che soffrire realmente.

Ma infine vi è un ennesimo superamento: la supercoscienza, cioè una sovracoscienza della sovracoscienza, non lucida ma sovralucida. Questa volta siamo in un ordine veramente superiore, al di là di ogni raddoppio dei livelli. La supercoscienza non svela più soltanto una semplice macchinazione, ma le macchinazioni di una coscienza cosciente delle sue macchinazioni. Essa non smaschera solamente una finzione, lasciando intatta la possibilità che dietro la maschera si nasconda un'ipocrisia ulteriore, ma svela il fatto stesso di mascherarsi, la finzione esponenziale che è lo strumento di ogni machiavellismo e di ogni impostura. Come la sincerità può rivelarsi falsa, così la veracità può essere bugiarda: in ogni caso qui la coscienza non si rivela per quello che è, cioè una «cattiva buona coscienza», poiché il suo gioco tortuoso si può risolvere solo al di là delle proprie impasses.

Passando da un livello all'altro è evidente che ci troviamo di fronte a ordini differenti e incomparabili. Ognuno di essi si crede completo e totale, ma il successivo mette in crisi la pretesa globalizzante del precedente. Il rischio di caduta nella compiacenza e nella coscienza soddisfatta della propria virtù è in agguato a ogni livello. Ma la causa primaria di tutto ciò è per Jankélévitch un «presupposto sostanzialista», che minaccia sempre anche le migliori intenzioni. Il grado ultimo di sincerità rischierebbe anch'esso di cadere nella farsa, nella messa in scena della propria buona fede, smarrendo per questo motivo la propria più sincera sincerità. Jankélévitch dà a quest'ultimo passaggio una connotazione specificamente temporale, poiché la coscienza della coscienza, caratterizzata come compiacenza, trae la sua origine da un problema del tutto temporale.

Temporalità e sostanzialismo

Ogni slancio dello spirito può coincidere all'inizio con una tensione animata da buone intenzioni; ma ciò resta vero fino a quando la coscienza mantiene intatto il suo carattere di movimento. Dal momento in cui essa si cristallizza nella staticità della sostanza, tutte le sue propensioni perdono in vitalità e in creatività. La grazia dell'istante scompare a favore della compiacenza dovuta all'intervallo.

Infatti il soggetto può restare se stesso (ipseità) solo nell'istante, ma diventa coscienza e ipostatizza la sua sostanza ontica solo nel corso del tempo, quando ha tempo per dirigere lo sguardo su se stesso e riflettere sui propri atti. La riflessione è un ritorno verso un precedente atto dello spirito, una ripetizione che solleva il fatto accaduto dalla sua «collocazione» temporale originaria e lo sposta in un differente momento del tempo, dove esso non si trova più a suo agio. Fosse anche il fatto più spontaneo, dal momento in cui subisce un minimo spostamento temporale, esso perde la sua innocenza e la sua freschezza.

L'istante della decisione o dell'atto creativo è puntuale, infinitesimale: è ciò che Jankélévitch chiama hapax semelfattivo, primultimo, cioè l'elemento temporale minimale e unico, irripetibile e «insopprimibile», che in quanto tale non ha né durata né dimensioni. Esso è un bagliore, né oscurità né piena luce e quindi né niente né tutto, pur essendo tuttavia qualcosa, un quasi-niente. La sostanza invece, per porre se stessa in quanto totalità, ha bisogno di dispiegarsi nella durata, le occorre un'estensione, poiché una piccola punta non le basterebbe per sopravvivere, mentre un bagliore la renderebbe inafferrabile. Il suo desiderio primario è la sicurezza ontologica, cioè un terreno il più possibile ampio, nel quale potersi spostare in tutte le direzioni e poter esercitare la propria capacità di conoscenza e di concettualizzazione. L'istante è troppo minuscolo, troppo fragile e delicato per soddisfare le brame della ragione; il lasso di tempo, invece, le fornisce tutti i mezzi per distendersi a piacere e credersi così stabile e sicura.

Tutto ciò può apparire paradossale: la stabilità trova il suo fondamento nella temporalità. Ma qui si tratta di una temporalità che Jankélévitch caratterizza come intervallare, o ancor meglio come «lapsaria» (PHP, 62), ossia tesa verso un inizio subito dimenticato e un'estensione da confermare. Quindi il principio della mobilità non appartiene più a questo genere di temporalità, nel momento in cui essa appare ormai neutralizzata da ogni sorta di dinamismo, di movimento creativo e di imprevedibilità; è essa una temporalità cristallizzata come le Naiadi, le quali conservano la loro fluidità passata come un'immagine rappresa e pietrificata. Si tratta, in fin dei conti, di una temporalità morta, immobilizzata, vicinissima al tempo spazializzato della scienza.

Allora per Jankélévitch, quando si parla di temporalità, bisogna distinguerne due tipologie, che sono come due differenti fonti del tempo: una temporalità empirica, ordinaria, sottomessa a ogni sorta di manipolazione e di riduzione. Al limite, le può accadere di essere mutata nel suo contrario, lo spazio. È qui che si pone la critica bergsoniana del tempo, ossia tutto ciò che il Saggio sui dati immediati della coscienza ha denunciato come il principale errore del metodo intellettualista: confondere una differenza di natura con una differenza di grado, come se sotto lo sguardo inflessibile dello scienziato il tempo potesse trasformarsi in qualcos'altro da quello che è, alla stregua di un mutamento di tipo fisico o matematico. La semplice addizione di una quantità temporale non potrà mai divenire una qualità; non si potrà mai raggiungere l'infinito con il solo aumento delle cifre del finito; oppure non si potrà mai raggiungere l'eternità con un semplice prolungamento della durata. «Il passaggio all'assolutamente-altro - dice Jankélévitch - non può essere che una mutazione iperbolica» (PHP, 54), o una «breccia nell'empiria», che va bruscamente al di là di ogni forma di successione e di continuazione, o meglio, di ogni forma empirica di rapporto tra continuità e discontinuità. Perdite, cessazioni, sparizioni, interruzioni e tutte le soluzioni di continuità possibili appartengono al genere della continuazione empirica e per questo sono «sempre compensabili dal principio di conservazione o dal principio di contraddizione» (PHP, 38). Ma la «breccia» che si apre sull'ordine tutt'altro non è paragonabile a nessuna interruzione empirica, pur inglobando sia la continuità che le sue soluzioni.

C'è dunque per Jankélévitch una «continuità essenziale» (PHP, 142) che concerne il legame tra una cosa empirica e l'altra: è questa una continuità logica, che pretende la coerenza tra la premessa e la conclusione. Ma d'altro lato vi è una continuità «sovraessenziale», la quale non può più farsi carico di una spiegazione logica e razionale. Per essere più precisi, essa non sopporta alcuna spiegazione, poiché è già in sé stessa spiegazione e fonte di ogni spiegazione di ordine inferiore. Il suo livello non è comparabile con gli altri, perché essa non è solo inesplicabile e sfuggente, ma anche inesistente, pur creando la condizione per ogni esplicazione e ogni esistenza. Quindi la temporalità superiore è un apriori metalogico e metatemporale rispetto a ogni logica e a ogni temporalità empirica, e anche rispetto a tutto ciò che può negare questa temporalità, come l'istante e l'interruzione. Non si tratta certo di un apriori formale di tipo kantiano, che trascende il dato immediato per fondare l'ordine delle verità «regolative» e dei rapporti intellegibili (PHP, 30-31): al di là della «filosofia pura» di Kant, la metafisica che Jankélévitch sostiene supera l'essere in generale e lo stesso pensiero, ponendosi come condizione di possibilità di ogni essere possibile. Il prefisso meta- indica un vero e proprio superamento in direzione di un ordine diverso, dove la totalità è effettiva e insormontabile, non più partitiva e schematica.

È ovvio che una simile prospettiva è altresì distante da ogni ipotesi fondazionista. Infatti il fondamento di ogni conoscenza non è per Jankélévitch una conoscenza, come d'altronde il fondamento di ogni valore etico non è un valore (TV3, 163). A rigore non si dovrebbe parlare neanche di «fondamento», che non è una preoccupazione di Jankélévitch. «Fonte» e «creazione» sono i termini che meglio si attagliano al carattere dinamico e flessibile della temporalità. Come Bergson, Jankélévitch non è alla ricerca di una base stabile e solida della conoscenza, ma piuttosto di un movimento, di uno slancio capace di condizionare ogni possibile base metafisica. Ciò vuol dire che per Jankélévitch e per Bergson il problema della conoscenza si pone su un piano non più spaziale bensì temporale. L'origine va ricercata non più nel fondo di una stratificazione di livelli metafisici (benché la metafora sia utile a spiegare questa relazione), ma lungo una diacronia che sfugge a ogni spazializzazione.

Si può dunque sostenere che il tempo empirico è più prossimo alla spazialità metafisica che non alla temporalità metafisica: la successione iterativa di atomi temporali è più consona all'ordine dello spazio piuttosto che a quello della temporalità dinamica. In tal senso si spiega l'affermazione di Jankélévitch secondo la quale, grazie a Bergson, «forse per la prima volta nella storia delle dottrine, il mobilismo non esprime più la condizione infelice della creatura», perché «non è più il tempo a essere un'immagine mobile e una degradazione dell'eternità, ma è al contrario l'eterno che è un fantasma e un'immagine immobile del tempo» (HB, 244). È dunque la teoria bergsoniana della durée che ha veramente rovesciato il platonismo dominante su tutta la metafisica occidentale.

Il passaggio alla temporalità superiore

Come abbiamo già notato, per cogliere la temporalità non è più sufficiente la condizione, seppur necessaria, di opporre il tempo allo spazio, poiché spesso il tempo, come nel caso della scienza, può essere connivente con la più rigida spazialità. Inoltre non si ha più a che fare con l'opposizione tra una temporalità sciolta e fluida e una temporalità rigida e meccanica. La temporalità superiore supera ogni disgiunzione empirica e metaempirica, per ritrovare il corso del tempo nella sua specificità originaria, anteriore a ogni forma di concettualizzazione. La differenza tra i due ordini di temporalità, che, lo si è visto, appare «sottilissima», si rivela in realtà immensa e incommensurabile.

Ma allora ci si chiederà: che sorta di temporalità è quella buona e felice, che bisogna scoprire sotto una temporalità infelice e disprezzabile? E inoltre: questo dualismo tra temporalità opposte non contiene il rischio di una ricaduta in un'attitudine manichea e nel vizio della compiacenza? In questo modo saremmo ancora vincolati dai due poli dell'alternativa, di cui dovremmo scegliere il termine più favorevole e agevole. Ma allora saremmo ancora colpevoli di ostentazione di bontà, di professione di buona fede, spacciandoci surrettiziamente per i più puri puristi e i migliori virtuosi. Inoltre, il salto qualitativo verso l'ordine superiore non rischia di valicare il limite oltre il quale il pensiero e il linguaggio si trasformano in dogmatismo e misticismo?

Innanzi tutto per Jankélévitch l'ordine superiore non coincide affatto con la sovrana condizione dell'asceta che contempla l'Empireo e guarda questa valle di lacrime dall'alto della sua presunta purezza incontaminata. L'inversione che egli mette in atto nella sua filosofia ha un carattere, come si è visto, non lineare e del tutto paradossale: si esce dal tempo e si resta nel contempo all'interno di esso. Benché se ne esca, non si può però eludere la condizione di dentro-fuori, inglobante-inglobato, tipica dell'esistenza e della conoscenza umana. L'uscita dal tempo che Jankélévitch auspica è solo di ordine metodologico, poiché non conduce affatto al raggiungimento di una dimensione sovrumana e sovratemporale. Al contrario si tratta di rifiutare una particolare dimensione, rigida e inautentica, della temporalità e nel contempo di poter tornare a una differente dimensione che era nascosta sotto il peso dei livelli della precedente. Per dirla in termini più semplici: il tempo astratto e rigido della scienza copre di concetti e formule il tempo concreto e fluido della vita. Occorre perciò un lavoro di perscrutazione e di scavo, che risulta molto difficile, poiché i pregiudizi, le cattive abitudini, i vizi di inerzia e la pigrizia mentale sono troppo pesanti per essere dissolti in virtù di una semplicistica opzione filosofica.

La tentazione di una recidiva sostanzialista è in effetti presente ogni qual volta la coscienza operi una scelta ed è tanto più diabolica quanto più la decisione sincera dell'innocenza può ricadere, suo malgrado, nella trappola di un capovolgimento verso il suo contrario. E pur sempre, secondo Jankélévitch, non bisogna mai rinunciare a ricercare una temporalità che sappia sfuggire a tale circolo vizioso. Non si tratta di costruire una teoria del tempo, fatta di concetti e categorie, poiché aspirare a un contenuto possibile di quest'ordine tutt'altro significa sfiorarlo piuttosto che coglierlo, fare allusione piuttosto che descriverlo, sussurrarlo piuttosto che nominarlo con chiarezza. Bisogna insomma ritrovarlo in un terreno teorico nuovo e vergine, in cui il tempo agisce e vive liberamente la propria specificità fenomenologica prima di essere ridotto a categoria o concetto. Se nella teorizzazione il rischio della staticità è sempre in agguato, occorre allora poter accedere a una zona franca in cui tale rischio sia ridotto al minimo.

Affronteremo tra poco questo terreno particolare; dobbiamo ancora chiarire che, se la scommessa di trovare una dimensione teorica e nel contempo a-teorica avrà successo, saremo allora sul punto di realizzare un'inversione metafisica veramente taumaturgica: passeremo cioè dal tempo ordinario e oggettivo al tempo superiore per poi ritornare di nuovo al tempo empirico, depurato però da ogni sofisticazione metaempirica. Questa «odissea» temporale ci restituirà così la dimensione dell'innocenza al di fuori di ogni pericolo di compiacenza e di sostanzialismo.

Il senso del nostòs

Jankélévitch spesso sembra sostenere: è solamente all'interno del tempo che si può ritrovare l'innocenza, perché il tempo spiazza e smentisce ogni pigrizia mentale, anche quella che vede l'innocenza come uno stadio da raggiungere; così esso riesce a privarla di ogni carattere conservatore, reazionario o purista. Si tratta certamente di un «ritorno», ma il termine qui non indica il ristabilimento delle condizioni della partenza, l'esatto status quo ante. Al contrario è il risultato di un giro, il fine di un periplo e di un'avventura.

È per questo che il modello del nostòs omerico rappresenta la forma più caratteristica della temporalità jankélévitchiana. Una volta ritornato a Itaca Ulisse vuole ristabilire la situazione precedente, ripetere un passato anteriore ormai trascorso. A ciò si oppone l'irreversibilità del tempo e in particolare l'influenza inevitabile dell'intervallo intermediario. Ciò vuol dire che le avventure, i pericoli affrontati e superati, i momenti di felicità e di scoraggiamento, insomma tutti in contenuti che riempiono il tempo della durata tra partenza e ritorno, costituiscono una stratificazione di impressioni e di ricordi che necessariamente appesantiscono ogni futura esperienza. E anche ciò che si ripresenta identico appare per ciò stesso differente e avvolto da un alone di novità.

Ma nonostante ciò Ulisse vuol ricongiungersi con Penelope, riprendere il suo legittimo potere e ritrovare tutto quello che durante il viaggio gli aveva fatto provare tanta nostalgia. Si traveste allora con degli stracci per guardare la situazione di sbieco, come uno spettatore disinteressato, aspettando l'istante propizio e pronto a cogliere ogni occasione al volo. La prova dell'arco, infatti, sarà il fulcro che cambierà in modo decisivo il corso della sua vita: se fallisce perirà, se vince realizzerà tutte le possibilità che il corso precedente del tempo ha accumulato e serrato come nell'arco in tensione. Un minimo errore e una minima indecisione, e tutto sarà perduto. Ma una volta liberatosi da tutti gli impedimenti e le imposture, egli potrà finalmente unirsi a sua moglie e vivere felice.

E tuttavia questa sarà pur sempre una nuova vita, arricchita dai ricordi e dalle sofferenze passate, persino dai rimorsi e i rimpianti per le occasioni mancate. Le lunghe prove hanno svezzato il viaggiatore, mentre l'attesa paziente di Penelope ha dato un valore ulteriore al loro ricongiungimento. In ogni caso non sarà possibile rendere identico il passato e, nonostante la possibile delusione, la «vita nova» sarà una scoperta e un giorno di festa. Come la primavera, che regolarmente, ogni anno, si ripresenta identica e puntuale, ci appare ciononostante come un'esperienza nuova, così il ritorno sarà sempre qualcosa di differente, animato da un ineffabile surplus temporale e metafisico.

L'innocenza ulteriore e la nuova empiria

Come abbiamo già notato, c'è secondo Jankélévitch un'innocenza citeriore e un'innocenza ulteriore (TV3, 175ss.). La prima è nesciente-di-sé e in-curante: non può essere altro che ciò che essa è, al di qua di ogni riflessione. La coscienza può comprenderla solo in modo retrospettivo o in virtù di una reminiscenza mistica, quando per esempio si auspica il ritorno idilliaco all'età dell'oro, al paradiso perduto, ecc. Ma ciò per Jankélévitch è una mera produzione spazializzante di immagini (imagerie), in cui l'uomo civilizzato fa finta di prendere posto, volendosi egli situare in una condizione che invece è in sé refrattaria a ogni tipo di localizzazione.

Come l'innocenza è senza spazio, in quanto indescrivibile, così essa è senza tempo, in quanto inenarrabile; di conseguenza essa può essere colta solamente al livello dell'istante e della temporalità dinamica: «Se ne possono captare i segreti - dice Jankélévitch - solo per sorpresa, grazie alle acrobazie del bagliore-intuizione e dello schema dinamico» (TV3, 176). Ciò vuol dire che l'innocenza appartiene a un ordine superiore, tutt'altro, che per ciò stesso diviene il terreno in cui essa può essere compresa, nonostante la sua paradossale condizione, apparentemente senza vie d'uscita, di inconoscibilità. Se comprensione vi è, si tratta in ogni caso di una comprensione sui generis, che si pone a un livello pre-filosofico, nel quale bisognerebbe essere disponibili a rinunciare a ogni strumento concettuale rigidamente intellettualista. D'altronde è questa sicuramente una dimensione gnostica molto vicina alla folgorazione mistica o all'ispirazione romantica.

Ma in Jankélévitch il carattere del tutto temporale dell'intuizione, anche dell'intuizione dell'istante, rende piuttosto questa comprensione più vicina alla prospettiva bergsoniana. È in tal senso che egli auspica il ritorno alla concretezza del tempo vissuto, dopo che ci si è potuti liberare della zavorra dei pregiudizi sostanzialisti e delle idee precostituite. L'innocenza non è altro che un movimento, un'intenzione e, dal punto di vista etico, un dovere. La sua intenzione è disinteressata, «senza pretese né arroganza» (TV3, 405), senza pensieri reconditi; il suo dovere è unicamente mirato al bene dell'altro, autentico «imperativo d'amore» ed «efferenza assolutamente pura» (ib., 406). [3]

Ciò non vuol dire che si tratti di una nuova forma di purismo, che è una forma teatrale e compiacente dell'innocenza. Non si tratta neanche del purismo morale di Kant, che disdegna ogni implicazione e compromesso con la realtà empirica. La purezza veramente pura è invece, paradossalmente, molto impura, poiché il suo movimento intenzionale è rivolto verso le circostanze concrete della realtà; avendo abbandonato ogni sofisma e ogni ideologia dell'essenza morale, la filosofia preferisce «la cosa possibile e fattibile», anche al prezzo di una bugia e della rinuncia a un ideale e a un principio etico. Così, grazie al carattere dinamico e drastico dell'azione («la cosa che deve essere fatta e che di conseguenza sarà fatta», TV3, 261), la coscienza ridiscende «dalla cima alla base», ossia all'intermediarietà del nostro mondo empirico. Persino Platone, il più puro tra i razionalisti, ritorna nella caverna e «patteggia con i misti»; inoltre l'Eros del Simposio è un demone inquieto, mai soddisfatto, mescolanza di povertà e di coraggio, teso tra il suo desiderio e l'oggetto d'amore; e se il Timeo rappresenta un'«igiene del composito», il Socrate delle Leggi e della Repubblica non vuol costruire una città ideale, perfetta e irrealizzabile, ma al contrario è sempre alle prese con la realtà concreta, con i problemi sociali e giuridici e con la mondana mistura tra giustizia e ingiustizia, felicità e infelicità.

Ne consegue che il fine della filosofia deve essere l'immediato, avendo essa riconquistato la realtà dopo aver sostanzializzato l'essenza. Come Ulisse, la filosofia abbandona il luogo della sua partenza (l'empiria), attraversa le avventure della ricerca intellettuale e le seduzioni della ragione, e finalmente ritrova la realtà come una nuova empiria. Un simile periplo le ha permesso di conferire un valore diverso e ulteriore a questa realtà. Le stesse cose e gli stessi oggetti le appaiono come trasfigurati: li si guarda ora con un occhio nuovo, come di un bambino stupito di tutto quello che incontra. È lo stato d'animo dei giorni festivi, atteso per tutta la lunga settimana. L'oggetto è lo stesso, ma l'intenzione è cambiata. Ed è l'intenzione la forza che per Jankélévitch sa trasformare le cose, cambiare loro segno e direzione.

Realtà e utopia

Da quanto detto risulta chiaro che il pensiero di Jankélévitch propone una vera e propria trasformazione metafisica, che è anche una metamorfosi ontologica. Secondo questo particolare procedimento si mette in moto una trasfigurazione degli elementi della realtà; all'inizio essi appaiono nella loro condizione di straniamento, vuoti e oscuri: è la tipica alienazione degli oggetti isolati e caotici dell'esistenza empirica e del presente. Per eludere e quasi per esorcizzare questo caos il razionalista raddoppia il mondo nella realtà degli oggetti intellegibili, che devono rappresentare i modelli ideali degli oggetti concreti. Vi è poi un'altra dialettica, un'altra «navigazione», che devia questo percorso e non si pone più in alternativa con la realtà, poiché al contrario vuole affrontarla in modo attivo, coraggioso e drastico. Essa guarda il mondo negli occhi, anche nei suoi aspetti tragici, orribili e del tutto negativi, per poter porre poi le condizioni del suo riscatto. Questo riscatto è però immanente, integrato e interiore al mondo, facendone sgorgare le sue più nascoste possibilità. Anche la più nera disperazione può far intravedere un piccolo raggio di luce; persino l'esistenza nullificata, degradata e mortificata può «provocare il miracolo di una rinascita» (PI, 288); poiché secondo Jankélévitch la speranza ha per fondamento un quasi-niente che sfugge al nulla e a qualsiasi negazione iperbolica, pur non essendo ancora un essere. In quanto tensione, la speranza è infinitesimale, «umile e minuscola», ma può pur sempre rivelarsi «immensa e radiosa» (IN, 130).

Ciò equivale a dire che è solo nel tempo che essa può dispiegarsi. In primo luogo perché il tempo riveste di un carattere dinamico ogni tensione utopica, la quale nasce nell'istante e prefigura l'avvenire; inoltre sperare vuol dire aver del tempo da sfruttare, per quanto breve e limitato esso sia. Anche la continuazione di un'ora di vita è preferibile alla sua interruzione brusca e violenta, e salvare la vita di un bambino o di un prigioniero, sottraendoli alle mani dei carnefici, equivale a salvare la vita nel suo valore e nel suo significato completo.

«Salvare una vita è salvare il mondo intero»: Jankélévitch sembra sottoscrivere in pieno le parole del Talmud. La constatazione statistica e aritmetica secondo cui la percentuale non cambia le proporzioni dell'olocausto non intacca minimamente lo slancio etico del benefattore. Certo, per un uomo scampato vi sono milioni di vittime e l'orrore rimane quindi pressoché immutato. Proprio così: quasi immutato; l'avverbio misura tutta la distanza esistente tra l'atteggiamento rinunciatario e disperante - che può anche essere l'alibi della malafede - e l'apertura inaudita della speranza, una distanza non numerica ma qualitativamente infinita. La continuazione temporale, che sia anche di un solo istante, può preservare tutti i possibili indipendentemente da una successiva disfatta. Il tempo lascia sempre un margine di indeterminazione, un milligrammo di incertezza relativa al quando della fine: è questa la condizione necessaria per poter sperare anche l'inverosimile (IN, 129) e lasciare filtrare un piccolissimo raggio di luce nella parete della necessità assoluta. L'incertezza della morte lascia aperta tale dissimmetria tragica, ma anche «eccitante» (IN, 132), che caratterizza tutta la nostra esistenza e che ci permette nel contempo di lottare e di spingerci in avanti nel corso della vita, per quanto breve possa essere.

Questo è il lato concreto della temporalità: il fatto di potere, in tutta libertà, essere prolungata anche di un istante, al di là di ogni ideologia e di ogni petitio principii. L'astrazione immobilizza la vita, come la teoria degli Eleati folgora la corsa di Achille. Invece il tempo concreto ci permette di mettere mano alle nostre risorse creative e immaginative, sia nei riguardi del passato che del futuro: si tratta di una sorta di «pre-immaginazione» molto simile al Vorschein della «coscienza anticipante» teorizzato da Ernst Bloch.

Questo slancio in avanti, se è sincero, tende verso il successo senza prefigurarsi alcun trionfo. La coscienza esatta della realizzazione del possibile, infatti, può compromettere lo stesso movimento del possibile e ogni intenzione sincera; d'altro lato la coscienza assolutamente ottimista può rivelarsi speranza vuota o desiderio folle, al limite impostura che cela una cattiva coscienza. La coscienza veramente buona non ha alcuna preoccupazione morbosa e narcisistica di autorappresentarsi come virtuosa e vittoriosa; al contrario essa è per Jankélévitch azione nascente, impegno disinteressato, «sforzo laborioso a diretto contatto con la materia». In poche parole, la speranza non vuota ma veramente dialettica è un'avventura «ellittica e pneumatica» (IN, 138), nonché verve e improvvisazione, cioè messa in opera - non certo «messinscena» - di un'azione risultante dal libero sviluppo dei possibili nel tempo.

L'utopia dunque non costruisce la città ideale come un futuro teatro in cui far recitare gli attori della nostra compiacenza. Essa è invece, sia per Jankélévitch che per Ernst Bloch, possibilità di utopia nel mondo concreto, movimento e tensione sviluppata nel tempo, piuttosto che nello spazio. La coscienza utopica è, certo, puramente virtuale, ma il suo contatto con il mondo e con la materia vivente è reale. Essa cerca di cogliere l'occasione propizia arrivando in tempo sull'infinitesimale Kaïros, in modo che intenzione e situazione concreta si corrispondano. La temporalità della coscienza e quella del mondo possono vagare all'infinito senza mai incontrarsi. Ma se vi fosse una piccolissima tangenza, anche minimale, tra le due, ecco che una temporalità tutt'altra, la temporalità di un mondo nuovo, può finalmente aprirsi.

Note

[1] Su questo aspetto, come per molti altri (lo stupore, la temporalità, l'istante, l'evento, l'utopia) le somiglianze tra il pensiero di Jankélévitch e quello di Ernst Bloch sono notevoli. A questo proposito vedi Gianfranco Gabetta, Il mistero in piena luce. Filosofia e musica in Jankélévitch, in «aut-aut», 1987, 219, pp. 69-80 e Figure dello stupore in Ernst Bloch, in AA.VV., Figure dell'utopia. Saggi su Ernst Bloch, a cura di G. Cacciatore, F. Redi Editore, Avellino 1989, pp. 343-356

[2] Sul rapporto Jankélévitch-Kierkegaard, vedi Hélène Politis, Jankélévitch interprète de Kierkegaard, in «Lignes», n. 26, 1996, pp.77-88

[3] V. Enrica Lisciani-Petrini, «L' infinita efferenza: la temporalità nel pensiero di V. Jankélévitch» in Memoria e poesia. Bergson Jankélévitch Heidegger, E.S.I., Napoli 1983, cap. II
 
 

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