PARTE TERZA

CAPITOLO PRIMO

LA FENOMENOLOGIA DELLA MUSICA DI JANKELEVITCH


«La prego, esageri piuttosto
la triste e straziante tristezza di Golaud...
dia l'impressione di tutto quello che egli rimpiange
di non aver detto,
di non aver fatto...
e tutta la felicità che gli sfugge per sempre»

Claude Debussy
(a H. Dufranne, durante una prova del
Pelléas et Mélisande nel 1906)


 
 Finora abbiamo seguito un percorso teorico particolare, basato sul passaggio dalla finzione al disincanto e da questo alla scoperta di un possibile senso della musica; esso ci ha consentito di comprendere anche le profonde motivazioni che animano il pensiero filosofico di Vladimir Jankélévitch. Ora invece seguiremo un cammino diverso, benché complementare: prenderemo in esame i musicisti che si collegano al pensiero del nostro filosofo. Da un certo punto di vista si tratterà di un semplice elenco utile da consultare, ma dall'altro la loro successione non sarà per nulla casuale, in quanto ognuno di questi compositori rappresenterà una figura fenomenologica, iscritta in un contesto filosofico coerente e significativo.

Gabriel Fauré, o la mobilità

In un certo senso la musica di Gabriel Fauré ha la priorità negli interessi musicali di Jankélévitch; infatti il suo primo saggio musicologico, del 1938, s'intitola Gabriel Fauré et ses mélodies, ripreso poi nel 1974 in Fauré et l'inexprimable. Si tratta però di una priorità non solo cronologica. Jankélévitch infatti è cosciente della grande importanza dell'arte faureana, visto che si sofferma nell'analisi musicale in modo più puntuale rispetto agli altri musicisti. Ma si tratta di un'analisi immanente, volta a far emergere i «concetti» della musica senza farle violenza e senza cadere in un'arbitraria interpretazione. Fauré è per Jankélévitch il musicista dello charme, del pudore e dell'equanimità; essendo lo charme l'inesprimibile per eccellenza, la musica del compositore francese rappresenta la condizione essenziale di ogni musica, al di là di questioni di stile o di linguaggio.

Ciò che emerge in primo luogo dalla musica di Fauré è per Jankélévitch la temporalità fluente e la continuità, che fanno della melodia un'unità determinata. In Fauré le note hanno «un certo modo di incatenarsi, di annodarsi che non assomiglia a nessun altro» (F, 32). Spesso il filosofo sottolinea il carattere bergsoniano di questa temporalità; lungi dall'essere una mediazione discorsiva o una cristallizzazione spaziale, la continuità faureana «è piuttosto l'eterogeneità del divenire», la cui unica mediazione è di tipo sentimentale: «Essa è quella conversione graduale dei sentimenti o delle qualità che maturano e si trasformano per un processo del tutto spontaneo» (ib., 269). Così essa assomiglia alla continuità dei dati immediati della coscienza, la cui successione crea l'unità della dimensione temporale: «La durata del tutto pura - dice Bergson in un celebre passo - è la forma che prende la successione dei nostri stati di coscienza quando il nostro io si lascia vivere, quando si astiene dallo stabilire una separazione tra lo stato presente e gli stati anteriori. Per far ciò esso non ha bisogno di assorbirsi interamente nella sensazione o nell'idea che passa, altrimenti cesserebbe di durare. Esso non ha neanche bisogno di dimenticare gli stati anteriori: gli basta che, ricordandosi di questi stati, non li giustapponga allo stato attuale come un punto a un altro punto, ma li organizzi insieme, come succede quando ci ricordiamo delle note di una melodia, per così dire, fuse insieme». [1]

Se Debussy è il musicista dell'acqua stagnante, Fauré è quello dell'acqua viva e fluida, poiché nella sua musica l'armonia e i toni si sviluppano secondo una legge immanente, secondo uno slancio interno. Le sue modulazioni non sono improvvise e nette, ma quasi impercettibili: per questo esse sono spesso enarmoniche. In questo tipo di modulazione una nota comune a due accordi diviene il fulcro di una trasformazione globale del senso dell'armonia, di cui si ha coscienza soltanto man mano che la musica procede. In tal modo si realizza, per Jankélévitch, il paradosso dello «scivolamento immobile», che ha già in se stesso «qualcosa di sonnifero» (ib., 350). Infatti la «fisica dei suoni» di Fauré concerne quelle «leggi oscure», di cui già abbiamo fatto cenno nel precedente capitolo. In un certo senso le modulazioni sono delle astuzie, dei «giochi di parole» o dei «frivoli calembours» (ib., 277), e per questo fanno parte sia dell'ironia che della seduzione. Ma, come le astuzie e le finte di Ulisse, esse sono a fin di bene, sono fedeli e sincere, perché hanno come obiettivo il ritorno a casa, ossia il ritorno al tono principale.

L'aspetto della finzione in Fauré è molto discreto e pudico, sicuramente più sottile che in Ravel o Stravinskij, le sue mascherate sono meno accentuate e le sue violenze meno intense. Ma ciò non vuol dire che esse siano meno efficaci, poiché quello che Jankélévitch chiama «regime naturale dell'equivoco» (ib., 350) consente alla forza della ragione di far valere la sua preminenza, grazie proprio ai contrasti e alle ambiguità che è riuscita a superare.

La prima di queste ambiguità riguarda un aspetto precipuamente tecnico: il rapporto tra mano destra e mano sinistra nella pratica pianistica. Il ruolo di ognuna delle mani è ben preciso: avendo la funzione di dispiegare la melodia, la destra è «la mano della carezza, della tenerezza e dell'espressione lirica» (ib., 256), cioè l'organo del sentimento e dell'effusione romantica. Da sola, essa dà voce al «canto dell'anima», alle fioriture più libere ma anche agli urli e alle «isterie». In ogni caso essa rappresenta il narcisismo del soggetto e la compiacenza della coscienza, che gode dei propri mezzi e dei propri poteri tecnici. Al contrario la mano sinistra, significando «precisione e rigore, humour e arida probità», rappresenta «la cattiva coscienza della mano destra», le cui pretese di libertà e di virtuosismo essa riconduce alla ragione. Il suo memento è una specie di richiamo all'ordine e un'esigenza di sobrietà. Considera zavorra le fioriture e gli abbellimenti inutili, anche se non può vivere solo delle proprie forze senza il rischio di apparire arida e meccanica. Essa sta alla mano destra come l'ostacolo sta all'organo: è un'opposizione basata sulla coesistenza.

In effetti l'essenza della musica è l'unità tanto della melodia e dell'armonia, di canto e accompagnamento, quanto delle voci contrastanti, come avviene nel contrappunto: diverse linee di pensiero «rimangono accordate, pur restando indipendenti» (ib., 258). Quest'unità non è la somma delle due differenti componenti, ma il loro insieme, che in questa complementarità fornisce un surplus inesprimibile di coerenza e di charme. Ne consegue che l'equivoco diviene «plurivoco» e le metamorfosi dovute alle armonie contrastanti conducono in Fauré a una superiorità della condizione armonica, quella che Jankélévitch chiama enarmonia spirituale.

Similmente, nell'atmosfera di evasione e di evocazione di questa musica, ogni sentimento e ogni emozione non vengono descritti letteralmente, ma solo suggeriti e rinviati a un alibi, nel quale la musica pura «guadagna in intensità espressiva» (ib., 262). L' «Altrove infinito» è dunque lo charme e il non-so-che, ossia il luogo non-localizzabile (ib., 278) della musica di Fauré, che si sottrae a ogni determinazione analitica, intellettuale e spaziale, non essendo individuabile né nell'armonia né nella melodia, né nella mano sinistra né nella destra, ma nel loro insieme il cui effetto rimanda a un ordine superiore.

Quest'ordine tutt'altro è l'ordine dell'equanimità faureana, che è una saggezza, una tranquillità dell'anima, una condizione di «quietudine» e di pace finalmente raggiunta. Al contrario dell'indifferenza e dell'atarassia epicurea e stoica, essa viene conquistata dopo le tragedie e le lunghe prove della vita; essa non si pone al di sopra ma dentro l'infelicità umana, di cui sente dolorosamente l'influsso: la saggezza di Fauré «non fu di negare l'evidenza, di minimizzare il male, di annullare il dolore, di derealizzare la morte, ma piuttosto di vuotare fino in fondo il calice amaro della tribolazione» (ib., 289). L'effetto rasserenante della sua musica non significa allora allontanamento ideologico dalla realtà o divertimento atto a rimuovere l'angoscia della morte. La gioia raggiunta dal musicista ha dovuto pagare un prezzo altissimo di sofferenza e di fatica. Essa è più un «evento morale» che un edonistico stato d'animo. È il risultato di un tortuoso periplo di difficoltà e peripezie di cui, come Ulisse, ha serbato scrupolosamente la memoria., delle difficoltà e delle peripezie

Infine Jankélévitch chiama questa dimensione atanasia: al di là dell'alternativa dell'ottimismo e del pessimismo, Fauré sceglie una «serenità apollinea», che è «grave ma raggiante» (ib., 342). Si è superata la tragica angoscia della morte, ma la quiete così perseguita è maturata nel tempo, è una «seconda giovinezza» che guarda all'indietro e si interroga sulla giovinezza perduta. Si tratta di una saggezza superiore, che medita sia sulla morte che sulla vita. Anche di fronte alla morte, la «nobile tristezza» del Requiem è un acquietamento che non ha dimenticato il peso del dolore umano. La sua speranza contiene un rimpianto ed è «mescolata con la reminiscenza di un paradiso perduto» (ib., 329). È aperta al futuro, ma senza dimenticare il fondo di tristezza infinita lasciatasi dietro.

Claude Debussy, o l'immobilità

Apparentemente la musica di Debussy rappresenta un'alternativa rispetto alla musica di Fauré. Come abbiamo già rilevato, per Jankélévitch Debussy è il musicista della stagnanza, dell'istante immobile e quindi della disperazione, mentre Fauré è il musicista dell'acqua viva, della mobilità e dell'ottimismo sereno.

Jankélévitch dedica al musicista di Saint-Germain-en-Laye tre libri: Debussy et le mystère, del 1949, La vie et la mort dans la musique de Debussy, del 1968 e Debussy et le mystère de l'instant, del 1976; quest'ultimo riunisce i temi principali dei primi e fa parte del grande ciclo intitolato De la musique au silence.

L'interesse ad approfondire la musica di Debussy nasce durante gli anni della Seconda Guerra ed è legato a nostro avviso a una sorta di identificazione personale: entrambi hanno vissuto la tragedia della guerra e hanno condiviso - seppure a tre decenni di distanza - lo stesso odio contro il comune nemico, rappresentato dall'aggressività tedesca. La disperazione e la paura di veder trionfare la non-ragione e la barbarie possono aver animato in Jankélévitch una specie di solidarietà spirituale con il musicista morto nel 1918, proprio alla fine dell'occupazione di Parigi.

Il primo saggio sul musicista è del 1946 («En blanc et noir. I et II») e riprende il titolo di una delle ultime composizioni per due pianoforti, scritta da Debussy nell'estate del 1915. In questo pezzo l'angoscia per la guerra è evidentissima: il secondo movimento in particolare è dedicato alla memoria di Jacques Charlot, un ufficiale appena morto al fronte. Quando Debussy descrive in musica la battaglia oppone la nobile figura del soldato alle oscure minacce dei nemici, i quali hanno la forma musicale di corali luterani e delle armonie wagneriane. Inoltre l'opposizione musicale del bianco e del nero rinvia all'opposizione etica tra bene e male, quindi delle forze che si combattevano nel campo di battaglia.

Jankélévitch coglie fino in fondo questo messaggio e anch'egli, come Debussy, interpreta la musica francese come un simbolo di rivalsa culturale e morale. In questo spirito conclude il suo saggio usando parole inequivocabili: «Oggi che abbiamo ritrovato il diritto di rigettare il vergognoso Wotan e le odiose walkirie dei nostri incubi, oggi che gli uccelli hanno ricominciato a cantare sugli alberi, il nostro pensiero va a quella sacra sepoltura dove Debussy, a fianco di Gabriel Fauré, dorme il suo ultimo sonno, quando pensiamo alla meravigliosa primavera della nostra seconda nascita».

L'interpretazione jankélévitchiana della musica di Debussy allora non può essere considerata separatamente dagli avvenimenti storici vissuti in prima persona; inoltre, benché in modo molto differente, sia Debussy che Fauré - nonché Ravel, Chopin, Stravinskij e altri - sono tutti testimoni di un'unica urgenza etica dell'arte musicale.

Se Fauré è il musicista dell'inesprimibile, Debussy è per Jankélévitch il musicista del mistero: certo il mistero è inesprimibile, ma contiene delle determinazioni e dei significati ulteriori e più profondi. Innanzitutto esso si distingue dal segreto: se la cosa segreta è riservata agli iniziati di un gruppo esoterico e rifiutata ai profani, il mistero appartiene a tutti ed è universalmente riconoscibile; non è una cifra né un «mistero verbale», bensì un «mistero essenziale» («pneumatico») (DM, 9), e più che una «cosa», una res, esso è «una atmosfera del nostro destino» (ib., 11). Questi caratteri di spiritualità e di impalpabile essenza appartengono anche alla musica in generale. Ma la musica di Debussy ne riassume gli aspetti più concreti, tanto che può essere considerata una vera e propria fenomenologia del mistero in atto.

Le grandi figure del mistero debussiano sono: i misteri del destino - di angoscia, di voluttà, di morte - e del mezzogiorno, articolati a loro volta nei differenti aspetti musicali: stagnanza, ripetizione, circolarità, interruzione, oggettività. È soprattutto nel Pelléas et Mélisande che si possono ritrovare i misteri del destino: l'amore tra Pelléas e Mélisande è continuamente roso dal dubbio, dai sospetti e dalla malizia di Golaud. Ciò è rappresentativo della umana condizione di instabilità e di precarietà, nonché dell'impossibilità a sfuggire al proprio tragico destino di morte e di disillusione. Ma i misteri di voluttà per Jankélévitch non sono meno sconvolgenti: le scene d'amore tra i due amanti (per esempio la scena della torre) sono talmente piene di sensualità e di passione che il desiderio tocca il suo limite estremo, la morte; la quale giunge proprio al culmine dell'incontro tra Pelléas e Mélisande nel parco. Infine nel quinto atto Mélisande, la «principessa lontana», muore senza sapere le cause e le ragioni della propria morte, compiendo un destino che fin dall'inizio presagiva. Il suo mistero per Jankélévitch si compie nella stessa vita, così breve e innocente, della ragazza.

Il capolavoro di Debussy esprime dunque la condizione di tutta la sua musica, così tesa tra la ricerca del piacere e una tristezza letale. Il mistero di mezzogiorno, d'altra parte, ne riassume l'amfibolia. Mezzogiorno rappresenta «l'istante in istanza», il punto culminante della giornata e nello stesso tempo l'inizio della caduta. La musica di Debussy è piena di questi vertici oscillanti, che riuniscono in sé l'apogeo di una storia e nello stesso momento l'inizio del suo declino. Jankélévitch chiama stagnanza questa situazione di arresto del tempo ordinario e di attualizzazione del possibile: «Ogni 'immagine' debussiana è come una vista istantanea e statica sulla 'presenza totale'; ognuna immobilizza, per così dire, un minuto della vita universale delle cose, uno spaccato della storia del mondo, e fissa questo taglio verticale nel suo aeternum Nunc, cioè fuori di ogni divenire, senza relazione con il prima e con il poi» (ib., 32).

Per realizzare questa immobilità e questo atomismo temporale, Debussy giunge alla «decomposizione del tempo oratorio»; si tratta del rifiuto di considerare la musica alla stregua di un discorso o di un ragionamento, della ripugnanza a sviluppare, quindi del superamento di tutti i caratteri tipici della temporalità tardo-romantica, legata in particolare ai nomi di Max Reger, Hugo Wolf e, in Francia, all'accademismo di Vincent d'Indy. In Debussy gli eventi e gli episodi sono sconnessi e obbediscono «alla legge enumerativa o cumulativa della Variazione piuttosto che all'ordine apodittico e discorsivo della Sonata». È evidente che qui Jankélévitch propone un paradosso, visto che il musicista francese aveva una vera e propria repulsione per ogni forma di variazione, da lui considerata «un mezzo per fare molto con molto poco». In ogni caso Jankélévitch chiama questo stato «rapsodico» della musica «regime della serenata interrotta» (ib., 40-47), caratterizzato da discontinuità, puntillismo e ironia.

Vi è anche una concezione dello spazio, secondo la quale la presenza e l'assenza, il vicino e il lontano, possono paradossalmente coesistere. Lo spazio debussiano è il contrario dello spazio cartesiano o della spazialità rigida della scienza; esso è piuttosto un'atmosfera, il luogo dello «sporadismo» delle creature, cioè l'insularità monadica immersa nell'incertezza del destino. E se uno spazio siffatto non può essere spezzettato in frammenti misurabili, esso coincide pur sempre con il «deserto di luce» degli eleati: in ogni posizione e in ognuna delle sue coordinate ogni possibile è in atto; inoltre il rapporto tra i suoi elementi non è di distanza numerica, ma di «comunione panteistica» (ib., 73) e di misteriosa telepatia. In una simile dimensione gli oggetti perdono i loro contorni definiti e la loro pesantezza corporea, divenendo inconsistenti e trasparenti.

Con l'inconsistenza dei loro elementi simbolici e la diffluenza delle loro figurazioni musicali, le composizioni di Debussy rappresentano al meglio l'enigma di tutta la musica in generale e la condizione stessa in cui si trova la musica. Quest'arte è «non-cosa» per eccellenza, o «anti-cosa» e mistero. Ma tutte le sue componenti specifiche, melodie e accordi, personaggi e paesaggi, così minuziosamente descritti, formano per Jankélévitch una fortissima «oggettività». La metereografia dell'acqua, del fuoco e dell'aria - molto vicina alla poetica dell'immaginazione di Gaston Bachelard - è la rappresentazione concreta e oggettiva del mondo debussiano.

Infine il versante di angoscia e di lacerante disperazione della concezione del tempo fa da contrappeso in Debussy al versante positivo della sua musica, che coincide con «l'innocenza e la primavera»; per Jankélévitch Debussy è il poeta del mistero in piena luce: egli ha cantato in una forma chiara e «tautegorica» tutto ciò che «non può essere trascritto in discorsi concettuali». La vita e il destino, la morte e il miracolo della rigenerazione trovano nella sua musica un'espressione diretta e immanente, senza la mediazione della ragione né alcuna pesantezza metafisica: in ciò consiste la sua innocenza e nel contempo il suo più profondo significato.

Erik Satie, o l'ironia

Ma il vero aedo dell'innocenza è per Jankélévitch Erik Satie. Il filosofo gli dedica un lungo saggio intitolato Satie et le matin, scritto intorno al 1960, nonché innumerevoli citazioni in tutti i suoi testi.

Il rifiuto del romanticismo in Satie è più radicale che in Debussy o Ravel e coincide con il rifiuto di sviluppare la melodia e di esprimere i sentimenti. Dal punto di vista musicale ciò si traduce in una monotonia molto accentuata e in una brachilogia spesso ai limiti del laconismo. Contro la loquacità romantica Satie propone l'istantaneità dei momenti musicali, e contro la continuità di tipo accademico le ripetizioni, le rabâchages e le impassibili giustapposizioni di accordi perfetti, o di quarte e quinte, che danno alla sua musica una certa arcaica staticità.

Ma l'ossessione, l'immobilità, la secchezza del suo stile - che spesso producono fastidio - hanno solo una funzione incantatoria e ipnotica, servono solo a catturare l'ascoltatore imponendogli un esercizio di rinuncia e quasi di ascesi. D'altra parte tutti questi aspetti non si rivelano essere altro che artifici e camuffamenti, aventi scopi indiretti: mistificare per purificare, travestirsi per far rinsavire e in ogni caso «combattere la nostra naturale inclinazione all'intenerimento» (MH, 28). Jankélévitch quindi interpreta la musica di Satie come una generale «disintossicazione», raggiunta grazie alla «volontà d'alibi» e all' «esponente della finzione» che disorienta l'ascoltatore per potergli poi indicare una strada diversa e segreta.

Erik Satie corrisponde quindi alla figura dell'ironista descritta nelle pagine de L'ironia (I, 127-132): qui Jankélévitch intende l'ironia come «la cattiva coscienza dell'ipocrisia», nel senso che mira a fare emergere le intenzioni nascoste dalla malevolenza e dalla cattiva fede. Infatti «l'ipocrita vorrebbe sfuggire allo scandalo di cui si sa portatore e che è la sua onta; ma l'ironista lo tallona e smaschera ogni momento l'impostura...». Ciò avviene in base a una specie di conversione della finzione: «Ma nel momento in cui, per interesse o vanità, le coscienze preferiscono recitare dei ruoli, l'ironista si intromette tra loro e recita la parte delle loro parti, decide di essere falsamente ipocrita perché il vero ipocrita ridivenga leale, rincara quindi l'ipocrisia e si gioca del suo gioco». Tuttavia questo gioco alla seconda potenza non è fine a se stesso, poiché l'ironista, come Socrate, «non urta per il solo gusto di urtare»: il suo scopo si pone su un piano differente rispetto alla pura provocazione o alla semplice canzonatura; «la vera ironia procede attraverso l'antitesi verso una sintesi superiore...», mentre «l'estremismo conformista» opera con delle «antitesi meccaniche e del tutto superficiali», e per questo non fa che tornare al punto di partenza. Si tratta quindi di un'ironia all'ennesima potenza che pone il musicista di Arcueil a fianco di Socrate, al quale fra l'altro ha dedicato il suo capolavoro. Se la parola «ironia» designa «l'atto di interrogare», la musica di Satie per Jankélévitch è «naturalmente interrogativa» (ib., 39).

E come per Platone lo stupore sta all'origine della filosofia, così per Satie il candore è la sorgente della musica: essa esprime quella freschezza con la quale un bambino apre la sua piccola coscienza al mondo. Ma essa sa anche esprimere l'ineluttabilità della morte e la serenità della coscienza.

Maurice Ravel, o l'artificio

Gli aspetti di finzione, pudore e ironia esponenziale sono ancor più evidenti in Maurice Ravel, sul quale Jankélévitch nel 1939 ha scritto una monografia, ripubblicata nel 1975 e nel 1995. Tali aspetti si riassumono nel termine industria, che dà il titolo al primo capitolo della parte teorica dell'opera.

Per Jankélévitch l'industria raveliana non è solamente una specie di tenace applicazione alla tecnica musicale e alle leggi dell'armonia tradizionale, ma indica un surplus di lavoro e di fatica che Ravel deliberatamente si autoimpone. È una vera e propria invenzione, arbitraria e fattizia, di difficoltà, di regole e di divieti, il cui unico scopo è «di mettere alla prova con certezza tutto ciò che può fare l'industria dell'artista» (R, 84) e che si ripercuote sull'attività stessa che li ha generati. Il che equivale a dire: costruire solo per mettere alla prova la capacità stessa di costruire. Così il musicista impiega formule rigide, ritmi ossessivi, fissi idiomi musicali, oppure sceglie dei testi «piatti e antipoetici», in modo da aumentare gli intralci e gli ostacoli alla pura volontà creatrice. Jankélévitch considera questa attitudine di Ravel una «scommessa», che in termini filosofici coincide con l'opposizione tra organo e ostacolo, dove il primo rappresenta la creazione e il secondo la materia. La fonte della musica, sembra dirci Ravel, non è l'ispirazione soggettiva né alcuna causa esterna, ma la musica stessa, il cui valore si misura in virtù del dualismo tra l'attività del compositore e la realtà materiale del suono.

Essendo questa opposizione una scelta intenzionale, l'artificialismo è l'altro tratto caratteristico della musica di Ravel. Per lui - dice Jankélévitch - «la musica non si pone sullo stesso piano della vita, ma vi circoscrive al contrario un 'jardin clos', una seconda natura, un magico recinto paragonabile a quello consacrato dall'oracolo e che diviene il mondo fittizio dell'arte» (ib., 89). Ciò vuol dire che per sua essenza la musica può essere «impegnata» solo all'interno di se stessa. Lungi però da essere una professione ideologica o addirittura una pura evasione dal reale, come nel caso dell' «art pour l'art», la posizione di Ravel è talmente accentuata che tradisce volentieri una certa affettazione, anzi una «civetteria». Ravel ammira l'eleganza, indossa l'abito da cerimonia e di gala dello stile strumentale di fine-secolo, quasi per recitare una parte e attraversare con stupore un teatro illuminato. Perciò egli ama il lusso degli oggetti inutili e tutte quegli atteggiamenti non sinceri che hanno solo la funzione di «contraffare la vita». Da qui il suo amore per le statuette di porcellana, per gli automi sonori e in generale per tutto ciò che è camuffato ed equivoco; questo allo scopo di nascondere pudicamente i suoi sentimenti e le sue più profonde intenzioni: «Egli è come un chirurgo che dissimula gli strumenti del mestiere per darsi un'aria da medicastro; non gli importa che lo si prenda per un dilettante e, benché sia eccezionalmente meticoloso, si aggiusta volentieri la maschera dell'approssimazione» (ib., 98).

D'altra parte il suo virtuosismo strumentale può essere interpretato, parimenti che in Liszt, come una forma di padronanza trascendentale dell'uomo sulla materia o, similmente a Balthazar Graciàn, come un esibizionismo della gloria. Ravel riesce a addomesticare la resistenza della tecnica e, per far ciò, ha bisogno d'aumentare artificialmente le difficoltà. Così, ancora una volta, egli esalta il mestiere e il virtuosismo puramente musicale per poter porre una copertura posticcia sopra ogni espressione dell'io.

Infatti Jankélévitch sottolinea diverse volte l'antisoggettivismo di Ravel («L'io è odioso» - «La fobia dell'introspezione, l'orrore dell'autobiografia e del diario» (ib., 175)). Tuttavia termina il suo libro con un capitolo intitolato «Appassionato» che è, per dir così, la metonimia del romanticismo. Qui il soggetto e l'espressione non vengono esaltati, ma riconquistati a un livello differente. Una volta «esorcizzato» il romanticismo tramite l'humour e l' «intercambiabilità dei differenti modi d'espressione» (ib., 138), bisogna interpretare la valenza reale di tutte le mistificazioni raveliane. Il vero organo della finzione è per Jankélévitch l'intelligenza, con la quale si travestono «per inganno e artificio» le proprie emozioni e grazie alla quale, parallelamente, l'emozione più sincera può esprimersi per contrarium, cioè per via indiretta e per un «chiasmo ironico» (ib., 140). Pur di «velare la sua verità interiore», Ravel impiega tutti i mezzi a sua disposizione: la natura, il mondo reale, l'esotismo, il pastiche, la maschera. Tutto ciò in funzione di una specie di purificazione, il cui scopo è di mantenere intatta una sensibilità, una «lucidità affettiva» e una «divina ingenuità» che costituiscono un'espressività e un romanticismo superiori. Le esigenze dell'interiorità e la purezza del cuore trovano allora un'ulteriore giustificazione, una «semi-visibilità» che era prima sepolta sotto i sortilegi della vera mistificazione: solo lo spirito innocente di un bambino può recuperarle.

Fryderyk Chopin, o il tragico

Per sottrarsi alla violenza della ragione vi è anche una strada diversa dal travestimento e dall'ironia. Alla chiarezza e luminosità dello spirito cartesiano e illuminista si può opporre l'irrazionale e la mancanza di chiarezza, di cui Pascal, Schelling e Novalis - come dice Jankélévitch - facevano professione.

In musica questo spirito coincide con il notturno romantico, la cui tecnica e la cui struttura portano a superare l'ideale della forma sonata classica. Ma se nel romanticismo quest'aspetto può condurre a una fanatica esaltazione della non-ragione (in tal caso lo spirito dell'irrazionale diverrebbe irrazionalismo, cioè ideologia cieca, delirante e talora violenta dell'irrazionale), vi è anche un'espressione autentica di un romanticismo più lirico e meno appariscente. La musica di Chopin rappresenta per Jankélévitch il caso più... chiaro dell'oscurità pudica del romanticismo musicale. Al compositore polacco dedica due saggi del 1957 (la prima e la seconda parte de Le Nocturne, ma già pubblicate nel 1949) ripresi in La musique et les heures.

La personalità di Chopin è molto significativa, sia per la sua breve vita segnata dalla malattia sia per la sua marginalità nei confronti dell'imperante sinfonismo: «È proprio questo il miracolo: che il poeta del pianoforte, tagliato fuori dalla collettività sinfonica, cioè dall'umanità di cui ogni orchestra è la miniatura e il microcosmo, che questo poeta solitario abbia potuto uguagliare se stesso alla natura e all'intero universo...» (MH, 270-271). A una forma raffinata ed elegante Chopin sottomette un contenuto «impetuoso» e un «tumulto impaziente», cioè la sofferenza per gli avvenimenti storici, l'esperienza tragica «vissuta profondamente nella solitudine della notte» (ib., 271). La forma-sonata è per lui solo un «protocollo», poiché al suo interno la libertà è estrema: catastrofi e «figure del delirio» si succedono con uno spirito rapsodico e una temporalità ansimante che ne fanno un autentico «trattato della disperazione». Inoltre il suo Preludio è «un umore notturno e un capriccio fantastico del pathos, cioè della soggettività umoresca» (ib., 274). «Capriccio, verve, oscura ironia, libertà» sono poi i sintomi dello Scherzo, mentre le Ballate rappresentano l'alternanza tra la tranquillità dell'egloga e il «furore selvaggio» del delirio, un'antitesi che in Chopin non si risolve in una sintesi, rimanendo i due umori «giustapposti nel loro insolubile dualismo» (ib., 277). Similmente, a proposito delle Polacche, della Fantasia, dei Concerti, «è tutto il destino umano che si riassume in queste pagine tumultuose e profonde» (ib., 279).

A ogni modo, anche quando la sua musica sembra placare le contraddizioni in una calma lucida, nei ritmi ipnagogici e nella «deliquescenza» del tempo, Chopin è il musicista del tragico e della morte. La sua musica non conosce per Jankélévitch «l'attrazione della speranza» né l'ideale di una «teleologia intelligente»; essa contiene sempre un'inesplicabile inquietudine, coincidente con l' «irresistibile geotropismo» e con il «senso funebre e tanatologico» del nostro destino. Una specie di slancio cieco, una vis a tergo, una spinta spasmodica anima stranamente la sua musica e, come nel caso della Volontà schopenhaueriana, fa corrodere ogni ordine razionale e idealista.

Ciò in particolare si riscontra nel rapporto tra melodia e armonia, ossia tra mano destra e mano sinistra: quest'ultima non è più, come nei classici e nella pratica del basso albertino, parte accompagnante e ancilla dextrae, ma esprime la «vita profonda» che circola nelle regioni inferiori della tastiera (ib., 286). I passaggi più liberi e luminosi, che danzano come api nel registro acuto, sono nello stesso tempo richiamati all'ordine dal «minacciante pedale delle profondità». Su questa tragica ambiguità si fonda tutta l'arte del musicista polacco: «La musica di Chopin - dice Jankélévitch - riunisce in sé due magie, due charmes: essa seda e fa impazzire, invita alla danza, al corteggio, ai giochi dell'amore, alle lunghe passeggiate e al cerimoniale; e richiama l'uomo all'inevitabile tragedia che lo spia» (ib., 292).

Béla Bartók e Igor Stravinskij, o la violenza

Per sottrarsi alla retorica musicale dominante si può reagire sia con la dissimulazione che con il rifiuto violento; in quest'ultimo caso però l'uso di mezzi brutali e distruttivi può fare il gioco del nemico o diventare un atto sterile e inutile. Così il violento si isolerebbe nella sua protesta o al limiti vendicherebbe l'offesa subita senza cambiare di una virgola lo stato delle cose.

Sulla legittimità della violenza Jankélévitch ha molto riflettuto nei suoi testi e nelle sue interviste. Secondo lui per principio bisogna rifiutare la violenza, ma spesso i casi di coscienza e le situazioni concrete obbligano gli uomini a fare delle scelte contrarie ai propri principi, e in particolare a usare violenza contro il violento, per esempio uccidendo il tiranno, resistendo agli invasori, ai nazisti. Se dal punto di vista logico ciò è contraddittorio, non lo è però dal punto di vista morale. Per cui la violenza, come d'altronde la menzogna, in quanto male minore, diviene per Jankélévitch un «dovere irrecusabile» (PLM, 123), che ha per fine l'amore e la bontà: «L'amore non ha mai chiesto di essere disarmato: al contrario vuole essere, come ogni amore caritatevole, un amore combattivo, militante, ingegnoso e, se occorre, bugiardo» (TV2,1, 283).

La musica contemporanea ha sperimentato al suo interno molte forme di violenza: ritmi ossessivi, dissonanze, false note, accordi giustapposti, interruzioni improvvise, attriti timbrici, fino ai clusters e ai rumori. Bartók e Stravinskij sono stati non solo i precursori di queste esperienze, ma le hanno usate in un modo particolare: la violenza della loro musica non è fine a se stessa, ma rappresenta il lato buono dell'intenzione etico-musicale, e ciò le permette di sottrarsi alla contraddizione logica. Quindi il fine principale di una musica così dura e quasi crudele non è solamente di scuotere l'inerzia della coscienza, ma anche di prometterci un piacere «sobrio, ingrato, purificato, difficile; un piacere molto raro e segreto che dovremo meritarci a fatica» (PDP, 274).

È quello che Jankélévitch nota in Bartók nel saggio del 1946 (ib., 266-276), ma anche di Stravinskij: sul compositore russo egli non ha scritto nulla di compiuto, ma lo cita spesso in modo isolato. La carriera di questo compositore, passando dalla violenza fauve al pastiche neoclassico, dall'astrazione dodecafonica alla spiritualità religiosa, risulta particolarmente coerente sia con la teoria del travestimento che con il percorso etico della filosofia jankélévitchiana.

Franz Liszt e Sergej Rachmaninov, o la seduzione

Gli aspetti virtuosistici che Jankélévitch nota in Ravel sono ancor più evidenti in Franz Liszt (o François Liszt, come preferisce chiamarlo Jankélévitch, omettendo deliberatamente ogni eredità tedescagermanica, tanto dal nome quanto dalla sua musica). A differenza che per altri musicisti considerati, a Liszt Jankélévitch dedica un'opera nella quale parla meno della musica del compositore ungherese che di aspetti più generali: si intitola Liszt et la rhapsodie. Essai sur la virtuosité. Si tratta infatti di una fenomenologia del virtuosismo e dell'improvvisazione, nonché di una psicologia della figura del solista, di cui Liszt, insieme a Rachmaninov e Albéniz, rappresenta un modello. Invece a Rachmaninov dedica un brevissimo scritto del 1979 (Rachmaninov, le dernier des poètes inspirés), apparso come presentazione di un disco di Jean-François Thiollier (S, pp. 32-35).

Sia in Liszt che in Rachmaninov l'aspetto affascinante e seduttore della musica si esprime nel virtuosismo sfavillante e nella tecnica trascendentale, nonché, come in Albéniz, nell'eccezionale capacità di improvvisazione e nell'accentuata ostentazione degli aspetti gestuali e teatrali del recital. Ma per Jankélévitch questi aspetti rappresentano la superficie di un'intenzione musicale più profonda. Bisogna lasciarsi affascinare per poter in cambio attingere a una realtà ulteriore nascosta dietro le apparenze; e ciò è possibile solo seguendo il corso del tempo, in cui l'improvvisazione e la meccanica digitale si dispiegano. Ciò non vuol dire quindi lasciarsi sedurre dagli aspetti esteriori di un'esibizione, ma neanche rifiutarli in modo diffidente e moralistico. Le ambiguità di Liszt e Rachmaninov - sembra dirci Jankélévitch - sono riservate a coloro che sappiano coglierle, a coloro che riescano a liberarsi da ogni orpello e a operare una conversione di livelli seguendo una prospettiva obliqua.

In questo modo il risultato di tale conversione è un'apertura ad aspetti del tutto diversi. Infatti come c'è un Liszt ammaliante, magniloquente e un po' ciarlatano, così c'è un Liszt religioso, persino mistico. È l'autore delle due Légendes di San Francesco d'Assisi e di San Francesco di Paola o delle Années de Pèlerinage, che sono i pezzi più citati da Jankélévitch. D'altra parte come vi è un Rachmaninov funambolo dello strumento e pianista-vedette ammirato, suo malgrado, dagli ambienti mondani - l'autore del Secondo Concerto -, così vi è un Rachmaninov segreto, malinconico e pudico, che «si rivolge al nostro cuore con il linguaggio del cuore, con un'intensità che ancor oggi ci commuove profondamente poiché ne siamo privati» - l'autore del Trio elegiaco, del Quarto Concerto, della Terza sinfonia (S, 34).

La riabilitazione di quegli aspetti che sfuggono all' «ammirazione universale» si collega dunque a una sorta di critica a ritroso che Jankélévitch adotta: Liszt, Rachmaninov e altro compositori sconosciuti sono più rivoluzionari dei musicisti celebrati dalle avanguardie storiche, poiché le novità del loro linguaggio sono meno appariscenti della loro facilità borghese, e ciò non vuol dire che siano meno autentiche. Secondo Jankélévitch questi compositori hanno «fondato» il linguaggio della musica contemporanea, ma, a dispetto dell'ostentazione del loro virtuosismo, senza ostentazione delle loro qualità, cioè senza la minima coscienza compiaciuta di essere i precursori di un futuro unilateralmente preformato.

Isaac Albéniz, o la generosità

La preferenza di Jankélévitch per musicisti un po' marginali si esprime anche nella particolare attenzione nei confronti di compositori appartenenti a una zona geografica, quella mediterranea, ugualmente marginalizzata dallo sviluppo storico della musica occidentale: sono Isaac Albéniz, Déodat de Séverac, Manuel de Falla, Federico Mompou et Joaquim Nin. I saggi su Albéniz, Séverac et Mompou sono stati raccolti nel libro La Présence lointaine, del 1983, mentre quelli su De Falla (apparso nel 1947) e Nin (scritto nel 1949 ma rimasto a lungo inedito) fanno parte di Premières et dernières pages.

Nella musica di Albéniz Jankélévitch nota innanzitutto la «pienezza sonora», ossia un atteggiamento «goloso» nei confronti della sonorità e un'invenzione creatrice continuamente rinnovata. Ciò ha come scopo il semplice piacere di far musica, senza preconcetti e senza alcuna compiacenza. Lo spirito rapsodico del compositore spagnolo si esprime in una «ebbrezza» dell'improvvisazione, ma anche nello sgorgare zampillante di situazioni musicali: la sua musica si sviluppa «per una specie di crescita organica, come di piante tropicali» (PL, 16); e qui Jankélévitch sembra rifarsi all'ammonimento di Monsieur Croche ai musicisti, cioè di seguire «la bella lezione di libertà contenuta nella crescita arborea». [2] In Albéniz le modulazioni, le alternanze di rallentando e accelerando, la caleidoscopica «policromia» dei timbri, la successione di pezzi pittoreschi, rappresentano non certo un'elaborazione logica e dialettica, ma piuttosto un'evoluzione vitale di idee spontanee. Il risultato è una continuità che si basa sulla discontinuità, ossia ciò che Jankélévitch chiama «sconnessione ispirata».

Questa prodigalità e «munificenza» appartengono secondo Jankélévitch solo agli spiriti che disdegnano il calcolo e, a livello dell'analisi, non spaccano il capello in quattro. Certo Albéniz inventa e crea una quantità di situazioni e di materiali al punto da rischiare di apparire volgare e di sprecare le sue eccezionali risorse creative. Ma tutto ciò è il prodotto di uno slancio che ha per fine solamente lo sfruttamento di tutte le possibilità interne alla materia musicale. Così il folclore, il pittoresco, la gitanerie della sua arte nazionale sono talmente artificiali e fabbricati che risultano alla fine autenticamente popolari, non certo frutto di erudizione e di manie etnologiche. Anche la finzione più spinta quindi - sembra dirci Jankélévitch - se è animata da una buona intenzione può rivelarsi sincera.

Inoltre tutto ciò che si rifà alla Spagna ha in Albéniz un valore non-realista: l'altro versante della sua musica è infatti la nostalgia, che si esprime nell'attenuazione della sonorità e attraverso una particolare maniera di sottrarre e rendere sottintesa l'intenzione. «Paradossalmente, cioè nonostante le apparenze - dice Jankélévitch -, nell'esuberanza di Albéniz si subodora una certa segreta fobia dello sfolgorio, anzi un pudore» (PL, 45). Nel pianismo albéniziano la sonorità viene «affermata e simultaneamente sottratta» (ib., 57), grazie alla tecnica del «forte con sordina», del «pianissimo sonoro» e alla bemollizzazione delle armonie.

Infine quest'ambiguità tra splendore e tenebra - che Jankélévitch paragona al pensiero mistico di Dionigi Pseudo-Aeropagita - ha il valore di una sospensione e di un'evocazione: «Il vicino e il lontano, le leggi della prospettiva e della distanza divengono diffluenti e indeterminate» (ib., 64). La nostalgia di Albéniz è allora una «nostalgia aperta», che per Jankélévitch «ha inesplicabilmente lo charme della speranza» (ib., 67); la generosità e il pudore, la «dinamica del divenire» e la sospensione temporale, la continuità e la discontinuità, il realismo pittorico e la nostalgia si riassumono infine in una felicità più profonda che, come in Rachmaninov, è la gioia dell'intimo raccoglimento, dell'ispirazione sincera e dell'emozione.

Manuel De Falla, o l'incanto

Manuel De Falla, sul quale Jankélévitch scrive un saggio nel 1947 (PDP, 277-289), supera l'esuberanza albéniziana e, conservando fedelmente lo spirito spagnolo, propone un'opera di semplificazione stilistica e di «nuova ascesi»; egli sottomette la musica a una specie di digiuno, allo scopo di spogliarla da ogni eloquenza e da ogni enfasi. In questo si rifà a quel vero e proprio «purista» della musica che è Domenico Scarlatti.

Una volta operata questa semplificazione, la musica di De Falla, come d'altronde quella del grande napoletano, insiste nelle ripetizioni, nell'ossessione ritmica, nella monotonia armonica: così essa diviene malìa, sortilegio, incanto. Essa induce nell'ascoltatore una «suggestione di irrealtà» e un vero e proprio «stato di grazia». Ma il suo fine è di allontanare i maleficî e i cattivi sortilegi che avviluppano la coscienza. Solo questo corto circuito tra due incanti contrastanti può infatti operare, secondo Jankélévitch, il disincanto e la «redenzione», permettendo così che «le nostre angosce notturne si dissipino al gaio sole del mattino e della verità» (PDP, 286). È questa una verità sempre rivendicata da De Falla, dice il filosofo, e che «ha avuto il tempo di cambiare molte volte il suo viso».

Ritroviamo tutto ciò nel suo capolavoro L'amore stregone, dove la protagonista Candelas può liberarsi dallo spettro del passato e dai suoi incubi solo grazie all'amore, che trionfa su ogni influsso nefasto. Ma per far ciò le è occorsa l'arma della finzione e della seduzione (l'escamotage di Lucia che seduce il fantasma con le sue arti femminili), nonché alla fine il bacio sincero con Carmelo. Così il sortilegio viene scacciato e il morto muore definitivamente (la «morte della morte», dice Jankélévitch): le campane del mattino possono alla fine suonare liberamente e festosamente per celebrare una nuova vita, allorché la musica oscura e ossessiva non rimane che un triste ricordo.

Déodat de Séverac, o la serenità

Al compositore tolosano Jankélévitch dedica due saggi: «Le lointain dans l'œuvre de Déodat de Séverac», del 1954 e «Déodat de Séverac et la déambulation», del 1973, riuniti nella raccolta La présence lointaine.

Séverac ha ereditato dal suo maestro Albéniz la gioia profonda nel far musica, nonché la capacità di evocazione dei paesaggi spagnoli e, per quanto lo riguarda, della Francia meridionale. Ma la sua originalità consiste in una ricerca immediata della continuità temporale. Jankélévitch chiama questa caratteristica deambulazione, ossia una particolare andatura della sua musica somigliante a quella della «Promenade» dei Tableaux di Musorgskij. «...L'intera opera di Séverac è promenade nella sua essenza» (PL, 82). Si tratta della «mobilità» delle situazioni musicali, delle melodie, delle armonie e delle immagini: al contrario dello spirito dello sviluppo, in Séverac le idee melodiche cambiano e si rinnovano senza posa; le modulazioni percorrono le armonie e i gradi della scala come «lo scorrere di una tartana e il trotterellare dei muli che rientrano nella stalla» (ib., 83), ossia con naturalezza e spontaneità. Allo stesso modo le immagini musicali sfilano davanti a noi con «alacrità», «freschezza» e «disinvoltura» (ib., 82).

La musica di Séverac è infatti una specie di esplorazione tranquilla e serena della natura, ed è già naturale in se stessa: è una musica «essenzialmente atmosferica», fatta «per l'aria aperta e il cielo aperto». Il suo spazio è aperto, aereo e «stereofonico», nel quale la posizione delle cose appare indifferente rispetto alla loro semplice collocazione geometrica e trova il suo senso solamente nel movimento che le separa: «Nella stereofonia dello spazio musicale il fattore decisivo non è il vicino o il lontano, la propinquità o la lunginquità, la distanza numerica: la cosa decisiva è il movimento con cui la sorgente sonora si avvicina o si allontana...» (ib., 86).

Vi è allora in Séverac una concezione della natura del tutto opposta all'oscurantismo romantico e alla disperazione decadente: in lui infatti «il canto della terra non è un canto inumano e il canto dell'uomo a sua volta è il contrario di un soliloquio» - dice Jankélévitch con evidente allusione a Mahler. Séverac ignora «l'angoscia metafisica dello scoraggiamento (déréliction)» e ogni specie di «soggettività infelice» (ib., 93). Nel suo mondo tutti gli elementi, compreso l'uomo, comunicano felicemente tra di loro, come farebbe un fanciullo o San Francesco con gli uccelli.

Simpatia naturale, buon umore, spirito ludico e fantasioso, «allegria mattutina», sono questi i caratteri che fanno della musica di Séverac «un trattato di gaia scienza» (ib., 99), che dopo i «crepuscoli» dello spirito simbolista, cioè della malinconia e il pessimismo, inaugura «l'alba di un'epoca nuova». Ciò non vuol dire dimenticare l'aspetto tragico del mondo; al contrario «il tragico del destino proietta tuttavia la sua ombra sinistra sull'opera di Séverac» (ib., 99). Vi è in lui il sentimento dell'irreversibile, il rimpianto della giovinezza perduta e la protesta per la felicità mancata (ib., 102). Ma vi è anche l'affermazione della rinascita continua della natura, il rinnovamento, «più ostinato della morte» (ib., 105 ), che la primavera, ogni anno, annuncia nonostante il freddo dell'inverno: è questo il messaggio di speranza della musica di Déodat de Séverac, che Jankélévitch sembra quindi interpretare con i mezzi concettuali della filosofia di Nietzsche.

Federico Mompou, o l'intimità

Più sottinteso, «segreto» e «raffinato» rispetto ad Albéniz e Séverac è invece «il messaggio di Mompou» (come recita il titolo del saggio di Jankélévitch sul compositore spagnolo).

«L'universo di Federico Mompou - dice Jankélévitch - è un universo puerile» (PL, 152). Nella sua musica le impressioni non sono mai... impressioniste, bensì intime, cioè rimembranze di un'anima solitaria; esse non sono il tessuto variopinto di una natura oggettiva, seppure umanizzata, com'è in Séverac, ma «incanti nostalgici» in cui la natura ha sospeso e smorzato la sua forza oggettiva. In ciò egli è paragonabile a Louis Aubert, compositore «attento innanzitutto agli slanci della vita interiore» (PDP, 295) e al suo «cuore generoso».

«Mompou aspira a lasciar cantare la voce dell'anima pura, dell'anima sola, dell'anima stessa in se stessa (ipsa), cioè il canto dell'ipseità spirituale» (ib., 155). Secondo i cardini della filosofia di Jankélévitch, l'hapax del soggetto nella sua irriducibile unicità è l'ipseità metafisica e morale, che trova soltanto in se stessa la zona ineffabile di realtà e di verità: «La cosa più umile e nel contempo più preziosa tra tutte le cose - dice Jankélévitch nella conferenza De l'ipséité (PDP, 197) - non si dichiarerà mai da se stessa alla conoscenza. Per contro essa si rivela volentieri per l'amorevole intuizione e nell'atto del sacrificio». Si può dire allora che Mompou rappresenti in musica questa istanza di intimismo e di profonda sincerità. Egli resiste alle tentazioni dell'articolazione e dello sviluppo, si priva delle comodità della retorica e dell'amplificazione discorsiva e si rifugia nell'ascetismo della brachilogia e nel laconismo: vi è in ciò una forma di «lenimento della mestizia e consolazione dell'afflizione» (ib., 159) che rappresenta il lato soggettivo, ma non soggettivista, di un'identica reazione etica all'esteriorità negativa. Invece di ritrovare la serenità nella tranquillità naturalistica di Séverac o nella superiorità destinale di Fauré, Mompou la ritrova in una specie di catarsi interiore, che egli eredita dalla musica del dopoguerra, soprattutto dei Sei e di Satie, e che è una specie di interno contrappeso al dolore del mondo esterno.

Joaquim Nin, o l'umiltà

«In un'epoca esibizionista come la nostra, in un mondo votato esclusivamente alla divinizzazione dell'apparenza, il grande musicologo, pianista e compositore catalano (...) ha rappresentato un mirabile esempio di umiltà»: così esordisce Jankélévitch nel suo breve saggio su Nin.

Al pari della modestia, l'umiltà è una virtù strettamente legata alla sincerità (TV2,1, 285); ma al contrario dell'umiliazione, che è «assenza, totale inesistenza e totale inconsistenza», «ipseità sminuita» (ib., 363), l'umiltà è trasparente, è ipseità «dinamica». Infatti se l'umiliato può anche fingere per nascondersi dietro il comodo anonimato, eludendo così la sua responsabilità e compiacersi della sua nudità, l'umile al contrario fa della coscienza della propria condizione un'affermazione di dignità personale. E soprattutto «guarda in faccia l'affronto e, senza né sfidarlo né bravarlo, lo accetta nella semplicità del suo cuore» (ib., 386).

Così Joaquim Nin affronta e denuncia apertamente chi ha disdegnato e offeso la sua musica, ossia i «tromboni» della critica musicale ufficiale, i conferenzieri alla moda, la musicologia accademica, insomma «l'istrionismo e il bracconaggio musicale» e tutta la farsa della cultura musicale borghese. Contro questo mondo Nin rappresenta per Jankélévitch, oltre che «una grande figura scientifica e artistica», un vero e proprio «esempio morale». Alla vanità e all'egoismo contemporaneo ha opposto lo spirito barocco scarlattiano e quello autenticamente catalano; all'esteriorità frivola e alle isterie della violenza ha opposto i suoni di quei gioiosi carillons «che annunciano agli uomini la rotta dell'impostura» e l'evidenza della verità (PDP, 302).

Nikolaj Rimskij-Korsakov, o la trasfigurazione

Nella quasi totalità dei compositori considerati da Jankélévitch vi è una comune caratteristica tipicamente musicale che permette loro di sciogliere il nodo, apparentemente insormontabile, della contraddizione tra immobilità e temporalità, quindi tra morte e vita, tra pessimismo e ottimismo. Si tratta della «metamorfosi», che a livello tecnico riguarda la pratica della modulazione, mentre a livello metafisico concerne la questione della temporalità superiore (l'ordine tutt'altro). Da questo punto di vista il musicista più esemplare è Nikolai Rimskij-Korsakov, al quale Jankélévitch dedica un lungo saggio del 1955, apparso in La Rhapsodie e ripubblicato in La musique et les heures: «Rimskij-Korsakov et les métamorphoses» (MH, 73-209).

Anche nel caso del compositore russo è «l'ispirazione rapsodica» a muovere la sua arte, ossia la concatenazione delle scene e delle situazioni non secondo una logica dialettica ma secondo lo spirito di avventura e «la capricciosa andatura di un'improvvisazione» (MH, 74). Invece del principio dello sviluppo vige il «regime» della variazione, che investe non solo la melodia ma anche la strumentazione e soprattutto l'armonizzazione. Da una scena all'altra, da una strofa all'altra, la musica di Rimskij-Korsakov muta e si trasforma in modo caleidoscopico, «per le luci continuamente cangianti» e «per l'effetto dei bassi che ne modificano l'illuminazione» (ib., 78).

Come nel caso di Chopin, Fauré e Rachmaninov, i bassi (la mano sinistra) hanno un potere, per così dire, surrettizio, quasi uno slancio retrostante o una forza inconscia sotterranea: in situazioni tonali apparentemente immobili essi rendono possibile il paradosso di una trasformazione sur place o della «varietà monotona e dell'uniformità multiforme» (ib., 143); tutto ciò avviene per «mutazioni quantiche» e «pulsioni infinitesimali» (S, 34), di cui è difficile accorgersi e che sono impossibili da individuare. Infatti in Rimskij-Korsakov le tonalità si riferiscono a un ordine tutt'altro rispetto a quello tradizionale dell'armonia, benché siano fisicamente le stesse. I toni non sono giustapposti o concatenati in modo logico-spaziale, ma disposti secondo la loro diversità qualitativa, seguendo delle leggi di successione che sfuggono alle regole del sistema.

Per Jankélévitch Rimskij «non è lontano dalla convinzione che ogni grado della scala irradi intorno a esso una specifica e irriducibile atmosfera e che ogni tonalità abbia in assoluto il suo valore qualitativo e la sua funzione poetica» (MH, 136). Si può dire allora che Rimskij-Korsakov realizzi in musica l'analoga critica alla scala dei colori svolta da Bergson nell'Essai sur les données immédiates de la conscience; per il musicista il tono, come il colore, non esiste altro che nella relazione con altri toni (ib., 138). Così concepite, le modulazioni sono duttili, fluide ed esprimono «il carattere magicamente modificabile e fantasticamente instabile della realtà».

Grazie a mezzi puramente tecnici la musica mette quindi in atto e risolve la questione della mobilità della realtà e della sua relazione con la coscienza. Le «prodigiose» metamorfosi di Rimskij-Korsakov consacrano «la natura fluente, mutevole e arbitraria di ogni apparenza» (ib., 133). Perciò egli «si diverte a condurre un medesimo motivo successivamente su tutti i gradi della scala, a saggiarlo, come fa un improvvisatore, in tutti i toni e in tutti gli angoli visuali» (ib., 142). Inoltre getta l'ascoltatore nell'ambiguità, allorché uno stesso grado, per esempio la fondamentale, può essere interpretato, grazie alla mutevolezza degli accordi, sia come mediante che come dominante o tonica (ib., 144). «Il compositore prova così un perfido piacere a far perdurare l'indeterminazione, e in ciò l'orecchio, vittima e nel contempo complice, si lascia deliziosamente ingannare» (ib., 152).

Ricerca dell'indeterminato, dell'inverosimile, ironia e spirito burlesco, fantasmagoria e trasfigurazione, si riassumono in Rimskij-Korsakov nel mito della città invisibile: per sottrarsi agli assalti dei barbari la città di Kitež appare magicamente capovolta e invisibile agli sguardi dei malvagi. Ma, alla fine del suo capolavoro, tale dissimulazione porta alla liberazione e alla civiltà; in un'atmosfera primaverile e mattutina gli incubi vengono scacciati per far rinascere la speranza. Le dissonanze ovviamente si risolvono, ma la loro risoluzione sembra attuarsi in un altro ordine, il cui senso è possibile in virtù del percorso temporale che esse hanno seguito e, in generale, della natura proteiforme sia della musica che della realtà.

N o t e

[1] Henri Bergson, Œuvres, cit., p. 67

[2] Claude Debussy, Monsieur Croche, cit., p. 45
 
 

   II, 2
III,2 
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