PARTE SECONDA

CAPITOLO PRIMO
TEMPORALITÀ E FINZIONE NELLA MUSICA


«Capolavoro, quello di Ravel... ma non è un balletto:
è la riproduzione di un balletto».

S. Diaghilev (a proposito di La Valse)

L'importanza della musica

I due precedenti capitoli avevano un carattere del tutto teorico; il primo cercava di individuare nel pensiero di Jankélévitch un tema fondamentale cui tutti gli altri si collegano: è la dissimulazione nella sua funzione metafisica, consistente nel rivelare, in virtù di un capovolgimento dialettico, ogni tipo di menzogna inautentica. Nel secondo capitolo invece si è visto come un altro tema, ugualmente importante, influenzi in vari modi lo stesso problema della dissimulazione: è la temporalità, che rappresenta, per dir così, la forza motrice della filosofia jankélévitchiana della conoscenza, o meglio, di quella forma particolare di conoscenza che si chiama misconoscenza. Inoltre, complementare a quest'ultima, è la compiacenza, dietro cui si nasconde la cattiva coscienza della malevolenza, fonte di ogni specie di malinteso. La compiacenza è un modo di dissimulare, per il fatto che si fa passare per la migliore forma di benevolenza. Essa è però anche implicata con il tempo, ossia con la dinamica esistente tra istante e intervallo nella quale si pone tra l'altro ogni azione umana.

Anche all'interno di questi due temi maggiori è emersa con forza l'esigenza di superare l'impasse della coscienza compiaciuta. Il pensiero di Jankélévitch è sembrato interamente teso verso la difficilissima e quasi impossibile ricerca di una forma cosciente di incoscienza e di innocenza, cioè di una forma particolare di conoscenza che sfuggisse a ogni rischio di compiacenza. Per far ciò occorreva, secondo Jankélévitch, uscire dalla dimensione strettamente teorica e logica della gnoseologia e della metafisica, responsabile di una recidiva nello stesso peccato che voleva evitare. E d'altra parte bisognava scongiurare l'altro ben più grave rischio, di approdare cioè a una dimensione di indeterminazione e di irrazionalità, derivante dal semplice fatto di allontanarsi dalla razionalità logica. La sfida del filosofo è stata di porsi in una condizione metafisica molto instabile, nella quale i concetti tradizionali della filosofia potessero trovare una loro configurazione e nello stesso tempo una loro decezione, la loro conferma e la loro crisi interna.

Si trattava per Jankélévitch di trovare i mezzi per usare concetti ma senza la loro tipica rigidità, dovuta alla loro spazializzazione, di «situarsi» paradossalmente in una dimensione che potesse sfuggire a ogni statica «situazione»; impiegando il linguaggio della filosofia bergsoniana, si trattava di seguire il corso del tempo nella sua realtà fluida e nella sua durata concreta. Inoltre emergeva il bisogno di dare un senso determinato agli elementi che si interponevano in modo dialettico a una durata così concepita: l'istante, l'arresto del tempo, l'oggettività sopra-psichica, ma anche il linguaggio, tanto necessario a dare una forma a una temporalità altrimenti destinata all'oblio e al silenzio.

La dimensione nel contempo teorica e a-teorica, razionale e irrazionale, linguistica e ineffabile, atta a rispondere a tali questioni doveva essere la musica. Era in quest'arte che il filosofo poteva ritrovare la possibilità di parlare dell'inesprimibile senza contraddirsi, di cogliere dei concetti che, contrariamente ai concetti logici, sfuggono a ogni delimitazione e a ogni rigidità: quelli della musica sono infatti dei concetti duttili, malleabili, opposti alle idee precostituite della scienza. Le idee della musica non sono neanche delle forme fisse ed eterne, come lo sono gli oggetti della metafisica. Al contrario esse mantengono tutta la potenzialità temporale e l'instabilità dinamica tipica delle cose concrete, delle azioni umane e di ciò che è soggetto all'influenza del tempo.

Tutto ciò che è musicale è provvisorio, effimero, indeterminato; la musica ha in sé tutte le caratteristiche dello svolgimento temporale: nascita, inizio, crescita, climax, acme, invecchiamento e morte. La corrispondenza tra il livello ontogenetico e il livello musicale estetico qui diviene effettiva: per Jankélévitch la musica non rappresenta solamente una semplice analogia della vita ontica o una semplice manifestazione esteriore del corso del tempo; essa invece ne costituisce l'interna esplicitazione, come una sorta di messa all'opera delle proprie specifiche potenzialità, della sua forza e del suo slancio inconfondibili.

Ciò vuol dire che la musica non è un'arte tra le altre, la quale più delle altre sarebbe incaricata di riprodurre in suoni l'ordine metafisico del mondo. In ciò Jankélévitch prende evidentemente le distanze da Schopenhauer: d'accordo con il filosofo tedesco nell'assegnare alla musica un ruolo privilegiato, egli sembra però superare, come vedremo, il parallelismo tra musica e platonismo, perché i suoni e le armonie non hanno una relazione con la struttura metafisica del mondo. È per questo che la funzione della musica non si limita a essere una branca del sistema, ma rappresenta una specie di tangenza con la fonte di ogni possibile sistema; essa cioè lambisce il movimento stesso del pensiero che è, in questa inafferrabile condizione, pura temporalità.

Quindi, per quel che ci concerne, il modo di trattare questo problema dovrà necessariamente tener conto della natura particolare della musica all'interno del pensiero di Jankélévitch. E se questo capitolo appariràper quanto il contenuto apparirà un po' staccato differente rispetto ai precedenti, ciò è dovuto solo al percorso scelto. In realtà ciò che segue trae il suo senso dai contenuti esposti precedentemente. Inoltre non si tratta di un capitolo di estetica musicale ma dell'approfondimento di un aspetto specificamente teoretico della concezione generale dell'essere e dell'esistenza in Jankélévitch.

Apparenza della musica

Secondo Jankélévitch per una considerazione filosofica della musica occorre rifiutare ogni metafisica intorno a quest'arte, cioè ogni speculazione che voglia ritrovare nei suoni un ordine trascendente.

Come si è visto, bersaglio principale di questa critica è la filosofia di Schopenhauer. L'errore principale di ogni metafisica della musica è un «transfert illegittimo» che fa scivolare le metafore musicali dal loro senso figurato al senso proprio e letterale (MI, 23). Jankélévitch ammette che il tempo musicale possa riprodurre il tempo umano riassunto tra inizio e fine, mentre lo spazio dei suoni sia una proiezione dello spazio ontologico, ma rifiuta l'operazione, che egli liquida come «clandestina», di passare da questo piano, che concerne solamente una mera comparazione o stilizzazione, al piano dell'identità ontologica, nel quale il tempo musicale sarebbe il tempo vissuto e lo spazio sonoro lo spazio compreso tra il mondo inorganico e le creature organiche. Simile operazione rischia di rimuovere il carattere «sparigliato» (dépareillé) della temporalità musicale, in quanto edifica una costruzione architettonica e topografica della musica basata sulla falsa corrispondenza simmetrica tra tempo e spazio.

Ma in particolare questo punto di vista dimentica il fatto primario dell'esperienza artistica, cioè di essere una figurazione autonoma, in senso ludico e immaginativo. In altri termini la musical'arte per Jankélévitch resta nell'apparenza, mentre la metafisica ha la pretesa di cogliere la realtà in sé e di costituirne una specie di duplicazione. Perciò quest'arteIn particolare la musica comantiene qualcosa di indeterminato e di incompiuto: essa non ha per fine una conclusione sillogistica né calcola le conseguenze dei propri atti, come fa l'azione utilitaristica. Essa è insomma al di là del principium individuationis e del principio di ragion sufficiente, quelli che ci consentono di costruire l'esperienza e di controllarne cause ed effetti. La musica è per Jankélévitch fraudolenta, perché ci imbroglia di continuo e non mantiene le promesse. Invece di condurre il suo particolare «discorso» alla completa esplicitazione di una verità, la musica si ferma alle soglie dell'articolazione, non ancora significativa, di questo discorso. Perciò essa è azione nascente, non azione compiuta e definitiva (MI, 155). Il suo linguaggio si libera dai lacci che lo legano a significati precisi, lasciando invece emergere la sua punteggiatura, il suo arabesco e la sua andatura; in fin dei conti tutto ciò caratterizza il linguaggio stesso in quanto pura esteriorità e non in quanto veicolo di contenuti profondi.

In tal senso la musica assomiglia al gioco, in cui l'azione non ha per oggetto che se stessa, o anche alla danza, in cui il movimento si limita a esaltare l'energia e la leggerezza del corpo umano nello spazio. In ogni caso azione e movimento in musica sono incompiuti e senza effettività. D'altronde tutto ciò che costituisce il particolare racconto della musica, cioè sentimenti, malinconie, entusiasmi, non è che un'illusione, un mondo infondato die pensieri senza ragione. «La musica crea nell'uomo una specie di lucidità ingannevole e falsamente gnostica», dice Jankélévitch (MI, 124) sottolineando il carattere paradossale e amfibolico di un'arte che sta a metà strada tra opacità e trasparenza, tra conoscenza e misconoscenza: essa realizza nei suoni la contraddizione della ragione di non essere prossima alla verità che a condizione di esserne lontana. Se nel linguaggio scientifico l'assillo della coerenza logica impedisce al pensiero di far coincidere gli estremi poli di una questione, nella musica invece lo status di apparenza le permette di sottrarsi a preoccupazioni di questo genere, poiché essa non è obbligata a scegliere tra i due lati di un'alternativa e si accontenta di rimanere nella condizione oscillatoria e instabile dell'intermediarietà e della confusione, che le preserva un'immensa libertà e in un certo senso l'impunità per ogni sua impertinenza.

Ironia e spirito di litote

In effetti, se l'esigenza della chiarezza e della coerenza chiedevano al pensiero di esprimersi in una forma rigida e unilaterale, la risposta della musica è il contrario di tutto ciò: uno stato di approssimazione che si oppone all'evidenza acuta del cogito cartesiano. D'altra parte se la cultura borghese chiede all'arte di essere sentimentale ed espressiva, la musica può rispondere con il contrario di questo contrario, cioè con un'esasperazione della rigidità e dell'inespressione, o addirittura con una chiarezza e una coerenza molto accentuate.

Questa è la motivazione dell'oggettività del formalismo che per esempio si riscontra nel neoclassicismo contemporaneo. In particolare alcuni compositori, tra cui Stravinskij, Satie e il Gruppo dei Sei, reagiscono al romanticismo tedesco e francese di fine secolo, e soprattutto all'imperversante wagnerismo. D'altronde gli epigoni del romanticismo avevano portato alle estreme conseguenze l'idea di una musica che doveva avere la funzione di esprimere gli stati d'animo, di imitare la natura e persino di essere la versione fedele e compiuta della facoltà intellettuale e raziocinante dell'uomo: ciò vuol dire che si poteva, all'interno della musica, riprodurre quegli stessi percorsi attraverso i quali l'intelligenza giunge a una determinazione logica. Così per Jankélévitch una fuga di Max Reger è «un lusso di arbitrarie e gratuite eccedenze, una profusione di falsi problemi, un imbroglio provocato dalla frode e aggravato dal malinteso» (PI, 139). Similmente troveremo un «esibizionismo delle emozioni» in Gustav Mahler e una «isteria dei sensi» in Richard Strauss, le cui audacie linguistiche «designano il limite di ciò che si può fare ritardando le risoluzioni e tendendo all'estremo il sistema tonale» (AVM, 27). Conseguentemente il musicista che rappresenta la rottura definitiva di questo sistema, Arnold Schönberg, non sfugge alla medesima diffidenza: l'audacia di Schönberg, così come delle avanguardie «massimaliste», quando diventa cronica e si risolve nell'ordine dodecafonico, si espone al rischio di «virare nella conformistica timidezza» e nella purezza professionale (PI, 181). Inoltre la sua «fobia ansiosa» nei confronti del piacere e dell'edonismo musicale non è per Jankélévitch che una forma di austerità, prossima a trasformarsi in «masochismo» (PDP, 274).

In tal senso la musica rischiava di riprodurre le complicazioni «mostruose» di cui sono capaci il genere umano e la ragione logica nell'età della decadenza. Per giunta, l'estrema razionalizzazione della tecnica e del linguaggio sembrava condurre a una pericolosa tangenza tra musica e ideologia, tra arte e politica: così ogni musicista doveva portare un pesantissimo peso di responsabilità etica per tutto ciò che avveniva nel sanguinoso teatro della storia. In effetti Jankélévitch sembra supporre che il tardo romanticismo non poteva essere immune dall'accusa di un legame, anche indiretto, con il contesto storico contemporaneo. E d'altronde l'impegno dell'artista era ormai divenuto una questione molto delicata, in quanto soggetto a collusioni, pur involontarie, ma del tutto ambigue e pericolose con il potere politico. Il fatto che Wagner abbia spesso professato il suo antisemitismo non doveva sembrare casuale a Jankélévitch, visto che tutta la ricerca musicale ed etnologica del musicista tedesco tendeva a recuperare le radici più profonde e oscure della cultura germanica, così come poco più tardi faranno i nazionalisti più convinti, siano essi filosofi, scienziati o politici. La reazione a questo spirito, dominante alla fine del XIX e all'inizio del XX secolo, non poteva dunque produrre che una sottrazione dell'espressione, del piacere e della parola musicale a ogni influenza negativa e a ogni violenza. Il desiderio di una nuova espressività, che è la caratteristica di ogni arte nei periodi di crisi storica, ha questa volta ricercato, per così dire, il proprio disincanto per evitare le frustrazioni morali del passato: l'arte dunque doveva cominciare dalla negazione di ogni forma di espressione, assumendo all'interno delle sue procedure una versione raddoppiata e fattizia delle procedure opposte.

Così la sottrazione si manifesta come travestimento: la maschera, la smorfia e l'«indifferenza affettata» sono per Jankélévitch segni dell'astrazione e dell'assenza (MI, 57). All'accademismo e al sostanzialismo musicali i musicisti cari a Jankélévitch oppongono da un lato la «musica dell'infinitesimale», del pudore quasi silenzioso, del ripiegamento intimo e della sommessa espressione brachilogica, d'altra parte accentuano il carattere estetico della finzione, mascherando la loro protesta sotto delle attitudini volutamente fastidiose: tramite la litote del «buon cattivo gusto» essi quindi si sottraggono, in modo quasi ascetico, al giudizio estetico della cultura dominante. È proprio l'ironia derivante dalla decontestualizzazione che, indirettamente e per ciò stesso più efficacemente, mina il sostrato ideologico di questa cultura. Invece di glorificare il soggetto, questi compositori preferiscono divinizzare gli gnomi e i pesciolini, i soldatini di piombo e i guitti da osteria. Invece di caricare la loro musica di concetti metafisici, si prostrano ossequiosi di fronte al vero oggetto metafisico, il mistero insondabile dell'essere e della morte.

Similmente l'esibizione del meccanismo cronometrico, tipico di musiche monotone, statiche e spesso ossessive, si oppone all'indolenza patetica e al rubato romantico, che prolunga la sonorità «in modo tanto compiacente fino all'estinzione finale» (F, 322). E la stessa violenza è in musica uno dei mezzi più efficaci per «strozzare» l'espressione, che è in realtà una violenza più sottile, in quanto ipocrita adulazione. Ciò significa che a una non-violenza sottilmente violenta si preferisce una violenza sincera, mostrata con ostentazione, la quale è maggiormente esposta alle stigmatizzazioni dei moralisti e dei benpensanti.

Per questo lo spirito di litote e l'ironia, tipici di questa musica, hanno in Jankélévitch un carattere dialettico e tragico, poiché concernono una doppia svolta, o un doppio raddoppiamento: se l'espressione esteriore del purismo nasconde la cattiva intenzione dell'impuro, a ciò non si può opporre una nuova affermazione della dignità e della purezza, perché questa affermazione, pur essendo sincera, risulta ormai contaminata. In simili situazioni si rischia di rimanere vittime di un imbroglio e di una trappola creati appositamente dal potere. Bisogna invece evitare il rischio di usare le stesse armi degli avversari e, nel fare ciò, di peccare di complicità. E d'altronde non si può rinunciare alla lotta: ciò equivarrebbe fare lo stesso il gioco del nemico, come nella resistenza la rinuncia alla violenza avrebbe significato tollerare e accogliere i nazisti. Lo spirito di litote è quindi un ulteriore imbroglio, poiché impiega il contrario non solo di ciò che si vorrebbe farci dire, ma soprattutto di ciò che si pensa che si vorrebbe farci dire, in un gioco labirintico di sottrazioni successive di verità presentate come menzogne e di menzogne presentate come verità.

Maschera e menzogna

Se si vuol preservare la verità nella sua incontaminata purezza bisogna innanzitutto proteggerla da tutti quelli che vogliono impadronirsene in modo surrettizio e salvaguardarla dalla contaminazione maggiore, ossia quella del linguaggio: ne consegue che essa non può essere profferita. D'altra parte occorre in qualche modo mostrarla, per far valere le sue ragioni ed evitare ogni forma di compiaciente solipsismo. La soluzione migliore, che è anche il male minore, consiste nel mascherarla, poiché questa volta la menzogna si pone a un differente livello, in quanto menzogna di una coscienza non menzognera e in quanto animata da una sincerità ulteriore. «Non vedo l'ora di dirvi le parole più sincere - dice Rabïndranäth Tagore, citato da Jankélévitch (MI, 62) - io non oso... Ecco perché le maschero in menzogne, dicendo il contrario di ciò che penso». La maschera serve a lasciare intatto un senso possibile di una verità nascosta, che mantiene la sua sincerità solo rimanendo silenziosa e incompiuta. Se essa si presta alle violenze del linguaggio diviene vera finzione, maschera seria e veramente ingannatrice, mostro di vanità. La finzione, per essere efficace, ha dovuto quindi elevarsi a un livello superiore, a una specie di pneumatica sovra-scena.

Si entra qui nella celebrazione dell'apparenza, nel teatro. Se il teatro tradizionale non riesce a adempiere a una funzione critica nei confronti della società e delle convenzioni, né produrre una catarsi, poiché resta rinchiuso nei limiti borghesi nei quali si trova nel XIX secolo, invece lo spirito di trasgressione di Tieck, Pirandello, Brecht, Stravinskij, instaura un «teatro nel teatro» per distruggere «l'illusoria eloquenza» man mano che la crea (PDP, 288); e i fantocci, come il Gatto con gli stivali e Petruška, non sono altro che fantocci al quadrato, «fantocci di fantocci». Così, in quanto arte della finzione scenica, il teatro ha potuto sfruttare i propri mezzi in modo esponenziale, riflettendo su se stesso, sui propri mezzi ed esasperandone la portata critica e trasgressiva.

Ma in questo discorso rientra anche la musica, perché essa è, per così dire, collusa con ogni sorta di inganno, di gioco arbitrario e contraddittorio, di maschera e di travestimento, ma anche con le verità più profonde: la musica, come dice Jankélévitch, «rivela il senso del senso sottraendolo, e viceversa lo rende volatile e fugace nell'atto stesso con il quale lo rivela» (MI, 63). Certo, ogni verità ha bisogno del linguaggio, ma una volta constatato che ogni espressione linguistica ha raggiunto la saturazione e che il suo impiego è divenuto ormai ambiguo e quasi patologico, non resta che rifugiarsi in un linguaggio che sappia sfuggire al vizio della compiacenza e alla rigidità della logica.

Solo la musica riesce a rispondere a quest'esigenza, perché il suo linguaggio è flessuoso e paradossale, oscillante e ambiguo: essa può dire e nello stesso tempo non dire, affermare e negare, passare improvvisamente da un estremo all'altro, dalla magniloquenza alla brachilogia, dall'inespressivo all'espressione, dal solenne al banale, ecc. Inoltre può rendere queste opposizioni co-presenti e conciliabile l'inconciliabile. Così essa può divenire il linguaggio dell'ironia e dell'humour, perché può esprimere una cosa e nel contempo un'altra; può rinviare a un senso nascosto dietro l'apparenza pur senza mostrarlo; essa possiede l'espediente dell'allusione, dell'inganno leggero e sviante, che ha l'immenso potere di mettere fuori causa i malvolenti e di invitare i disponibili a percepire una possibile coerenza e un possibile valore.

In tal senso la musica è un'arte indiretta e reticente: sta a noi saperla interpretare nei suoi camuffamenti imprevedibili. In Ravel, per esempio, «l'affettazione dell'indifferenza è una maschera, come la simulazione allegorica o la simulazione contraddittoria» (R, 155); per Jankélévitch il musicista francese ha esibito una tecnica, una perfezione strumentale e delle difficoltà sempre più complesse, per ostentarle come artificio esteriore, come copertura di una semplicità accessibile solo in modo obliquo. Anche Gabriel Fauré, ponendosi in contrasto con le «musiche della soavità» e le approssimazioni del rubato, preferisce apparire difficile, «esigente, ingrato, accanito nel non voler piacere», fino a divenire rigoroso e probo: in tali condizioni, dice Jankélévitch, il conformismo «non è che un alibi sottile dell'ermetismo», poiché per reagire al piacere avvilito dall'arte borghese bisogna opporre un «piacere segreto», pur se «inclemente», «un piacere difficile che bisogna meritarsi» (F, 269). Dal canto suo Stravinskij si diverte a cambiare sempre le carte in tavola sotto lo sguardo dei sapienti, di coloro che cercano di individuare in lui uno stile e una coerenza. Questo «uomo diabolico» va al di là di ogni tentativo di classificazione e di definizione, e perciò mostra quell'estrema duttilità che è cifra degli spiriti superiori (I, 73). Stravinskij e Satie hanno in comune secondo Jankélévitch una simile «passione nel rinnegare e smentire» (PDP, 287), un'identica mania di mistificare e di «convertirsi». Non si riesce mai a localizzare questi musicisti: essi hanno sempre un alibi, sono sempre altrove.

Virtuosismo e compiacenza

Ma la musica contiene pur sempre una tentazione all'amplificazione espressiva, che è quindi una più grave forma di compiacenza. Per il fatto di essere un'arte fluida e malleabile essa si espone al rischio della pericolosa oscillazione verso il contrario della reticenza e della brachilogia. La libertà di poter dire senza concludere un discorso e di restare sempre in una condizione perpetuamente preludiante e incompiuta porta il musicista ad approfittare dei propri mezzi e a far riverberare su se stesso l'ipertrofico e sterile sfruttamento del linguaggio. Inoltre l'affinità della musica con l'apparenza e la teatralità fa sì che la scena divenga pura ostentazione di tecnica, affettazione di gesti ed esibizione di propensioni. In questo modo il solista si pavoneggia, come un acrobata o un istrione, rendendo se stesso e la musica oggetto d'applauso: «Non ascoltatemi... Guardatemi!», sembra volerci dire (L, 127).

Ci si stupisce in effetti che un musicista magniloquente come Franz Liszt possa trovare in Jankélévitch la stessa considerazione di un musicista pudico come Debussy, o anche che nello stesso ambito estetico trovino ugualmente posto l'esuberanza di Sergej Rachmaninov e la timidezza di Federico Mompou o di Déodat de Séverac.

In primo luogo la musica per Jankélévitch è l'arte dell'ostentazione e della fascinazione. Ciò potrebbe fornire la sponda agli idealisti per disprezzarla: se l'esteriorità è un niente, allora la musica, in quanto arte dell'apparenza, non ha alcun valore. Ma, risponde Jankélévitch, persino il filosofo platonico non può negare al semplice fatto di apparire un ruolo privilegiato, senza il quale l'essere e l'idea non potrebbero mai manifestarsi. Perciò così conclude: «L'apparenza non è un niente, l'apparenza è pur sempre qualcosa; l'apparenza è almeno ciò che essa è!» (L, 148), ossia essa ha un valore quodditativo insormontabile; il fatto semplicissimo di apparire non può mai essere trascurato. D'altra parte l'ostentazione dell'ostentazione comporta qualcosa di morboso, un'ambigua compiacenza che supera il semplice e innocente desiderio di mostrare le proprie qualità. Come l'ostentazione di valori così l'ostentazione dell'assenza di valori può divenire sospetta di ipocrisia malevola, il cui fine sarebbe di imporre dei controvalori.

Nella filosofia di Jankélévitch si possono riscontrare due poli dell'io: quello forte della compiacenza e l'io come ipseità, ossia l'io serio e sincero, solo di fronte alla morte. Il primo ama raccontare se stesso, l'altro preferisce ascoltare il racconto della natura, quello che raccontano il vento dell'Ovest e le colline di Anacapri. [1]Ci si chiederà allora qual è la soglia a partire dalla quale i musicisti del virtuosismo possono rimanere in equilibrio senza cadere nel baratro dell'esaltazione delirante del loro proprio ego. Vi è un punto liminare in cui l'apparenza può mostrare se stessa, senza cadere in un'autoglorificazione e nel vizio della compiacenza. «La coda del pavone - dice Jankélévitch - è sicuramente un vano sfoggio di piume... E tuttavia, in un certo senso, questa vanità che non vela alcun pudore significa qualcosa! Quella coda ha il suo segreto, quel bluff ha il suo mistero...» (L, 150). È un sottilissimo margine in cui l'incanto delle forme esteriori, dell'arabesco senza finalità, dei colori sgargianti di un abito e di un piumaggio, quindi del fenomeno in sé mantengono un valore intrinseco non riducibile a un'idea trascendente.

Vedremo più oltre come il tema della temporalità musicale risponda in modo esaustivo al problema in questione; sarà anche la risposta all'ultima figura della dissimulazione musicale, che ci accingiamo a esporre.

Confusione e Notturno

Un altro motivo di stupore nella filosofia della musica di Jankélévitch è l'adesione pressoché completa all'estetica antiromantica di inizio XX secolo e nello stesso tempo l'attenzione a molteplici aspetti del romanticismo musicale e letterario, come la poetica dell'indistinto e del notturno. Per comprendere quest'apparente contraddizione occorre anche in questo caso fare una distinzione tra due differenti aspetti dello stesso fenomeno; occorre cioè distinguere tra una metafisica della notte, appannaggio del tardo romanticismo tedesco, e una concezione debole e pudica dell'oscurità, propria di scrittori e musicisti più marginali. Da un lato ci troviamo di fronte all'esaltazione di una mitologia mirata a fondare legami ancestrali e a giustificare un'ambigua ideologia, dall'altro abbiamo un senso della notte del tutto innocente, fantastico e infantile, tipico delle fiabe e della lirica interioristica. Qui ritroviamo sia la poesia di Novalis e di Tieck sia la musica di Schumann e di Chopin.

In primo luogo questa poetica si collega con molti aspetti filosofici e gnoseologici: la notte è il luogo in cui ogni forma perde i suoi contorni ben delimitati e ogni conoscenza i suoi caratteri determinati. All'evidenza acuta della filosofia cartesiana Jankélévitch oppone la teoria dell'identità assoluta di Schelling, il soggettivismo di Maine de Biran, l'estetica dell'indivisibile e della «divina confusione» del romanticismo, in cui il soggetto non è più un polo di chiarezza e di distinzione ma è mischiato con l'oggetto, come la coscienza lo è con la natura, la libertà con la necessità. Nessuna legge, nessun criterio preciso regola un permanente stato di caos e di relativismo (PI, 164ss.). Ogni sistema di riferimento perde il suo preteso assolutismo.

Ne consegue che una simile metafisica conduce a un elogio dell'irrazionale e un «appello alla non-ragione» (MH, 224). Ma non bisogna prendere quest'espressione alla lettera. Il confusionismo è una reazione alla visione chiara e apollinea del platonismo e allo spirito di geometria delle filosofie illuministe, cioè alle pretese del razionalismo e a quelle visioni del mondo basate su principi ritenuti statici ed eterni. Ma sarebbe troppo facile opporre a tutto ciò il nulla dell'oscurità assoluta e la notte della non-ragione: sarebbe di nuovo un assolutismo a rovescio. È precisamente il caso del romanticismo wagneriano o anche di ogni nichilismo massimalista e di ogni filosofia dell'angoscia e della disperazione. Similmente la distruzione del sistema tonale, creando un nuovo sistema (dodecafonico), vuole opporre a un assoluto positivo un assoluto negativo, ma si tratta pur sempre di un assoluto. È questa una «confusione esponenziale», una frenesia che «porta l'ambiguità al suo colmo» e che per Jankélévitch ha un solo nome: ipocrisia (PI, 160). In tal senso l'arte contemporanea, ponendo l'alternativa tra astrazione e figurazione, rivoluzione e reazione, pecca dello stesso vizio del massimalismo, poiché pone le sue questioni in modo brusco e senza alcuna via d'uscita.

Invece i musicisti, i pittori e i poeti della confusione non propongono alcun «sistema» della confusione, né disdegnano di usare la tonalità e la figurazione. Il loro «confusionismo» si pone al di là dell'alternativa dualista. Innanzitutto essi accettano la natura mista e «impura» del linguaggio e dei mezzi tecnici che impiegano. Inoltre in loro la confusione non è per niente un rifiuto assoluto della comunicazione, come dell'espressione e del piacere; al contrario, nella condizione impura dell'approssimazione vi è una fecondità rinnovata, che è possibilità di creazione e soprattutto temporalità. La confusione diviene allora la condizione di una forma di conoscenza particolare e una maniera differente di approcciare la realtà, tanto che Jankélévitch parla per l'appunto di «metafisica della confusione» (MH, 226ss.).

In ciò egli è vicino alla filosofia bergsoniana, laddove Bergson considera l'intuizione la più vicina e più chiara conoscenza della durata, benché essa sia del tutto differente dalla chiarezza cartesiana e positivista. In La pensée et le mouvant e altrove il filosofo ha rimarcato la differenza con i concetti dell'idealismo, da lui considerato troppo vaghi e ipotetici. L'intuizione invece può «riafferrare la realtà nella mobilità che ne è l'essenza». Di conseguenza l'intuizione è coscienza, «ma coscienza immediata, visione che si distingue appena dall'oggetto osservato, conoscenza che è contatto e persino coincidenza». Sottolineando il carattere confusionista e nel contempo molto forte di questo genere di conoscenza, così egli continua: «Si tratta altresì di una coscienza allargata, la quale pressa sul bordo di un inconscio che cede e resiste, che si arrende e si riprende; attraverso delle rapide alternanze di oscurità e di luce, essa (l'intuizione) ci fa constatare che l'inconscio è presente; contro la stretta logica essa afferma che per quanto lo psicologo possa essere cosciente, vi è almeno un inconscio psicologico». [2]

La «confusione» allora acquisisce un significato ulteriore, ossia una chiarezza superiore che tiene conto, come fa la musica, sia dell'oscurità inconscia che della lucida prospettiva sul reale.

Temporalità

È soltanto nel tempo, all'interno del quale l'intuizione si articola, che potremo trovare un'apertura al possibile, una rivelazione e una forma ulteriore di chiarezza. Rifacendosi, oltre che a Bergson, all'ultima filosofia di Schelling, Jankélévitch sottolinea che è nel movimento con il quale le cose salgono progressivamente dall'informe alla luce, e non nella luce in se stessa, che si potrà trovare la tensione che dà slancio a ogni creazione (OC, III). Ciò che è importante è la forza sorgiva e non il suo risultato stabilizzato, che oppone dualisticamente causa ed effetto, soggetto e oggetto. È solo cambiando il nostro statico punto di vista e ponendoci nel flusso della temporalità che noi potremo cogliere la particolare realtà della mutazione, la quale non è assenza o degradazione della verità, ma piuttosto una verità di segno diverso. Per questo la confusione, nel suo saldo legame con la temporalità, non può essere sottovalutata: nel tempo gli oggetti perdono i loro limiti e la precisione della loro configurazione; d'altra parte il tempo è anche una struttura capace di dare una forma persino all'informe. Il tempo è la relazione tra forma e informe, confusione e distinzione.

Si può parlare così di una struttura non spaziale, fluida, instabile, ma pur sempre struttura, ossia base di conoscenza. Il fondamento (quello che in Schelling è il Grund) è la radice oscura dell'esistenza, il passato che instaura con il presente una relazione dinamica, non un semplice rapporto di causa-effetto. Il presente deve svincolarsi dagli ostacoli che il passato gli pone, e per far ciò deve opporgli una «forza ascensionale» (OC, 21). Se il passato è il germe del presente, il presente è il germe del futuro. Similmente, nell'Idealismo trascendentale il ragionamento, il giudizio e il concetto non sono termini separati di una logica meccanica o dialettica, ma delle preformazioni reciproche di un'unità vivente del pensiero.

La particolare struttura del tempo coincide allora con una continua crescita, una maturazione costituita da «salutari negazioni ed energiche contraddizioni» (OC, 26). I conflitti, le sconfitte e le vittorie scandiscono il divenire e «lo articolano in periodi determinati» (OC, 24). Questa determinazione non possiede la necessità tipica dello sviluppo speculativo, ma ha un carattere del tutto organico. La direzione, la lunghezza non sono delle tendenze assolute o riducibili a delle cifre aritmetiche, ma determinano la qualità concreta del tempo, che è apertura al possibile e sempre soggetta all'imprevedibilità degli eventi. La durata, in quanto animata dallo spirito d'avventura e dal rischio del nulla, è per Jankélévitch «drammatica». Essa può cadere nella noia dell'inerte monotonia degli istanti e nel tempo indifferenziato. Ciò avviene quando lo slancio vitale si cristallizza in ripetizione meccanica o nella compiacenza dei propri mezzi tecnici. Sarebbe questa una forma di morte che si crede viva e una maniera neutra di seguire il corso del tempo. Nella durata dinamica invece il nulla agisce come sollecitazione vivificante, grazie alla quale le «energiche negazioni e le acute contraddizioni» si «fondono a ogni istante» (OC, 29); qui la discontinuità non è più incoerenza, poiché anche nell'interruzione il tempo non sparisce, ma rimane presente e attivo come libera germinazione di possibili.

Tutte queste caratteristiche del tempo scongiurano il pericolo del «letargo», vale a dire la morte cessazione dello slancio creativo e la ripetizione inerte e compiaciuta dei mezzi espressivi. Infatti il perpetuo rinnovamento intrinseco alla temporalità impedisce al creatore di vivere di rendita e di imborghesirsi. E questo è dovuto soprattutto all'altro carattere del tempo: l'irreversibilità. Il movimento irreversibile rende impossibile qualsiasi forma di flessione sul passato, che secondo Jankélévitch è sempre un «ripiegamento sul proprio interesse» e sull'io compiacente (IN, 201). L'attività creatrice invece non imita mai i propri atti, evitando così di diventare manierismo, ma disillude ogni attesa conformistica e formale; d'altra parte essa non contrasta il divenire, ma «conferma liberamente ciò che l'irreversibile ha già affermato» (IN, 203), cioè l'impossibilità della ripetizione letterale nella pura temporalità (quodditativa). Da ciò segue che, così concepita, la creazione rifiuta il tempo morto della ripetizione e aderisce completamente a una temporalità superiore in cui il ripetuto costituisce sempre una novità.

Tornando alla musica, è vero che essa crea delle figurazioni indeterminate, in particolare quando è rapsodica e improvvisata. Ma è altrettanto vero che anche la struttura più libera e fantasiosa rimane una struttura; inoltre, nel caso della composizione musicale, questa struttura è già temporalità, sviluppandosi essa necessariamente nel tempo. Se il compositore crea un pezzo fortemente sconnesso, anche puntillista, tale discontinuità formale non esclude certo una fondamentale continuità, nella quale si sviluppa lo slancio della creazione. Tutte le interruzioni e le fratture non sono assenze neutre, ma germogli di azioni e di gesti musicali proiettati nel futuro.

Quello che Jankélévitch chiama «regime della serenata interrotta» chiarisce allora l'aporia tra la temporalità statica e la temporalità fluente. Se è vero che il carattere sconnesso di certi preludi di Debussy è nettamente opposto alla fluidità delle composizioni dii Gabriel Fauré, dal punto di vista della temporalità quodditativa ci troviamo di fronte ugualmente a un tempo che liberamente alterna tra loro eventi musicali anche disparati ed eterogenei, compresi i silenzi e le interruzioni. D'altronde Fauré e Debussy, benché molto differenti e quasi agli antipodi, per Jankélévitch oppongono al patetismo romantico rispettivamente l'«equanimità» di una temporalità regolare e uniforme (F, 321-322) e la «decomposizione del tempo oratorio» o l'immobilità (DM, 40).

Come si è detto, la temporalità risolve anche l'aporia del virtuosismo: vi è la pura performance tecnica, la mera meccanica digitale, atta a soddisfare il narcisismo del solista e la brama del pubblico, e vi è un «virtuosismo poetico», in cui l'immaginazione tecnica «rinnova in modo inesauribile i giochi e i capricci della trascendenza virtuosa» (L, 158). Se il virtuosismo compiaciuto ha un carattere statico, poiché esso non fa progredire l'immaginazione, il virtuosismo poetico ha un carattere del tutto temporale.

In primo luogo esso opera nell'instabilità del movimento. L'improvvisazione è costituita da istanti pericolosi nei quali il virtuoso mette in gioco le sue attitudini e viene a trovarsi in una «situazione avventurosa», «fluente e irriducibile ai concetti», cioè indifferente ai calcoli razionali di una previsione sicura e determinata. Qui l'imprevedibile è sempre in agguato e il successo «dipende in parte dal rigore e dall'abilità, in parte dalla fortuna e dalla grazia» (L, 164). L'improvvisatore è padrone assoluto di un tempo che egli può rallentare e accelerare del tutto liberamente: «In quei momenti in cui la cronometria si allenta, al virtuoso è concessa ogni licenza di realizzare fuori del tempo gli exploit più audaci, e noi gli siamo di fronte come spettatori ansimanti nel corso di una pericolosa acrobazia» (MH, 81). D'altra parte il virtuosismo opera nell'inconsistenza del divenire. Il fascino dell'improvvisatore consiste nella fugacità di tutte le figurazioni che egli crea all'istante, nel fatto che egli non le ripeterà più, e che anche una ripetizione inaugurerà sempre una situazione completamente nuova. Inoltre nella performance del virtuoso ci sarà sempre un margine di incertezza che farà del suo recital un avvenimento memorabile. È questa precarietà, questa apertura al rischio e persino al fallimento che dà al virtuoso quasi un alone di santità: si tratta di una virtù conquistata con il tempo e non esibita con compiacenza.

E infine, anche la ripetizione può essere considerata sia un'insulsa riproduzione sia una nuova occasione di creazione. L'imitazione di un autore e di uno stile può essere servile, fedele nella lettera, frutto di erudizione libresca. Secondo Jankélévitch questa forma di fedeltà non è che «un alibi ipocrita dell'infedeltà». Si fa sfoggio di formule e di idiomi al fine di mascherare la surrettizia esaltazione del proprio io e della propria compiacenza. Invece una fedeltà «secondo lo spirito» non rifà semplicemente ciò che un autore aveva scritto, ma fa come egli aveva fatto, riproduce lo spirito di libertà e di movimento, non il risultato esteriore. Come Stravinskij in rapporto a Cajkovskij, o De Falla in rapporto ad Albéniz, tali musicisti dimostrano maggior fedeltà ai loro maestri per il fatto che hanno veramente compreso la loro musica, anche trasformandola dal punto di vista linguistico.

La temporalità allora segna una netta demarcazione tra una finzione infelicemente bugiarda e una menzogna felicemente feconda. Vi è la temporalità della retorica, dell'espressione verbosa e della magniloquenza, e vi è la temporalità tutt'altra della virtù, del coraggio e della pazienza. La temporalità della verve, dell'improvvisazione e del virtuosismo musicale è il legame tra le due, perché essa sfrutta le risorse del linguaggio ma a fin di bene, disdegnando la facilità e la mediocrità, ma al contrario cercando con ansia la vera virtù. Il tutt'altro ordine della temporalità riesce così a spiegare le apparenti contraddizioni del pensiero di Jankélévitch: tra rifiuto della sincerità e difesa della vera sincerità; e, in musica, tra pudore e virtuosismo. La verità, la sincerità, la purezza non sono opposte all'impurità e alla menzogna, ma si trovano in un ordine differente in cui il cattivo che vuole la felicità è preferibile al buono che favorisce l'infelicità.

In tal senso ora potremo individuare i modi in cui la musica, una volta attraversato l'accidentato percorso delle negazioni e degli ostacoli più insormontabili, saprà trovare, come la coscienza morale, un senso possibile alla propria esistenza.

Aspetti tecnici

Temporalità e finzione hanno una correlazione all'interno della tecnica musicale impiegata dai compositori? È possibile che i mezzi tecnici, le formule, gli idiomi linguistici - che abbiamo fin qui considerato secondari nell'arte musicale di questi compositori - siano investiti di una funzione così importante? A queste domande si può rispondere risolvendo il problema di quel duplice raddoppiamento che abbiamo visto caratterizzare la musica nella sua relazione con la metafisica.

Se l'arte borghese aveva esaltato l'autonomia del sentimento e dell'espressione in rapporto alla tecnica e al linguaggio, una reazione a quest'arte doveva impadronirsi esattamente di ciò che essa aveva rifiutato. Se l'avversione nei confronti della tecnica era sospetta di una mistificazione maggiore di un'analoga glorificazione, allora l'avversione contro quell'avversione avrebbe potuto rimettere la questione in gioco, evitando il rischio di cadere nell'avversione contraria. Ecco quindi che la reazione al romanticismo dei musicisti «jankélévitchiani» passa anche attraverso una riabilitazione della tecnica musicale. Ravel, Stravinskij e Fauré, come abbiamo visto, cercano spesso l'artificio, la difficoltà e la forma per ritrovare una dimensione musicale libera da ogni falsa espressione. Soprattutto Stravinskij diceva di trovarsi a suo agio solo all'interno degli stretti argini di un formalismo che egli stesso si autoimponeva. D'altronde i «virtuosi» Liszt, Albéniz e Rachmaninov basavano la loro pratica e le loro sgargianti improvvisazioni su un eccezionale controllo della tecnica digitale. Inoltre lo spirito di chiarezza e persino ascetico che anima il neoclassicismo di Debussy, Ravel, Stravinskij, Poulenc, ecc., ha trovato nel rigore, spesso accademico, un insostituibile antidoto all'imprecisione romantica.

La tecnica musicale, quindi, costituisce un valore non trascurabile di tutto ciò che questi musicisti rappresentano agli occhi di Vladimir Jankélévitch. Ma gli elementi che ora cercheremo di delineare brevemente costituiscono anche dei mezzi necessari per dare alla musica i suoi caratteri di duttilità, leggerezza e ironia che abbiamo considerato essere fondamentali a livello metafisico.

Armonia. Ci accorgiamo per esempio che dal punto di vista armonico esiste una specie di espediente atto a evitare appositamente il ricorso al settimo grado della scala tonale (ossia la sensibile: il Si naturale in tonalità di Do maggiore). La sensibile è il grado che conduce necessariamente alla tonica, è la sua conclusione «logica»: rispondendo a quest'esigenza linguistica il compositore aderisce a una concezione della musica come discorso e come eloquenza. Invece l'abbassamento della sensibile (la bemollizzazione del Si in tonalità di Do maggiore), tipica delle scale modali ed «esotiche», rivela per Jankélévitch un'«intenzione pudica» (F, 274): si resiste all'attrazione della tonica superiore e, per ciò stesso, si fa una specie di esercizio ascetico di privazione di un piacere troppo facile e a portata di mano. La curiosità di Rimski-Korsakov nei confronti dei modi antichi e del pluralismo modale produce un vero e proprio «regime dell'ambiguità» (MH, 150), mentre in Maurice Ravel vi è la completa indifferenza del settimo grado, al punto che egli innalza spesso la nota sensibile in modo evidentemente affettato e quindi ironico. Tutto ciò riassume per Jankélévitch una «volontà di impassibilità» che «dà alle cadenze raveliane la loro patina inimitabile, il loro fascino fatto insieme di ritegno e di falsa rigidità» (R, 122-123).

Similmente alla relazione sensibile-tonica un altro dogma del sistema tonale riceve una netta smentita da questi musicisti: è il dualismo tra tonalità maggiore e tonalità minore, che d'altronde trova il suo supporto nell'alterazione della sensibile. La loro differenziazione rende il discorso musicale chiaro e precisamente orientato, al punto che un pezzo si caratterizza, dall'inizio alla fine, in virtù della definizione di una di queste tonalità. È evidente allora che un rifiuto di questa chiarezza porta il corso del tempo a una situazione di ambiguità e di «amfibolia», nonché di indecisione, dovuta al fatto che una direzione precisa è stata abbandonata, o almeno procrastinata. L'oscillazione del terzo grado, per l'appunto il grado modale che determina la tonalità maggiore o minore, serve così a confondere i contorni dell'armonia e a sottrarre le forme musicali alla loro rigida strutturazione.

La modulazione - ossia il cambiamento di tonalità - è anche un procedimento tipicamente tonale e scolastico. Essa serve proprio a orientare il discorso armonico in direzioni generalmente già preformate. Ma un impiego particolare di questo stesso procedimento può invece deviare tale percorso, spiazzare la comprensione consueta della musica, produrre un senso di smarrimento e di estraneità. La modulazione enarmonica in particolare causa una specie di malinteso, un equivoco dovuto alla simultaneità di due interpretazioni armoniche differenti e ugualmente plausibili di una stessa nota: questa nota diviene il fulcro di una metamorfosi paradossalmente impercettibile, di una mobilità «stazionaria» (MH, 144) o di uno «scivolamento immobile» che «ha già in se stesso qualcosa di soporifero» (F, 350).

Il livello massimo di questa instabilità tonale si raggiunge quando i gradi della scala perdono tutta la loro tensione interna: è questa la condizione della scala esatonale, i cui paradigmi sono il preludio Voiles e Pour un tombeau sans nom (II delle Épigraphes antiques) di Debussy. La particolarità di questa scala è che tra i diversi gradi vi è un'equidistanza assoluta, cioè l'ottava si rivela perfettamente divisa in parti uguali. Di conseguenza, contrariamente a quanto succede all'interno della scala tonale, ogni grado ha un'identica funzione rispetto agli altri e nessun tono è privilegiato. È per questo che un impiego sistematico di questa scala produce una completa assenza di direzione, di polarizzazione e di contrasto, nonché un senso di immobilità, di «stagnanza» e quindi una certa sottile inquietudine.

Altro procedimento armonico che genera una simile impressione di immobilità è il pedale, cioè il prolungamento di una nota, di solito bassa, nonostante il cambiamento delle armonie concomitanti. Lo si ritrova spesso in Debussy, per esempio in Voiles, per creare una specie di orizzonte sonoro sul quale si succedono le più diverse situazioni. La permanenza, spesso ossessiva, del pedale in Albéniz può rappresentare la fedeltà alla patria perduta, mentre in Borodin la nostalgia di una terra lontana (PL, 39-40). In Ravel invece i pedali sono piuttosto «l'idea fissa, l'immobile assillo, l'ossessione lacerante che aumenta al massimo la tensione nervosa» (MH, 234), mentre in Satie il continuo pedale che si ascolta nel Socrate accompagna il passaggio dalla vita alla morte e allude persino alla «fissità» dello sguardo di Socrate, alla «immutabilità dell'intemporale» (MH, 36).

In quanto anticipazione della nota conclusiva del pezzo, il pedale può in effetti essere paragonato a una premonizione funesta dell'istante mortale, ma in particolare esso è accostabile per Jankélévitch all'inclinazione verso l'inconscio e verso il sonno tipica dello spirito del notturno. In Chopin infatti coincide con una «fascinazione ipnotica» quasi completa, che non è «impegno ferreo», ma «dolce e persuasiva induzione al letargo» (MH, 234); inoltre, in virtù della liquefazione dei ritmi e delle misure, conduce alla fusione della metronomia e di ogni rigida strutturazione temporale.

Decisiva per dare valore e significato a pure formule tecniche è la combinazione di elementi materiali differenti e contrastanti, anche se piccoli e minimali. Da questo punto di vista gioca un ruolo importantissimo la dissonanza. Lungi dall'essere considerata il fulcro della dissoluzione del sistema tonale a favore di un altro sistema ancor più rigido (come il dodecafonico), la dissonanza è per Jankélévitch un elemento di corrosione e di trasgressione, che mantiene la sua efficacia solo se inserito all'interno del sistema di riferimento.

Si può dire che la dissonanza stia alla consonanza come l'ostacolo sta all'organo: l'una ha bisogno dell'altra per affermarsi e non hanno, prese in se stesse, alcuna consistenza. Per esempio in Rimskij-Korsakov, il quale non ha mai rifiutato la tonalità, le dissonanze non sono mai troppo serie, in quanto rinviano in modo del tutto fluido alla loro risoluzione. In questa maniera, alla sua apparizione una consonanza può presentarsi «gioiosa e primaverile» e non semplicemente come una neutra risoluzione linguistica. Da parte sua Ravel conserva sempre la nostalgia del sistema di riferimento, in modo da giocare con una «risoluzione continuamente differita», mantenendo così attive le tensioni tonali e potendo nello stesso tempo contraddirle con una sovrapposizione di tonalità differenti (R, 115-116).

In ugual modo la sesta aggiunta, pur non essendo una dissonanza, rappresenta sempre un elemento di destabilizzazione temporale, creata dal contatto tra il sesto grado - il grado «debole» della scala - e la quinta giusta - grado «forte», in quanto dominante della tonalità. Per questo Jankélévitch denomina l'armonia così prodotta «consonanza indecisa» o « consonanza appena dissonante» e «dissonanza quasi consonante» (PL, 113). Essa produce una vibrazione particolare della materia sonora, una specie di bruma in cui non è più agevole accorgersi se il tempo si sia fermato o se sia ancora in moto.

Ritmo e tempo. Ma l'impressione di indecisione e di instabilità si ha anche in relazione al ritmo e al tempo (inteso qui come tempo strettamente musicale, della divisione in battute). Tra gli altri, è soprattutto in Ravel che si può riscontrare una capacità di creare l'illusione, l'equivoco e la decezione in senso ritmico: e ciò avviene nel momento in cui egli inserisce accenti binari in un regime ternario (Sonate) o, inversamente, degli accenti ternari in un regime binario (II movimento del Concerto in Sol). Altrove il ritmo ha il potere di produrre un'atmosfera di sospensione, esitante e persino «labirintica» (Fuga del Tombeau de Couperin), grazie a una semplice e «lieve sfasatura dei valori» (R, 110). Da parte sua Debussy alterna e sovrappone il tre al due e il due al tre per rendere il ritmo molle, ovattato e quasi impalpabile.

La libertà con la quale un compositore agisce gli consente di imporre al tempo musicale tanto delle oscillazioni rapsodiche quanto un moto regolare, simile a un «motore», opposto al languore sentimentale del ritardando romantico. Invece la lassezza è per Jankélévitch un pretesto della «ruminazione» introspettiva che si attarda compiaciuta nella nostalgia del passato (IN, 171). Impadronirsi in modo deciso della regolarità ritmica significa allora per il filosofo francese una propensione alla lucidità e alla sincerità. Perciò egli accetta sia le fluttuazioni del rubato chopiniano e debussiano sia l'oggettività della «crononomia» stravinskiana.

Vi è però una particolare tecnica pianistica che ben rappresenta l'ambiguità e la contemporanea presenza di due principi opposti: si tratta dello stile della melodia accompagnata, in cui la mano sinistra esegue con regolarità un arpeggio sull'armonia mentre la destra può librarsi nei passaggi più contrastanti e negli arabeschi più sfavillanti. Ma soprattutto essa può contraddire persino il tempo stabilito dalla battuta e che la mano sinistra riproduce in modo servile. Per Jankélévitch questo contrasto assomiglia all'oscillazione della coscienza morale, tesa tra la tentazione di approfittare della sua libertà e la cattiva coscienza della compiacenza sempre in agguato. «La sinistra è la cattiva coscienza della mano destra», dice a proposito di Chopin e Fauré (F, 256), dato che se la tenerezza e l'espressione lirica possono svolgersi nella melodia, l'accompagnamento riconduce ogni soggettivismo musicale al rigore della precisione e all'«arida probità» del tempo; in tal modo esso rappresenta il lato ironico del ritmo e dell'espressione musicale.

Timbro e sonorità. All'ipertrofia e all'enfasi orchestrale dei grandi sinfonisti di fine-secolo - Wagner, Mahler, Bruckner, Strauss - i compositori jankélévitchiani oppongono un pudore costituito da timbri ovattati e sonorità quasi impercettibili.

Già gli staccati e i pizzicati della «serenata interrotta» sono gli efficaci strumenti atti a interrompere l'espansione sonora nel tempo e ridurre i suoni in frammenti minimali. Le indicazioni scritte sul rigo musicale impongono a ogni interprete una capacità pressoché impossibile ineseguibile di attenuare l'intensità fino all'imponderabile digitale. D'altronde, per frenare la retorica del grande pedale pianistico molti compositori preferiscono la modestia del terzo pedale (sordina).

Tuttavia con ciò le sonorità non spariscono e il risultato non è un'assenza di suono, di canto e di vigore. Per Jankélévitch «impercettibile» non significa affatto «non percepire niente». E se le indicazioni del rigo sono spesso ambigue e contraddittorie (dolce ma sonoro, presque rien, forte con sordina, pppp possible, ecc.) è perché questi musicisti «giocano pericolosamente con il nulla... senza mai annientarsi in esso». «Al di là di questo limite del quasi-più-niente non c'è in effetti più niente. È il quasi che si tratta allora di preservare; questo quasi è l'ultimo filo che ci lega alla vita...» (PL, 47).

Dopo ogni sorta di camuffamento, di mascherata, di ironia e persino di silenzio, resta quindi sempre un limite infinitesimale all'espressione, al senso, al piacere e alla verità, che non hanno bisogno di grandi frasi né di orchestre gigantesche. Se la musica tende al silenzio non è certo per divenire muta e afasica, come vorrebbero i veri nemici della verità, ma è per sussurrare una confidenza alle «orecchie fini e alle anime attente» (MH, 71): è una piccola confidenza, forse banale, ma che può contenere qualcosa di importante per la nostra vita.

Note

[1] Riferimento a due Préludes di Claude Debussy, Ce qu'a vu le vent d'Ouest e Les collines d'Anacapri, del vol. I

[2] Henri Bergson, Śuvres, cit., pp. 1272-1273
 
 

  I,2
 II,2 
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