CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
«Quindi noi possiamo raggiungere il bene supremo solo vivendo la nostra propria vita, e per far ciò non possediamo altre risorse che l'appello alla nostra energia morale; questa ci apparirà da se stessa solo che noi crediamo all'efficacia dei nostri ostinati sforzi. Dobbiamo ripeterci che questo mondo è buono, dal momento che esso è tale quale noi lo rendiamo - noi dobbiamo renderlo buono. Come escludere dalla conoscenza della verità una credenza inerente alla creazione di questa verità?»
William James, La volontà di credere
Musica e filosofia

Ci piace considerare la filosofia di Jankélévitch come un grande labirinto dalle numerose e differenti entrate; all'interno le strade sono tortuose e accidentate, ma tutte conducono a un'unica uscita. Bisogna solo scegliere un percorso, che non sarà mai il principale o il privilegiato, che però toccherà tutti gli angoli del labirinto e riuscirà a darci lo stesso una visione completa del pensiero del filosofo.

La nostra scelta è stata ben mirata: seguire il percorso finzione-realtà come una specie di forma mentis presente a vari livelli dell'analisi filosofica jankélévitchiana. Inoltre tale percorso ha trovato nella riflessione musicale un terreno privilegiato di sfruttamento e di verifica. In tal senso la musica e l'analisi musicale sono state affrontate nell'intento di far emergere trasversalmente e intrinsecamente i relativi e connessi concetti filosofici. Si trattava d'altronde di cogliere il musicale all'interno del discorso filosofico di Jankélévitch, ma non come una mera analogia o un semplice parallelismo, bensì come un concreto e immanente contenuto.

Uno dei propositi di questo lavoro è stato altresì di cercare di costruire una filosofia della musica a partire dalla concezione jankélévitchiana della temporalità di Jankélévitch, concezione che egli ha soltanto sfiorato indirettamente ma che è sempre presente in tutti i suoi testi.

Per Jankélévitch la musica rappresenta infatti un'odissea temporale, che più di qualsiasi concetto metafisico riesce a farci avvicinare al paradosso dell'esistenza senza ristagnare nelle contraddizioni cui il linguaggio ci può condurre. Il discorso filosofico, sia scientifico che metafisico, può infatti ingenerare malintesi, oppure cadere nella compiacenza della teoria intellettualistica, persino quando cerca di evitarla. Invece la musica riesce a scongiurare questo pericolo: essa si pone al limite tra linguaggio ed esperienza vissuta; all'interno della musica la temporalità non viene teorizzata, ma dispiegata; il tragico non è oggetto di riflessione ma interamente in atto. La musica ci consente di intravedere l'hapax delsoggetto, l'ineffabile ipseità, senza comprometterlo o alterarlo. Come l'io non è né anima né corpo ma la loro mescolanza, così la musica non è né soggettiva né oggettiva, né espressiva né inespressiva, né astratta né concreta; ciò dipende dai differenti punti di vista e in ogni caso tale alternativa è solo il risultato di una schematizzazione intellettuale. Nella sua immediatezza temporale la musica è la mistura di due estremi e la sua realtà è frutto di una continua oscillazione, e perciò sfugge a ogni tentativo di definizione.

In generale Jankélévitch vede la filosofia come tensione del pensiero a spingersi al di là delle categorie e dei concetti ontologici tradizionali; ciò significa pensare il tempo nonostante che sia impensabile, parlare del tempo nella sua ineffabilità, poiché ogni volta che si cerca di coglierlo si impiegano inevitabilmente delle metafore spaziali (per esempio «dimensione», «profondità», «distanza», ecc.). Così in musicologia è inevitabile impiegare termini improntati sullo spazio («alto», «basso», «lontano», «a fianco», «sopra», ecc.) e di descrivere la realtà musicale come se fosse una realtà naturale o fisica.

Parimenti Jankélévitch vuole superare il semplice approccio descrittivo alla musica: per lui gli elementi musicali, prima che rinviino a una realtà esterna, sono autentici problemi esistenziali e semmai rimandano, in modo allusivo e indiretto, a determinati contenuti filosofici intuitivamente recepiti.

In fondo l'assente, l'ineffabile, il tutt'altro ordine della musica, non è altro che quanto Jankélévitch ha sempre cercato nella sua filosofia e nella sua metafisica: il tempo, ossia ciò che non può esser detto in quanto inafferrabile né essere definito, perché, nell'istante in cui cerchiamo di farlo, è già divenuto altro da se stesso; è l'indecifrabile enigma che resta muto ogni qual volta lo si interroghi, ma che è sempre presso di noi, vicino alla nostra anima. L'amfibolia della musica è del tutto parallela all'amfibolia della metafisica e della morale: la musica ci fornisce i mezzi per sentire il tempo soltanto impedendoci di sentirlo al di là di un certo registro (PHP, 6), poiché essa ci offre la possibilità e nello stesso tempo ci impone i limiti di una concreta esperienza della temporalità.

Osservazioni

Tutto ciò deve allora convincerci della portata universale della teoria jankélévitchiana della musica. Benché in una forma non sistematica e rigorosa, il pensiero di Jankélévitch mostra una notevole coerenza, che ci ha consentito di ricostruire il quadro generale della sua concezione musicologica. E tuttavia ciò non ci può far sottovalutare l'evidente parzialità storico-geografica del suo approccio e non impedisce di sollevare diversi dubbi e perplessità.

La più macroscopica è la pressoché completa cancellazione tanto della musica quanto della filosofia tedesche e germaniche dal suo ambito di considerazione. Diverse volte ci si è posto il problema della ragione di una scelta tanto netta e clamorosa, mai rinnegata dallo stesso Jankélévitch. [1]Lo stupore infatti è molto forte, soprattutto quando ci si accorge dell'apertura critica della sua filosofia e della sua musicologia. E tale delicata questione si pone a diversi livelli.

In primo luogo nessuno ci impedisce di ritrovare l'ineffabile e l'indicibile tanto in Debussy o Fauré quanto in Bach e Beethoven (come per esempio ha fatto E.T.A. Hoffmann, a proposito di quest'ultimo, in un importante saggio [2] ). Inoltre un non differente senso della natura è appannaggio sia di certi Préludes o Images del compositore francesedi Debussy sia della Sesta sinfonia e della Sonata n. 15 opus 28 del musicista tedescodi Beethoven. Innocenza e spontaneità sono poi qualità tanto della musica di Satie e di Mompou quanto del musicista che universalmente viene considerato l'incarnazione e l'essenza infantile della natura, cioè Wolfang Amadeus Mozart. Ma in particolare lo spirito rapsodico è presente in molte Sonate di Beethoven, la cui articolazione formale non è stata per lui che un pretesto per composizioni spesso molto libere e trasgressive, in modi non dissimili da quelli che apparterranno a Chopin, Liszt e Debussy. Per non parlare delle Bagatelle, delle Variazioni e di altri pezzi sparsi che già di per sé sono forme libere, basandosi sul procedimento dell'amplificazione e della continua metamorfosi del tema iniziale, da Jankélévitch considerate qualità eminenti della musica.

Inoltre ci si può legittimamente chiedere: perché la temporalità tutt'altra della verve e dell'improvvisazione, che per Jankélévitch si situaè al di là del linguaggio e della forma, deve valere solo per la forma della Variazione o della Rapsodia e non per la Sonata classica, ossia per Liszt e Albéniz e non per Haydn e Beethoven? Vi è una reale differenza qualitativa se nella Sonata si sviluppano due temi mentre nella Variazione solamente uno? E d'altra parte i Notturni, le Romanze e altre forme simili non sono ugualmente delle forme retoriche e discorsive, spesso più rigide della sonata? E poi la verve musicale può misurarsi dal numero dei temi e dagli accordi dell'armonia?

È certo che a proposito della verve Jankélévitch pensa a un modo di comporre e di suonare la musica più prossimo al virtuosismo un po' istrionico di Liszt e Albéniz che all'intellettualismo tedesco. Ma in questo modo egli si espone al rischio di considerare l'improvvisazione come una pratica musicale piuttosto unilaterale e limitata, mentre essa ha delle caratteristiche temporali ben diverse. Egli infatti la considera soltanto come uno sviluppo di un istante iniziale privilegiato, un'intuizione nella quale accade l'evento del fiat e della creazione. Al contrario la pratica concreta dimostra che l'energia dell'improvvisatore avanza e cresce man mano che la musica procede; il musicista può cominciare anche in modo indeciso, o soffermandosi solo sulla tecnica, ripetendo delle formule o esponendo pedissequamente il tema. Dopo di che egli inizia a percorrere una strada, dapprima vaga e imprecisa, poi sempre più trascinante e appassionante, fino ad arrivare a momenti di vera e propria esaltazione mistica, e infine tutta l'energia si acquieta e si esaurisce nel ritorno alla normalità della ripresa dei temi. Da ciò risulta che l'improvvisazione non è un atto unico e omogeneo, modellato su una sola modalità temporale, ma comporta delle fratture, delle crisi, anche imprevedibili, che assomigliano meno a una cascata o a uno scroscio d'acqua che a un percorso accidentato e tumultuoso, di cui molti pezzi di Beethoven, oltre che di Liszt e di Debussy, sono esempi ammirevoli.

Nelle pagine di La musica e l'ineffabile (nel capitolo «Il miraggio dello sviluppo»), come altrove, Jankélévitch afferma che la musica, in opposizione allo sviluppo discorsivo della retorica, del sistema coerente, della forma sonata, «si muove su un tutt'altro piano», un «tutt'altro ordine» rispetto a quello del linguaggio, e su questo punto in effetti si impernia tutto il suo pensiero filosofico-musicale. Allora ci si può chiedere perché non applicare questa stessa differenziazione di livelli anche alla musica di Bach, Mozart e Schubert. Jankélévitch insiste spesso sul valore metaforico e analogico del linguaggio musicale: perché ciò è più vero per Fauré o Debussy che per altri musicisti? Lo spirito di sistema, di simmetria e spazialità denunciato da Jankélévitch, e d'altra parte il movimento temporale, la spontaneità e il progresso imprevedibile da lui auspicato, non sono presenti in Bach e Beethoven in ugual misura che in Ravel o Stravinskij, una volta che abbiamo ben distinto la temporalità del divenire musicale dalla temporalità ordinaria del linguaggio?

A queste domande si può rispondere solo se la riflessione sia stata capace di superare ogni tipo di pregiudizio, poiché qui vi è il sospetto che Jankélévitch utilizzi due pesi e due misure nei confronti di questi due tipi di musica. In questo lavoro abbiamo cercato di spiegare dal punto di vista storico questo pregiudizio, che indubbiamente limita moltissimo l'universalità di una teoria della musica. Abbiamo tentato di contestualizzare la filosofia di Jankélévitch, e in particolare questo nodo teorico e musicologico, all'interno della situazione storica che il filosofo ha vissuto negli anni cruciali della sua vita: la sofferenza per la guerra, per l'Olocausto, l'irrazionalismo in generale, e si è concordi a considerare la Germania il centro culturale e geografico di questa evoluzione storica.

Ora, pur restando il sospetto, non possiamo credere che un filosofo così aperto, onesto e sensibile come Jankélévitch possa avere limiti così forti e una tale rigidità di pensiero su qualsiasi argomento, ancor meno su una questione così importante. Prova ne è il fatto che, come è noto, egli amava molti filosofi, scrittori e musicisti tedeschi e che egli conosceva molto approfonditamente quella cultura. In effetti la schiettezza e l'implacabilità di questo rifiuto non possono essere interpretate che come il risultato di una situazione storica tragica ma ben limitata e determinata, nella quale le circostanze particolari e persino soggettive, nonché esistenziali, giocano un ruolo molto importante. Tale atteggiamento va considerato come una situazione temporale e temporanea, forse provvisoria: si tratterebbe a nostro modo di vedere di una sorta di sospensione del giudizio, di epoché scettica, nell'attesa che tempi migliori dei nostri riescano a far emergere il vero valore di tutta la musica, anche di quella che, come la tedesca, sembra così implicata con significati ideologici molto ambigui.

La nostra convinzione si fonda sull'idea che qualsiasi espressione dello spirito, che sia arte, scienza o filosofia, non si situi mai su un piedistallo distante dal mondo concreto della storia. Non si tratta di fare della semplice sociologia né di riportare ogni ideologia alla sua struttura economica, ma al contrario di cogliere le radici comuni di ogni attività intellettuale all'interno di una stessa atmosfera culturale, di uno stesso vissuto esistenziale, fatto di gioia e sofferenze più o meno sublimate. A questa interpretazione non sfugge a nostro parere neanche la filosofia più mistica e l'opera d'arte più astratta; per questo, a maggior ragione, una filosofia che essa stessa si vuole impegnata in una relazione diretta e anche tragica con la realtà concreta deve necessariamente trovare le motivazioni delle sue aporie e dei suoi pregiudizi in questa stessa realtà.

Ciò, a nostro parere, vale per la filosofia e la filosofia della musica di Vladimir Jankélévitch.

Dalla musicologia analitica alla musicologia quodditativa

Ma è soprattutto la convinzione della portata generale e universale della musicologia di Jankélévitch che ci ha spinti a superare quei pregiudizi e seguire il percorso scelto. Persuasi che la relazione tra musica e filosofia sia in Jankélévitch perfettamente coerente, ci accingiamo quindi a sostenere la legittimità del seguente parallelismo: come la filosofia si divide in Prima, Seconda e Terza, così si possono individuare a nostro parere tre diverse musicologie:

- La musicologia terza, o musicologia empirica, cioè il puro ascolto anteriore a qualsiasi riflessione intellettuale sulla musica, prima di ogni analisi.

Si tratta dell'approccio ingenuo, da parte dei non-esperti. A questo livello la musica coincide con la pratica: da un lato per la sua complementarità con il lavoro umano (per esempio i canti degli schiavi o dei pescatori) dall'altro per il legame con il divertimento (la musica di consumo e di intrattenimento, ecc.), in cui il tempo viene vissuto in modo immediato e psicologico.

- La musicologia seconda, o musicologia analitica.

È l'ascolto competente e specialistico. È la vera musico-logia, la scienza della musica e l'estetica musicale teorica. Essa cerca le relazioni tra gli elementi linguistici e stilistici, considerando i suoni, le armonie, i temi per il loro valore formale e le loro determinazioni causali. Spesso essa trova le sue spiegazioni nella teoria dell'armonia e del contrappunto. Il tempo si risolve nello spazio dell'analisi formale, poiché essa concepisce il tempo unicamente come successione di dati sonori schematizzabili, facilmente individuabili nella mera articolazione ritmica, nelle differenziazioni metriche e nell'organizzazione infraformale. È quindi musicologia quidditativa. In questa dimensione le risposte fornite dalle concettualizzazioni analitiche rimarranno sempre insufficienti e impotenti a spiegare l'essenza di quegli stessi elementi, accordi, ritmi e melodie, tra i quali l'analisi cerca di districarsi.

- La musicologia prima, o musicologia quodditativa. È una specie di metamusicologia superiore, avendo essa a che fare con una forma e un tempo superiori: la forma della forma e il tempo del tempo. Essa non cerca il «perché» (quid) degli elementi musicali e del materiale, ma attesta il quod, il fatto del fatto, e considera le componenti musicali come delle «situazioni», dei complessi, delle costellazioni da spiegare alla luce di un ordine sovralinguistico e sovrastilistico. È questo il livello metarmonico e metaritmico, l'armonia dell'armonia, il ritmo del ritmo, la cui determinazione concerne una temporalità non cronologica ma «cronotetica». Ciò vuol dire che essa pone temporalmente il tempo, ossia l'autentico senso dinamico e propulsivo della durata (ritmo), della successione (melodia) e della simultaneità (armonia). Invece di segmentare in successioni discrete il continuum musicale, questa musicologia si pone di fronte all'evento musicale nella sua inesplicabile evidenza temporale, di fronte al fatto di «vivere» tra un silenzio iniziale e un silenzio finale, ossia di essere, come l'esistenza, un quasi-silenzio, un quasi-niente.

In questo modo la musicologia quodditativa si avvicina maggiormente allo charme della musica, che nessuna descrizione tecnica, nessuna formula analitica riuscirà mai a esplicitare e di cui tuttavia, come del bene e dell'amore, ci sarà sempre qualcosa da dire. Astenersi in modo assoluto dal parlare di musica equivarrebbe a cadere in un misticismo apofatico e nichilista, l'esatto opposto della magniloquenza verbosa, ma ugualmente imputabile di mistificazione e di ottundimento delle capacità critiche. Così una musicologia negativa tradirebbe sia la fiducia in una possibile chiarificazione dell'arte sia l'ottimismo secondo cui l'asintoto delle predicazioni contraddittorie possa condurre infine a una sorta di predicazione totale, a una «predicazione delle predicazioni» (PHP, 110).

E come la filosofia prima si avvicina alla realtà dell'empiria, così la musicologia quodditativa ritrova una parentela profonda con l'ascolto immediato del terzo livello, che è anche un ascolto emozionale e profondamente sensibile. In fin dei conti lo scopo ultimo della filosofia e della metafisica di Jankélévitch è la realtà in sé, la verità nella sua immediata semplicità, i fatti nella loro umiltà: è questa una scommessa di ogni filosofia e soprattutto di ogni fenomenologia. L'originale percorso di Jankélévitch attraverso la musica riesce a dare un nuovo slancio e un contributo importante alla soluzione di questa difficile ricerca.

Si vede allora profilarsi una musicologia che Jankélévitch, più che formulare, ha verosimilmente messo in atto nei suoi numerosi scritti dedicati alla musica. Purtroppo il peso dei suoi pregiudizi estetici gli ha impedito di estenderla a una comprensione più vasta del fenomeno musicale e gli ha precluso la possibilità tendere fino in fondo i sottili legami che esistono tra quest'arte e la conoscenza della realtà. E tuttavia, anche nell'ambito molto ristretto in cui essa opera, la filosofia jankélévitchiana della musica fa costantemente emergere quest'esigenza. Essa non si pone come «spiegazione» della musica o come sfruttamento a fini speculativi di quest'arte, poiché la musica non rappresenta né un'analogia né una metafora di concetti filosofici precostituiti, ancor meno è lo strumento «ontoscopico» dell'assoluto o il «geroglifico» dietro cui il filosofo cerca di scorgere un senso nascosto.

Infatti la musicologia di Jankélévitch è soltanto una filosofia che fa parlare la musica con i suoi mezzi empirici, senza sovrapporvi delle mediazioni teoriche inadeguate; essa riesce a far emergere dal suo linguaggio, dalla sua tecnica e dalla sua forma ciò che solo la musica può esprimere, cioè essa stessa, il suo pensiero senza parole. Non decifrare allegoricamente questo pensiero ma esporlo «tautegoricamente» nella sua eclatante evidenza, questo è il compito fondamentale della musicologica jankélévitchiana, che perciò si presenta come una vera e propria fenomenologia della musica.

Nelle sue analisi i suoni, gli accordi, le tonalità, le modulazioni non sono dei dati inerti né delle formule statiche; il filosofo francese ha la capacità pressoché unica di rendere il dinamismo temporale degli elementi musicali, lo stesso che il compositore vi aveva infuso a livello creativo. Jankélévitch si accosta e approfondisce il linguaggio musicale per farvi sgorgare tutto ciò che può conferire al pensiero filosofico un valore qualitativo e uno spessore teoretico. E lo fa dal di dentro della musica, nel suo al di qua, nella sua autoreferenzialità sensibile e nella sua temporalità specifica. Invece di improntare la temporalità musicale sulla temporalità interna della coscienza, rischio a cui incorrerebbe una semplicistica psicologia della musica, Jankélévitch al contrario si riferisce spesso alla musica come modello esplicativo degli stati di coscienza. Così invece di ricorrere a concetti filosofici per spiegare quest'arte, egli rimanda a essa per dar senso e sostanza alla concettualizzazione, per rinviare quindi all'atto della formazione del pensiero più che basarsi sul risultato oggettivo tradotto in una formula.

Se allora c'è qualcosa di «retrostante», ciò non riguarda la filosofia in rapporto alla musica, bensì la musica in rapporto alla filosofia, poiché quest'arte sembra essere per Jankélévitch la sorgente stessa del pensiero filosofico, il momento sorgivo, precategoriale e preconcettuale, in cui prendono forma le categorie e i concetti filosofici. Sempre necessariamente soggetti a trasporsi in una veste linguistica che ne può travisare il valore e li può, di nuovo, far crollare nell'ordine del malinteso, grazie alla loro temporalizzazione musicale essi acquistano un valore diverso, una concretezza e un'elasticità tali da far scaturire un'inedita donazione di senso.

E se è lecito parlare ancora di «filosofia della musica», nel caso di Jankélévitch lo si può fare solo considerando il genitivo non più in senso oggettivo, bensì in senso soggettivo: ossia filosofia appartenente alla musica, parlata all'interno della musica con il linguaggio peculiare di quest'arte e articolata nella sua autonoma dimensione temporale. Il capovolgimento del pensiero metafisico che Jankélévitch si propone si impernia quindi anche sulla trasformazione di quel genitivo: una volta persa la sua valenza oggettivante, la stessa che rende i dati dell'esperienza delle mere datità prive di vita, esso fa di colpo avvicinare e quasi coincidere soggetto e complemento.

Esaurita la funzione ontologica della filosofia metafisica e venuta meno la fiducia che il senso della ricerca musicale si riduca alla costruzione linguistico-formale, sia il pensiero sia la musica cercano faticosamente di ritrovare risorse di vitalità e nuove dimensioni significative al di fuori degli ormai saturati terreni della concettualizzazione logica e dell'esplicitazione discorsiva. In tale direzione si muove la filosofia della musica di Jankélévitch, che esplora un terreno non certo stabile né facilmente delimitabile, sicuramente marginale e decontestualizzato, che potremmo chiamare filosofia musicale o musica filosofica: un ambito non scevro da aporie e paradossi, ai quali il pensiero del filosofo francese schiettamente e consapevolmente si espone.

Pessimismo o ottimismo?

Finzione e verità, disperazione e speranza, senso del tragico e utopia: la filosofia di Jankélévitch, come si è visto, oscilla tra queste opposte polarizzazioni. E se essa non pende in modo deciso verso l'ottimismo è perché risente al suo interno del pesantissimo peso della realtà storica ed esistenziale.

Apparentemente sembra impossibile trovare in Jankélévitch l'ottimismo, la fiducia e la speranza. La lettura dei suoi testi ci fa spesso sprofondare negli abissi di un'ineluttabile oscurità esistenziale, da cui sembra esserci preclusa ogni via d'uscita. Il filosofo ci fa toccare con mano la disperazione, facendoci ascoltare le angosciose palpitazioni del suo cuore ferito. Tuttavia vi si possono trovare delle scintille quasi impercettibili e inattese, come dei fugaci ammiccamenti, difficilissimi da cogliere e comprendere.

Dopo la Seconda Guerra e l'Olocausto Jankélévitch non poteva così facilmente liberarsi di questi incubi senza rischiare di essere accusato di evasione ideologica. E tuttavia il giorno della liberazione gli apparve come l'alba di un avvenire di cui bisogna aver fiducia. Un analogo stato d'animo doveva aver provato Claude Monet, quando alla fine della Prima Guerra regalava alla Francia un immenso mazzo di fiori: le sue stupende Ninfee che galleggiano tristemente sulla superficie di un'acqua stagnante. Sono fiori sorridenti e sereni, pieni di colori e di luce, ma che non riescono a celare l'infinito dolore delle sofferenze appena trascorse.

L'ottimismo jankélévitchiano quindi non è il risultato di un percorso rettilineo della ragione, che interpreta in modo rassicurante il lato buono dell'infelicità e del male esistente. In Jankélévitch non vi è né razionalismo né cristianesimo. Il suo ottimismo è arduo, difficile, spesso oscuro e inestricabile, ed erra tra le righe e gli interstizi dei concetti più tormentati e le contraddizioni più insanabili: occorre un enorme sforzo per farlo emergere. Ma una volta afferrato esso appare semplicissimo, quasi evidente.

In tale contesto la musica svolge un ruolo molto importante: l'alibi e il pudore di quest'arte vogliono essere una terza via rispetto al rifiuto e all'adeguazione. Essa è una risposta alla preoccupazione dell'altro filosofo-musicologo contemporaneo, Theodor Wiesengrund Adorno, secondo il quale dopo Auschwitz non sarebbe più possibile comporre un solo pezzo in Do maggiore (ed è altresì una risposta al grande tema post-idealista ed esistenzialista della morte dell'arte, della impossibilità sartriana di fare della letteratura oggi).

Per il dogmatismo adorniano vi è sempre un messaggio cifrato dietro il linguaggio musicale, il cui contenuto è stato sepolto dalla storia o è rimasto un «manoscritto nella bottiglia». D'altra parte, per lo strutturalismo relativista tutto il senso si risolve nel linguaggio stesso. Jankélévitch sceglie una terza via ermeneutica per la quale il messaggio si trova al di là di questa alternativa, cioè nella temporalità e a un livello tutt'altro rispetto al linguaggio, dove poter ritrovare il senso della vita così sventuratamente dimenticato. Jankélévitch ci sveglia dal sonno dogmatico della rigidità metafisica, delle ideologie, delle impasses culturali, della rassegnazione all'ineluttabile, di ogni sorta di sortilegio del destino: tutte queste idee ci condannano all'inattività, ci impediscono di agire nel mondo e di fare qualcosa per migliorare la situazione nella quale ci troviamo. Al contrario, la coscienza del valore inestimabile di un miglioramento, per quanto piccolo possa essere, ci spinge a tentare, senza alcuna pretesa che ciò possa cambiare definitivamente il mondo.

Si ha ragione allora di sostenere che la filosofia di Jankélévitch approdi necessariamente al problema politico, per quanto in modo non esplicito; [3]un'adesione teorica al politico avrebbe infatti comportato per Jankélévitch le aporie dell'impegno, che egli ha voluto sempre e assolutamente scongiurare. Al pari della musica e della morale l'azione politica non può essere oggetto di proclami o di vanesie dichiarazioni, ma bisogna innanzi tutto compierla. Prima di discettare sulle condizioni, le cause e le conseguenze di un'azione bisogna secondo Jankélévitch agire, osare con coraggio ciò che anche l'analisi più sottile sconsiglierebbe: occorre l'urgenza preriflessiva di un atto drastico e quasi eroico che sia capace di infrangere in un colpo tutti gli impedimenti procedurali e gli intoppi diplomatici, trovando in se stesso le risorse per vincere ogni scoraggiamento.

Sono invece i giochi della politica esteriore e parolaia, e in particolare i pregiudizi ideologici, che spesso ostacolano la pace e conducono per la maggior parte dei casi all'aggressione, all'ingiustizia e alla guerra. Essi infatti sono solo travestimenti di una cattiva coscienza e di una subdola malevolenza non completamente rimosse. Le giustificazioni teoriche, la ragion di stato e la convinzione che morte e distruzioni siano il minor male in vista di un'utilità e una felicità future sono state le cause delle più terribili catastrofi della storia.

Per Jankélévitch c'è bisogno quindi invece di una politica che riesca a rimanere sempre nella ancorata alla morale e che abbia finalmente superato ogni realismo cinico, così come ogni inganno machiavellico. Di conseguenza la sola morale che può legarsi alla politica è una morale aperta, nel senso di Bergson, in cui ciò che conta veramente è l'azione disinteressata, totalmente rivolta verso l'altro e verso il bene comune. In particolare, ciò che conta è una capacità del soggetto politico di rinnovarsi continuamente, di rimettersi in discussione, senza mai riposare su posizioni stantie e vivere così di rendita.

Infatti, indipendentemente da un'idea trascendente di persona e di necessità, Jankélévitch dà all'uomo una reale fiducia in se stesso, nei suoi atti e nella sua libertà all'interno di una vita che, nonostante tutto, val la pena di essere vissuta. La sua scelta esclude sia l'inerte pessimismo sia il fiducioso ottimismo: seguendo Ernst Bloch, si può parlare di un «pessimismo militante», nel quale la coscienza dell'infelicità umana non compromette la strada di un'azione positiva nel mondo.

Per la politica vale ciò che Jankélévitch afferma dell'etica, rifacendosi per l'appunto all'arte musicale: «L'etica non è un accordo perfetto maggiore senza storia, ma la soluzione continuamente ricominciata di un'alternativa continuamente risorgente, - l'alternativa lacerante tra la cultura individuale e l'abnegazione sociale» (TV2,2, 254). Lungi dal ridurre il soggetto alla violenta sottomissione alla volontà generale e alla maggioranza, e lungi d'altronde dal considerare l'azione individuale totalmente libera e persino arbitraria, bisogna trovare una specie di verve politica che abbia come modello, per la sua capacità di invenzione e di improvvisazione, la creazione artistica e soprattutto la temporalità musicale. In questo modo il soggetto può ritrovare l'organo della propria libertà nell'ostacolo della materia che gli si oppone e con la quale egli si deve sentire a suo agio in tutta naturalezza.

È per questo che la musica, come i fiori di Monet, ha potuto il giorno della Liberazione festeggiarne la promessa di felicità e di libertà, anche se pudicamente e quasi silenziosamente, per evitare di offendere l'onore e la memoria di tutti coloro che hanno così tragicamente e tristemente sofferto.

Filosofare sulla musica e filosofare sulla vita: per Jankélévitch è stato un unico e identico proposito.

N o t e

[1] Vedi Louis-Albert Revah, Sur la partialité en musique, in «Critique», Janvier-Février 1989, pp. 57-70

[2] E.T.A. Hoffmann, Beethovens Instrumental-Musik, in «Zeitung für die Elegante Welt» 1813

[3] Vedi a questo riguardo G. Battista Vaccaro, Ontologia e etica in Vladimir Jankélévitch, Longo, Ravenna 1995 e Renée Fregosi, Vlaidmir Jankélévitch: intimité de la métaphysique, de la morale et de la politique, Paris 1984
 
 

  III,2
Bibliografia 
Indice