Interpretazione del «Tractatus» di Wittgenstein
Capitolo III Giovanni Piana

III

Dottrina della tautologia

e filosofia della logica

 

1.

In realtà, il punto essenziale nel modo in cui Wittgenstein introduce le sue «tavole di verità» è l’affermazione che la tavola stessa è un segno proposizionale.

Rammentiamo qui alcune cose che ci sono ben note. Una proposizione ha senso se essa può essere vera o falsa, ed ogni proposizione, se ha senso, può essere interamente analizzata in proposizioni che constano di nomi attraverso cui esse si trovano «a contatto» con la realtà. Il valore di verità della proposizione composta dipende dunque dai valori di verità delle proposizioni che la compongono e che saranno, infine, proposizioni elementari. Come Wittgenstein si esprime: «Le possibilità di verità delle proposizioni elementari sono le condizioni della verità e della falsità delle proposizioni» (4. 41). Oppure: «La proposizione è una funzione di verità delle proposizioni elementari. (La proposizione elementare è una funzione di verità di se stessa)» (5).

In questo principio (a cui ci si richiama di solito come «tesi di estensionalità») si compendia l’empirismo del Tractatus, e questo empirismo forma il presupposto filosofico (che si potrà giudicare più o meno necessario) della tecnica di tabulazione proposta a questo punto da Wittgenstein.

Premesso che il numero di tutte le possibilità di verità delle proposizioni elementari (cioè il numero di tutte le possibili combinazioni dei loro valori di verità) è determinato se è determinato il numero di queste, e così anche il numero di tutte le funzioni di verità di esse (4. 27 e 4. 42), viene in primo luogo presentato un esempio di tabulazione delle possibilità di verità delle proposizioni elementari (4. 3 1); quindi un esempio di una funzione di verità di esse (4. 442). Ma è strano che di solito non si metta in evidenza il fatto che ciò che contraddistingue questo modo di introdurre il metodo tabulare da quello in cui viene presentato nei manuali è, a parte la premessa empiristica, l’affermazione che la tavola stessa è un segno proposizionale: «Il segno che nasce dalla coordinazione di quei segni »V« e delle possibilità di verità è un segno proposizionale» (4. 44).

«Ad esempio

è un segno proposizionale» (4. 442).

Poiché assumiamo come dato l’ordine delle possibilità di verità delle proposizioni elementari, un’abbreviazione di questo schema potrà essere: «(VV-V) (p, q)»; oppure, occupando con un segno «F» il posto lasciato vuoto nella tavola: «(VVFV) (p, q)».

Di quest’ultimo segno possiamo dire dunque che è un segno proposizionale: esso è il segno della proposizione, formata dalle proposizioni elementari p e q, che è falsa solo nel caso in cui p sia vera e q falsa. Certo potremmo chiedere: ma in che modo è formata questa proposizione? E dovremmo rispondere: è formata, appunto, in questo modo.

In luogo di sollevare fin d’ora problemi vogliamo piuttosto indicare come, assumendo un simile «metodo di notazione», risultino facilmente esemplificabili alcuni temi essenziali della teoria del simbolismo di Wittgenstein.

Si era osservato, in precedenza, che è necessario distinguere nettamente la possibilità che una proposizione sia vera o falsa dalla sua verità o falsità. Ciò significa soltanto che possiamo dire di aver compreso il senso di una proposizione solo se sappiamo in quali circostanze o sotto quali condizioni essa è vera. In certo modo la proposizione, e precisamente il suo segno, deve esibire con il suo senso ciò che dobbiamo fare per accertarne la verità.

«Il metodo della verificazione non è qualcosa che si aggiunga al senso in un secondo tempo. La proposizione contiene già il metodo della sua verificazione. Non si può andare alla ricerca di un metodo di verificazione» [1].

Diciamo la stessa cosa se affermiamo che «la proposizione è l’espressione delle sue condizioni di verità» (4. 431(b)). Ciò vale anzitutto per le proposizioni elementari, ma vale comunque alla lettera se ci risolviamo a considerare la tavola stessa come segno proposizionale. Dal segno «(VVFV) (p, q)» non sappiamo se la proposizione è vera, ma in quali circostanze essa è vera. Nel segno proposizionale si esprimono le condizioni di verità della proposizione.

Inoltre in una notazione come questa disponiamo di tanti segni proposizionali quante sono le proposizioni possibili per un determinato numero di proposizioni elementari. I segni non eccedono, qui, sui simboli. Notiamo che questa è la ragione di una peculiarità della tavola riportata esemplificativamente. In essa il terzo posto della prima riga non appare occupato da alcun segno. Nella notazione usuale esso potrebbe essere occupato in vario modo, si avrebbero cioè segni proposizionali diversi che hanno le stesse condizioni di verità. Quindi segni proposizionali che hanno lo stesso senso, dal momento che determinare le condizioni alle quali una proposizione è vera o falsa non è altro che determinare il suo senso. Saremmo allora propensi a sostenere che queste differenze riguardino il segno, non il simbolo, che esse appartengano ai tratti accidentali del simbolismo, non a quelli essenziali. «L’essenziale nella proposizione è ciò che è comune a tutte le proposizioni che possono esprimere il medesimo senso» (3. 341(a)). La base della teoria delle funzioni di verità è che «se due proposizioni sono vere o false sotto le stesse condizioni hanno lo stesso senso (anche se sembrano diverse)» [2]. E potranno essere presentate dallo stesso segno.[3].

Probabilmente si osserverà che tutto ciò diventa anche troppo ovvio, se è ovvia l’ammissione della tavola come segno proposizionale. Del resto possiamo ammettere che si tratti di una finzione - alla quale, in ogni caso, ci sentiremo vincolati fino al punto in cui si può mostrare, in questo modo, come la tecnica di tabulazione proposta da Wittgenstein sia strettamente connessa al discorso filosofico complessivo del Tractatus, benché possa essere estratta da esso senza che ve ne rimanga appigliato nemmeno un frammento.

Consideriamo da questo punto di vista un’idea che si annunciava già nella riflessione sulle immagini: nessun segno è necessario all’immagine per rappresentare una relazione tra le cose che essa raffigura. Un segno di relazione è, in linea di principio, eliminabile dal simbolismo. Nessun oggetto dunque corrisponde ad esso. Ciò deve valere anche per i segni di connessione logica tra le proposizioni. Ad esempio, nella realtà non vi è nulla che corrisponda al segno della congiunzione; oppure a quello della negazione. Le «costanti logiche» non sono «rappresentanti», cioè non stanno per alcun oggetto, non sono nomi (così come non lo sono le parole «vero» e «falso»). Questo è ciò che Wittgenstein chiama una volta il proprio pensiero fondamentale (4. 03 12). Potremmo osservare allora che un segno di connessione tra proposizioni dice tanto quanto dice, nella tavola, una determinata disposizione di segni «V» e «F». Ed è chiaro che «al complesso di segni »F« e »V« non corrisponde nessun oggetto (o complesso di oggetti); così come alle righe orizzontali e verticali o alle parentesi. »Oggetti logici« non ci sono» (4. 441).

Infine, tenendo ferma l’assunzione della tavola come segno proposizionale, possiamo esemplificare molto semplicemente ciò che si era detto in rapporto al problema delle proprietà e delle relazioni strutturali tra le proposizioni. Uno dei requisiti di un linguaggio logicamente adeguato era questo: che i rapporti tra i simboli fossero rispecchiati nei loro segni. Dicevamo, ad esempio: «Se due proposizioni si contraddicono, lo mostra la loro struttura» (4. 1211(b)). Ed allora potremmo dire che noi vediamo dai segni proposizioni «(VVFV) (p, q)» e «(FFVF) (p, q)» - cioè dal confronto della disposizione dei segni «V» e «F» che compaiono in essi - che le proposizioni in questione si contraddicono l’una l’altra.

Si tratta di temi che riprenderemo tra breve. Per il momento passiamo senz’altro ad introdurre le nozioni di tautologia e di contraddizione.

Tra tutte le proposizioni che sono funzioni di verità di un dato insieme di proposizioni elementari vi sono due casi particolari: un caso in cui tutte le possibilità di verità delle proposizioni elementari sono condizioni della sua verità ed un caso in cui tutte le possibilità di verità delle proposizioni elementari sono condizioni della sua falsità.

I segni proposizionali corrispondenti (in rapporto ad un insieme di due proposizioni elementari) saranno: «(VVVV) (p,q)» e «(FFFF) (p, q)». Parleremo, rispettivamente, di tautologia e di contraddizione.

Questi due casi particolari sono casi «degeneri» di funzioni di verità. Poiché la tautologia è vera, e la contraddizione falsa, per qualunque possibilità di verità delle proposizioni elementari, non vi è un rapporto di dipendenza, ma di indipendenza.

La tautologia non può essere falsa; la contraddizione non può essere vera (4. 461(b)). Esse sono prive della bipolarità vero-falso che caratterizza la sensatezza della proposizione. Possiamo allora concludere senz’altro che la tautologia e la contraddizione sono prive di senso.

2.

È opinione comune che il Tractatus non presenti un metodo di accertamento delle condizioni di verità e di falsità delle proposizioni, e quindi un metodo di decisione per la tautologia e la contraddizione, secondo il calcolo dei valori di verità mediante tavole così come viene usualmente insegnato.

In effetti viene proposto un metodo diverso (6. 1203), giudicato normalmente privo di interesse perché segnicamente più complesso e più artificioso rispetto a quello tabulare. Vediamo anzitutto di che si tratta.

La tabulazione delle possibilità di verità delle proposizioni elementari viene sostituita da linee di collegamento tra i loro valori di verità scritti alla sinistra ed alla destra del segno proposizionale, in questo modo:

 

Le condizioni di verità, ad esempio, della proposizione «x Ù h» (dove le lettere greche sono variabili di proposizioni) saranno allora presentate cosi:

 

In un segno come questo distinguiamo poli di verità interni e poli di verità esterni della proposizione, e i suoi poli più interni saranno poli di verità di proposizioni elementari. Sembrerebbe allora che, dato un certo segno proposizionale, si debba procedere determinando i valori di verità secondo le regole usuali, dall’interno verso l’esterno; e si vede subito che sorgono varie complicazioni, che il tracciare linee produce un segno quanto mai confuso e che si rende necessaria, quanto meno, una regola ulteriore che precluda il collegamento di poli interni opposti della stessa proposizione. Una tautologia verrebbe alla fine presentata, stando a questo modo di intendere la procedura proposta, come priva di un polo esterno «F» e la contraddizione come priva di un polo esterno «V». Ma anche qualche esempio - neppure molto complesso - mostrerebbe che una simile procedura differisce dal metodo tabulare solo per il fatto che essa è praticamente inutilizzabile.

Eppure non può non apparire strano che Wittgenstein abbia introdotto la tabulazione dei valori di verità senza fare il passo banale al suo uso. Mentre è più verosimile che l’indicazione contenuta nella proposizione 4. 442 fosse a giudizio di Wittgenstein più che sufficiente per caratterizzare il metodo tabulare nel modo usuale.

A mio avviso dunque, nel Tractatus, è indicata un’altra procedura di decisione accanto a quella consueta, e non in luogo di essa. Notiamo subito, tuttavia, che la seconda procedura si presta ad una diversa interpretazione che del resto può essere ampiamente giustificata sulla base dei materiali preparatori del Tractatus. Essenziale soprattutto è l’indicazione contenuta in una lettera a Russell secondo la quale l’accertamento delle condizioni di verità della proposizione deve procedere dai poli esterni a quelli interni (LR, p. 248). Per illustrare brevemente e chiaramente il metodo proposto da Wittgenstein semplifichiamo un poco le cose presentando, ad esempio, le condizioni di falsità di una proposizione «x Ù h » in questo modo:

Le condizioni di verità della proposizione «(p Ú q) Ù ~p » saranno allora indicate dallo schema

Lo schema viene sviluppato fissando il polo più esterno «V» e determinando via via i poli più interni secondo le regole usuali. Osserviamo ora che nella parte a destra dello schema si richiede la falsità di p come condizione di verità della proposizione data. Nella parte a sinistra non saranno perciò prese in considerazione la prima e la seconda combinazione di valori di verità (esse potrebbero essere cancellate); cosicché la verità di q insieme alla falsità di p rappresentano le condizioni di verità della proposizione data.

Prendiamo ora la proposizione «p Ú ~p » e determiniamone nel modo indicato le condizioni di falsità:

La verità di p insieme alla sua falsità è richiesta come condizione di falsità della proposizione data. Tale schema non può perciò essere preso in considerazione (e potrebbe essere cancellato). Ciò indica che la proposizione data non ha nessuna condizione di falsità, che essa è una tautologia. In rapporto a questo metodo di decisione potremmo dire che una proposizione è una tautologia se il suo polo esterno «F» è coordinato solo a gruppi di poli interni che contengono poli opposti della stessa proposizione. E inversamente una proposizione è una contraddizione solo se il suo polo esterno «V» è coordinato soltanto a gruppi di poli interni che contengono i poli opposti della stessa proposizione. Cosi in effetti formula la cosa Wittgenstein nella lettera a Russell già ricordata (LR, pp. 248-249).

Se questo modo di intendere il metodo proposto da Wittgenstein è corretto non sembra che si possa sostenere in rapporto ad esso ciò che si diceva all’inizio. Nessun dubbio che sarebbe necessaria una sua precisa regolamentazione, ma già in una presentazione come questa appare chiaro che tale metodo, oltre a presentare caratteristiche ben diverse da quello tabulare, non appare nemmeno, ad un primo sguardo, più complicato di quello. In ogni caso non è questa la ragione per la quale abbiamo attirato l’attenzione su questo punto, che di per se stesso rappresenta una questione di dettaglio. Ciò che vi è di interessante nella procedura proposta riguarda il fatto che essa appare direttamente suggerita da alcuni aspetti della tematica più generale della sensatezza. La ragione per la quale possiamo assegnare simultaneamente ad un segno proposizionale i segni «V» e «F» consiste nel fatto che intendiamo la verità e la falsità come possibilità - mentre l’assenza di condizioni di falsità della tautologia viene qui illustrata dal fatto che l’assunzione della sua falsità richiederebbe l’assegnazione a proposizioni della verità e falsità come possibilità simultaneamente realizzate. Forse questo è un buon motivo per rendere ragione del1’«importanza » che è sempre stata attribuita al principio di non contraddizione - o se non questo: almeno per sostenere che tutte le tautologie hanno una struttura comune, che si potrebbe formulare una «regola generale» della loro formazione (LR, p. 251) e che infine ciò che una caratterizzazione della tautologia e della contraddizione mette in questione è la nozione stessa di proposizione.

Altrettanto caratteristico, nel metodo proposto è che lo schema presentato, nella struttura dei suoi poli di verità, mostra in che modo una proposizione è costruita generativamente a partire dalle proposizioni elementari. Uno schema fatto così è infatti l’immagine di una genealogia.

3.

Si tratti del metodo ad albero o del metodo tabulare, essi sono in ogni caso da caratterizzare come metodi intuitivi questo termine è esplicitamente usato da Wittgenstein (6. 1203).

Per evitare fin dall’inizio vari equivoci, osserviamo subito che è necessario distinguere almeno tre accezioni di questo termine.

Talora parliamo di «illustrazione intuitiva» di una nozione per indicare una sua illustrazione mediante immagini, esempi, analogie, ecc. ; si tratterà perciò di una spiegazione alla buona, nella quale si rinuncia, eventualmente a scopi introduttivi e preparatori, ad un qualche canone prestabilito nella forma dell’esposizione.

Facciamo un secondo uso di questo termine quando parliamo di «conoscenza intuitiva», volendo con ciò intendere una conoscenza chiara in se stessa, che non ha bisogno di dimostrazione, che «si comprende da sé». Una conoscenza intuitiva in questa accezione non è una conoscenza vaga nel senso in cui potremmo dire vaga una nozione illustrata mediante immagini o analogie. Si potrà discutere invece se una simile conoscenza, e quindi la proposizione che la esprime non possa eventualmente essere dimostrata in qualche modo; oppure se in generale sia lecito parlare di una proposizione del tutto chiara in se stessa, che si comprende da sé, ecc.

Infine, il termine «intuitivo» può essere usato secondo la sua origine etimologica, e nella sua accezione più ristretta, come sinonimo di «visivo» - e in un’accezione più ampia in rapporto agli atti della percezione (ulteriori possibili estensioni qui non interessano).

Ciò è quanto basta per indicare che quando Wittgenstein caratterizza il proprio metodo di decisione come un metodo «intuitivo» ha di mira la terza accezione del termine: i segni sono cose della percezione; il modo in cui è fatto un complesso di segni viene colto con lo sguardo. Perciò ogni volta che abbiamo a che fare con dei segni, abbiamo a che fare nello stesso tempo con l’intuizione.

Ed ecco dunque in che modo si ripresenta, questa volta nel contesto della dottrina della tautologia con i sudi rimandi agli sviluppi in sede di filosofia della logica, la tanto discussa tematica del mostrare. Nessuno forse contesterebbe l’affermazione che per accertare, nel calcolo proposizionale, se una certa proposizione è una tautologia, non dobbiamo fare altro che compilare la «tavola»: alla fine, essa mostra se quella proposizione sia o non sia da annoverare tra le tautologie. Ora, noi abbiamo detto che la tavola potrebbe essere assunta come un segno proposizionale; ed allora affermiamo senz’altro che «ogni tautologia mostra in se stessa di essere una tautologia» (6. 127(b)).

Si può obiettare che assumere la tavola come segno proposizionale non è che una finzione e che lo stesso fatto che abbiamo bisogno di effettuare un calcolo per la decisione delle condizioni di verità delle proposizioni indica che il parlare del «mostrarsi» della tautologia è a sua volta una finzione su una finzione.

Probabilmente si tratta soltanto di fissare il punto effettivo della questione. Ciò che si vuole sostenere - la «scoperta» del Tractatus - è semplicemente questo: ciò che chiamiamo tautologia è una proposizione il cui segno proposizionale è fatto in un certo modo. Se da esso non vedo che la proposizione è una tautologia, potrei dire che la notazione non è «chiara» ed il ricorso ad una procedura di calcolo (ed è indifferente che si tratti dei metodi indicati o di qualche altro che realizzi lo stesso scopo) potrebbe allora essere inteso come un modo di portare alla chiarezza la struttura del segno proposizionale (e quindi anche le condizioni di verità che la proposizione deve esprimere in esso). Un metodo di questo genere poggia a sua volta, nella stessa misura in cui è una procedura di manipolazione e di trasformazione dei segni, sulla loro dominabilità intuitiva. Il calcolo non si contrappone dunque all’intuizione - se intendiamo questo termine nel modo che è stato spiegato.

Da un punto di vista generale, questo è un modo di ripresentare accennando ad una proposta di reinterpretazione - benché riferita ad un livello esemplificativo molto elementare - la classica distinzione tra «verità di ragione» e «verità di fatto», tra proposizioni «logiche» e proposizioni «empiriche». Da un lato abbiamo infatti le proposizioni «sempre vere», che non hanno bisogno per l’accertamento della loro verità di essere messe a confronto con la realtà; dall’altro le proposizioni la cui verità o falsità viene decisa da un simile confronto - dall’esperienza. In che modo tuttavia, in rapporto ad una proposizione logica, potremmo dire che essa esprime un «pensiero», che è una verità a priori? La sua validità deve essere intesa come dipendente non già da ciò che la proposizione dice, ma dal modo in cui essa è costruita. Perciò possiamo prescindere interamente dal suo «contenuto» prendendo in considerazione unicamente la sua forma logica che viene espressa nella struttura del segno proposizionale. Abbiamo già osservato che la tautologia è priva di senso (sinnlos); ora aggiungiamo che essa non è insensata (unsinnig) come lo sono quei complessi segnici che contravvengono alle regole di buona formazione grammaticale del linguaggio (4. 4611). L’assenza del senso significa, in questo caso, vuotezza del senso; o anche: assenza di un contenuto conoscitivo (4. 461(e)). Una tautologia non è una proposizione vera per ogni cosa, essa non dice qualcosa che vale per tutte le cose. Essa non dice, in generale, nulla.

Da un lato dunque rendiamo conto dell’istanza razionalistica di una netta distinzione tra proposizioni logiche e proposizioni che hanno un contenuto fattuale. Affermiamo cioè che vi sono proposizioni a priori. Dall’altro, e nello stesso tempo, la tesi empiristica iniziale viene riconfermata e rafforzata. Con la «tesi di estensionalità» noi sosteniamo che ogni conoscenza è attinta all’esperienza, che il confronto con la realtà decide, in ultima analisi, il valore di verità delle proposizioni. Cosi, mentre affermiamo che vi sono proposizioni a priori, neghiamo nello stesso tempo che vi siano conoscenze a priori.

Un significato interamente diverso dovrà ricevere anche la tematica dell’evidenza che si trova costantemente associata a quell’istanza razionalistica. Parlare di «conoscenze intuitive», nella seconda accezione del termine, significa la stessa cosa che attribuire a certe proposizioni un carattere di vincolo immediato all’assenso, di evidenza, appunto, che rappresenterebbe una sorta di contrassegno della certezza, quindi della superfluità di ogni fondazione dimostrativa. Le «verità di ragione» - qualora vengano ammesse a titolo di effettive conoscenze - debbono essere assunte come proposizioni «evidenti» in questo senso. Se poi volessimo illustrare in che cosa consista questo carattere di evidenza, probabilmente non avremmo altra alternativa che quella di ricorrere a certe connotazioni psicologiche. All’evidenza in questa accezione - che presuppone comunque un’apprensione intellettuale di contenuti - non può essere dato alcuno spazio in una concezione come questa che sottolinea la vuotezza conoscitiva delle proposizioni logiche[4]. Con la critica della nozione psicologistica di evidenza non viene meno qualsiasi riferimento ad essa in un’altra accezione. Deve essere evidente che una certa proposizione è una tautologia: ciò si mostra infatti nel suo segno; oppure nel calcolo attraverso il quale esso viene reso «chiaro» nella sua struttura.

Che l’evidenza della percezione sia fallace non può infine rappresentare un’obiezione: questa fallacia non ha infatti a che vedere con il calcolo. Non si riterrà fallace il calcolo perché accade in esso di sbagliare (eventualmente per un errore nella percezione dei segni). Il calcolo non sbaglia mai. Sbaglia il calcolatore.

E come nel caso del razionalismo il richiamo all’evidenza era niente altro che la posizione dell’istanza di una sfera di verità fondate in se stesse, così anche qui arriviamo a concludere che «la logica deve bastare a se stessa» (5. 473). Ma in questo contesto l’idea dell’autonomia della logica non è altro che l’idea dell’autosufficienza, della conclusione e perfezione del suo linguaggio.

4.

Alla tematica della compatibilità, della probabilità e della conseguenza, che anche dal punto di vista espositivo segue immediatamente la sezione del Tractatus che si occupa della tautologia e della contraddizione (5. 1*), si può ora accennare sia come sviluppo del nostro tema sia come esemplificazione in rapporto alla tesi centrale della teoria del simbolismo: le relazioni interne tra fatti e, correlativamente, tra le proposizioni che li descrivono debbono essere presentate da relazioni interne tra i segni proposizionali corrispondenti. Con quei termini intendiamo appunto relazioni di questo genere.

Diciamo che due proposizioni sono compatibili se la verità dell’una non esclude la verità dell’altra. E poiché possiamo continuare ad avvalerci dell’artificio di assumere la stessa tavola di verità nella scrittura abbreviata proposta come segno proposizionale, possiamo formulare la regola logico-sintattica corrispondente secondo la quale tale rapporto sussiste tra due proposizioni quando almeno una possibilità di verità delle proposizioni elementari è una condizione di verità per entrambe, cioè quando esse hanno un fondamento di verità in comune.

In riferimento alla nozione di compatibilità possiamo dare un’indicazione un po’ più determinata di quella di campo (Spielraum) della proposizione (4. 463(a)) che si annuncia già nelle metafore con cui si conclude la terza proposizione (3. 4*).

Si dice qui che la proposizione attraversa interamente lo spazio logico, determinando in esso una partizione (3. 421(c)).

Infatti, nella misura in cui una proposizione descrive un fatto possibile determinando un luogo nello spazio logico, tra tutti i fatti in generale possibili, alcuni possono essere posti, la posizione di altri invece è esclusa. Intorno alla proposizione vi è qualcosa di simile ad un’armatura logica che viene da essa proiettata sull’intero spazio logico (4. 32).

Con campo di una proposizione intendiamo allora l’insieme delle proposizioni compatibili con essa, quindi l’insieme dei fatti possibili se è posto un certo fatto. Il campo di una proposizione non è altro che lo spazio logico di quella proposizione.

Risulta immediatamente che campo della tautologia è l’intero spazio logico. Abbiamo così un altro modo per ribadire che la tautologia non dice nulla: essa è una proposizione che, a differenza di tutte le altre proposizioni, non individua nessun luogo nello spazio logico, ma presenta soltanto, per così dire, le sue coordinate.

Le relazioni interne tra proposizioni rinviano ai rapporti tra i loro campi. E la struttura del campo è presentata dalla struttura del segno proposizionale, dal numero e dall’ordine dei segni «V» che compaiono in esso (4. 463(a)). In particolare, tanto maggiore è il numero dei fondamenti di verità della proposizione, tanto più «ampio» sarà il suo campo.

I campi di proposizioni compatibili hanno almeno una parte in comune. La relazione di probabilità non fa altro che specificare in termini di rapporti tra i campi la compatibilità di due proposizioni. La formula di Wittgenstein: Vrs/Vr(in cui Vrs rappresenta il numero di fondamenti di verità comuni a r e ad s mentre Vr il numero dei fondamenti di verità di r) (5. 15) indica dunque come probabilità che la proposizione r conferisce alla proposizione s il rapporto che sussiste tra le dimensioni del campo comune a r e s e le dimensioni del campo di r.

In base a questa formula noi possiamo calcolare sui segni proposizionali (o vedere da essi) le relazioni che sussistono tra le proposizioni.

Se quel rapporto è eguale a «o», se cioè le proposizioni in questione non hanno nessun fondamento di verità in comune, esse saranno incompatibili. La possibilità del sussistere del fatto descritto dall’una esclude la possibilità del sussistere del fatto descritto dall’altra.

Se quel rapporto è eguale a «1/2», ciò indica che le proposizioni r e s sono proposizioni elementari (5. 152). Il verificarsi del fatto descritto da r conferisce al verificarsi del fatto descritto da s una probabilità né maggiore né minore di quanto il verificarsi del fatto descritto da s conferisca al verificarsi del fatto descritto da r. E questo non è altro che una formulazione dell’indipendenza reciproca degli stati di cose che era già stata asserita all’inizio del Tractatus (2. 061 e 2. 062).

Se tale rapporto è eguale a «1» allora la proposizione s è certa, se è certa la proposizione r; e diciamo che s è una conseguenza logica di r: «La certezza della conclusione logica è un caso limite della probabilità» (5. 152). In questo caso il campo comune ad r e ad s coincide con il campo di r, cioè il campo di r è interamente contenuto in quello di S [5].

Da ciò possiamo trarre la regola seguente relativa ai segni: «Se i fondamenti di verità che sono comuni a un determinato numero di proposizioni sono tutti i fondamenti di verità anche di una determinata proposizione, noi diciamo che la verità di questa proposizione segue dalla verità di quelle proposizioni» (5. 11). «In particolare, la verità di una proposizione p segue dalla verità di un’altra, q, se tutti i fondamenti di verità della seconda sono fondamenti di verità della prima» (5. 12).

Alla nozione di campo possiamo rinviare anche per illustrare l’accenno di Wittgenstein al rapporto, potremmo dire, di «ricchezza semantica» che intercorre tra premessa e conseguenza: «Se una proposizione segue da un’altra, questa dice più di quella, quella meno di questa» (5. 14). Potremmo commentare osservando che il senso della conseguenza deve essere contenuto in quello della premessa (5. 122) e che quindi la premessa dice di più della conseguenza nella misura in cui ogni proposizione «afferma» tutte le sue conseguenze (5. 124) [6] : cosa che significa poi, utilizzando le vecchie formule che anche in questo caso il Tractatus non disdegna: «Un dio che crei un mondo in cui certe proposizioni sono vere, crea con ciò stesso anche un mondo nel quale valgono tutte le proposizioni che seguono da esse» (5. 123). Ma indubbiamente una fissazione più precisa potrebbe essere ottenuta facendo riferimento alla nozione di campo. Tanto meno dice una proposizione, quanto maggiore è la libertà di movimento che essa lascia ai fatti (4. 463), quanto più ampio è il suo campo. Ed il campo della premessa è sempre meno ampio di quello della conseguenza nel quale è appunto contenuto.

Questo è infine un altro motivo dell’assenza di senso della tautologia. Nella misura in cui il suo campo è il campo di ampiezza massima, ed essa è perciò conseguenza di ogni proposizione, potremmo dire che essa è semanticamente sottodeterminata. Essa dice nulla, perché dice troppo poco. Al lato opposto, ogni proposizione è conseguenza della contraddizione. Perciò essa è semanticamente sovradeterminata. La contraddizione dice nulla, perché dice troppo. Nessuna proposizione è affermata dalla tautologia; mentre la contraddizione le afferma tutte.

Tra questi due casi limite di proposizioni si situano tutte le proposizioni provviste di senso[7].

5.

In tutta questa trattazione le ben note tesi relative al simbolismo vengono ribadite in un preciso ritorno tematico:

«Che la verità di una proposizione segua dalla verità di altre proposizioni, noi lo vediamo dalla struttura delle proposizioni» (5. 13).

«Se la verità di una proposizione segue dalla verità di altre proposizioni, ciò si esprime mediante relazioni nelle quali le forme di quelle proposizioni stanno l’una all’altra; né è necessario che siamo noi a porle in quelle relazioni connettendole l’una all’altra in una proposizione: quelle relazioni sono interne e sussistono non appena e in quanto sussistono quelle proposizioni» (5. 13 1).

Ma se le cose stanno in questi termini, che senso può avere il parlare di regole inferenziali che avrebbero lo scopo di giustificare il passaggio dalla premessa alla conseguenza? Wittgenstein è drastico qui come altrove: in realtà le regole inferenziali potrebbero essere superflue:

«Se p segue da q, posso concludere da q a p; inferire p da q.

Il modo della conclusione deve essere tratto dalle due proposizioni soltanto.

Esse, ed esse soltanto possono giustificare la conclusione. "Leggi inferenziali" che - come in Frege e in Russell - giustifichino le conclusioni sono prive di senso, e sarebbero superflue» (5. 132).

Durante le lezioni tenute a Cambridge negli anni 1930-33, Wittgenstein riprende questo tema con una sorta di reductio ad absurdum della stessa nozione di regola deduttiva.

Vi sia una regola r in base alla quale posso concludere p da q. Potremmo dire che p deriva da q e da r. Vi sarà allora bisogno di una nuova regola che giustifichi questa inferenza. Sic ad infinitum [8].

Di questo argomento non è certo difficile venire a capo nella misura in cui esso gioca sull’ambiguità tra una regola e la proposizione che corrisponde ad essa. Prima assumiamo r come regola, quindi immediatamente come proposizione che forma, insieme a q, la premessa per p. Potremmo allora mettere le cose al loro posto differenziando il segno della regola dal segno della proposizione corrispondente ad essa. Diremo perciò: p segue da q secondo la regola R, e niente altro.

Puntare il dito sull’errore ha senso soltanto se si tiene conto che una simile confutazione Wittgenstein era perfettamente in grado di esercitarla da sé; e che si può talvolta decidere di servirsi di un’argomentazione erronea (ed anche eventualmente di un paradosso) per richiamare l’attenzione su qualcosa. Il fatto è che esiste comunque una proposizione «corrispondente» alla regola, e qui vi è un problema che non possiamo dare per risolto avvertendo che la regola e questa proposizione sono cose interamente diverse, e che è necessario perciò differenziare il modo della notazione. Dopo di ciò si potrà ancora chiedere: che cosa è dunque ciò che distingue l’una cosa dall’altra e che cosa esse hanno in comune?

Vogliamo qui spiegarci con le nostre parole distinguendo tra proposizioni che prescrivono fatti e proposizioni che li descrivono, tra prescrizioni e descrizioni. Se io dico: «Arrestati, o sole!» formulo una prescrizione. Descrivo invece un fatto se dico: «Il sole si è arrestato». Si possono considerare le due proposizioni isolatamente, oppure in connessione l’una all’altra. La prima formula un ordine, che potrà essere eseguito o non eseguito, ma è chiaro che non avrebbe senso proporsi di accertarne la verità o la falsità. Un ordine non è caratterizzato dalla polarità vero-falso, e nel quadro teorico del Tractatus proposizioni come queste non meritano nemmeno il nome di proposizioni. Esse postulano, per così dire, che la realtà debba essere in un certo modo, e la realtà è soltanto ciò che è, o meglio è ciò che accade. La seconda proposizione sarà invece una proposizione effettiva nell’accezione del Tractatus.

Considerate nella loro connessione, dovremmo dire che quella prescrizione e quella descrizione hanno qualcosa in comune: la prima prescrive ciò che la seconda descrive. E se questa e vera dobbiamo dire che quell’ordine è stato eseguito.

Veniamo ora al nostro caso. Una regola inferenziale è qualcosa di simile ad una prescrizione. Ad essa corrisponde la proposizione che afferma il sussistere di un rapporto di conseguenza logica tra proposizioni. L’analogia con il caso precedente, tuttavia, non va molto oltre. Nel caso delle regole inferenziali, la prescrizione riguarda il linguaggio, non la realtà. E la descrizione corrispondente alla regola è una proposizione su proposizioni. Questa differenza è essenziale. Noi verifichiamo l’affermazione secondo la quale p consegue da q guardando in che modo sono fatti i loro segni proposizionali - ed allora in questo caso si parlerà impropriamente di verificazione: «Ogni inferire avviene a priori» (5. 133).

D’altro lato, solo se sussiste un rapporto di conseguenza tra proposizioni di questa o quella forma noi possiamo trarre questa conclusione (5. 152(a)). Questo punto è tanto caratteristico per il Tractatus quanto sarà caratteristica per il «secondo» Wittgenstein la critica alla quale esso sarà sottoposto: è la sussistenza di un rapporto di conseguenza tra proposizioni di una determinata forma che sta alla base della regola e non inversamente. Se vi è una regola che consente di concludere p da q, allora p deve essere già una conseguenza di q. In nessun modo una regola inferenziale può giustificare dall’esterno il sussistere di un rapporto di conseguenza logica tra proposizioni. Perciò la regola - e qui l’argomento erroneo di Wittgenstein mostra il suo rovescio - non può essere intesa come una nuova premessa che va ad aggiungersi alle premesse di una deduzione. Non vi è una moltiplicazione infinita delle regole ma, al contrario, vi potrebbe essere una loro totale eliminazione.

Per Wittgenstein è un’illustrazione sufficiente di tutto ciò il fatto che il metodo di decisione della tautologia possa essere utilizzato come metodo di prova per il sussistere o il non sussistere di un rapporto di conseguenza tra le proposizioni. Che da p segua q lo vediamo dalle proposizioni stesse oppure possiamo mostrarlo calcolando se l’implicazione da p a q sia o non sia una tautologia (6. 1221 e 6. 121). Una tautologia che abbia questa forma non dice che una proposizione è la conseguenza di un’altra, ma mostra il sussistere di questo rapporto. Possiamo fare a meno di regole inferenziali, nella misura in cui il metodo della tautologia può fungere da metodo che mostra in che modo le proposizioni sono costruite logicamente (6. 121). Con ciò viene acquisita un’altra tesi di fondamentale importanza nella filosofia della logica del Tractatus: «Ogni proposizione della logica è un modus ponens presentato in segni (e il modus ponens non può essere espresso mediante una proposizione)» (6. 1264)[9].

6.

Non è difficile trarre da quanto precede la posizione che Wittgenstein non può non assumere nei confronti del problema di una trattazione della logica dal punto di vista assiomatico. Naturalmente è del tutto fuori questione che sia lecito disporsi nei confronti della logica come nei confronti di qualsiasi altra disciplina, proponendo anche in questo caso la sua organizzazione in un sistema deduttivo. Si tratta piuttosto del problema che sorge dal rapporto tra questa forma di organizzazione e la nozione della logica così come si è venuta prospettando alla luce della dottrina della tautologia.

I risultati principali acquisiti erano questi: l’appartenenza di una proposizione alla logica è decisa dal modo in cui è costruito il suo segno; qualunque proposizione appartenente alla logica non dice nulla; essa mostra, in un enunciato, una regola inferenziale.

In riferimento a queste determinazioni l’esposizione della logica in forma di sistema deduttivo apre più di un problema. Che senso possono ricevere le nozioni e le distinzioni usuali quando siano riferite ad un sistema di assiomi inteso come sistema di assiomi della logica?

Si consideri la distinzione tra «assioma» e «teorema», tra proposizioni primitive e derivate. Abbiamo spiegato che la premessa «dice di più» della conseguenza; che dunque i teoremi sono «verità speciali» rispetto al sistema di verità «più generali» presentate dagli assiomi. Ma questa è appunto una differenza che non possiamo istituire in questo caso. Non possiamo, cioè, nella logica, operare una distinzione tra «più speciale» e «più generale» (5. 454). «Tutte le proposizioni della logica sono giustificate nello stesso modo; tra esse non vi sono né leggi fondamentali né proposizioni derivate che siano tali per essenza» (6. 127). Le proposizioni della logica hanno tutte la stessa «ricchezza semantica», cioè nessuna. Da una tautologia può seguire solo una tautologia (6. 126(c)). Da una proposizione che non è provvista di senso non può seguire una proposizione che lo sia, un contenuto non può sorgere dall’assenza di contenuto.

Guardiamo del resto al problema delle regole inferenziali. Quando diciamo che una tautologia è «un modus ponens presentato in segni», intendiamo solo affermare che «nella logica ogni proposizione è la forma di una dimostrazione» (6. 1264); che essa dunque si contraddistingue rispetto a tutte le altre proposizioni per il suo rinvio alle regole. Ma è chiaro allora che sorge qui una caratteristica circolarità: le proposizioni «corrispondenti» alle regole eventualmente associate al sistema debbono poter essere derivate nel sistema e, inversamente, ogni proposizione derivata nel sistema deve poter essere associata, in forma di regola, alle regole del sistema.

Infine, che cosa può essere una dimostrazione nella logica, una dimostrazione cioè dentro il sistema della logica - che distingueremo dunque da una dimostrazione logica (ad esempio, di una proposizione geometrica)? «Sarebbe anche troppo strano - osserva Wittgenstein - se una proposizione munita di senso si potesse dimostrare logicamente da altre, e così anche una proposizione logica. È chiaro fin dall’inizio che la dimostrazione logica di una proposizione munita di senso e la dimostrazione nella logica debbono essere due cose interamente diverse» (6. 1263). Dobbiamo invece tenere ben ferma la dipendenza della caratterizzazione della tautologia dal suo segno. Possiamo allora concepire la logica in modo tale che «ogni proposizione sia la sua propria dimostrazione» (6. 1265). La dimostrazione nella logica diventa così inessenziale.

In breve: sì adducono argomenti di vario genere per sottolineare che l’organizzazione della logica come sistema deduttivo corrisponde al concetto di teoria in generale, ma non al concetto di quella teoria che è la logica stessa.

Potremmo dire: come una spiegazione corretta delle proposizioni logiche deve dar loro una posizione speciale tra tutte le proposizioni (6. 112), così una spiegazione corretta di un sistema di assiomi della logica deve rendere conto della posizione speciale che essa occupa rispetto a tutti gli altri.

7.

Abbiamo così indicato i punti essenziali della concezione della logica del Tractatus. In esso si tenta una caratterizzazione di principio della logica che si sostenga sulla base della caratterizzazione delle proposizioni che appartengono ad essa. Alla domanda sulla «natura» della logica cerchiamo di rispondere anzitutto prendendo in esame la natura delle sue proposizioni, delle proposizioni «logiche». Cosi la tematica è introdotta dalla teoria delle funzioni di verità, e unitamente ad essa viene indicata la tecnica di decisione della tautologia sulla cui base può essere determinato in modo preciso in che senso si parli di «verità incondizionata» della tautologia e di «falsità incondizionata» della contraddizione. Si giunge così senz’altro ad una prima determinazione negativa. Se una caratterizzazione della logica deve poggiare sulla natura delle proposizioni che appartengono ad essa, allora «teorie che facciano apparire munita di contenuto una proposizione della logica sono sempre false» (6. 111). Otteniamo invece una determinazione positiva nel rinvio alla tematica delle regole inferenziali:

«E adesso diviene chiaro anche perché la logica fu chiamata dottrina delle forme e dell’inferenza» (6. 1224).

Ma il fatto che «racchiude in sé tutta la filosofia della logica» (6. 113) è la possibilità di un riconoscimento intuitivo dell’appartenenza di una proposizione alla logica: tale appartenenza deve cioè poter risultare dall’ispezione diretta del suo segno (6. 122) oppure mediante un calcolo, mediante una trasformazione del segno che lo renda accessibile a questa ispezione diretta (6. 126(a)).

Parlare di intuizionismo linguistico per caratterizzare la posizione di Wittgenstein sembra senz’altro appropriato, purché si intendano i termini nel modo che abbiamo spiegato. Con questa caratterizzazione richiamiamo esplicitamente il tratto che collega gli inizi dalla teoria dell’immagine sino agli esiti in sede di filosofia della logica e del simbolismo. E chiaro infatti che, considerata al di fuori di questi esiti o fraintendendo il modo di questa connessione la teoria della proposizione-immagine di Wittgenstein sarebbe quasi interamente priva di interesse, riducendosi ad una forzatura artificiosa di un’analogia abbastanza esterna.

La teoria della proposizione come immagine dice sostanzialmente: il senso lo debbo vedere dal simbolo. Questo è il filo conduttore ovunque operante. Se un simbolismo è adeguato a ciò che esso deve esprimere, non ho più bisogno di pensare attraverso il linguaggio. Ma ho bisogno dell’intuizione del linguaggio.

L’ambiguità tra la nozione astratta e la nozione concreta di immagine, su cui abbiamo richiamato l’attenzione fin dall’inizio, assolve essenzialmente lo scopo di tenere fermi entrambi questi poli: il calcolo e l’intuizione, la regola e il segno. Possiamo dire dunque anche per la logica ciò che nel Tractatus si afferma esplicitamente a proposito della matematica: «Alla domanda se per risolvere i problemi matematici l’intuizione serva, si deve rispondere nel senso che appunto il linguaggio fornisce qui l’intuizione necessaria» (6. 233). «Il procedimento. del calcolare provvede appunto a questa intuizione» (6. 233 1).

In tempi successivi al Tractatus, Wittgenstein osservò una volta: «Fino ad un certo punto è vero che la matematica poggia sull’intuizione; cioè, sull’intuizione dei simboli; e la stessa intuizione viene utilizzata nella logica nell’applicazione della tautologia» [10].

Ma accentuare questo aspetto significa sottolineare che la chiave per una lettura del Tractatus sta anzitutto nel riconoscimento del suo tendenziale formalismo.


Note

[1]Wittgenstein und der Wiener Kreis, op. cit. , p. 243.

[2] ivi, p. 244.

[3] Cfr. F. P. Ramsey, I fondamenti della matematica e altri scritti di logica, trad. it. a cura di E. Belli-Nicoletti e M. Valente, Milano 1964, p. 25. - Notiamo a questo proposito che per il motivo indicato, la «spiegazione in parole» delle funzioni di verità nella prop. 5.101 è fuorviante e può essere trascurata. Un’altra peculiarità dell’esempio proposto da Wittgenstein nella prop. 4. 442 è l’assenza del segno «F». Con ciò sembra si voglia indicare che la determinazione delle condizioni di verità di una proposizione è anche la determinazione delle condizioni della sua falsità (cfr. MM, p. 232).

[4] Wittgenstein critica in particolare su questo punto Russell (5. 4731) ed anche Frege (6. 1271). Potremmo richiamare, come esempi, il modo in cui Russell cerca di «persuaderci» della validità di ciò che egli chiama «principio di riduzione» nei Principi della matematica, op. cit. , p. 53, e in particolare l’osservazione secondo la quale «esso è meno autoevidente dei principi precedenti, ma è equivalente a molte proposizioni che sono autoevidenti»; e nel caso di Frege (che certo non avrebbe teorizzato il ricorso ad un’evidenza in senso psicologistico, ma Wittgenstein del resto non intende dire questo) il modo in cui egli giustifica il suo primo principio di condizionalità nella Ideografia (in Logica e aritmetica, op. cit. , p. 137); oppure l’osservazione nell’Epilogo alle Leggi fondamentali dell’aritmetica a proposito del suo quinto principio: «Non mi sono mai nascosto che esso non è così evidente come tutti gli altri e come si deve esigere da una legge logica» (ivi, pp. 574-575). - In fondo la posizione antipsicologistica di Wittgenstein sta tutta nel fatto che in rapporto alla sua nozione di evidenza non avrebbe senso parlare della maggiore o minore evidenza di una proposizione logica.

[5] Perciò è erronea la rappresentazione di questo rapporto in J. R. Weinberg, Introduzione al positivismo logico, trad. it. a cura di L. Geymonat, Torino 1967, p. 141.

[6] In particolare possiamo dire che una proposizione incompatibile con un’altra, se non è la sua negativa, «afferma»«»n ogni caso la sua negativa nelle proprie conseguenze. Come sia importante per Wittgenstein sostenere che la negazione di una proposizione è contenuta logicamente in ogni proposizione con essa incompatibile lo si vede, tra l’altro, dalla prop. 6. 3751.

[7] Cfr. Q, p. 136.- Le ragioni della scelta dell’ordine proposto da Wittgenstein nella prop. 5. 101 sta nel fatto che in questo modo i segni proposizionali vengono disposti secondo un ordine di ampiezza decrescente dei campi proposizionali. E così anche viene espresso il nesso tra la nozione della negazione e quella di campo (in questa disposizione la prima e ultima proposizione, la seconda e la penultima, e così via, sono proposizioni che si negano reciprocamente). Sottolineare che la possibilità di ordinare le funzioni di verità in una serie come questa rappresenta il fondamenta della teoria della probabilità e in particolare della conseguenza (come fa Wittgenstein nella prop. 5. 1) significa dunque ribadire ancora una volta la centralità della nozione di campo.

[8] Cfr. G. E. Moore, Le lezioni di Wittgenstein negli anni 1930-1933, in Saggi filosofici, trad. it. a cura di M. A. Bonfantini, Milano 1970, p. 324.

[9] Non ha ovviamente senso alcuno obiettare (come in M. Black, Manuale per il Tractatus di Wittgenstein, trad. it. di R. Simone, Roma 1964, p. 328) alla prop. 6. 1264 che ciò vale solo per tautologie che hanno l’implicazione come funtore principale, ma non ad esempio, per il terzo escluso (nella sua formulazione usuale).

[10] Wittgenstein und der Wiener Kreis, op. cit. , p. 219.

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