- III -

CAPITOLO SECONDO

OPERE MUSICALI


«La città di Kitez non è sparita,
ma si è dissimulata».

(Fevronia) La leggenda della
città invisibile di Kitez, a. IV, sc. II

Proporremo ora alcuni esempi musicali e laloro analisi, nel tentativo di far emergere dalle note e dal testo musicato le analoghe suggestioni filosofiche interne al pensiero di Vladimir Jankélévitch, individuando soprattutto il percorso etico che ne costituisce il fondamento. Si tratta di brani e di opere che sembrano quasi essere state composti per far da spiegazione a determinati temi filosofici, ovvero esserne una sorta di implicita conferma.

Non si tratterà però di procedere né a un'analisi di tipo strettamente musicologico, né al contrario a un'elucubrazione vagamente letteraria: si tratta invece di un tentativo di approccio del tutto filosofico, anche se nel senso di una filosofia della musica fedele alla realtà della musica; si tratta cioè di un'analisi il più possibile tautegorica e fenomenologica, che deve cogliere i contenuti filosofici all'interno dei dati immediati della musica, nei loro caratteri concreti e immanenti. Se vi è un'analisi della musica, allora in questo caso essa non potrà essere altro che esistenziale o etica, seguendo ovviamente il modello della filosofia esistenziale e morale di Jankélévitch e facendo di tutto per evitare qualsiasi forzatura o qualsiasi arbitraria interpolazione.

Abbiamo scelto solo alcuni esempi che a nostro avviso appaiono molto pregnanti nel contesto della filosofia jankélévitchiana. È certo una scelta parziale, poiché tante altre musiche apparirebbero altrettanto significative; ma i brani scelti ci pare racchiudano una specie di esemplare paradigma della filosofia di Jankélévitch, ci consentano di ricostruirne il percorso e ne individuino inoltre tre differenti problematiche. Esamineremo allora un balletto (L'enfant et les sortilèges di Maurice Ravel), un'opera (La leggenda della città invisibile di Kitez di Nikolaj Rimskij-Korsakov), e infine un brano strumentale, pianistico (il terzo movimento delle Images oubliées di Claude Debussy).

Il movimento della coscienza morale: L'enfant et les sortilèges

Composto da Ravel nel 1925, il balletto narra l'incubo di un bambino che, come punizione per la sua cattiveria, vede gli oggetti quotidiani animarsi e trasformarsi in mostri. A salvarlo sarà una piccolissima buona azione, che permetterà il ritorno alla normalità.

All'inizio del balletto il bambino appare pigro, svogliato nel fare i compiti mentre vorrebbe invece andare in giro, mangiar dolci, tirar la coda al gatto e tagliare quella dello scoiattolo, ossia di dare assoluto sfogo alla sua libertà. È perciò un piccolo edonista, un Don Giovanni in erba che si prende gioco della morale e di tutti i doveri, preferendo invece gustare le gioie della vita. Ai severi rimproveri della madre risponde con insolenza: quando lei gli ingiunge di chiederle perdono, egli alza la testa e fa uno sberleffo. In ciò assomiglia ancor più a Don Giovanni, mentre la mamma, con il suo indice inquisitore e la sua autorità impersonale, è paragonabile al Commendatore, nella celebre scena dell'opera di Mozart in cui il dissoluto rifiuta l'ultima chance che il rappresentante della morale gli propone, prima di sprofondare nelle fiamme dell'inferno («Pèntiti, cangia vita: è l'ultimo momento! ... Pèntiti scellerato!»).

Quando la madre lo mette in castigo, egli è preso da una «frenesia di perversione»; innanzitutto pesta i piedi e grida a pieni polmoni verso l'uscio: «non me ne importa, non me ne importa». Così egli trasforma diabolicamente la punizione e la privazione della libertà in affermazione, testarda e impenitente, di una libertà soggettiva e incondizionata. La madre lo lascia solo e, per tutta risposta, egli dice: «mi piace molto di più restar solo!». Lei gli lascia del tè amaro e del pane secco e lui urla: «non ho fame». Questo atteggiamento insolente è tipico dei bambini, ma qui ha il senso di un rovesciamento dei valori, anzi di una neutralizzazione della punizione tramite l'assunzione estrema del suo contrario, dovuta a un improvviso cambiamento di segno. Vi è qualcosa di anarchico e di nietzscheano in questo atteggiamento: il bambino fa in modo di volere ciò che gli si impone e rende positiva e interna una coercizione negativa ed esterna.

A partire da questo momento egli si sente infinitamente libero e padrone assoluto dei suoi atti e delle sue decisioni; infatti mette all'opera tutta la sua aggressività verso tutto ciò che gli capita sotto mano: lacera le tappezzerie, sfonda le poltrone, strappa i libri ed esegue il suo desiderio precedentemente represso di pungere lo scoiattolo e tirar la coda al gatto. In questo modo si allontana in modo solipsistico dal mondo esterno, dagli oggetti, dagli animali e anche dagli uomini («Non amo più nessuno»). Egli realizza così la condizione estrema della malvagità: la solitudine e l'estraniazione. Per di più ne è cosciente, freddamente cosciente («Sono molto cattivo e libero»), per quanto la sua condizione si avvicini molto alla follia e alla schizofrenia (fuori di sé grida: «Urrah!»). Raggiunge così la condizione patologica e teratologica della tirannia, che sfrutta fino in fondo il suo potere assoluto su tutto, sulle cose e sulle persone, riflettendo con compiacenza sulla propria illimitata libertà e sulla propria estrema volontà di potenza.

Fino a questo momento la musica era per lo più modale: l'inizio era una tranquilla successione di quinte e di quarte, disturbata, solo nel momento dei rimproveri della madre, da delle dissonanze e da una certa frammentazione ritmica. Un nervosismo armonico e ritmico, in crescendo, rappresenta la «frenesia di perversione» del fanciullo, mentre il suo trionfante grido di libertà e di cattiveria è accompagnato da tremoli di accordi politonali alterati. A partire da qui la rassegna degli oggetti e degli animali presenta dei diversi e specifici numeri musicali differentemente caratterizzati.

Come un apprendista stregone il bambino finisce per rimanere vittima dello stesso meccanismo perverso che ha scatenato: dopo aver sfruttato tutte le sue risorse distruttive, ecco che comincia a subire la vendetta della natura e della materia. Infatti, «ebbro della devastazione cade spossato tra le braccia di una grande poltrona... Ma, sorpresa, i braccioli della poltrona si divaricano, il seggio arretra e la Poltrona, zoppicando pesantemente come un enorme rospo, si allontana». Evidentemente si tratta dell'inizio di un lungo incubo, in cui tutti gli oggetti si animano e gli animali si trasformano in mostri minacciosi.

Il fulcro di questo passaggio, tanto psicologico quanto morale, è una lunga pausa di silenzio, cioè l'inquietante punto coronato successivo all' «Ah!» di stupore del bambino che vede attuarsi il sortilegio. Il grottesco valzer danzato dalla poltrona e dalla bergère diviene simbolo della precarietà esistenziale nella quale il bambino è piombato per sua colpa. D'ora in poi ogni riposo gli saràè proibito e la sua coscienza non sarà più tranquilla. La galante danza tra i due mobili è per il bambino uno strano spettacolo, ma anche una minaccia, nel momento in cui egli si rende conto che i due oggetti parlano di lui: «Eccoci finalmente sbarazzati di quel bambino...». La surreale danza unisce estraneità e coinvolgimento del bambinoprotagonista; perciò la musica, pur mantenendo un'andatura graziosa, stile XVIII secolo, contiene delle irregolarità ritmiche e delle dissonanze che ne sottolineano l'ambiguità.

Ugualmente inquietante dal punto di vista psicologico ed esistenziale è l'esibizione dell'orologio: ferito nell'onore, perché il bambino gli ha rotto il pendolo, il vecchio orologio da muro ripete senza posa «Ding, ding», accompagnato per l'appunto da una musica meccanica e ripetitiva. Esso rimpiange i bei tempo quando faceva risuonare le «dolci ore»: l'ora di dormire e l'ora di svegliarsi, l'ora dell'attesa e anche «l'ora benedetta in cui nacque il bambino cattivo». Rompendo il pendolo quindi il ragazzo ha interrotto il tempo incantato della vita e della poesia, che è un tempo autentico, superiore anche alla morte («Forse nessuno sarebbe mai morto»): è la durata reale, i cui caratteri sono in un certo senso oggettività ed eternità («Niente sarebbe mai cambiato»). Questo atto violento invece ha dato avvio alla temporalità del tempo inautentico della prosa e della ripetizione inerte.

Il numero seguente, della teiera inglese e della tazza cinese, è molto comico, perché i due oggetti dialogano in un miscuglio linguistico di inglese e francese; inoltre il pezzo è in stile music-hall: tutto ciò aumenta il senso di straniamento provato dal bambino.

Quando il sole è al tramonto il ragazzo comincia a «tremare di paura e di solitudine»; perciò fa per avvicinarsi al fuoco per cercare un po' di calore, ma il terrore si impadronisce di lui. Il focolare, nume tutelare della casa e simbolo sacro del calore materno, diviene al contrario uno spirito maligno che schizza fuori dal camino e «gli sputa in volto una saetta scintillante». «Io riscaldo i buoni ma brucio i cattivi!», grida al piccolo riversandogli addosso degli abbaglianti arpeggi. Ma oltre che la morale esso gli impartisce una brevissima lezione di metafisica: «Tu hai offeso tutti gli Dei benevoli che tendevano tra te e l'infelicità una fragile barriera!». È un limite invisibile e labile, alla cui soglia si trova ogni uomo, anche il più moralmente irreprensibile. Per varcarlo basta un gesto, un atto, una parola e persino un'intenzione. Basta un soffio, un non-so-che di impalpabile, un quasi-niente, per cadere dalla durata reale della nostra vita alla temporalità letale della ripetizione meccanica e dell'infelicità. Come l'orologio anche il fuoco è il simbolo della situazione esistenziale e metafisica in cui il bambino si viene a trovare per la sua cattiveria. La cenere, che dopo una breve lotta spegne il fuoco, è inoltre il simbolo dell'oscurità totale e ineluttabile che invade sia lo spirito del bambino che la sua camera. «Ho paura, ho paura», dice a bassa voce con un doppio intervallo di seconda discendente simile a un singhiozzo.

Gli fanno quindi eco delle «piccolissime risa» dei personaggi dipinti sulla carta da parati da lui precedentemente strappata: i pastori, il mandriano, il cane, la capra esprimono in un triste balletto «l'amarezza per non potersi più unire», cioè per aver perduto la loro dimensione temporale incantata ed eterna («Eterni sembravano i nostri zufoli...»). Inoltre, strappando queste tappezzerie il bambino ha rinnegato il caldo e tenero ambiente in cui ha vissuto e in cui è cresciuto, ossia il passato felice della prima infanzia, quando era ancora innocente; oltre che cattivo egli è stato ingrato verso tutte queste immagini, alle quali «egli deve il suo primo sorriso». La triste pastorale è allora un'evocazione di quest'età dell'oro ormai trascorsa e della felicità che le era connessa.

Il rimpianto del protagonista è ancora più forte quando appare la Principessa delle Fiabe, proveniente da qualche libro anch'esso strappato: è accompagnata da arpeggi dell'arpa e dialoga poi con il flauto nel registro grave. All'inizio parla in terza persona, rispondendo allo stupore del bambino: «Ah! È Lei» - «Si, è Lei, la tua Principessa incantata». Il pronome personale isolato e la maiuscola indicano il ruolo psicologico preminente di questo personaggio sugli altri: si tratta quasi di una dea, ovvero la sublimazione e la proiezione della figura materna, «primo amore» del bambino. Infatti il suo canto è una specie di ninnananna, che evoca i momenti felici quando il bambino la cercava e cantava: «lei è bionda, con degli occhi colore del tempo». La dolce melodia si interrompe allorché lei all'improvviso esclama: «Ma tu hai strappato il libro, che cosa sarà di me?». Subito la tonalità cambia e gli arpeggi in crescendo cominciano ad assomigliare più a delle scintille che a una capigliatura fluida, proprio quando lei esprime il timore che il mago cattivo possa condurla «al sonno della morte».

Dal momento in cui la malvagità del bambino ha interrotto l'atmosfera magica della fiaba, si è innescato quindi un processo irreversibile che fa trionfare il male e conduce alla morte. Il bambino vorrebbe salvare la principessa, ma è troppo debole; la sua impotenza assume qui un carattere psicoanalitico, espresso dai tre simboli fallici dell'albero, dell'uccello che canta e della spada. Il primo è spoglio, il secondo ha smesso di cantare e infine il bambino non riesce a trovare una spada per difendere la adorata principessa. Oltre al complesso di castrazione emerge anche l'aspetto fortemente erotico di questo passaggio, sottolineato dalla promessa di felicità insita nella temporalità della fiaba: per un sortilegio interno al racconto, il bambino avrebbe potuto essere il «Principe dall'elmo d'aurora» che avrebbe conquistato la bella dama. In altri termini, egli avrebbe sostituito il padre (il principe) nel contendersi la madre (la Principessa). La scena termina con il canto desolato del bambino rimasto solo dopo aver invano trattenuto «dalla sua capigliatura dorata, dai suoi veli, dalle sue mani bianche» l'amata principessa. Quando poi cerca tra i fogli sparsi la fine della fiaba, capisce che senza l'amore e la bontà i libri non sono che delle carte aride, «delle amare e aride lezioni».

E subito, giusto a proposito, le cifre di un libro di matematica, «maliziose e smorfiose», cominciano ad animarsi, annunciate da un tremolo in fortissimo. Se la magica temporalità della fiaba è stata così sventuratamente distrutta, la temporalità meccanica dei numeri si impone come un incubo ancor più inquietante: sulla scena appare un «vecchietto gobbo, adunco, barbuto, vestito di numeri», evidente incarnazione di un arcigno professore di aritmetica. Su un ritmo ossessivamente regolare egli recita dei «problemi in briciole», danzando sinistramente attorno al bambino, e gli propone senza pausa dei calcoli impossibili ed errati. Egli rappresenta quindi un'altra mostruosità: non il fine dell'insegnamento ma l'enumerazione pura, il cui scopo è solo quello di turbare la mente di un fanciullo; rappresenta altresì la razionalità apparente, la quale è tanto ostentata quanto violenta, in ogni caso al di fuori di ogni discussione e di ogni critica, nonché di ogni buon senso. Infatti il bambino non è lontano dall'impazzire, poiché si rende conto della falsità di quei calcoli: «Sette per nove trentatré?» - si chiede stupefatto e sconcertato, ma senza ottenere una risposta razionale e soddisfacente. Le armonie cromatiche e la scala discendente finale sul pedale in più-che-fortissimo sottolineano questo stato psicologico del protagonista.

Stanco e solo («Oh! La mia testa») egli potrebbe riposarsi giocando col suo gatto nero, che esce da sotto la poltrona; ma gli appare grande e terribile, facendo intendere di voler giocare, «come con un gomitolo», con la testa bionda del bambino. Il quale, inorridito, gli chiede quasi per rassicurarsi: «Magari parli anche tu?». Ma la risposta del gatto è ancor più inquietante, perché gli fa segno di no! Così esso è doppiamente diabolico, perché per rassicurare il ragazzo finisce per spaventarlo ulteriormente. Esso rappresenta il lato malvolente della verità, che si autoproclama sincera allo scopo di far del male. In effetti il suo duetto con la gatta bianca è il pezzo più sgomentoso di tutto il balletto. I glissando ascendenti-discendenti, che imitano il miagolio, sono all'inizio molto teneri. A poco a poco però la scena d'amore tra i due felini si trasforma in un crescendo di voluttà animale e nel contempo di angoscia. Il bambino dal canto suo, benché pauroso, segue il gatto che va a raggiungere la gatta in amore: si può dire che questo è per il ragazzo il momento della sua iniziazione sessuale, per quanto espressa in una forma abnorme e perversa.

Attirato dal mistero del giardino «illuminato dalla luna piena e dal roseo chiarore del tramonto», il piccolo protagonista inizia ad ascoltare lo strano concerto allestito dalla fauna e dalla flora: «insetti, raganelle, rospi, risolini di civette, mormorii di brezze, usignoli». Ma anche la natura non è benevola nei suoi confronti: gli alberi gemono per le ferite da lui inflitte con un temperino; una libellula piange la sua compagna già torturata dal bambino, i pipistrelli rivendicano la loro madre uccisa, lo scoiattolo, rinchiuso in una gabbia, vuole la sua libertà. Infine tutte le bestiole si uniscono in una frenesia di vendetta.

La danza della libellula è un valzer lento, vagamente macabro, che presenta un'evidente sfasatura ritmica e tonale tra voce e accompagnamento. A un ritmo regolare e piuttosto rigido si oppone una melodia un po' ondulante, in stile Ländler viennese. Tutto ciò produce il corrispettivo musicale del sentimento di smarrimento del bambino, la sua doppia impressione di familiarità e di straniamento suscitata dagli oggetti che lo circondano. Però il dialogo tra la raganella e lo scoiattolo, e poi tra quest'ultimo e il bambino, rappresenta una sorta di breccia della speranza e la possibilità per ciascuno di scegliere tra il bene e il male: lo scoiattolo, imprigionato dal bambino in una gabbia, è qui il simbolo di ogni vittima della malvagità umana e di tutte le ingiustizie e le vessazioni. Come il Socrate del Fedone egli accetta il suo destino con dignità e rifiuta la proposta di fuga che la frivola raganella gli rivolge («Sarei potuto fuggire, ma le tue quattro zampette viscide non valgono le mie»). Poi il bambino fa le sue scuse allo scoiattolo «...l'ho fatto per meglio osservare la tua velocità, le tue zampette, i tuoi begli occhi». Ma la sarcastica risposta dell'animale esprime una profonda tristezza e nello stesso tempo una grande coscienza morale della perduta libertà: «Tu sai quel che i miei begli occhi riflettevano? Il cielo libero, il vento libero...».

Dopo questa parentesi e al culmine della terribile e vorticosa lotta danza sabbatica degli animali, nella quale il bambino viene «preso, liberato, ripreso, passato da zampa a zampa», giunge il momento della metamorfosi etica, della svolta che fa cambiare tutta la situazione: al punto massimo della confusione, si sente il grido acutissimo di un piccolo scoiattolo ferito; il bambino strappa quindi un nastro dal collo, lega la zampa ferita e poi cade stremato.

Un lungo punto coronato rappresenta sia lo «stupore tra gli animali» sia il fulcro dell'inversione del loro atteggiamento e del loro giudizio nei confronti del bambino. Questo momento fa da pendant con l'altro punto coronato dell'inizio, ma questa volta l'identico silenzio acquisisce un segno opposto: mentre il primo era l'inizio dell'incubo, questo silenzio è la sua fine; mentre il primo indicava un atto malvagio, questa volta invece indica un'azione buona, un piccolo atto morale che riscatta il bambino di tutti i suoi peccati e le sue colpe.

Da questo momento comincia una musica dal carattere del tutto differente: un lento in stile fugato e vagamente religioso. È il brano che più di ogni altro faceva letteralmente commuovere Jankélévitch, fino alle lacrime, come egli stesso ebbe a confessare. Si tratta di una specie di glorificazione del protagonista, una sorta di apoteosi mistica che accompagna la creatura in paradiso. In effetti tutti gli animali, che fino a poco fa apparivano come dei diavoli, ora sono degli angeli che sollevano il bambino e lo riconducono a casa, da sua madre. «Catturate (charmées) dal moto del cuore» (MI, 151) le bestie si riconciliano con il bambino e lo festeggiano con capriole di gioia. «Il est bon l'enfant, il est sage...», cantano nell'Andante che fa da epilogo, mentre «la luna velata, l'alba rosea e dorata inondano il giardino con una chiarezza pura». Anche la tonalità, Sol maggiore, rappresenta l'atmosfera di redenzione, di purezza riconquistata, di felicità e di beatitudine nella quale il protagonista, avvolto da un'aura che lo fa rassomigliare a un santo, può finalmente tendere le braccia verso sua madre.

Il tutt'altro ordine della città di Kitez

La leggenda della città invisibile di Kitez (1907) è il capolavoro di Nikilaij Rimskij-Korsakov. [1]L'opera racconta la leggenda di una città immaginaria, nella Russia medievale, assediata dai Tartari. Essa riesce a sfuggire al saccheggio grazie al miracolo di divenire invisibile agli occhi degli invasori. Protagonista è la vergine Fevronia, fidanzata del principe ereditario Vsevolod; le sue preghiere e la sua virtù e la sua dolcezza permetteranno alla città di trasfigurarsi e di raggiungere, alla fine, la dimensione sovrumana e «tutt'altra» del paradiso.

All'inizio Fevronia vive in una capanna in mezzo alla foresta, in armonia con la natura e con tutte le creature: parla agli uccelli e li nutre, coccola gli orsi e cura la ferita di un alce. Vi è qui sia un aspetto panico e pagano di questo rapporto con la natura sia un aspetto cristiano e francescano in particolare. Da un punto di visto filosofico invece Fevronia rappresenta l'innocenza di un rapporto immediato e felice con il mondo: è il soggetto fenomenologico che percepisce la realtà senza la mediazione dei concetti e della ragione, cioè senza raddoppiare il significato in un'essenza trascendente; mentre a livello etico è l'incarnazione della purezza innocente, non contaminata dal vizio di compiacenza, dall'interesse egoista e da alcun germe di malvagità. Fevronia manterrà questo atteggiamento anche quando verrà a contatto con il mondo civilizzato di Kitez.

Il principe Vsevolod, smarritosi nel corso di una caccia e ferito da una fiera, la scorge e rimane come folgorato («...d'où vient-elle?»). Lei lo saluta, lo invita a mangiare e gli cura la ferita rassicurandolo amorevolmente («Non ti preoccupare. Solo la morte è senza rimedio»). Il loro dialogo poi è una piccola disputa filosofica e teologica in nuce: lei gli parla della sua umile vita nel cuore della foresta, in cui «visioni e voci meravigliose» appaiono, in primavera, come dei sogni. Al che il civilizzato, austero e un po' razionalista Vsevolod le risponde: «I sogni sono menzogneri, ora noi cerchiamo la verità». Le parole della ragazza sono molto elusive, quasi ironiche e socratiche: «Io non sono una sapiente, io sono semplice». Ma, nonostante questa semplicità, Fevronia mostra di conoscere bene il valore della fantasia e dell'immaginazione, poiché la sua risposta mira a salvaguardare la dignità dell'illusione, molto più prossima alla natura rispetto alla ragione. Invece la risposta alla domanda seguente («Vai qualche volta in chiesa?») dimostra il suo spirito panteista: «...Dio non è dappertutto?... tutt'intorno è un enorme tempio». E il suo canto espone il leitmotiv della grazia (Mi, Do, Re, Mi): «Giorno e notte, è un unico atto di grazia cantato da tutte le voci». Tuttavia il principe insiste a volerle fare lezione di realismo: «Noi siamo quaggiù per conoscere lacrime e pene». Ma la ragazza è molto determinata: «Come si potrebbe vivere ed esistere senza gioia?», e lo invita ad amare senza riserve la vita e l'umanità: «Amiamoci così come siamo, o giusti o pieni di gravi peccati». Per Fevronia l'amore si spande su tutta la creazione come una «luce ineffabile». In questo punto appaiono due motivi, evocatori di un meraviglioso giardino e degli uccelli del paradiso, quindi la figura pentatonica delle campane che Fevronia crede di sentire in cielo, la quale sarà il motivo del miracolo e del destino di Kitez.

Colpito ed «esaltato» dalla dimostrazione di saggezza e dalla semplicità e purezza della ragazza, il principe le propone subito di sposarlo: lui ricco, nobile e gentile, lei povera, plebea ma nobile d'animo. In altre condizioni la loro unione sarebbe stata impossibile, poiché le regole e le convenzioni sociali avrebbero imposto ostacoli insormontabili. Ma qui il rapporto tra i due amanti si pone già su un piano differente, in cui il valore della ricchezza spirituale e interiore supera quello della ricchezza materiale ed esteriore. Questa superiorità si esprime nella virtù dell'umiltà, che è il contrario dell'egoismo: entrambi invece tengono a dichiarare di non essere degni dell'amore dell'altro; così le qualità di ordine morale superano ogni differenza di ordine sociale, nonché ideologico e culturale. Concepita in tal modo l'unione potrà essere veramente autentica e solida, forse eterna, essendo sia un'unione tra due spiriti sia un'integrazione con la natura. Anche la musica sottolinea il fatto che questa unione ha un valore di eternità: il breve duetto d'amore infatti è la sintesi del tema di Fevronia con quelli della foresta e del cucù, come se la natura intera, animale e vegetale, accompagnasse con gioia la realizzazione, per ora soltanto terrestre e materiale, dell'amore.

Ma quando giungono i compagni di Vsevolod vi è la provvisoria separazione: il principe deve rientrare, ma rassicura Fevronia dicendole che le invierà i suoi scudieri e che proteggerà la foresta. La ragazza però è «piena di timore e di emozione», forse a causa della partenza improvvisa, sicuramente per il rimpianto di abbandonare la sua dimora, i suoi «sogni placidi» e infine la sua innocenza: va a vivere in una città («tra gli umani»), si sposerà e quel mondo di purezza, una volta abbandonato, non tornerà più. Quindi è cosciente dell'irreversibilità del tempo, dell'ineluttabilità del destino e dell'irrevocabilità della scelta. Anche se si tratta di una scelta d'amore, lei conosce il prezzo da pagare alla necessità del divenire.

L'atto secondo rappresenta poi il contatto con la realtà: Fevronia si appresta a sposare Vsevolod. Nella Piccola Kitez, sulla riva destra del Volga, vi sono scene di festa popolare in attesa del corteo nuziale. Ma il canto del bardo presagisce sventura: egli racconta di cervi dalle corna d'oro che hanno visto la Santa Vergine piangere profetizzando la distruzione della città. I borghesi invece, disdegnando l'esultanza del «vile popolo», considerano il matrimonio calamitoso, essendo la fidanzata priva di titoli nobiliari.

Vi è qui un aspetto sociale molto significativo: come si sa, la borghesia rappresenta la civilizzazione economica, ossia il profitto e l'egoismo imprenditoriale. Infatti i borghesi di Kitez temono la scomparsa della città perché questo evento costituirebbe la fine dei loro traffici e dei loro affari. Quindi essi rappresentano il lato prosaico e materiale della civilizzazione, che si fonda sulla razionalità logica e sulla riduzione a merce della temporalità. Essi fanno parte di quella classe da poco arricchitasi, e per questo disdegnano disprezzano la povertà e ammirano la nobiltà, aspirando a succedere a coloro che hanno appena combattuto e a adottarne i metodi. Il popolo invece è più legato alla classe dominante, ma con sincerità e ingenuità, non nell'intento di salvaguardare i propri interessi. Infatti, a differenza della reale situazione storica medievale, in questa Kitez i nobili sono illuminati, vogliono la pace e il benessere di tutti, non il potere e il puro dominio («...una città che fosse un porto di pace per tutti gli infelici, gli affamati, gli emarginati» - dice il principe Yuri, fondatore di Kitez).

Il piccolo gruppo di borghesi medita quindi di far fallire la cerimonia, e a questo scopo si servono di un vecchio mendicante ubriaco, Grichka. Questo personaggio rappresenta l'antipode etico di Fevronia, come la malvagità in rapporto alla bontà e la bruttezza alla bellezza. Ma questa opposizione, come si vedrà, troverà inaspettatamente dei punti di tangenza. Quando Grichka cerca di farsi strada verso le prime file del corteo viene brutalmente respinto. Fevronia, notandolo, prende le sue difese. Il vecchio la insulta con astio e insolenza («...non essere altera con me, siamo della stessa pasta!»), ma la principessa gli risponde sempre con grande dolcezza («...mi sento intimidita come se fossi colpevole, e sicuramente mi inchino davanti a tutti»).

Ma allorché riprendono per un attimo i canti di giubilo, inizia a insinuarsi un motivo minaccioso, il tema dei Tartari. E infatti i corni, le urla femminili e una colonna di fumo annunciano l'arrivo dei barbari e il popolo terrorizzato fugge da tutte le parti gridando: «Non sono esseri umani ma demoni... Dove nasconderci? Tenebre copriteci, montagne dissimulateci». Gli invasori saccheggiano la città e torturano gli abitanti per farsi indicare la strada per la Grande Kitez, ma nessuno cede. Così catturano Grichka per farsi condurre alla cittadella. Risparmiano e portano con sé anche Fevronia, colpiti dalla sua bellezza.

Un dubbio morale si insinua però nel vecchio ubriacone: malgrado la sua viltà egli non vuole tradire il suo popolo. La musica sottolinea questo cambiamento poiché il canto del personaggio, poco prima sbracato e grossolano, ora diventa malinconico e procedente per gradi discendenti sull'ottava, somigliando un po' alla conclusione del tema di Fevronia. Come il personaggio, anche la melodia a lui collegata - esprimendosi per semplici scansioni intervallari - sembra perciò essere toccata dal carattere della ragazza. Grichka è sul punto di cedere alle minacce di tortura, anche se è consapevole di essere un traditore, paragonandosi egli a Giuda. Fevronia, temendo il peggio, prega Dio di rendere invisibile la città di Kitez.

Il terzo atto inizia con il racconto dello scudiero Feodor, che riferisce al popolo e al principe Igor quello che è successo nella Piccola Kitez. I Tartari gli hanno cavato gli occhi. Il suo canto è pieno di mestizia e di rassegnazione all'ineluttabile e si collega al canto del bardo, cieco anch'egli, dell'inizio del secondo atto. La cecità, fin dalla tragedia greca, è il simbolo tanto della profezia quanto dell'impossibilità umana di controllare il destino, nonché dell'oscurità nei confronti del futuro, in una parola, dell'impotenza e della fine delle speranze.

Dal lato suo Vsevolod chiede notizie sulla principessa: tutti rimangono delusi sentendo lo scudiero riferire che la giovane collabora con i nemici (è questa una calunnia di Grichka). Preso anch'egli dalla malinconia, il principe Yuri intona un Andante mistico: «Oh gloria, vana ricchezza! Oh nostra vita effimera!». È una lunga e intensa meditazione animata da una profonda saggezza, paragonabile all'aria di Arkel del Pelléas et Mélisande di Debussy; il senso della morte è qui sottolineato dall'intervallo arcaico di quinta vuota e dal ritmo funebre. Inoltre risuona il leitmotiv delle campane, ma senza alcun trionfalismo, solo con un sentimento di nostalgia per la felicità perduta e un senso di vanità metafisica («Con insensato orgoglio pensavo di aver fondato per l'eternità una città che fosse un porto di pace...»). Tutti pregano la Santa Vergine, ma il principe Vsevolod alla pia invocazione associa l'azione, la prassi; egli è cosciente che l'inattività vuol dire la sconfitta e, benché in modo disperato, esorta i guerrieri ad affrontare il nemico. Per lui la religione, la morale, la bontà e la benevolenza non valgono niente se posti su un piedistallo di purezza e di passività: per lui, come per ogni resistente, bisogna far pure uso della violenza per difendere quei valori.

Ma proprio nel momento della partenza avviene il miracolo: le campane della chiesa iniziano a suonare da sole e una nebbia luminosa ricopre la città. Appare il tema della trasfigurazione, che riproduce in tremolo la melodia delle campane. Stupefatti, tutti si chiedono: «Da dove giunge questa gioia luminosa? È la morte o una nuova nascita?». In effetti quest'ultima domanda non è soltanto frutto di un'inaudita meraviglia, ma concerne l'interpretazione filosofica di tutto il seguito dell'opera. Se fino a questo punto l'azione ha mantenuto una certa verosimiglianza, a partire da questo momento non è più possibile sapere se si è nel sogno o nella realtà. L'evento della trasfigurazione riguarda anche l'azione drammatica: a partire da qui l'opera muta completamente il suo registro, tanto che molti critici hanno rilevato una certa sproporzione.

Ma se gli strumenti di analisi critica si rivelano insufficienti a questo riguardo, solo uno studio filosofico e metafisico dell'opera può mettere a fuoco il senso totale e unitario dell'azione. In tal modo anche le lunghezze e l'eccesso di talune scene risultano dotate di un significato e di una giustificazione ulteriori. Perciò si può supporre che la scena seguente e l'ultimo atto non facciano più riferimento alla realtà: forse la città è stata effettivamente distrutta e tutti gli abitanti uccisi, anche Vsevolod, Ivan, Feodor, Grichka e Fevronia. Forse nel luogo dove sorgeva la città non vi sono più che rovine, fumi e cadaveri gettati sulle strade, nient'altro che miseria, morte e desolazione. Che le cose si siano svolte in questo modo ci fa allusione l'interludio della battaglia di Kerjenets, nella quale i Tartari sconfiggono i russi. Ma, giunti a questo punto, l'interesse per la realtà non ha più senso. Il miracolo della dissimulazione di Kitez era il desiderio comune di tutto un popolo, che è stato appagato in una specie di sogno collettivo. Come il valore di un'utopia spesso non dipende dalla sua effettiva realizzazione, ma dalla tensione e dalla carica morale di cui è animata, così la realtà nuda e cruda perde il suo senso a favore del sogno, auspicato e anelato malgrado la resistenza che essa oppone.

Tutto ciò che avviene nell'opera di Rimskij dopo questo Interludio orchestrale non è altro quindi che la soddisfazione di un'aspirazione, il cui valore immaginativo non è paragonabile con la realtà più lucida e trasparente; infatti il livello nel quale essa si situa è tutt'altro rispetto a quello in cui si pone la semplice alternativa dualista. La fantasia sostituisce la verità e acquisisce una dignità superiore rispetto a quella risultante dalla loro semplice e prosaica comparazione. Tuttavia ciò che succede viene raccontato in modo del tutto realistico, poiché non si tratta di un'illusione etica, cioè di una velleitaria evasione, ma al contrario di un autentico sogno a occhi aperti. È per questo che l'azione riprende esattamente dal punto in cui era stata lasciata, come se l'utopia consistesse qui nel riprendere un filo precedentemente interrotto, un sentiero abbandonato, un mondo possibile anche se ormai fallito.

Infatti la seconda scena inizia semplicemente con la naturale e logica conseguenza di tutti gli antecedenti: Grichka conduce le armate tartare ai bordi del lago e di fronte al posto dove sorgeva Kitez, ma tutto è coperto da nebbia e perciò i Tartari diffidano del vecchio. Si assiste qui a un ulteriore sconvolgimento morale di questo personaggio, assunto anche a livello musicale; il suo sentimento di rimorso si esprime nella frase: «Non avete sentito tintinnare durante il viaggio i battenti delle campane che sembravano rivolgersi dritto al cuore?» (e poi: «Oh! Queste campane picchiano il cranio di Grichka come dei colpi di mazza!»). L'ubriacone, il malvagio, il miscredente, anch'egli ha un cuore turbato dal sentimento di nostalgia e dalla coscienza di fare qualcosa di cattivo. Infatti i suoni di campana che egli sente non sono certo sereni, cioè disposti secondo il loro naturale diatonismo; appaiono invece connotati da insistenti oscillazioni cromatiche e seguono un ritmo meccanico e ossessivo, quasi come un incubo di cui non ci si riesce a liberare. Così la musica riproduce fedelmente la contraddizione morale dell'animo di Grichka, il suo sconvolgimento interiore e, in un certo modo, il suo senso di colpa.

Succede anche che il miracolo riesca a seminare la discordia tra i barbari: essi si dividono il bottino e si ubriacano. I due capi si contendono Fevronia, fino ad arrivare alla rissa, in cui Bouroundaï uccide Bediaï. Da notare che il primo è animato dall'amore e vuol sposare la ragazza mentre l'altro voleva ridurla a schiava: perciò anche tra i mostri vi è sempre un minimo di bontà, e a prevalere è pur sempre la speranza che il meno cattivo possa vincere.

Quando tutto l'accampamento si è assopito Fevronia si lamenta e piange la morte di Vsevolod in battaglia. Appeso a un albero, Grichka le chiede di liberarlo, pur confessandole la sua calunnia e mostrandosi per giunta indifferente alla possibile morte della fanciulla («Ciò che tu avevi l'hai perduto e tra gli uomini del principe neanche dieci son sopravvissuti. E a Dio non piaccia che resti qualcuno in vita!»). Egli dimostra così di essere tanto cinico quanto nichilista: se tutti sono scomparsi allora non vale più la pena di sopravvivere, e lui stesso intende fuggire nel cuore della foresta per trovare la salvezza della sua anima. Ma Fevronia gli risponde: «Perché a Dio non piaccia?», ossia come è possibile che Dio disdegni la vita, anche di un solo uomo, dopo la disfatta completa di un popolo? La morte, la sconfitta, l'ingiustizia - sembra dirci - non possono mai giustificare l'assoluto annichilimento dell'essere. Poi la principessa parla con Grichka di gioia e di perdono («E tu pèntiti sinceramente»), sullo stesso tema musicale con il quale parlava d'amore a Vsevolod nel primo atto: quest'affinità melodica vuole quindi sottolineare la strana parentela tra due uomini diversissimi, sia per carattere che per censo, ma entrambi oggetto dell'insegnamento d'amore e di morale di Fevronia. Quindi la ragazza si decide a liberare Grichka, ma gli accordi dissonanti ci ricordano che non si può trattare di una vera libertà. Infatti il tintinnio delle campane continua a tormentare il vecchio fino a spingerlo al suicidio. E tuttavia, una volta giunto in riva al lago, egli assiste a un ulteriore miracolo: la città si riflette nell'acqua, sotto la riva deserta. Le campane «sempre più intense e solenni», ricominciano a risuonare: questa volta egli le ode in modo del tutto differente («Là dove c'era il demonio ora c'è il buon Dio...»), perché per lui si tratta di un miracolo interno che riesce a trasfigurare la percezione esterna. Svegliati e terrorizzati da tale insolito spettacolo, i Tartari fuggono da tutte le parti.

Nel quarto atto ritroviamo Fevronia e Grichka soli nella foresta, stremati e ai limiti della follia. Il vecchio ubriacone riprende il suo atteggiamento derisorio e spavaldo del secondo atto, mentre la principessa è sempre pietosa e paziente. Di nuovo egli ricorda alla ragazza le sue origini umili, e lei acconsente a un paradossale accostamento: Grichka rappresenta il mondo della terra, mentre lei rappresenta il cielo e la purezza. Come è possibile che questa purezza purissima limpidissima si accosti all'impurità peccaminosa e blasfema dell'ubriacone? Come è possibile che due personaggi così diversi trovino un comune legame e una soglia di intesa e di accordo? Infine, come è possibile trovare una via di redenzione per un personaggio che si rifiuta così impudentemente di credere in Dio? Si tratta naturalmente di un ennesimo miracolo di questa storia: dopo tutti gli insulti ricevuti, Fevronia sa trovare ugualmente il modo per far pregare Grichka: la cieca fedeltà alla «terra umida» - di cui parla il personaggio - si trasforma nella lode panteista alla «misericordiosa Nostra Signora».

Il cristianesimo mistico si lega così a un paganesimo popolare sfrondato da ogni ambiguità irrazionale e riscaldato dal soffio della sincerità francescana. L'umiltà rivendicata astiosamente dal vecchio si trasforma nella serena umiltà del cantico delle creature. Grichka resta avvinto dalla litania proposta da Fevronia, ma alla fine rimane preda di un attacco di follia, sottolineato dall'interruzione dello stile recitativo e del corale, a favore di accordi dissonanti e di tremoli acuti. L'uomo si lancia in una danza selvaggia, tormentato da visioni deliranti, fino a riparare la sua testa nel seno di Fevronia: «L'anima di una ragazza è trasparente come il vetro di una finestra, e attraverso cui io vedo tutto il male» - sottolineando che la natura dei suoi peccati è solo un turbamento interiore, un malinteso originario, uno sviamento non irrimediabile. Quindi scappa via urlando selvaggiamente come divorato dalle fiamme dell'inferno.

Rimasta sola, Fevronia si adagia sull'erba e, a poco a poco, ritrova un certo benessere: «Coricata così mi sento bene, non sento più alcuna stanchezza e la terra sembra ondeggiare dolcemente come una culla». È evidente che si tratta del momento in cui sta per morire. Improvvisamente assiste alla trasformazione della foresta nel paradiso. Fiori meravigliosi sorgono dalla terra, candele si accendono sui rami degli alberi, facendole provare un «benessere sconosciuto»: «È questa forse la primavera che torna?» - si chiede. Ha quindi ritrovato la natura del primo atto come l'aveva lasciata, ma trasfigurata e animata di un «profumo sconosciuto». L'estrema finezza dell'orchestrazione, i cromatismi e le modulazioni traducono queste sensazioni paradisiache («Anima mia, respira a pieni polmoni!»). La voce dell'uccello Alkonost, il cui leitmotiv appariva già nel primo atto, le annuncia l'arresto del tempo, l'oblio del passato e la pace eterna. Accettata serenamente la morte, Fevronia ritrova quindi il suo fidanzato Vsevolod, che le appare illuminato da una luce dorata. Al dubbio della ragazza («Sei tu o un doppio del principe?») egli risponde che è vivo e che «il Signore ci infonderà una gioia di cui non abbiamo conoscenza, rivelerà ai nostri occhi l'ineffabile luce eterna». Vsevolod ovviamente appare nella forma di uno spettro, ma non di un doppio: ciò vuol dire che nell'ineffabile luce del paradiso le anime non sono morte ma vive («Io sono vivo», insiste Vsevolod). Certo, esse sono vive secondo leggi differenti e secondo una gioia inconoscibile («la gioia di un altro mondo»); e d'altra parte non sono vive in senso biologico, ma di una vita pneumatica, la quale non è però dotata di minore realtà.

In questo mondo-altro, insomma, non siamo più soggetti all'alternativa tra essere e nulla, tra vita e morte, e le immagini non sono il duplicato irreale di una realtà nascosta ai nostri sguardi. Al contrario qui tutto è chiaro e trasparente, senza pensieri e significati reconditi. È in tal senso che la voce di Sirine, l'uccello della gioia, esclama: «Ragazzi, tutto sarà nuovo per voi, il cielo di cristallo e una terra nuova, libera da corruzione». Da notare che queste parole sono rivolte a tutti «coloro che soffrono e che piangono», siano essi ricchi o poveri, nobili o plebei: ciò vuol dire che il regno di Dio accoglie tanto chi soffre per amore quanto chi patisce la fame, ossia in generale tutte le vittime dell'ingiustizia e della malvagità, tutti coloro che non hanno avuto la possibilità di realizzare i propri sogni e i propri desideri di felicità. [2]

Dal punto di vista tematico Rimskij-Korsakov sottolinea spesso il legame tra questa dimensione trasfigurata e la realtà della natura, cioè tra i motivi del primo atto e la nuova forma che essi hanno assunto nell'ultimo. Per esempio il tema dei fiori grandiosi riprende il motivo del giardino meraviglioso; il leitmotiv di Alkonost appare nell'ultimo monologo di Fevronia; il tema dei fiori che lei coglie per intrecciare una corona mortuaria deriva dal motivo della lode alla natura; infine il duetto con Vsevolod ricorda la canzone nuziale del secondo atto.

«È il canto che era stato interrotto laggiù. Me ne ricordo. È meraviglioso!» - grida Fevronia. Queste parole spiegano la relazione tra i due mondi, il terrestre e il celeste: il mondo dell'aspirazione e il mondo della realizzazione. Quaggiù qualsiasi tensione verso la felicità resta insoddisfatta, mentre lassù ogni speranza interrotta riprende i suoi legami con il suo fine naturale. Il compositore ci manda quindi un messaggio filosofico e metafisico molto evidente, poiché attraverso la musica riusciamo a comprendere ciò che la parola rischia di lasciare nell'ambiguità e nel malinteso, cioè la non-trascendenza di questa dimensione paradisiaca.

Nell'Interludio della seconda scena dell'ultimo atto (entrata nella città invisibile) il passaggio alla vita eterna viene rappresentato dalla modulazione in Fa maggiore e dalla metamorfosi del tema della grazia nel tema delle campane. Nella maestosa glorificazione dell'ultima scena, in cui Fevronia si riunisce finalmente al principe e a tutto il popolo di Kitez, vi sono due elementi che disturbano questa apoteosi, almeno secondo l'opinione di alcuni critici: la semplicità di Fevronia e la lettera che lei vuole inviare a Grichka. Invece, nel contesto filosofico in cui l'opera è inserita essi appaiono del tutto coerenti: la ragazza chiede agli spiriti da dove proviene la luce paradisiaca che illumina il luogo; ciò consente di confermare la natura reale di questa dimensione tutt'altra. Poi domanda al principe Yuri: «Chi alfine può entrare in questa città?». «Chiunque sia privo di duplicità di spirito». Allora per Fevronia Grichka, una volta pentitosi sinceramente dei suoi peccati, può essere accolto: «Non ci credere morti, noi siamo vivi. La città di Kitez non è scomparsa, ma si è dissimulata»: così gli scrive, come messaggio di speranza e di fiducia. La città per Fevronia può accogliere il cattivo pentito, ma non i barbari e gli invasori. Questo finale ci ricorda quindi che come vi è una malvagità buona e una malvagità cattiva, così vi è una dissimulazione a fin di bene (come quella della città nascosta ai nemici) e una duplicità malvolente, che non permette allo spirito di mostrarsi pienamente e con tutta la dovuta sincerità, come invece fa l'anima di Fevronia.

Ritroviamo così riassunti nell'opera di Rimskij-Korsakov la maggior parte dei temi e dei concetti della filosofia di Jankélévitch: l'innocenza (Fevronia), il male (Grichka), i mostri (i Tartari), la virtù (Vsevolod), la saggezza (Yuri). Inoltre la relazione tra empiria e metafisica (la natura nel primo atto e il paradiso nell'ultimo), il travestimento (la dissimulazione di Kitez), l'ordine tutt'altro (la Kitez capovolta), la disperazione e il senso della morte (terzo atto) e la speranza (quarto). Ma soprattutto possiamo ritrovare il senso jankélévitchiano dell'esistenza, che vive oscillando da un lato tra la tensione verso un centro intangibile e ineffabile dell'intenzione morale e della felicità, dall'altro il pericolo che questo nucleo di libertà e di interiorità sia saccheggiato dagli invasori e dai barbari, siano essi Tartari, nazisti o chiunque altro.

«Facciamo le nostre infanzie» e le campane della felicità

Come ultima «analisi» proponiamo infine un breve brano pianistico, il terzo movimento delle Images oubliées di Claude Debussy.

Alla malinconia intimistica dei due primi movimenti della raccolta (Lent e Souvenir du Louvre - Sarabande), Debussy oppone una specie di Toccata, brillante per verve e ironia, intitolata Quelques aspects de «Nous n'irons plus au bois» parce qu'il fait un temps insupportable. Sul tema della celebre canzone infantile il compositore costruisce delle variazioni e uno sviluppo del tutto magistrali; perciò possiamo considerare questo pezzo quasi un modello della metamorfosi temporale e della trasfigurazione degli oggetti musicali, ossia di un procedimento di natura prettamente metafisica.

All'inizio del pezzo vi è una cantilena procedente per gradi cromatici e in staccato; la melodia popolare appare invece soltanto alla decima battuta, in tonalità di Mi bemolle, su un accordo dissonante di settima minore, mentre la tonalità dell'armatura è Re minore. La piccola frase viene interrotta due volte: la prima per l'irruzione improvvisa di due battute di La maggiore, con un tremolo discendente dal registro acuto che assomiglia a una raffica di vento; la seconda volta con un accordo aumentato che conduce la melodia al Sol minore. Subito una sezione in più-che-pianissimo propone la cantilena iniziale ai bassi, che le conferiscono un aspetto un po' sinistro, accentuato dal cromatismo interno. Ma ciò dura solo otto battute, alla fine delle quali la melodia raggiunge la tonalità di La minore: qui comincia un crescendo che conduce al forte e dopo al fortissimo - nel tono di Fa diesis - in cui la cantilena appare finalmente liberata da quell'angosciante cromatismo.

Ma questa apertura è solo apparente, perché dopo la completa esposizione della cantilena il ritmo si fissa su uno staccato, sempre in Fa diesis, quando appare, nel registro acuto, il tema «Nous n'irons plus au bois», ben presto interrotto da una progressione armonica sul pedale di Fa diesis in tremolo. È l'acme del temporale, in cui raffiche di vento, acquazzoni e fulmini si condensano in un parossistico crescendo («augmenter sérieusement» - scrive Debussy tra i righi).

All'improvviso succede qualcosa di sorprendente: dopo il cambiamento dell'armatura di chiave, una progressione di arpeggi cristallini rappresentano sia un arcobaleno sia la coda del pavone, come indica, molto ironicamente, lo stesso Debussy: « Ici les harpes imitent à s'y méprendre les paons faisant la roue, ou les paons imitent les harpes (comme il vous plaira!) et le ciel redevient compatissant aux toilettes claires». Calmatasi la tensione e rasserenatasi l'atmosfera, il tema riappare in una variazione in 6/4, poi in una melodia di accordi e infine in un Vif et joyeux, dove sembra che tutti i bambini, scatenatisi all'aperto, giochino felicemente, urlino di gioia e cantino liberamente le loro canzoni in armonia con la natura.

Ma nella coda ci attende un'ennesima sorpresa: una campana - che, come scrive Debussy, «non mantiene nessuna misura» - comincia a tintinnare in modo ripetitivo, come d'altronde dev'essere; nello stesso tempo la melodia principale torna all'acuto, in ritmo aumentato, cioè privata del precedente senso di fretta e di ansia. Il pezzo termina così, lasciando nell'ascoltatore un senso di stupore e nel contempo di supremo appagamento, come se il tortuoso cammino che il tema ha percorso fino a questo momento non appartenesse che a un passato completamente rimosso: tutta l'infelicità precedente, il cattivo tempo con il suo terribile vento e i suoi freddi acquazzoni, hanno lasciato il posto alla pace ristoratrice e benevolente di un giorno di festa, quando il tempo primaverile e l'aria assolata riscaldano finalmente i cuori di tutti.

Si tratta quasi della trasposizione musicale di quella «innocenza ulteriore» con la quale Jankélévitch spesso conclude i suoi saggi, e che costituisce effettivamente la chiave del suo pensiero filosofico: una «semplicità ritrovata» che è anche uno «stato di grazia» o la fine delle preoccupazioni e la «breccia quodditativa attraverso il tetto dell'empiria» (TV3, 424), perciò «adulta» ed estremamente cosciente del dolore trascorso e "adulta". È quel contraddittorio lo uno stato dell'animo e dello spirito che saluta con entusiasmo e nel contempo con spirito disincantato l'attualità di ogni ora del tempo, che esalta con gioia e con amarezza il valore irrefutabile di ogni vita, e il senso di ogni creazione umana, ma anche la suprema vanità dell'esistenza, e che viene con queste parole descritto da Jankélévitch:

«Così l'innocenza ulteriore non è solo infinita donazione, ma anche infinita vacuità, non certo nel senso che il suo regime è quello dell'apprendistato perpetuo e dell'attesa appassionata. Tuttavia questa innocenza adulta non è una coscienza senza memoria: è il ricordo che dà alle sensazioni giovanili la loro intima risonanza, la loro vibrazione e anche il loro retrogusto di malinconia dolcemente amara» (ib., 427).

N o t e

[1] Per la lettura di quest'opera mi sono basato soprattutto su: André Lischke, Sadko, Kitège, in «L'Avant-scène Opéra» n. 162, novembre-décembre 1994, pp. 80-158

[2] Dice Jankélévitch concludendo il suo saggio su Bergson e alludendo ad alcune pagine delle Deux Sources de la morale et de la religion: «È quindi da quaggiù che deve fiorire e rifiorire nei nostri cuori l'invisibile città in cui gli uomini non hanno più fame né sete, non tremano più di miseria e di freddo, e non soffrono più gli uni a causa degli altri».
 
 

  III,1
Considerazioni conclusive 
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