Lezione nona

1. Possiamo ormai avviarci verso la conclusione delle nostre considerazioni sulla filosofia della percezione in Locke. E tuttavia, prima di avviare qualche riflessione critica che ci aiuti a definire quale possa essere la nostra posizione non già rispetto a Locke ma ai problemi che la sua lettura ci propone, è forse opportuno soffermarsi ancora sul problema che abbiamo affrontato nella lezione precedente. Questo era il nostro obiettivo: volevamo mostrare quali fossero le argomentazioni che consentono a Locke di sostenere che vi sono idee che, pur non essendo per loro natura raffigurazioni di qualcosa, ci consentono egualmente di avanzare un'ipotesi fondata su una somiglianza presunta.

Tra queste considerazioni di carattere generale non è tuttavia dato trovare un argomento che forse ci aspettavamo di leggere e che a Locke non poteva essere sfuggito: le qualità primarie sembrano differenziarsi dalle qualità secondarie anche perché le une ma non le altre hanno la proprietà di annunciarsi attraverso più di una fonte sensibile.

Non è difficile comprendere perché si possa ritenere che le qualità comuni a differenti fonti sensibili abbiamo natura primaria: se, come abbiamo visto, la caratteristica dominante delle idee delle qualità secondarie è la loro dipendenza dalle circostanze soggettive della percezione, la possibilità di trovare un'invariante rispetto alla fonte sensibile deve porsi come un significativo indizio della natura non meramente soggettiva dei contenuti esperiti. Il rosso posso soltanto vederlo, e la sua dipendenza dal come del mio apparato percettivo si manifesta appunto nell'unicità della via d'accesso che mi consente di afferrarlo. Diversamente stanno le cose quando ho a che fare con una qualche configurazione spaziale: posso vedere la forma del bicchiere che ho in mano, ma posso naturalmente avvertirla tattilmente nella presa che lo sorregge. Qui la forma sembra guadagnare una sua indipendenza dal come della manifestazione sensibile: una stessa corporeità estesa mi si dà ora come colore e ombra ora come resistenza e levigatezza, ed in questo permanere nel mutamento vi è in linea di principio la possibilità di indicare il percorso che Locke per altra via addita nelle sue argomentazioni. Se le qualità primarie si annunciano nella tendenziale indipendenza del loro manifestarsi rispetto alla relatività delle circostanze e delle condizioni percettive, allora la possibilità di parlare di idee che si danno in differenti forme sensibili vale come una ragione per congetturarne il carattere primario.

E tuttavia, come abbiamo già osservato, questo argomento non occupa nel Saggio sull'intelletto umano il posto che ci si potrebbe attendere, ed io credo che vi siano due buone ragioni per questa dimenticanza altrimenti così difficile da comprendere. La prima è più immediata: per Locke, tra le qualità primarie figura anche la solidità che, a suo avviso, ha natura soltanto tattile. Di qui la conclusione che si deve trarre: il criterio della molteplicità delle fonti sensibili può essere forse una condizione sufficiente del carattere primario di una qualità, ma non può essere una sua condizione necessaria e prova ne è il fatto che possiamo indicare almeno una qualità primaria - la solidità, appunto - che può essere soltanto toccata, ma non vista o sentita.

Ma è davvero una condizione sufficiente? Se ci poniamo nella prospettiva di Locke la risposta deve essere negativa. Il fatto che vi sia una determinata proprietà che può essere colta da differenti sistemi percettivi potrebbe semplicemente parlare in favore della vicinanza di quegli organi di senso. Così, potremmo per esempio sostenere che l'essere aspro è una qualità di un odore, ma anche di un sapore, e che questa comunanza non sembra essere di natura soltanto metaforica, come saremmo invece propensi a sostenere nel caso di aggettivazioni tattili di fatti sonori (un suono grave, una melodia carezzevole, ...), sonore di fatti cromatici (un rosso squillante), tattili di determinazioni di gusto (un sapore morbido, vellutato, pungente, piccante, e così via). Ma anche se qui di una metafora non sembra lecito parlare, ciò non toglie che nessuno di noi, e tantomeno Locke, sarebbe disposto ad annoverare odori e sapori aspri sotto il titolo generale delle qualità primarie. Si potrebbe dunque sostenere che il criterio di cui discorriamo non è di per sé né necessario né sufficiente, e che si può al massimo avvalersene come di una spia che ci spinge a verificare altrimenti come stiano le cose.

Non so se sia questo il motivo che spinge Locke a mettere da parte il criterio su cui abbiamo appena attirato l'attenzione. Credo tuttavia che, comunque stiano le cose, sia opportuno tenere presente che vi è un'altra ragione che poteva rendere problematico ai suoi occhi il discorrere tanto liberamente di idee semplici ottenute mediante più di un senso, come recita il titolo del quarto capitolo del secondo libro del Saggio sull'intelletto umano. La ragione ci è nota: per Locke le idee sono innanzitutto datità sensibili e non possono manifestare null'altro se non ciò che costituisce il loro aspetto contenutistico. Su questo punto ci siamo soffermati a lungo discorrendo del significato implicito nella tesi lockeana secondo la quale il significato di ogni singolo termine e quindi anche di ogni possibile parola del nostro idioma mentale è tutto racchiuso nella dimensione contenutistica delle idee, in ciò che esse sensibilmente presentano. Certo, Locke è consapevole del fatto che ogni singola scena percettiva è, per così dire, più ricca del significato di ogni singolo termine del nostro linguaggio, e per questo rammenta che i nostri pensieri chiamano in causa la funzione intellettuale dell'astrazione: possiamo separare nell'unità della scena percettiva ciò che la parola intende da ciò che invece non è propriamente inteso. Ma si tratta di un compito molto più complesso di quanto non sembri se si ritiene, come Locke sembra ritenere, che le idee altro non sono che un contenuto presentativo di natura intuitiva: in questo caso diviene infatti davvero difficile dire come sia possibile discernere ciò che può essere propriamente distinto. Così diviene nel complesso difficile comprendere come sia possibile vedere e toccare la stessa distanza se con "distanza" non possiamo intendere null'altro se non una determinata immagine sensibilmente determinata che nel caso del tatto è costituita da sensazioni cinestetiche e che nel caso della vista si intesse di colori e luci.

In quest'ordine di considerazioni ci siamo a suo tempo imbattuti: il problema di cui ora discorriamo ci riconduce infatti per altra via alle questioni che abbiamo affrontato addentrandoci nella questione del cieco di Molyneux e nel tentativo lockeano di sciogliere con la sua consueta moderazione teorica il groviglio che gli era stato posto sotto gli occhi da quel dotto irlandese. Certo, Locke dice che vi sono idee semplici ottenute mediante più di un senso ma non è affatto chiaro che cosa propriamente simili idee possano essere, se ci si dispone coerentemente nella prospettiva che Locke sembra di norma far sua. Su questo ci siamo già soffermati: il cieco risanato non può riconoscere a prima vista la sfera e il cubo di cui pure aveva avuto esperienza tattile, ma può in seguito superare la sua presente incapacità, tracciando la rete delle proiezioni che dalla dimensione tattile ci conducono alla dimensione visiva, indicando la regola della loro reciproca traducibilità. Ma di una traduzione tuttavia si tratta: chi vede e tocca la sfera che poggia sul tavolo ha due idee ben distinte della forma ed è anche per questo che non può fin da principio riconoscere con certezza che l'una e l'altra idea sono segni che si accompagnano l'uno con l'altro e stanno per un'identica cosa che non è né tattile né visiva, ma solamente sferica. Tocca così all'abitudine, che passo dopo passo lega la vista e il tatto scoprendo nell'una ciò che può fungere da rappresentazione dell'altra, dissimulare la comunanza dello spazio logico in cui pure la forma visiva e la forma tattile debbono trovarsi - una comunanza che va al di là dell'aspetto puramente contenutistico delle idee e che allude ad un'identità che non è accessibile a chi si sforzi di esprimerla nel linguaggio sensistico delle idee-immagine. Possiamo dipingere un quadro che mostri la liquidità dell'acqua e la sua freschezza, ma non possiamo dipingere ciò che rende la forma tattile identica alla forma visiva.

Ma ciò che l'abitudine dissimula agli occhi del lettore doveva probabilmente nasconderlo anche agli occhi di Locke che nel Saggio sostiene che abbiamo un'idea visiva e tattile della forma, anche se poi questa tesi non può che divenire oscura una volta che sia formulata nella grammatica filosofica di cui Locke si avvale. Così, se Locke rinuncia a cercare nella molteplicità delle fonti sensibili di un'idea un criterio per affermare che essa sta per una qualità primaria non è solo perché è possibile avventurarsi sul terreno di possibili controesempi, ma perché nel contesto teorico della filosofia lockeana la tesi secondo la quale vediamo ciò che tocchiamo è necessariamente problematica, poiché è subordinata all'ipotesi falsa secondo la quale il senso della nostra esperienza può essere ricondotta alla sua mera dimensione immaginosa.

Una conferma alle difficoltà che abbiamo appena sollevato può essere tratta, io credo, anche dall'analisi di ciò che Locke scrive quando affronta a titolo esemplificativo la natura di un'idea semplice del tatto cui abbiamo già alluso - l'idea della solidità. Si tratta di un capitolo breve e molto interessante, anche se, come di consueto nel Saggio, Locke mostra di non sapersi limitare al terreno degli esempi e sente il bisogno di intrecciare il momento dell'esemplificazione alla discussione di una questione di per sé interessante e complessa che getta sul terreno molte nuove domande. E non potrebbe essere altrimenti, perché la solidità non è per Locke una proprietà tattile tra le altre ma fa tutt'uno con un principio che circoscrive razionalmente la nozione di corpo: il principio di impenetrabilità.

Su questo punto, per Locke, non vi sono dubbi. L'idea della solidità è un'idea tattile che fa tutt'uno con la nostra esperienza degli oggetti. Gli oggetti, insegna Cartesio, sono estesi; l'estensione, tuttavia, non basta di per se stessa per comprendere che cosa sia un corpo: i corpi infatti sono, per loro essenza, null'altro se non spazio occupato ed è per questo che l'esperienza della solidità, e cioè della resistenza insormontabile che le cose oppongono al tentativo di riempire il luogo in cui sono, vale come un'esibizione empirica del vecchio principio metafisico dell'impenetrabilità dei corpi:

The idea of solidity we receive by our touch: and it arises from the resistance which we find in body to the entrance of any other body into the place it possesses, till it has left it. There is no idea which we receive more constantly from sensation than solidity. Whether we move or rest, in what posture soever we are, we always feel something under us that support us, and hinders our further sinking downwards; and the bodies which we daily handle make us perceive that, whilst they remain between them, they do, by an insurmountable force, hinder the approach of the parts of our hands that press them. That which thus hinders the approach of two bodies, when they are moved one towards another, I call solidity. I will not dispute whether this acceptation of the word solid be nearer to its original signification than that which mathematicians use it in. It suffices that I think the common notion of solidity will allow, if not justify, this use of it; but if any one think it better to call it impenetrability, he has my consent. Only I have thought the term solidity the more proper to express this idea, not only because of its vulgar use in that sense, but also because it carries something more of positive in it than impenetrability; which is negative, and is perhaps more a consequence of solidity, than solidity itself. This, of all other, seems the idea most intimately connected with, and essential to body; so as nowhere else to be found or imagined, but only in matter. And though our senses take no notice of it, but in masses of matter, of a bulk sufficient to cause a sensation in us: yet the mind, having once got this idea from such grosser sensible bodies, traces it further, and considers it, as well as figure, in the minutest particle of matter that can exist; and finds it inseparably inherent in body, wherever or however modified (ivi, II, iv, 1).

In questa lunga citazione più cose debbono essere notate. Deve essere sottolineata in primo luogo la tendenza, così tipica del Saggio sull'intelletto umano, a fare di una mera osservazione empirica (la nostra esperienza della solidità come proprietà macroscopica dei corpi) il punto di partenza per una riflessione che - nelle vesti dimesse di una generalizzazione empirica - mira tuttavia a trarre una conclusione generale sulla natura dei corpi. Ciò che avvertiamo maneggiando le cose del mondo che ci circonda o semplicemente percependo la resistenza che la terra oppone al nostro sprofondare nelle sue viscere deve divenire una scoperta che ci guida nell'immagine che ci facciamo della materia: nell'esperienza della solidità matura, per Locke, il fondamento empirico su cui costruiamo la grammatica filosofica del concetto di corpo nella sua astratta generalità. Un corpo è infatti essenzialmente questo: uno spazio che ha definitivamente perduto la sua capacità di accogliere ciò che c'è. E ciò è appunto quanto dire che l'esperienza della solidità e la centralità del principio dell'impenetrabilità dei corpi debbono valere come una nuova significativa presa di commiato dalla tesi cartesiana della res extensa. Lo spazio fisico non è soltanto una molteplicità tridimensionale che è per principio riempita e pervasa dal reale, ma è anche una gigantesca matrice che per ogni punto può assumere due diversi valori: pieno o vuoto, mero spazio o corpo.

Di qui, in secondo luogo, la cura che Locke pone nel definire la solidità in termini prevalentemente obiettivi, che non chiamano in causa la dimensione sensibile e soggettiva dell'esperienza. La solidità, leggiamo nel passo dianzi citato, è ciò che "ostacola l'incontro di due oggetti che siano mossi l'uno verso l'altro": abbiamo dunque a che fare con una proprietà obiettiva e non con uno stato soggettivo. Ed è ancora per questo che Locke disingue chiaramente la solidità dalla durezza. Qui non abbiamo a che fare con una proprietà costitutiva della materia, ma con una sensazione peculiare di cui si può rendere conto additando una certa strutturazione delle parti che compongono gli oggetti. Alla solidità come qualità primaria si contrappone così la durezza come qualità secondaria, come proprietà che è interamente data in querl contenuto sensibile che avvertiamo sulla punta delle nostre dita:

Solidity is hereby also differenced from hardness, in that solidity consists in repletion, and so an utter exclusion of other bodies out of the space it possesses: but hardness, in a firm cohesion of the parts of matter, making up masses of a sensible bulk, so that the whole does not easily change its figure. And indeed, hard and soft are names that we give to things only in relation to the constitutions of our own bodies; that being generally called hard by us, which will put us to pain sooner than change figure by the pressure of any part of our bodies; and that, on the contrary, soft, which changes the situation of its parts upon an easy and unpainful touch. But this difficulty of changing the situation of the sensible parts amongst themselves, or of the figure of the whole, gives no more solidity to the hardest body in the world than to the softest; nor is an adamant one jot more solid than water. For, though the two flat sides of two pieces of marble will more easily approach each other, between which there is nothing but water or air, than if there be a diamond between them; yet it is not that the parts of the diamond are more solid than those of water, or resist more; but because the parts of water, being more easily separable from each other, they will, by a side motion, be more easily removed, and give way to the approach of the two pieces of marble. But if they could be kept from making place by that side motion, they would eternally hinder the approach of these two pieces of marble, as much as the diamond; and it would be as impossible by any force to surmount their resistance, as to surmount the resistance of the parts of a diamond. The softest body in the world will as invincibly resist the coming together of any other two bodies, if it be not put out of the way, but remain between them, as the hardest that can be found or imagined (ivi, II, iv, 3).

Ma vi è poi, in terzo luogo, una breve constatazione che è per noi di grande interesse. Locke ci invita ad osservare, e noi lo abbiamo più volte sottolineato, che la solidità è un concetto che ci riconduce immediatamente al principio dell'impenetrabilità della materia e che anzi sarebbe senz'altro lecito intendere l'idea di cui discorriamo avvalendoci di questo principio piuttosto che del termine che invece figura nel titolo di questo quarto capitolo. E tuttavia, appena proposta, questa rapida concessione deve essere immediatamente messa da canto. E non a caso: l'impenetrabilità dei corpi non è una proprietà sensibile nel senso in cui normalmente Locke intende questo termine. Non lo è, per esempio, nel senso in cui è una proprietà sensibile la durezza, poiché con "durezza" si può soltanto intendere l'impressione di fastidio che avvertiamo quando la cosa sotto la nostra pressione altera la configurazione del nostro corpo piuttosto che mutare la sua. Ma l'impenetrabilità non è qualcosa di paragonabile. Certo, si può dire che esperiamo l'impenetrabilità dei corpi e si può sostenere che è questo ciò di cui abbiamo esperienza quando avvertiamo la resistenza che ogni corpo esercita sugli altri, ma ciò non significa affatto che io possa avvertire l'impenetrabilità dei corpi sulla punta delle dita. Ciò che esperiamo non è ciò che sentiamo: la sensazione avvertita non è l'oggetto della nostra esperienza, - ed è fin da principio evidente che l'impenetrabilità dei corpi non è affatto simile ad una qualche sensazione tattile. È per questo che Locke ci invita a parlare di solidità:

Only I have thought the term solidity the more proper to express this idea, not only because of its vulgar use in that sense, but also because it carries something more of positive in it than impenetrability; which is negative, and is perhaps more a consequence of solidity, than solidity itself (ivi).

Solidità, leggiamo, è un nome che porta con sé qualcosa di positivo, e ciò significa: la solidità è anche il nome di un contenuto sensibile. La solidità si avverte sulla punta delle dita ma ciò che si avverte è appunto un dato sensibile, non la proprietà dei corpi di occupare lo spazio escludendo dal luogo in cui sono ogni altra cosa. Così, dire che la solidità è anche il nome di qualche cosa di positivo non è che un modo equivoco per riconoscere che di fatto non vi è un contenuto sensibile che possa essere proposto come significato del principio di impenetrabilità dei corpi. Verso questa conclusione ci guida, del resto, anche la strana tesi che fa da conclusione delle osservazioni che abbiamo citato. Qui Locke non si limita a riconoscere che vi è bisogno di un dato sensibile che renda soggettivamente vissuta la determinazione obiettiva dell'impenetrabilità, ma propone anche una tesi che deve lasciarci di primo acchito perplessi: Locke sostiene infatti che la solidità deve essere pensata come causa dell'impenetrabilità. Le cose sono impenetrabili perché sono solide - questo è il ragionamento che Locke ci propone. Ma è un ragionamento cui potremmo dare ascolto solo se per solidità si intendesse la ragione per la quale le parti della materia occupano lo spazio: solo in questo caso sarebbe legittimo cogliere qui la radice ultima del concetto di corpo e quindi anche dell'impenetrabilità della materia. Ma la solidità di cui abbiamo esperienza tattile è tutt'altra cosa: per Locke, non può che essere un vissuto che accompagna la nostra esplorazione tattile del mondo. Posso sentire che una cosa è fredda o calda, liscia o ruvida, ma non che è impenetrabile. Ne segue che la solidità come esperienza vissuta non è affatto la causa dell'impenetrabilità, ma ne è piuttosto una conseguenza: le cose ci appaiono solide proprio perché hanno il potere dell'impenetrabilità.

Ora, nella possibilità di esprimersi in questo modo sembra innanzitutto evidente una conclusione che va contro Locke pur senza abbandonare il linguaggio della filosofia lockeana. Locke sostiene che la solidità è una qualità primaria delle cose, ed è per questo che deve accostarsi alla dimensione tattile che è racchiusa nell'area semantica della solidità, relegando il concetto di impenetrabilità su di un piano derivato e secondario; le cose tuttavia non stanno così e l'impenetrabilità sembra porsi come il nome di un potere insito nelle cose - il potere di sembrarci solide. Di qui la conclusione che sembra necessario trarre: la solidità è una qualità secondaria e rimanda quindi da un lato al potere delle cose di apparire in un certo modo alla soggettività percipiente, dall'altro alla causa nascosta di quel potere. La posizione peculiare della solidità in seno alle qualità primarie - il suo essere l'unica proprietà primaria che si annuncia in una sola modalità sensibile - troverebbe così la sua spiegazione: se le cose appaiono solide soltanto al tatto è perché la solidità è una qualità secondaria che non deve essere confusa con la sua causa occulta.

Non credo che le cose siano così semplici. Ciò che la riflessione esemplare sul concetto di solidità ci insegna non è che ogni tanto i filosofi si distraggono e non applicano bene i loro stessi concetti. È un problema più serio: ciò che qui ci si mostra è che il vocabolario concettuale della filosofia lockeana non è in grado di venire a capo della distinzione tra gli oggetti dell'esperienza e i contenuti sensibili che di volta in volta in volta viviamo. Questa distinzione non può essere formulata nel linguaggio delle sensazioni soggettive e dei poteri obiettivi, se non si vuole rinunciare al fatto, descrittivamente evidente, che ciò che percepiamo non è mai una mera sensazione, ma è ciò nondimeno esperito. Per tornare al nostro esempio: noi esperiamo l'impenetrabilità dei corpi, ma non vi è una sensazione che catturi questa loro proprietà che è nel suo senso molto più ricca di un qualsiasi momento vissuto. Certo, nel caso delle qualità secondarie, il problema di cui discorriamo sembra passare in secondo piano perché Locke può impoverire il contenuto obiettivo della nostra esperienza sino al punto di negarlo interamente: esperito sarebbe soltanto ciò che colora di sé la coscienza senza tuttavia illuminarla sulla natura di ciò che ha da lontano prodotto in noi quei bagliori, la cui multiforme determinatezza ha solo lo scopo di rendere avvertibile la varietà dei segni che ci sono dati.

Tutto muta quando siamo costretti ad imbatterci nelle qualità primarie. Qui il problema che sembrava possibile nascondere si fa manifesto, perché se le idee sono simili a ciò che denotano e se davvero ha un senso sostenere che possiamo vedere e toccare le stesse forme e le stesse unità oggettuali, allora non è possibile ridurre l'esperienza ad un gioco di sensazioni e questo proprio perché se ci dispone su questo piano non vi sarebbe più alcuna ragione per sostenere che la forma visiva è simile alla forma tattile. Le sensazioni tattili si dispongono nel tempo: ciò che sensibilmente avverto quando lascio scorrere le dita sulla superficie di un tavolo non conosce la forma della coesistenza, ma solo l'ordine della successione. Nel caso delle scene visive, invece, molte cose coesistono: vedo appunto molte macchie di colore che giacciono insieme, l'una accanto all'altra, anche se di continuo il mio muovere il capo e il mio volgere altrove lo sguardo determina un susseguirsi di scene che ci parlano di un oggetto presente in un linguaggio le cui parole sono disposte nel tempo. Anche qui, dunque, le sensazioni si succedono le une alle altre in una necessaria diacronia, ma questo naturalmente non significa che la successione delle sensazioni non parli il linguaggio sincronico della percezione: le sensazioni tattili si susseguono nel tempo, ma ci parlano dello spazio e nessuno, credo, sarebbe disposto a sostenere che non vi è una differenza di natura fenomenologica tra la percezione di un oggetto che muta nel tempo e il mutamento nel tempo delle scene in cui si scandisce la percezione di un identico oggetto.

Tutte queste considerazioni tendono verso un'identica meta: ci invitano infatti a distinguere tra le sensazioni da una parte e gli oggetti percepiti dall'altra, tra le manifestazioni sensibili della cosa e la cosa che si manifesta percettivamente. Si tratta di una distinzione necessaria e che si dà in ogni campo sensibile, anche se in forme tipicamente differenti. La vista è un senso obiettivo: quando osserviamo qualcosa non abbiamo affatto coscienza di una qualche modificazione soggettiva e se possiamo distinguere tra i fenomeni della cosa e la cose che si manifesta ciò accade soltanto grazie all'assunzione di un atteggiamento inusuale che ci invita a badare a ciò che normalmente non si percepisce affatto. Normalmente vedo le cose e le vedo da qui nella loro forma e nelle loro dimensioni; ma posso anche rivolgere gli occhi alle deformazioni prospettiche e alle variazioni cromatiche ed una delle ragioni del fascino che la pittura mimetica dell'età moderna suscita in noi consiste proprio in questo mostrarci - sul crinale dell'illusione che ci conduce verso la cosa - le fattezze della sua manifestazione fenomenica. Alla natura obiettiva della vista fa eco la commistione tattile di elementi oggettivi e soggettivi: la presenza percettiva dell'oggetto si accompagna infatti alla sensazione della risposta che la cosa dà al corpo, modificandolo. Il tatto è un senso che ci tocca da vicino e che, sentendo, ci costringe a sentirci.

Su queste distinzioni potremmo soffermarci a lungo. Ma ci basta ora sottolineare un solo aspetto: ciò che esperiamo non sembra essere riducibile ad una qualche immagine, ad una o più idee che si dipingano sulla pagina bianca della mente. Certo, l'esperienza è, per sua natura, un fatto intuitivo, ma ciò non significa che sia possibile intendere il senso che ha per noi semplicemente additando una serie di immagini visive, acustiche o tattili. Su questo punto Locke ha semplicemente torto: percepire qualcosa non significa avere nella coscienza una o più immagini, e la metafora dello specchio che raccoglie l'una dopo l'altra le diverse configurazioni di raggi che la luce reca sulla sua superficie non è affatto un buon punto di partenza per comprendere che cosa significhi vedere, poiché non vi è nessuna percezione che si riduca ad una silloge di contenuti presentativi. Quando vediamo qualcosa non ci limitiamo ad avere un insieme di scene visive: ne facciamo anche un uso determinato, ed è in virtù di quest'uso che quelle scene assumono un senso definito. Per Locke, invece, la percezione è soltanto questo: una serie di contenuti intuitivi che si danno alla coscienza e che nella loro piega sensibile contengono la radice ultima di ogni nostro pensiero. Di qui la difficoltà di rendere conto di ciò che accomuna vista e tatto e di qui la vaghezza delle riflessioni che Locke dedica alla nozione stessa di forma visiva. Noi vediamo e tocchiamo un cubo, ma all'identità della forma tattile fa eco l'infinità delle proiezioni prospettiche cui la forma visiva è legata. E se la percezione è soltanto percezione di un'immagine che cosa ci permette di asserire che vi è una forma visiva? Qual è, in altri termini, la forma visiva di un cubo? Se l'esperienza percettiva consta solo di immagini, di una forma visiva non si può parlare per nessun oggetto

2. Dalla prossima lezione dovremo abbandonare le pagine di Locke, per avviare una serie di considerazioni autonome sui problemi che la lettura del Saggio ci ha posto. E tuttavia, prima di distogliere lo sguardo dai grandi scenari della filosofia moderna, vorrei che ci concedessimo il lusso di un'ultima digressione storica sul tema della forma visiva. Non vi è dubbio infatti che nell'ambito della filosofia settecentesca, la riflessione sulla mutevolezza della forma visibile degli oggetti si leghi ad un dibattito estremamente ricco ed articolato sulla natura della geometria. All'origine di questo dibattito vi è un filosofo su cui abbiamo già avuto occasione di soffermarci: George Berkeley. Nelle pagine conclusive del suo Saggio per una nuova teoria della visione, Berkeley si chiede quale sia l'oggetto autentico della riflessione geometrica. La geometria parla dell'estensione spaziale, ma un'estensione in astratto non vi è: il suo oggetto può essere dunque o l'estensione visibile o l'estensione tattile. Che la prima alternativa debba essere scartata è - per Berkeley - un corollario immediato del fatto che le figure visibili sono prive di una qualsiasi stabilità poiché mutano di forma e grandezza a seconda della posizione del soggetto percipiente. Non solo: la forma visiva è, per Berkeley, null'altro che un segno della forma tattile, e i segni sono caratterizzati dal loro ricondurci immediatamente di là da essi, distogliendo l'attenzione dalle loro interne caratteristiche. L'oggetto della geometria non può essere dunque cercato nell'ambito delle datità della vista, ma deve essere ricondotto all'ambito della tattilità: il mondo delle forme si dispiega così non sotto ai nostri occhi, ma sulla punta delle nostre dita. Di questa verità, così lontana dalle nostre consuete convinzioni, possiamo convincerci, secondo Berkeley, se ci immergiamo nelle pieghe di un esperimento mentale, di una finzione che deve costringerci a pensare intuitivamente i termini del problema che ci sta a cuore. Dovremo fingerci allora nei panni di un'intelligenza priva del tatto, per chiederci poi che cosa potremmo comprendere della geometria se ragionassimo soltanto su ciò che la vista ci porge. Ed in questo caso le rinunce non sarebbero poche: dovremmo infatti rinunciare - in primo luogo - alla geometria dei solidi, poiché la terza dimensione ci è data soltanto dall'esperienza tattile. L'impossibilità di cogliere visivamente la profondità non ci permetterebbe del resto nemmeno di cogliere la concavità o la convessità di una superficie; di qui, in secondo luogo, l'impossibilità di cogliere ciò che caratterizza il piano in quanto tale: la sua bidimensionalità e il suo avere un indice di curvatura pari a zero. In terzo luogo è la possibilità stessa di operare con le figure che deve essere preclusa all'intelligenza meramente visiva: per quanto normalmente si definisca scienza dello spazio, la geometria è pur sempre scienza di estensioni concretamente manipolabili, di figure che debbono essere sovrapposte le une alle altre per verificarne la congruenza, di angoli e di rette che debbono essere fatti ruotare per costruire nuovi oggetti geometrici. Simili operazioni tuttavia implicano da un lato quella terza dimensione che alla vista sfugge, dall'altro la dimensione pragmatica della manipolazione che è di stretta pertinenza della tattilità: ne segue che di una geometria vincolata alla pura visibilità non sembra lecito parlare. E se le cose stanno così, non dovremo stupirci se, per Berkeley, le figure che disegniamo per guidare i nostri passi in una dimostrazione sono del tutto paragonabili alle parole: in entrambi i casi abbiamo a che fare con segni, la cui utilità consiste esclusivamente nel rimandare ad altro - nel primo caso ai significati intesi, nel secondo alle figure e alle estensioni tangibili.

La rivendicazione della natura tattile dell'oggetto geometrico doveva fare scuola, e di fatti la troviamo anche nelle pagine di Thomas Reid, un autore per tanti versi così diverso da Berkeley, ma a lui vicino nel sostenere che la visione ci offre un mondo privo della dimensione della profondità e vincolato alla mutevolezza delle angolature prospettiche. Così, non dobbiamo stupirci se, in un contesto di stampo realistico, ritroviamo passo dopo passo le argomentazioni berkeleyane sulla natura linguistica dell'esperienza e sulla funzione segnica che spetta alle figure visibili:

l'apparenza visibile delle cose nella mia stanza cambia quasi ogni sera, a seconda che il giorno sia chiaro o scuro, che il sole sia a Est o a Ovest o a Sud, che il mio occhio si soffermi su un punto o l'altro della stanza medesima; comunque, io non intendo questi mutamenti che come segni del passare delle ore o del cambiamento del cielo. Un libro o una sedia appaiono all'occhio in modo diverso in rapporto alla distanza e alla posizione; eppure li consideriamo sempre identici e, trascurando l'apparenza, cogliamo immediatamente la figura reale, la distanza e la posizione del corpo, di cui l'aspetto visibile o prospettico è solo un segno e un'indicazione [...]. Si potrebbero citare mille analoghi esempi per dimostrare che gli aspetti visibili degli oggetti hanno una sola funzione naturale, quella di segni o indicazioni, e che la mente passa istantaneamente alle cose significate senza prestare la minima attenzione al segno, senza notare neppure la sua esistenza. Allo stesso modo trascuriamo interamente i suoni di una lingua da quando ci sono divenuti familiari e la nostra attenzione si concentra solo sugli oggetti che essi significano (T. Reid, Ricerca sulla mente umana secondo i principi del senso comune, 1764, in Ricerca sulla mente umana e altri scritti, a cura di A. Santucci, UTET, Torino 1975, pp. 174-5).

Quali siano poi le forme reali degli oggetti di cui le forme visibili sono segni è presto detto: sono le figure tattili che, nella loro solida stabilità, sono libere dal relativismo dei punti di vista. Ne segue che la geometria deve porsi come una disciplina razionale che ha il suo fondamento sensibile nella sfera della tattilità.

E tuttavia, a dispetto della sostanziale coincidenza degli argomenti, vi è un punto in cui Reid prende decisamente le distanze da Berkeley - un punto della massima importanza:

When I use the names of tangible and visible space, I do not mean to adopt Bishop Berkeley's opinion, so far as to think that they are really different things and altogether unlike. I take them to be different conceptions of the same thing; the one very partial, and the other more complete; but both distinct and just, as far as they reach (T. Reid, Essays on the Intellectual Powers of Men, 1785, in The Works of Thomas Reid, a cura di W. Hamilton, Edinburgh, 1846, p. 325)

Ma se la figura visibile ci parla dello stesso oggetto di cui il tatto ci informa, allora la tesi berkeleyana dell'incommensurabilità tra vista e tatto deve essere messa da parte:

For, supposing external objects to exist, and to have that tangible extension and figure which we perceive, it follows demonstrably [...] that their visible extension and figure must be just what we see it to be. The rules of perspective and the projection of the sphere [...] are demonstrable. They suppose the existence of external objects, which have a tangible extension and figure; and, upon that supposition, they demonstrate what must be the visible extension and figure of such objects, when placed in such a position and at such a distance (ivi, p. 326)

Ora, se grandezza, posizione e figura visibili sono deducibili con un ragionamento matematico dalle grandezze reali, ne segue che tra le figure tangibili e le figure visibili sussiste una regola di proiezione, e questo problema si trasforma nelle pagine di Reid nella tesi della possibilità di un'altra geometria, che è certo priva di un significato reale, ma che è nondimeno legittima: la geometria dei visibili. Alla finzione berkeleyana di un intelletto privo del tatto possiamo dare una veste nuova, così come possiamo dare un nuovo rigore matematico alla tesi berkeleyana sulla diversità della forma visiva dalla forma tattile: questa distinzione è infatti innanzitutto una distinzione tra geometrie, e per rendersene conto è sufficiente mettere nero su bianco le proposizioni geometriche che varrebbero incondizionatamente in un mondo in cui gli unici oggetti fossero di natura visibile. Per costruire lo spazio geometrico di un simile mondo, dovremo innanzitutto rammentare che la vista non deve essere in grado di discernere le differenze di profondità: gli oggetti debbono apparirci come se fossero equidistanti dall'io che li osserva. Perché ciò accada è tuttavia necessario che gli oggetti visibili appartengano tutti ad una stessa superficie che deve inarcarsi seguendo il movimento di rotazione dell'occhio nell'orbita; ne segue che i visibili (i. e. gli aspetti che degli oggetti reali di volta in volta percepiamo) possono essere ben rappresentati se assumiamo che lo spazio visivo abbia la forma di una sfera nello spazio euclideo e che l'occhio sia posto nel suo centro: la geometria dei visibili ci presenterebbe allora null'altro che la proiezione delle forme e delle figure reali su di una superficie sferica. Una simile proiezione ha proprietà peculiari: su una superficie sferica la linea più breve tra due punti coincide con un tratto di cerchio massimo; ogni linea retta, quando venga prolungata, rientra in se stessa; una simile retta è la più lunga pensabile; ogni segmento rettilineo, tuttavia, stringe con essa un rapporto finito; due rette, quando siano prolungate, si incontreranno e si divideranno a metà in due punti; rette parallele non vi sono; la somma degli angoli interni di un triangolo è superiore a due retti, triangoli simili sono anche eguali, e così via (cfr. Reid 1765: 201).

Ora, in questo nostro discorrere di una superficie sferica all'interno di uno spazio euclideo abbiamo evidentemente abbandonato la dimensione entro la quale siamo costretti a muoverci dalla finzione di un'intelligenza soltanto visiva. Per una simile intelligenza - per l'occhio, dunque - non ha alcun senso parlare di una superficie bidimensionale sferica che appartiene ad uno spazio euclideo, poiché un simile riferimento spaziale implica necessariamente la percezione della profondità: per interpretare il comportamento abnorme delle figure visibili come un segno del loro giacere su una superficie con un indice di curvatura costante e positivo è necessario infatti abbandonare l'ambito della percezione visiva e guadagnare la spazialità tridimensionale ed euclidea che il tatto scopre come caratteristica della realtà che ci circonda. Ne segue che le proposizioni geometriche che abbiamo enunciato debbono essere intese come proprietà che caratterizzano lo spazio visibile in quanto tale: per l'occhio che lo percepisce, lo spazio visivo non è disposto su una superficie sferica nello spazio euclideo, ma è uno spazio non euclideo che può essere rappresentato su di una superficie sferica euclidea. La geometria dei visibili è dunque una geometria ellittica, analoga a quella che Riemann avrebbe elaborato verso la metà dell'Ottocento - una geometria di cui la superficie sferica euclidea è un modello, verso il quale Reid doveva giungere ragionando sulla forma della superficie retinica.

Sulle caratteristiche particolari di questa prima geometria non euclidea che giunge alla negazione del postulato delle parallele muovendo dalla (presunta) incapacità della percezione visiva di scorgere la profondità e che, mantenendo immutate le definizioni dei concetti geometrici elementari, ci costringe tuttavia a generalizzarle, svincolandole dall'unicità del loro riempimento semantico e intuitivo, Reid non intende soffermarsi. Gli basta rammentare che una simile geometria è del tutto legittima e che, se si potesse davvero prestare fede ai resoconti che Johannes Rudolphus Anepigraphus ci ha dato dei suoi viaggi nelle regioni sublunari, si dovrebbe sostenere che vi è un mondo, il mondo degli Idomeniani, in cui essa gode di un'incontrastata fiducia.

Cose appunto di un altro mondo, nel quale forse non è opportuno avventurarsi, e non solo perché si tratta di una fantasia inquietante, ma anche per un motivo teoricamente più serio: se gli oggetti tattili e gli oggetti visivi implicano due differenti geometrie allora è anche vero che appartengono a spazi diversi, cosa questa che renderebbe difficilmente comprensibile la certezza, così caratteristica del senso comune e della sua filosofia, che vi sia un unico mondo di oggetti che il tatto e la vista discoprono.

Di fronte a un esito così paradossale il lettore contemporaneo sente probabilmente il bisogno di richiamare alla mente il suo sapere per sceverare ciò che nelle pagine di Reid è geniale scoperta da ciò che invece sembra essere soltanto un retaggio di tempi passati, il sordo rumore di un'epoca ormai lontana che rende faticoso cogliere ciò che in essa è ancor vivo, e ci parla. Ed allora probabilmente osserverà che la geometria è una disciplina matematica e non ha per oggetto lo spazio, né tantomeno gli spazi sensibili, anche se le forme visibili e tattili possono essere intese alla luce degli assiomi che caratterizzano ora una, ora un'altra teoria geometrica. Il contributo di Reid sarebbe dunque prezioso perché ci mostrerebbe la possibilità di un capitolo nuovo della matematica, costringendoci insieme a riflettere sulla possibilità di liberare i concetti di retta, di piano, di angolo dai vincoli che a queste nozioni sono imposte dalla sensibilità. Come talvolta capita ai grandi ingegni (e ai grandi esploratori), la riflessione di Reid sulla diversa natura delle geometrie del sensibile ci conduce verso una meta ben diversa da quella che il suo autore immaginava: le fantasie sul mondo degli Idomeniani si traduce nell'acquisizione del piano puramente logico e concettuale su cui si muove la geometria come dottrina matematica.

Non vi è dubbio che queste considerazioni racchiudano qualcosa di vero. E tuttavia prima di lasciarsi convincere della necessità di abbandonare la disputa antica su quale sia la dimensione sensibile che porge alla geometria il suo oggetto è forse opportuno indugiare ancora sul terreno intuitivo, ed accettare senza troppi sensi di colpa di muoversi sul piano di una geometria sensibile, di una considerazione delle forme a priori che caratterizzano la nostra esperienza intuitiva della spazialità. Proprio come per il pittore, anche per il fenomenologo deve innanzitutto valere l'invito di Leon Battista Alberti ad accettare le forme di una geometria concretamente visibile, a ragionare secondo i dettati di "una più grassa Minerva" che - muovendo da considerazioni di natura pre-geometrica - indica tuttavia una serie di strade che possono essere percorse e che fanno luce sulla natura dei concetti di cui la geometria vera e propria si avvale.

Torniamo allora al problema di Berkeley e Reid e chiediamoci se sia davvero legittimo vincolare alla sfera della sola tattilità l'oggetto della geometria euclidea. Una serie di ragioni ci convincono che le cose non stanno affatto così.

In primo luogo, è forse legittimo sollevare qualche dubbio sulla fiducia settecentesca nella tattilità: che il tatto ci dia un accesso immediato alle cose, che ce le faccia percepire senza che i punti materiali dell'oggetto siano connessi alla soggettività da un medium (la luce, per esempio) che ha sue proprie leggi, è un fatto che non è di per sé sufficiente per garantire che sia legittimo parlare di un'autonoma e piena esperienza tattile della spazialità. Che vi sia uno spazio tattile non è, in altri termini, così scontato, e non basta certo rammentare che vi sono e vi sono stati matematici ciechi per venire a capo di questo problema di fenomenologia sperimentale.

In secondo luogo all'origine delle nostre prime considerazioni critiche sulla filosofia della percezione in Locke vi è la tesi secondo la quale non è vero che l'esperienza è una successione di immagini e che il suo senso non può essere inteso additando ad un qualche contenuto intuitivo che si disegna nella nostra mente. Rifiutare questa tesi significa, per esempio, prendere fin da principio le distanze dalla pretesa secondo la quale la visione è di per sé ancorata ad un mondo bidimensionale, per sostenere invece che vi è una percezione visiva della lontananza e della costanza della forma oggettuale pur nel mutamento degli orientamenti prospettici. Si badi bene: ciò non vuole affatto dire che sia legittimo avanzare una qualche previsione sulla natura delle nozioni spaziali elaborate da un'intelligenza priva del tatto, ma dotata della vista: la fenomenologia come disciplina filosofica non può certo azzardarsi sul terreno delle previsioni empiriche. Deve invece esporsi sul terreno della chiarificazione concettuale, ed in questo caso il suo compito specifico consiste nell'osservare che, se anche fosse vero che la tattilità e le esperienze corporee e cinestetiche hanno un loro ruolo nel guidare la percezione visiva nell'apprensione della profondità, ciò non toglie che vi sia una differenza fenomenologicamente evidente tra la visione di una superficie e la visione di una profondità, tra l'immagine bidimensionale che osserviamo su un libro e lo spazio tridimensionale in cui vediamo il libro e la pagina su cui si trova l'immagine. Certo, talvolta possiamo ingannarci e prendere un dipinto per la realtà. E tuttavia, se è vero che in simili casi il tatto può servirci da giudice, ciò non toglie che il mutamento che segue al mio toccare la tela concerna essenzialmente il fenomeno visivo in quanto tale: ora stendo la mano e tocco la tela, e vedo che si tratta soltanto di un quadro - l'esperienza tattile spinge l'esperienza visiva ad animarsi di un nuovo senso. Se dunque la tattilità ha un ruolo nella percezione visiva della distanza, può esercitarlo solo a patto di orientare in una direzione determinata strutture che appartengono alla scena visiva in se stessa, solo a patto di fare corpo su un'esperienza che è e resta un'esperienza visiva.

Torniamo allora alle considerazioni che Reid aveva saputo rendere così vive e chiediamoci se ha davvero un senso distinguere dalla geometria euclidea dello spazio tattile e reale, la geometria non euclidea degli oggetti evanescenti che la vista ci offre. Poniamoci al centro del portico da cui Sesto Empirico ci invitava a verificare l'illusorietà della percezione visiva o - in mancanza di meglio - tra i binari di una ferrovia che corra diritta a perdita d'occhio. Davanti a noi vediamo le rotaie convergere in un punto e la stessa scena si ripete alle nostre spalle, anche se i binari ci appaiono egualmente rettilinei e la traversina su cui poggiamo forma angoli retti con le rotaie, che sembrano quindi essere parallele. Se formuliamo in termini geometrici la natura di questo spazio, dovremo probabilmente constatare che data una retta visibile ed un punto esterno ad essa giacente su un medesimo piano esiste un'altra retta che la interseca in due diversi punti e che tuttavia si comporta come se fosse ad essa parallela, poiché un segmento che le interseca forma quattro coppie di angoli retti - uno stato di cose, questo, che non può certo essere possibile in uno spazio euclideo e che non possiamo rappresentare se non ci avvaliamo del modello sferico di cui Reid ci parla nelle sue pagine. E tuttavia, basta rammentare le osservazioni che abbiamo proposto per rendersi conto di quanto una simile descrizione sia artificiosa. In primo luogo, ciò che in questa discussione del problema deve colpirci è il modo in cui si presume che le singole scene percettive possano connettersi per formare l'unità di uno spazio. Questa unità sembra essere necessariamente e soltanto un'unità per giustapposizione, un'unità di immagini separate. Fotografiamo uno dopo l'altro i quattro angoli del soffitto e constatiamo che ci appaiono ottusi: ne concludiamo che il soffitto deve essere un quadrilatero la cui somma degli angoli interni è superiore a 360°; guardiamo i binari convergere davanti a noi e dietro le nostre spalle e diciamo che lo spazio visibile non è euclideo. L'esperienza tuttavia non consta di una serie di fotografie, ma è un processo la cui unità di decorso è vincolata da regole che da una parte determinano il senso delle singole scene visive e che dall'altra non possono essere eluse, se non si vuole che venga meno la possibilità del riferimento oggettuale. Così, se è vero che gli angoli del soffitto formano l'immagine di un angolo ottuso nell'occhio di chi li guarda, è tuttavia necessario rammentare che quando la vista corre dall'uno all'altro angolo per cogliere - nella connessione sintetica delle datità fenomeniche - l'oggetto che essi delimitano, la regola di unificazione delle singole scene percettive determina il senso delle immagini che di volta in volta vediamo, e lo determina facendo sì che la soggettività veda nell'ottusità degli angoli una deformazione prospettica in cui si annuncia sia la configurazione autentica dell'oggetto, sia la profondità della scena percepita. Del resto, delle due l'una: o si riconosce che ciò che vediamo è determinato dalla regola che si costituisce nell'unità del decorso percettivo o si deve negare che abbia un senso dire che vediamo il soffitto spigolo dopo spigolo: che cosa ci permetterebbe infatti di parlare di un oggetto, laddove vi sono soltanto immagini, peraltro sempre mutevoli, delle sue diverse parti? Così, proprio come accadeva nel mondo degli Idomeniani, la riduzione della realtà che vediamo ad una congerie di visibili si traduce nella negazione delle caratteristiche essenziali su cui poggia la possibilità di parlare di oggetti.

In secondo luogo, se non si abbandona il terreno di una descrizione attenta al senso che le singole scene percettive traggono dal decorso di cui sono parte, è evidente che la stessa legittimità della tesi secondo la quale vi è un punto in cui le parallele visivamente si incontrano, merita una discussione un poco più approfondita. Certo, le rotaie del treno sembrano convergere all'orizzonte e un lungo porticato sembra davvero chiudersi nel vertice di un cono; lo dice anche Lucrezio:

porticus aequali quamvis est denique ductu / stansque in perpetuum paribus suffulta columnis / longa tamen parte ab summa cum tota videtur, / paulatim trahit angusti fastigia coni, / tecta solo iungens atque omnia dextera laevis / donec in obscurum coni conduxit acumen" (Lucrezio, De Rerum Natura, iv, vv. 425-31).

E tuttavia questo punto in cui lo spazio visivo sembra infine chiudersi, noi lo vediamo nel suo essere infinitamente lontano, e ciò è quanto dire che nel senso della scena percettiva è implicitamente negata la legittimità dell'identificazione di quel punto con un qualsiasi luogo dello spazio: appena tracciato sulla tela, il pittore matematico avverte il bisogno di sottolineare che quel punto non è un punto tra gli altri, ma è il limite di una molteplicità di serie ed è per questo che ci invita a chiamarlo così - il punto di fuga. Quel punto è davvero il punto delle fughe prospettiche, poiché non vi è nessun "qui" di cui si possa dire che è il luogo in cui le parallele visivamente si incontrano, e che sia questo il senso che anima le scene visive su cui ci siamo soffermati risulta con chiarezza dal fatto che la regola sorregge la percezione dei binari che convergono all'orizzonte non ci permette di immaginare il momento in cui, raggiuntisi, i binari si divaricheranno nuovamente, formando una croce. Nel senso della scena percettiva un luogo di intersezione non vi è: vi è invece il tendere delle rette verso un punto cui non possono giungere poiché è sito nell'infinità di uno spazio che non può essere interamente percorso. Dunque ciò che vediamo è proprio ciò che la geometria euclidea descrive: vediamo che le parallele non si incontrano mai o - se si preferisce - vediamo il loro incontrarsi all'infinito. Ma lo vediamo, vale la pena di ripeterlo, solo perché abbiamo fin da principio preso commiato da una concezione dell'esperienza che ritiene che il percepire sia solo un processo di acquisizione di immagini, e non già un certo modo di farne uso.

 

 

Lezione decima

1. Dopo aver dedicato le nostre prime lezioni a cercare di delineare le linee generali della nozione di idea così come si configura nella filosofia di Locke, vorremmo ora cercare di avviare alcune considerazioni di carattere critico.

Qualche cautela è tuttavia necessaria, e questo perché non avrebbe poi molto senso affermare che Locke commette determinati errori, mentre potrebbe essere più istruttivo riflettere sui problemi che una filosofia come quella di Locke pone a chi intenda abbracciarne gli assunti di fondo. Che questo fosse il nostro obiettivo sin dalle prime battute di questo corso credo fosse ben chiaro: abbiamo parlato di Locke e abbiamo letto con attenzione le pagine che il Saggio dedica al concetto di idea, ma non abbiamo per questo rinunciato a pensare autonomamente i temi in cui ci imbattevamo, poiché il nostro primo obiettivo era quello di delineare un sistema teorico coerente e libero dalle molte e necessarie complicazioni che un’indagine storica effettiva dovrebbe mettere in luce.

Ora, questo nostro tentativo di tracciare lo schema astratto della teoria della percezione così come si configura nelle pagine del Saggio sull’intelletto umano deve aiutarci a comprendere quale sia il posto che la riflessione filosofica di Locke occupa sullo sfondo delle alternative teoriche più significative. Si tratta di un passo in una direzione nuova: sin qui abbiamo cercato soltanto di comprendere quello che Locke ci propone, mentre adesso vorremmo cercare di capire in quale luogo teorico ci troviamo quando di fatto ragioniamo come Locke ci chiede di ragionare.

Per orientarsi nello spazio è necessario valutare la distanza e la direzione che ci separano da un luogo che ci sia familiare. Qualcosa di simile vorremmo fare anche noi per orientarci sul terreno filosofico, e questo significa che intendiamo innanzitutto cercare un luogo che ci sia noto per sceglierlo poi come un punto fermo che fissi il significato delle parole e che ci consenta di valutare che cosa muta e che cosa permane quando ci avventuriamo nei concetti che Locke ci propone.

Dobbiamo dunque cercare e scegliere, e io vi propongo di decidere così: decidiamo che il nostro luogo familiare sia ciò che Husserl chiama "mondo della vita", — quel mondo di oggetti e di cose di cui normalmente discorriamo e che fa da sfondo alla nostra prassi quotidiana, rendendola insieme sensata e possibile. Si tratta di una decisione che forse ha conseguenze teoriche più serie di quanto non sembri, ma io credo che sia comunque legittima perché non penso sia possibile liberarsi dalle certezze del vivere e non condivido le convinzioni di chi ritiene che la grammatica della nostra esperienza sia soltanto il sedimento di credenze che verranno col tempo superate. Da questa decisione non possiamo comunque liberarci perché è implicata dal senso della nostra prassi: se qualcosa deve valere come un punto fermo è allora opportuno scegliere quell’unica prospettiva che deve la sua stabilità al fatto che molte cose le ruotano intorno, fissandola come si fissa l’asse di rotazione di un corpo. Le certezze del mondo della vita sono quel muro maestro che, come scriveva Wittgenstein, è tenuto in piedi dalla casa che gli cresce intorno.

Ma appunto, qual è la grammatica che vincola normalmente l’uso delle parole che indicano gli oggetti della nostra percezione? Si tratta naturalmente di un problema complesso che meriterebbe una discussione più approfondita: noi ci accontenteremo invece di indicare tre caratteristiche essenziali degli oggetti così come si danno sul terreno della Lebenswelt, e cioè la loro indipendenza dall’essere percepiti, la loro natura intersoggettiva e il loro articolarsi in proprietà che si danno immediatamente alla percezione. Che cosa intendo dire possiamo ricavarlo direttamente, ragionando sul senso implicito in ogni situazione percettiva. Ora, per esempio, sono seduto nella mia stanza e ciò che vedo è tutto racchiuso in uno spazio esiguo, che del resto non è reso più libero e aperto dai miei pensieri che sono imprigionati nelle pagine del libro che cerco di capire. Ma se poi, dopo poco, guardo l’orologio e mi accorgo dell’ora, non mi stupisco affatto che la posizione di due lancette significhi per me il farsi avanti del mondo e delle sue ovvie permanenze: le scale da scendere, la porta da aprire, la strada da percorrere c’erano anche quando non le percepivo e nulla sarebbe più insensato che meravigliarsi di un fatto che è certo più di ogni altra nostra convinzione. Se alzandomi dalla sedia si presentasse ai miei occhi lo spettacolo inatteso del mare che lambisce i marciapiedi della mia solita via non me ne rallegrerei più di tanto ma semplicemente prenderei atto del mio essere vittima di un’allucinazione. Il mondo c’è e permane anche se non lo percepisco, e questo fatto ovvio è così certo da tacitare ogni esperienza che cercasse di revocarlo in dubbio. Gli oggetti sono fatti così: non hanno bisogno di noi per esistere, e questo è vero anche per le altre persone il cui essere non si riduce al percipi, ma si manifesta nella sua presenza sorda e stabile che è del tutto irriducibile al fatto di per sé importante che io veda chi mi sta di fronte.

Ma questo è solo un aspetto del problema: l’irriducibilità delle cose al percipi che le manifesta si lega infatti alla certezza che ciò che diciamo di percepire sono le cose stesse, e non una qualche immagine mentale che ad esse alluda. Questo è ciò che vedo: il tavolo, i fogli ed i libri che lo ingombrano, la finestra, la casa ed un merlo sul tetto. E per ciascuno di questi oggetti sarebbe insensata la domanda se li vedo davvero come cose che stanno fuori di me — un’espressione che, presa alla lettera, è priva di senso poiché dentro di me non c’è nulla: ci sono già io. I fogli, i libri e anche il merlo sono là, proprio dove li vedo e non vi è dubbio che questo è ciò che ciascuno di noi normalmente intende quando parla degli oggetti del suo esperire o quando fa affidamento sul fatto che l’indice teso della sua mano indichi agli altri ciò che noi stessi vediamo. E proprio come siamo certi che gli oggetti che vediamo siano di fatto disponibili allo sguardo degli altri e che non sia affatto un azzardo dire che vedo ciò che tu vedi, così non dubitiamo che le cose siano proprio come le vediamo. I mattoni sono rossi e il fuoco è caldo, scriveva Berkeley — ed aggiungeva che un buon irlandese non doveva dubitarne. Bene, anche noi normalmente non dubitiamo affatto di queste cose, e non abbiamo alcuna esitazione nel dire che la neve è bianca, che la sabbia è fine e che la terra bagnata ha un odore particolare.

Certo, del nostro mondo della vita fa parte anche qualche cognizione scientifica e noi sappiamo che il percepire ha cause e che l’oggetto che determina le nostre percezioni non è eguale a quello che vediamo e tocchiamo. Che siano gli atomi di Democrito o quelli di Bohr, un fatto è chiaro: non ci stupiamo del fatto che le cose siano o almeno possano essere diverse da come le percepiamo, anche se non rinunciamo per questo a dire che le percepiamo così e che le vediamo là davanti a noi e non in qualche remoto angolo di quell’oggetto filosofico che è la mente. Che il mondo sia diverso da come lo percepiamo è forse una delle prime cose che abbiamo saputo, eppure ciò nonostante continuiamo a dire che questo è il mondo: ciò che vediamo e tocchiamo.

Di queste cose siamo appunto certi, poiché questo è il nostro mondo della vita, il mondo così come lo viviamo. Noi abbiamo questa esperienza del mondo, ed io credo che riconoscere che le cose stanno così non significa null’altro se non questo — che noi la parola "oggetto" la usiamo così, seguendo una grammatica le cui regole non sono affatto racchiuse nel percipi.

Di qui, da questa grammatica che fa tutt’uno con il senso della nostra prassi vogliamo muovere per fissare il punto in cui siamo quando pieghiamo il significato delle nostre parole al dettato del sistema teorico lockeano.

Una prima constatazione è ovvia: per Locke gli oggetti che percepiamo non sono affatto realtà trascendenti ed intersoggettive — sono piuttosto idee, e cioè entità mentali di natura privata. Gli oggetti dell’intelletto sono oggetti mentali e condividono tutte le proprietà delle immagini che sono racchiuse nello spazio chiuso dei nostri pensieri: sono "cose" che esistono soltanto se le pensiamo e che condividono con i nostri sentimenti e i nostri vissuti il carattere della privatezza. Posso dirti che soffro, posso chiederti di soffrire per il mio dolore, ma non posso nemmeno pensare che tu possa soffrire il mio dolore.

Come sappiamo, tuttavia, per Locke, le idee sono oggetti immanenti ma stanno per realtà trascendenti che possono quindi dirsi percepite, anche se solo in un senso indiretto ed improprio del termine. Ciò che percepiamo sono le idee, ma ciò di cui abbiamo esperienza sono gli oggetti esterni che esistono indipendentemente dalla soggettività e che di fatto sono all’origine di ogni nostra esperienza percettiva. Ne segue che il parlare di oggetti della percezione è possibile solo se si tiene conto della molteplicità dei significati che la parola "oggetto" può assumere.

Ora, io credo che vi siano almeno tre diverse possibili forme del nesso che lega la percezione all’oggetto:

  1. La percezione è di per sé percezione di un oggetto di natura intuitiva che si dà come una realtà trascendente, all’interno di uno spazio intersoggettivo. Vediamo e tocchiamo gli oggetti del mondo che ci circonda e non abbiamo affatto a che fare con "repliche" mentali di una realtà che di per sé non ci è data. Gli oggetti della percezione saranno dunque cose come le foglie, gli alberi, i sassi, e di questi oggetti diremo che sono colorati, pesanti o leggeri, resistenti o fragili. Chiamo realismo fenomenologico quella posizione filosofica secondo la quale abbiamo una percezione diretta di oggetti intersoggettivamente accertabili, di cose che, tra le altre, hanno proprietà di natura immediatamente sensibile.

  2. La percezione ha come oggetto idee, ma le idee non rimandano a null’altro poiché la nozione comune di oggetto altro non è che una costruzione finzionalistica che ha il suo fondamento nelle idee della soggettività. Così, parlare di cose nella accezione consueta del termine vorrà dire impegnarsi nel compito di una traduzione che elimina le asserzioni sugli oggetti e sulle loro proprietà riconducendole ad asserzioni che si muovono nell’universo concettuale dei fenomeni mentali. Chiamo fenomenismo la posizione filosofica che, ritenendo che questa traduzione sia possibile, ci invita a rinunciare agli oggetti trascendenti per reinterpretarli nel linguaggio delle idee e delle sintassi tra idee.

  3. La percezione è innanzitutto rivolta ad oggetti di natura immanente, alle idee, che possono tuttavia ricondurci mediatamente agli oggetti trascendenti. All’oggetto mentale direttamente percepito si affianca l’oggetto reale mediatamente esperito, in virtù di una relazione che può assumere forme molteplici: dall’idea all’oggetto si può muovere seguendo un nesso raffigurativo, proiettivo o causale. Chiamo realismo indiretto o rappresentazionalismo in senso proprio la teoria della percezione secondo la quale vi è un oggetto immediato che rimanda secondo un qualsiasi nesso all’oggetto mediato che a sua volta differisce dal primo perché laddove questo è di natura mentale, soggettiva e immanente, l’altro è di natura reale, intersoggettiva e trascendente.

Non vi è dubbio che la posizione di Locke ci riconduca a questa terza classe di teorie. Locke parla di idee, ma parla anche di cose trascendenti ed abbiamo osservato come la sua filosofia si ponesse come un tentativo molto lucido di trovare un cammino che dalle une ci conducesse alle altre. Possiamo dunque dire che la filosofia di Locke cade sotto il titolo generale del rappresentazionalismo, ed in particolar modo in quella peculiare forma di teoria rappresentativa della percezione che non considera gli oggetti immediati raffigurazioni delle cose trascendenti (le idee non sono immagini di…) ma effetti che rimandano ad una causa e che proprio per questo possono dirsi loro segni. grazie ad una relazione causale.

Ora, ciò che caratterizza il rappresentazionalismo sembra essere in primo luogo la sua capacità di conciliare le esigenze che alla percezione impongono due divergenti prospettive: da un lato la riflessione naturalistica sembra convincerci che la percezione è un evento che accade nella mente e il rappresentazionalismo mette proprio per questo l’accento sul concetto di idea, mentre dall’altro il rimando al senso comune ci costringe a rammentare che le cose percepite hanno natura trascendente — e di questo dato così difficilmente eludibile il filosofo realista può rendere conto affiancando, come sappiamo, un oggetto indiretto all’oggetto diretto, secondo una strategia che Locke ci ha insegnato a percorrere.

Basta tuttavia riflettere con un poco più di attenzione su questa terza classe per rendersi conto dei problemi che essa racchiude e che di fatto traspaiono sia nella nozione di realtà come termine attivo della relazione causale, sia nella distinzione tra oggetto indiretto e diretto — una distinzione cui vorremmo innanzitutto dedicare qualche parola di commento.

Questa distinzione ci lascia innanzitutto perplessi perché se ci disponiamo sul terreno del mondo così come lo esperiamo quotidianamente non abbiamo davvero ragioni per sostenere che gli oggetti che ci circondano siano colti solo mediatamente: noi vediamo il tavolo e i libri che lo coprono, e se qualcuno ci chiedesse se li vediamo in modo diretto forse rimarremmo perplessi ma poi, una volta che gli esempi abbiano chiarito che cosa intendiamo per percezione complessa (la cenere come segno del fuoco, il rumore sull’acciottolato come segno dell’arrivo di una persona, ecc.) non avremmo dubbi ed anzi osserveremo che ognuno degli esempi che abbiamo proposto poggia sulla percezione diretta di quelle cose che normalmente chiamiamo oggetti della percezione. Del resto, agli esempi di oggetti mediati si debbono pure affiancare esempi di oggetti immediati, e nulla ci sembra un migliore esempio di immediatezza che il rimando ad un qualche oggetto che possiamo mostrare di fronte a noi. Ma allora, se le cose stanno così, come possiamo sostenere che gli oggetti che ci circondano sono mediati e che soltanto per le entità mentali è possibile parlare di immediatezza?

Per venire a capo di questa difficoltà sembrerebbe legittimo sostenere che il rapporto di mediazione non è una relazione che si dipani sul terreno della consapevolezza. Potremmo allora sostenere che l’oggetto diretto della percezione è qualcosa che non è propriamente percepito come un contenuto consapevole, anche se è la base a partire dalla quale la percezione sorge come percezione di cosa. Così, ogni percezione visiva implica evidentemente che siano catturate molte immagini ed in particolar modo che per ogni singola scena visiva vi sia una reduplicazione che è dovuta al fatto che abbiamo due occhi e quindi due proiezioni retiniche che ci consentono di elaborare correttamente una percezione unitaria. Da una parte avremmo allora una rappresentazione che deve essere variamente elaborata prima che giunga a coscienza nella percezione vera e propria, dall’altra l’oggetto cosciente che sarebbe fenomenologicamente immediato ma che dovrebbe essere egualmente colto come un risultato di un’elaborazione delle informazioni raccolte. Così, nel caso della visione, dovremmo distinguere da un lato l’oggetto che diciamo di vedere e che sembra fenomenologicamente immediato, dall’altro una serie di differenti livelli rappresentativi che formulano su differenti piani di elaborazione gli input ricevuti, mettendone in luce proprietà via via differenti: avremo allora innanzitutto una rappresentazione dello stimolo come disposizione di differenti valori di intensità dell’immagine corrispondenti alle reazioni dei fotorecettori sulla retina, poi la rappresentazione di queste differenze in un linguaggio che metta in luce quegli scarti che sono obiettivamente significativi, e così via sino alla determinazione della realtà percettiva dell’oggetto. Il quadro può naturalmente essere reso più definito; ma un punto resta ben chiaro: mediatezza e immediatezza si distinguono qui non rispetto alla coscienza, ma al posto che le rispettive datità occupano all’interno di un processo di elaborazione dell’informazione. Che non sia questo il caso di Locke è fin troppo chiaro: ogni sua considerazione si muove all’interno della coscienza e non è quindi possibile pensare che ciò che è immediato sia, per Locke, qualcosa di diverso dalle nostre idee. E se le cose stanno così, il problema cui alludevamo sembra riproporsi in tutta la sua evidenza, poiché degli oggetti reali si deve necessariamente negare che siano ciò che propriamente e direttamente percepiamo.

Ora, basta guardare bene la pagina lockeana per rendersi conto che il rimando alla mediatezza è meno gratuito di quanto non possa sembrare da queste considerazioni di carattere generale. Locke dice che gli oggetti mediati sono inferiti ipoteticamente e non sono affatto necessariamente simili alle cose che percepiamo, e ciò è quanto dire che la nozione di oggetto mediato non è riconducibile al concetto di oggetto di cui normalmente ci avvaliamo. Quando parliamo di oggetti non usiamo così quel termine, e la grammatica che sorregge i nostri consueti usi linguistici è evidentemente caratterizzata dal fatto che gli oggetti della percezione sono anche oggetti percepibili. Di fatto noi diciamo di vedere questo foglio di carta bianca e di sentirne il peso, ma tutto questo non appartiene — per Locke — all’oggetto mediato, ma solo alla sua manifestazione immediata e sensibile. Così da un lato Locke ci parla di un oggetto mediato che non è percepibile, dall’altro ci invita a pensare ciò che normalmente chiamiamo oggetto riconducendolo sotto il titolo generale di idea. La distinzione tra oggetto mediato e oggetto immediato si intreccia così con un diverso modo di porre il referente della percezione: le cose reali e intersoggettive cui la percezione ci conduce non sono, per Locke, gli oggetti che di fatto si danno nella nostra quotidiana esperienza, ma sono realtà inferite sulla base di un nesso causale e di una qualche ipotesi sulla proiettabilità dei contenuti primari delle idee sul terreno dell’essere.

Di qui la necessità di una precisazione. Quando parliamo di una teoria rappresentazionalistica della percezione intendiamo, come abbiamo detto, una teoria secondo la quale l’oggetto diretto differisce dall’oggetto mediato e se ne differenzia perché l’uno è di natura mentale e immanente, l’altro di natura reale e trascendente. Ora dobbiamo aggiungere una duplice precisazione. Dobbiamo, in primo luogo, distinguere le teorie percettive che sostengono che la percezione sia fenomenologicamente mediata da quelle in cui la mediazione deve intendersi come il risultato dell’elaborazione degli input percettivi secondo diversi sistemi di rappresentazione che ne mettono in luce il contenuto informativo. Solo la prima, ma non la seconda, occupa un posto nella classificazione che abbiamo dianzi proposto. E non a caso: la tesi secondo la quale la percezione dell’oggetto esterno è necessariamente mediata dalla codificazione dello stimolo in una molteplicità di piani rappresentativi non implica in linea di principio la negazione della natura fenomenologicamente diretta di un oggetto che si dia come reale e intersoggettivamente accessibile.

Ma vi è una seconda conclusione che dobbiamo trarre. Se accettiamo di porci all’interno della classificazione che abbiamo proposto e se riteniamo davvero che l’oggetto immediato sia pienamente consapevole allora è in linea di principio plausibile attendersi che l’oggetto mediato non sia affatto la cosa che normalmente percepiamo, ma un’entità inferita ipoteticamente e che può dirsi percepita solo in un’accezione impropria del termine. Così stanno evidentemente le cose nella prospettiva filosofica lockeana che ci invita a parlare di entità che trascendono interamente la dimensione dell’esperienza muovendo dall’idioma mentalistico delle idee — degli oggetti immediati.

Di qui, da questa conclusione che diviene necessaria non appena confrontiamo la posizione di Locke con ciò che il senso comune ci insegna, dobbiamo muovere per avviare due differenti considerazioni di natura critica.

 

2. L’analisi della riflessione lockeana a partire dal vocabolario concettuale della Lebenswelt ci ha costretto a mettere in luce due differenze significative. In primo luogo Locke parla di ciò che noi immediatamente percepiamo — i colori, i sapori, le forme,… — ma ritiene che tutto questo abbia natura soltanto mentale; in secondo luogo, poi, pone questa oggettività immanente come segno di un’oggettività reale che non è immediatamente percepibile e che può essere posta solo in virtù di un nesso causale. Di un oggetto che sia intuito e insieme intersoggettivamente accessibile non è, per Locke, lecito parlare, e non lo è in generale per ogni rappresentazionalismo che intenda attribuire alla distinzione tra mediatezza e immediatezza una determinatezza fenomenologica. Abbiamo dunque tre differenti nozioni di oggetto percettivo, proprio come lo schema ci mostra:


Oggetto esperito

Idea

Oggetto inferito ipoteticamente

Mentale

no

no

Intersoggettivamente accessibile

no

Intuitivamente determinato

non necessariamente

Trascendente

no

 

Di qui la nostra prima domanda. Una teoria della percezione deve senz’altro riconoscere che il percepire è un evento tra gli altri e deve quindi affermare che vi sono cause che determinano ogni nostra percezione: questo fatto è ben chiaro. Ma di qui non deriva né che io sia costretto a considerare ciò che esperisco come un evento, causalmente determinato, che ha luogo nella mia testa, né che sia possibile intendere il nesso che lega le mie presunte immagini mentali alla loro causa trascendente facendone così il fondamento del loro carattere segnico.

Affrontiamo innanzitutto quest’ultimo punto. Quando percepiamo qualcosa accade innanzitutto una qualche alterazione corporea che si manifesta in un accadimento di natura psichica cui diamo il nome di idea; ora, se le idee sono eventi deve esserci una causa che le determina e che attribuisce all’idea una funzione denotativa trasformandola in un segno di un oggetto trascendente e mediato.

Si tratta di un ragionamento chiaro e lineare ma, io credo, sbagliato. Guardiamo questo foglio di carta azzurra e percepiamo innanzitutto il suo colore: abbiamo dunque esperienza di una certa idea di colore. Ma l’azzurro che percepiamo diviene segno di un potere che è proprio di quel foglio e che determina il suo apparirci così: l’idea dell’azzurro che ora percepiamo assume una funzione indicativa che rimanda ad un oggetto non percepito, ed è in virtù di questo nesso che di fatto le idee smettono di essere gli unici oggetti dell’intelletto, per divenire le parole di un linguaggio mentale che ci parla del mondo. Tutto questo ci è noto, ma ora osserviamo che se la carta ci appaia azzurra è solo perché è di fatto implicata una relazione causale complessa che chiama in causa la natura della luce ambientale, il suo irradiare molte cose tra cui il foglio che abbiamo in mano, che a sua volta ha una peculiare struttura fisica che si traduce nella capacità di restituire solo alcune lunghezze d’onda che si propagano nello spazio secondo una regola causalmente determinata sino a giungere alla pupilla, attraversata la quale si apre un cammino in un nuovo medium (l’umore vitreo) che conduce infine sino alla retina, dove la luce che è giunta all’occhio stimola i fotorecettori che sono almeno in parte sensibili alle differenti lunghezze d’onda. Di qui la serie causale degli eventi si inerpica nelle vie nervose, in una nuova concatenazione di eventi che si chiudono idealmente con la mia percezione dell’azzurro.

Abbiamo dunque una concatenazione causale che culmina con una percezione:

Aß Cnß Ci…C2ß C1

Il senso di questo schema è ovvio, ma è altrettanto chiaro che si fonda su una necessaria semplificazione: la concatenazione potrebbe forse essere resa più densa e non è affatto detto che vi sia un primo termine, né tanto meno che esso coincida con l’oggetto che diciamo di percepire. Se questo foglio di carta ci appare azzurro ciò dipende anche da qualcosa che accade molto lontano — nel Sole, che a sua volta si comporta in modo così esplosivo non perché abbia un cattivo carattere, ma per molte buone ragioni che hanno alle loro spalle altrettante cause. Tutto questo è ben noto, e non ci dice nulla di più di quanto non sia contenuto nella necessaria tendenza al rimando insita nel principio di ragion sufficiente. Ma è chiara anche la meta verso cui ci dirigiamo: ora muoviamo da A, dalla nostra idea dell’azzurro, e facciamo ruotare le frecce nella direzione opposta per decidere di che cosa quell’idea sia propriamente segno. E se così facciamo, ci imbattiamo subito in una difficoltà evidente, poiché non è affatto chiaro che cosa ci consenta di scegliere uno tra i molti anelli della catena — perché un anello deve comunque essere scelto se non si vuole trasformare la nostra innocente percezione del colore azzurro di questo foglio di carta in una sezione dell’universo, nel taglio rappresentativo di una monade leibniziana.

Una risposta sembrerebbe ovvia: quando esperiamo l’azzurro il nesso causale deve ricondurci alla determinatezza della superficie percepita: delle cause che stanno prima e di quelle che stanno dopo possiamo disinteressarci. Ma si tratta di una risposta soltanto apparente, poiché presuppone ciò che dovrebbe spiegare e cioè l’orientamento della nostra percezione verso un’oggettualità determinata. Se credo di sapere qual è la cosa che ha in sé il potere di apparirmi azzurra è solo perché la percezione ha già in sé la determinatezza di un riferimento intenzionale. Noi vediamo proprio quel foglio di carta e lo vediamo azzurro, e l’ipotesi interpretativa del rappresentazionalismo lockeano che ci invita ad intendere il referente obiettivo della nostra esperienza come frutto di una proiezione trascendente dei vissuti immanenti mediata dalla determinatezza del nesso causale mi pare in ultima istanza priva di senso, poiché presuppone un criterio di scelta lungo la catena della causalità che è comprensibile solo se si attribuisce alla percezione un riferimento intenzionale predeterminato.

Su questo punto, tuttavia, vorrei essere chiaro. Non voglio negare che la percezione abbia una dimensione causale: il percepire è un evento tra gli altri. E non voglio nemmeno mettere in dubbio che, se una qualche modificazione dei nostri fotorecettori sulla retina determina il nostro vedere davanti a noi il foglio di carta di cui stiamo discorrendo, ciò dipenda da una qualche complessa strutturazione di natura causale che implica un certo modo di operare dei nostri organi di senso e del nostro cervello che rende possibile decidere quale sia l’anello della catena significativo dal punto di vista percettivo. Tutto questo mi sembra indiscutibile, ma non ha nulla a che fare con la tesi del rappresentazionalismo in senso proprio, poiché non allude ad una qualche relazione descrittivamente accertabile tra un dato percettivo e cosciente di natura mentale ed una oggettualità inferita ipoteticamente sul suo fondamento. Un termometro è uno strumento che reagisce in un certo modo ad un aumento di temperatura, ed è in questo paragonabile a quegli strumentio più complessi che in un qualche senso del termine noi stessi siamo, poiché anche noi reagiamo in vario modo alle diverse modificazioni che su di noi agiscono; del resto, anche di un termometro è lecito parlare avvalendosi di un linguaggio intenzionale: il termometro segna la temperatura, proprio come ciascuno di noi l’avverte sensibilmente. Ciò che invece non è lecito è confondere i due piani del discorso e ritenere che si possa rendere conto del funzionamento del termometro nei termini dei nessi di senso in cui si dispiega la sua funzione, o che si possa invece venire a capo del senso descrittivo delle nostre esperienze indicando il sistema dei nessi causali che ne determina il funzionamento. Così, se le nostre considerazioni sono accettabili, esse valgono solo come un’obiezione nei confronti di una teoria della percezione che muova dal concetto fenomenologico di rappresentazione, non dalla sua riproposizione sul piano interamente diverso delle teorie che sottolineano la molteplicità dei livelli di elaborazione delle informazioni che giungono ai nostri organi di senso.

Del resto, ci muoviamo all’interno della stessa prospettiva di carattere generale quando osserviamo che la stessa possibilità di parlare di un nesso causale tra le cose e le idee in quanto tali pone un problema tutt’altro che banale. Anche qui il terreno deve essere sgombrato da un possibile fraintendimento: che le nostre esperienze abbiano all’origine un processo causale è un fatto che non voglio mettere in questione e che do per scontato. Il problema è capire dove propriamente il nesso causale sussiste. Ora, se parlo di una relazione causale parlo senz’altro di una determinazione relazionale che ci dice qualcosa sulla natura di un determinato oggetto: che un evento sia o non sia la causa di un altro è un fatto che determina una sua proprietà reale. Se A è o non è causa di B può essere relativamente indifferente per A, — questo è chiaro. La luce che questo foglio di carta ci restituisce non muta significativamente per il fatto di attivare i fotorecettori della retina (anche se naturalmente un cambiamento poiché ogni sensazione presuppone come sua causa un certo dispendio di energia), e tuttavia questo suo essere all’origine di un’alterazione momentanea dello stato della mia retina è un fatto che ci dice qualcosa su quella luce — ci dice una sua relazione reale che la lega in un modo determinato al mondo. E ora ci chiediamo: questo vale davvero per ogni possibile relazione? Credo si debba rispondere negativamente. Quando dico di una proposizione che è vera affermo che ciò che essa intende è in una certa relazione con un determinato stato di cose, ma il suo essere vera non è affatto una proprietà reale della proposizione e non ci dice nulla che alteri il suo significato — se così accadesse dire della proposizione A che è vera significherebbe modificarla nel suo contenuto, cosa questa che ci costringerebbe a chiederci se così modificata quella proposizione è ancora vera, — e che questo ci spinga sulla china di un regresso all’infinito è fin troppo evidente. Credo che le stesse considerazioni valgano anche nel caso della relazione percettiva, qualora la si intenda come quell’atto in cui ho esperienza di un determinato oggetto. Che l’albero che vedo sia in una certa relazione causale con i miei fotorecettori è un fatto che determina la sua natura reale e il modo in cui esso stesso ci appare: ci dice qualcosa sul posto dell’albero nella concatenazione causale del mondo; che io ne abbia esperienza invece non è una proprietà reale dell’albero, altrimenti di quest’albero che vedo avrebbe senso dire che il suo essermi noto è una proprietà che determina ciò che l’albero è nel suo stesso contenuto di senso. Ma questo non è vero: se l’essere conosciuto o esperito percettivamente fosse una proprietà che ci dice qualcosa sul contenuto di senso di ciò che esperiamo e conosciamo non potremmo conoscere ed esperire l’oggetto che conosciamo ed esperiamo poiché conoscendolo lo modificheremmo.

Mi sembra, in altri termini, che qui ci imbattiamo in due diverse accezioni del concetto di relazione percettiva: da un lato vi è la percezione come evento reale, dall’altra l’essere percepito come relazione epistemica e solo nel primo caso ma non nel secondo mi sembra legittimo parlare di relazioni causali.

Del resto, verso questa stessa distinzione siamo ricondotti anche da una considerazione nella quale ci siamo già imbattuti, seppure solo marginalmente. Una relazione causale è una relazione esterna e non necessaria: possiamo immaginare un mondo in cui il fuoco di legna non produca cenere e in cui il calore non faccia evaporare l’acqua. Ma ciò è quanto dire che il nesso che attribuisce alle idee un significato oggettivo e trascendente è di natura empirica e che è in linea di principio possibile che il mondo muti ma che le nostre idee restino le stesse: le leggi della natura potrebbero cambiare (e forse persino in accordo con leggi più generali della natura) e possiamo immaginare un mondo diverso dal nostro che ci costringesse tuttavia ad una vita d’esperienza eguale a quella che oggi nel nostro mondo viviamo. Potrebbe in altri termini accadere che ciò che ora vediamo rosso susciti in un qualche lontano futuro l’esperienza del verde e che ciò che è verde ci appaia rosso e che ciò accada non per un mutamento della natura della luce o della riflettanza di quei corpi, ma per un loro diverso agire sui nostri organi di senso.

Si tratta naturalmente di una finzione, e di una finzione così poco plausibile da avere cittadinanza solo nelle riflessioni bislacche dei filosofi. Ma si tratta comunque di una finzione possibile. E ora chiediamoci se possiamo ragionare così anche quando abbiamo a che fare con la sfera della nostra esperienza. Certo, anche nel caso degli oggetti dell’esperienza avrebbe senso dire che ciò che ora vedo come un uomo nella nebbia si rivela, ad uno sguardo più attento come un albero esile, e ciò naturalmente significa che anche in questo caso è possibile avanzare un dubbio sulla natura di ciò che mi è dato. E tuttavia la possibilità dell’altrimenti implica evidentemente il permanere di una relazione tra la mia esperienza e ciò che in essa si esperisce, poiché la stessa sensatezza della prassi del dubitare chiede che si possa comunque assumere un terreno di certezze. Che non si tratti di un uomo, ma di un albero lo vedo — e ciò è quanto dire che non posso pensare che l’accordo tra la mia esperienza e ciò che in essa si manifesta venga meno senza togliere con questo la possibilità del mio accesso al mondo e la sensatezza di ogni discorrere che lo abbia come oggetto. Qui la prassi del dubitare deve essere messa a tacere, poiché un dubbio è legittimo solo su uno sfondo di certezze che ne delimitano il campo. Ma anche se riteniamo che sul terreno dell’esperienza siano possibili errori ed anche se non vogliamo negare che ogni esperienza concreta possa essere revocata in dubbio, ciò non toglie che il dubitare presupponga una certezza che non può che essermi data sul terreno stesso dell’esperienza. Prima o poi le ipotesi debbono finire e con esse il porsi di un nesso discutibile tra la mia esperienza e ciò che in essa si manifesta. Prima o poi dobbiamo giungere al punto in cui non si può fare altro che dire così: questo è l’oggetto che percepiamo ed in questo modo stanno le cose.

Così, che il sistema delle leggi muti è un’ipotesi empirica improbabile ma legittima; che il mondo sia tale da non poter essere eguale a come lo conosciamo è un’ipotesi scettica che, come tale, mina la sensatezza stessa del conoscere. Del resto, che queste considerazioni ci sospingano verso le tesi scettiche è chiaro. Il rappresentazionalismo è in un certo senso una teoria scettica, poiché ci invita a parlare di oggetti reali ed indipendenti dalla soggettività, anche se poi nega la possibilità di conoscerli. Certo, discorrendo della posizione di Locke avevamo osservato quanto poco presente fosse l’obiezione scettica, e tuttavia ciò non significa che l’approccio lockeano non sia in linea di principio esposto ad un argomentare scetticamente atteggiato. E la ragione è ben chiara: lo scetticismo è l’indice di una contraddizione filosofica che consiste nel porre il criterio del conoscere al di là della conoscenza stessa. Lo scettico ragiona così: dapprima definisce quale sia il criterio della verità, per poi negare che sia possibile avere un effettivo accesso ad esso. Qualcosa di simile ci invita a pensare la tesi del rappresentazionalismo che dapprima nega che ci sia possibile percepire direttamente la realtà e poi prende sul serio il nesso causale, che pure trae la sua legittimità solo dal terreno fenomenico.

Ora, non è difficile scorgere che all’origine di questa contraddizione vi è proprio ciò intorno a cui ruotano le considerazioni che abbiamo sin qui proposto. Di fatto il dissidio scettico non è che un aspetto della generale sovrapposizione tra il piano empirico reale e il piano cognitivo dell’esperienza percettiva, — una sovrapposizione che ora ci invita a considerare la percezione come un evento che accade nella nostra natura psico-fisica, ora come il titolo generale cui ricondurre gli oggetti che ci sono intuitivamente noti.

Lezione undicesima

1. Le considerazioni che abbiamo dianzi proposto erano volte a mostrare come una considerazione causalistica della percezione potesse indurci in una serie di fraintendimenti ed avevamo infine sottolineato come questi ultimi si radicassero in quella concezione rappresentazionalistica in senso proprio che avevamo cercato di delineare nelle precedenti lezioni. In fondo, il senso delle nostre considerazioni era proprio questo: se ci disponiamo sul terreno della percezione come processo psicologico il rappresentazionalismo è una tesi ovvia: vi sono necessariamente input sensibili che debbono essere rappresentati in "linguaggi simbolici" differenti e comunque atti ad evidenziare ed elaborare a diversi livelli quelle informazioni che ci consentono di giungere ad un risultato percettivo soddisfacente — alla percezione della cosa così come la avvertiamo. Ma se ci disponiamo invece sul terreno descrittivo e consideriamo non tanto il percepire come un atto psichico reale, ma l’esperienza percettiva e quindi il mondo così come noi lo viviamo il quadro muta: qui non avrebbe più senso parlare di rappresentazioni e di oggetti indiretti, poiché gli oggetti sono proprio questi che abbiamo sotto gli occhi e che possiamo toccare con le mani.

Sul significato e sulle conseguenze di questa distinzione è necessario soffermarsi un poco, e tuttavia prima ancora di poter assolvere a questo compito è necessario rimuovere una difficoltà che sembra mettere in dubbio la linea argomentativa che stiamo cercando di proporre. Torniamo al testo di Locke ed in modo particolare al tentativo che anima le prime pagine del secondo libro del Saggio: qui ci si sforza di mostrare come la concezione causalistica della percezione si radichi nel terreno dell’esperienza che, per la sua stessa forma, ci spinge a pensare i nostri vissuti come effetti di una causa che li trascende.

L’argomento lockeano si articola in due passi che vale la pena di rammentare. Il primo passo ci conduce alla formulazione di una teoria della mente che ha il suo incipit nel privilegio accordato alla consapevolezza del pensare e il suo punto di approdo nella tesi secondo la quale la mente non è necessariamente res cogitans ma pensa soltanto quando è determinata a farlo da una causa scatenante.

Il secondo passo consiste invece nel connettere queste considerazioni alla constatazione della passività dell’esperienza:

In the reception of simple ideas, the understanding is for the most part passive. In this part the understanding is merely passive; and whether or no it will have these beginnings, and as it were materials of knowledge, is not in its own power. For the objects of our senses do, many of them, obtrude their particular ideas upon our minds whether we will or not; and the operations of our minds will not let us be without, at least, some obscure notions of them. No man can be wholly ignorant of what he does when he thinks. These simple ideas, when offered to the mind, the understanding can no more refuse to have, nor alter when they are imprinted, nor blot them out and make new ones itself, than a mirror can refuse, alter, or obliterate the images or ideas which the objects set before it do therein produce. As the bodies that surround us do diversely affect our organs, the mind is forced to receive the impressions; and cannot avoid the perception of those ideas that are annexed to them (ivi, II, i, 25).

Di fatto la nostra esperienza è innanzitutto passiva, e di questa constatazione ci si deve avvalere per trovare una conferma alla teoria della mente che Locke ha appena formulato e che ci invita a considerare la percezione come un evento di cui rendere causalmente conto. La dimensione passiva dell’esperire diviene così un indizio cosciente della dinamica reale della percezione stessa.

Di qui la conclusione che Locke ci invita a trarre: quando diciamo che la percezione delle idee semplici è passiva sosteniamo una tesi che ci permette di ancorare l’ipotesi del rappresentazionalismo alla dimensione fenomenologica del vissuto. Si tratta di una mossa di cui non è difficile comprendere le ragioni se ci si dispone sul terreno del rappresentazionalismo in senso proprio, poiché se si sostiene che noi abbiamo coscienza di oggetti mentali è poi necessario spiegare per quale motivo siamo poi sospinti verso un’ipotesi di carattere trascendente — verso oggettualità che non appartengono alla sfera della nostra esperienza percettiva.

Si tratta, tuttavia, di una conclusione che non è affatto così ovvia come sembra, e questo perché non è chiaro che cosa significhi affermare che la percezione è passiva. Una prima ipotesi sembra ricondurci sul terreno della percezione: la distinzione tra attività e passività deve in altri termini porsi come un tentativo di distinguere forme diverse del percepire. Ora apro gli occhi e vedo ciò che mi sta attorno, e in questo vedere sono evidentemente passivo: se non sono animato da interessi percettivi peculiari, le scene visive si impongono alla mia soggettività che non fa nulla se non ricevere ciò che le viene consegnato.

La passività può tuttavia cedere il passo ad una percezione animata da interessi particolari, ed in questo caso il percepire assume la forma di una prassi attiva il cui oggetto si staglia sullo sfondo della passività. Quando entro nello studio per cercare un libro, non guardo le solite cose che pure riconosco e che nella loro normalità non richiamano su di sé uno sguardo attento (anche se questo non significa naturalmente che non le veda): rivolgo invece lo sguardo a tutto ciò che assomiglia all’oggetto che cerco ed in questo caso potrei sostenere che osservo solo ciò che voglio e che mi interessa. La passività del vedere trapassa così nell’attività dell’osservare ma ciò naturalmente non significa che la dimensione causalistica del percepire ci abbia abbandonati: anche se le scene percettive non si impongono più all’io che di fatto cerca di vedere ciò che vede, ciò nonostante se di una percezione si può parlare è anche perché qualcosa agisce causalmente su di noi. Di qui una prima conclusione: la passività del percepire cui qui si allude non si contrappone all’attività del constatare e non ci riconduce al fatto che ogni esplorazione percettiva si dà su uno sfondo di percezioni passive, ma chiama piuttosto in causa il fatto che ogni percezione non può fare altro che essere percezione di ciò che è dato, laddove il ricordo può in qualche misura disporre dei propri materiali.

Ma ora ci chiediamo: se questa è la passività del percepire, ha davvero senso porla come il contrassegno vissuto dell’agire dei corpi sulla mia soggettività? Chi guarda in una stanza non può fare a meno di vedere ciò che c’è, mentre chi fantastica liberamente su cui che potrà fare nel pomeriggio può appunto immaginarsi cose diverse: questo è chiaro.

Ma in questo evidente farsi avanti di un vincolo non riesco a cogliere necessariamente il segno di un agire causale, ed un esempio può forse aiutarci a comprendere meglio la natura di un simile dubbio. Chi osserva questo disegno

non può fare a meno di capire di capire che gli angoli a e b restano tra loro eguali, anche al variare dell’inclinazione reciproca delle rette. Qui evidentemente non sono libero, ma non per questo direi che vi è una relazione causale. Prendere atto dell’esistenza di uno stato di cose non significa essere liberi, ma questo non vuol dire che ogni volta che non vi è spazio per una scelta vi sia allora una relazione causale. Qui osserviamo un disegno e cogliamo una relazione di natura teorica che si impone alla nostra comprensione, ma la necessità di pensare così non è l’effetto di un nesso causale che abbia il suo fondamento in quella peculiare datità fenomenica.

Occorre dunque tracciare ancora una volta una distinzione: la passività che si avverte quando siamo costretti a riconoscere che c’è qualcosa o che le cose stanno così non è la stessa passività che avvertiamo quando per esempio un sasso ci colpisce e noi sentiamo il dolore sulla parte lesa. Ed è solo in questo caso, e non anche nel primo, che la percezione diviene fenomenologicamente il contrassegno di una qualche relazione di causa ed effetto.

Possiamo forse esprimerci: ogni percezione dipende da un nesso causale, ma ciò non vuole affatto dire che ogni percezione sia anche percezione di un nesso causale. Ciò che è obiettivamente dato non è necessariamente percepito e la forma processuale che determina la percezione come evento non è necessariamente ciò che si manifesta sul terreno percettivo. In questo fatto non vi è naturalmente nulla di misterioso poiché non è affatto evidente che le condizioni obiettive della percezione facciano anche parte del suo contenuto di senso. Gli esempi sono a portata di mano: una successione di percezioni, per esempio, non è affatto necessariamente una percezione di successione, e se immaginiamo un metronomo che batta un ritmo sempre più lento non è difficile intuire che prima o poi la percezione della successione e quindi anche dell’intervallo verrà meno e con essa la coscienza della successione. Così, perché due suoni si diano in un rapporto di successione è necessario che si costituisca un’esperienza nuova: deve divenire concretamente avvertibile l’esperienza del trapasso da un suono all’altro perché solo così la serie obiettiva trova una sua eco sensibile.

Un discorso del tutto analogo vale anche per la percezione di un nesso causale. Del resto, che le cose stiano così ci si manifesta anche nel fatto che ogni nesso casuale implica una relazione tra eventi, mentre non ogni percezione è percezione di un evento. Molte cose accadono quando osservo un paesaggio: vi è innanzitutto una configurazione particolarissima di raggi luminosi che determina una serie di eventi nella retina; questi eventi a loro volta si ripercuotono nelle vie nervose e ciò che qui accade determina ancora una serie di eventi a livello cerebrale. Ma se tutto questo accade nel percepire non per questo percepiamo accadimenti: noi vediamo il paesaggio che ci sta di fronte ed un paesaggio non ha in alcun modo la forma temporale di un evento. Il paesaggio c’è e nel suo quieto esserci non rimanda ad alcun nesso causale.

2. Le considerazioni che abbiamo sin qui proposto ci hanno mostrato in che senso è lecito avanzare qualche perplessità sulla natura causale della percezione.

Ora vogliamo invece rivolgere lo sguardo in una direzione nuova: vogliamo abbandonare la prospettiva di indagine che ci invita a pensare all’idea come un accadimento per rivolgere lo sguardo al suo contenuto. Su questo punto le analisi lockeane sono esplicite: la percezione è percezione di oggetti mentali ed in modo particolare di contenuti come il rosso, il dolce, l’amaro, ma anche la forma, il numero o la solidità. Così, per Locke, quando vediamo che la neve è bianca e sentiamo che è fredda abbiamo innanzitutto a che fare con una serie di vissuti che hanno luogo nella nostra mente: anche se i nomi delle idee possono alludere equivocamente ai poteri che stanno nelle cose, di fatto il primo e più proprio significato che loro compete sono appunto le idee, gli oggetti interni del nostro intelletto.

Questa tesi trae parte della sua plausibilità dall’interpretazione causale della percezione. Se la percezione è un accadimento psichico che ha la sua causa in un evento esterno, allora sembra legittimo sostenere che la nostra percezione è un evento mentale: la percezione accade in noi ed è quindi nella nostra mente che è opportuno cercarla. Si tratta tuttavia di una conclusione su cui è opportuno sollevare più di un dubbio, poiché se le considerazioni che abbiamo dianzi proposto sono legittime, allora si deve riconoscere che il concetto di percezione è in ultima analisi ambiguo, poiché un conto è parlare della percezione come di un evento che chiude la catena causale che ha, se non la sua origine, almeno un punto saliente nell’oggetto percepito, un altro discorrerne invece come di una relazione di natura cognitiva che di fatto non allude ad un qualche accadimento ma semplicemente al fatto che vediamo, sentiamo e tocchiamo gli oggetti che ci circondano. Così, quando dico di vedere la neve posso intendere che ha luogo in me un evento particolare che implica una qualche trasmissione di energia ed una conseguente modificazione dei miei organi di senso e dello stato complessivo del mio cervello; ma posso intendere anche che vi è della neve qui di fronte a me e che di questa presenza ho una immediata consapevolezza sensibile. In altri termini: quando dico che vedo qualcosa posso voler alludere ad un evento fisico, fisiologico e psicologico che accade in me, ma posso anche esprimermi così per dire in che modo un certo oggetto è presente per me.

Nelle pagine precedenti avevamo cercato di tracciare questa distinzione avanzando più di un dubbio sulla legittimità di una teoria che cerca di ridurre il percepire alla sua dimensione causale. Ora vorremmo invece affrontare questo stesso problema in una luce nuova: vorremmo chiederci se quando parliamo di oggetti percepiti possiamo davvero intendere questi oggetti come oggetti mentali. Che le cose non stiano così sembra possibile affermarlo con relativa chiarezza: non vediamo oggetti nella mente, ma nello spazio che ci attornia ed è solo se non tracciamo la distinzione che abbiamo dianzi proposto che deve apparirci strano che sia possibile vedere da qui ciò che resta , nello spazio fuori di noi.

E tuttavia, anche se basta forse uno sguardo per rendersi conto che il linguaggio di cui ci avvaliamo non condivide la propria grammatica con il sistema di concetti che Locke ci invita ad abbracciare, è egualmente opportuno soffermarsi un poco su questo tema per cercare di misurare con maggiore determinatezza quanta ampia sia la differenza in cui qui ci imbattiamo. Vorrei, in altri termini, invitarvi a riflettere su alcune differenze notevoli che ci permettono di distinguere le regole che sorreggono il nostro normale impiego del verbo percepire da quelle che guidano Locke nel suo discorrere delle idee. E poiché nel contesto filosofico del Saggio sull’intelletto umano le idee — come abbiamo più volte osservato — sono pensate sul modello grammaticale delle sensazioni, possiamo in effetti chiederci quale sia la differenza tra la grammatica della percezione e della sensazione. Credo che questa differenza possa essere fissata e, per così dire, misurata riflettendo su alcuni punti notevoli:

  1. Abbiamo appena osservato che degli oggetti percepiti si può senz’altro indicare il luogo in cui sono siti — o più propriamente: il luogo che gli spetta sul terreno fenomenologico. Così diciamo di vedere un cespuglio con i fiori bianchi in terrazzo e di sentire sommesso e lontano il rumore di un treno. Ma che cosa dovremmo dire se il bianco fosse soltanto una sensazione? Potremmo ancora sostenere che si trova là, sulla superficie di quei fiori di un cespuglio su un terrazzo? A questa domanda dovremmo rispondere negativamente, poiché è chiaro che se del bianco parliamo non come di una proprietà di un oggetto, ma come di una sensazione non abbiamo davvero alcun criterio fenomenologico per dire dove si trovi. La sensazione del bianco, se davvero vi è, può essere nella mente, ma questo non significa affatto che io la esperisca come qualcosa che si dà nella mente. Ora, si potrebbe argomentare che le perplessità che suscita in noi il rimando ad un esempio visivo (questo paradigma ossessivo del percepire) vengono meno quando ci interroghiamo su altre forme della percezione e su altre modalità del sensibile. Potremmo per esempio riflettere sull’udito, e richiamare l’attenzione sul fatto che i suoni e le parole talvolta rombano nelle nostre orecchie. Talvolta, appunto. Nella norma le cose non stanno così e il linguaggio di fatto ci invita ad usare così il verbo "ascoltare": ponendo come suo complemento oggetto voci e suoni che non sono nella nostra mente ma che sono percepiti in un qualche luogo discosto da noi. Sentiamo appunto lontano il rumore del treno, ed anche se il suono non è una proprietà delle cose che lo emettono, qualcosa nel nostro ascoltarlo ci parla della cosa lontana e del suo eventuale allontanarsi da noi. E tuttavia la situazione descrittiva è forse ancor più complessa, perchè il suono o la voce non è soltanto là da dove ha origine, ma è anche nel suo giungere fino a noi. Nel fischio di un treno che passa vi è un duplice movimento: vi è l'allontanarsi rapido della sorgente del suono che si fa sempre più lontano, ma vi è anche il suo giungere sino a noi. I suoni sono fatti così: hanno una localizzazione molto più complessa dei colori, ed è per questo che l’immaginazione poetica della lontananza può trovare nel suono più che nelle forme e nei colori il terreno per una metaforica non solo del passato, ma anche del passare, di un allontanarsi che è insieme anche un ottundersi della presenza ed un restringersi del suo spazio di risonanza: "ed alla tarda notte / un canto che si udia per li sentieri / lontanando morire a poco a poco, / già similmente mi stringeva il core" (Leopardi). E tuttavia il consiglio di abbandonare la dimensione visiva è comunque opportuno, e lo è in modo particolare se cerchiamo di mantenerci del terreno della sensazione piuttosto che della percezione. Forse, piuttosto che riflettere sulla sensazione del bianco per essere poi costretti a confessare che non sapremmo davvero che cosa la differenzi dal bianco che percepiamo, potremmo parlare di altre sensazioni, come per esempio la sensazione di dolore che proviamo quando abbiamo mal di denti. In questo caso si potrebbe certo sostenere che abbiamo male proprio qui, nel secondo molare, e questo ci inviterebbe a riflettere che anche le sensazioni hanno una loro spazialità che tuttavia è racchiusa entro le mura della nostra persona. Ma le cose non sono così semplici, perché questa localizzazione è peculiare per almeno due ragioni che debbono essere sottolineate. In primo luogo dire che il dolore è nel molare non significa affatto sostenere che nel dente vi sia qualcosa come una cavità in cui il dolore è racchiuso. Nel dente, per essere un poco pignoli, vi è soltanto il dente anche se non vi è dubbio che io senta male proprio qui. Il dolore può essere sentito là dove ci sono molte altre cose — e ciò è quanto dire che il dolore è localizzato ma non occupa uno spazio. Ora, questo affianca le sensazioni ai suoni: in un locale molto rumoroso non si riesce a stare ma questo non perché il vociare abbia davvero riempito i posti liberi. Ma questa apparente connessione cede il subito il passo ad una nuova differenza. Quando dico che vedo i fiori nel terrazzo voglio dire che sul terrazzo ci sono dei fiori; quando affermo invece, indicandomi il dente, che mi fa male qui non intendo affermare che qui vi sia un dolore. Soltanto per me qui vi è un dolore, e ciò è quanto dire che la localizzazione non è riferita allo spazio o a un oggetto spaziale, ma ci parla del modo in cui ciascuno di noi avverte il proprio dolore quando lo prova. La paroletta "qui" è sempre un avverbio di luogo, ma nel caso delle sensazioni è un avverbio che si riferisce esclusivamente ed essenzialmente al verbo sentire e ha quindi da un lato una funzione espressiva, dall’altra assolve il compito di indicare la parte malata e non certo la sensazione di dolore.

  2. Una sensazione può avere gradi di intensità: posso sentire più o meno male alla schiena. Ed è anche possibile differenziare qualitativamente le sensazioni in ragione della maggiore o minore riconoscibilità di una sensazione — si può avere una confusa sensazione di malessere o essere pervasi da una strana sensazione di allegria. Ciò non toglie tuttavia che non avrebbe davvero senso distinguere i gradi di chiarezza di una sensazione: non possiamo sentire meglio una sensazione. Possiamo invece vedere meglio i fiori sul terrazzo: basterebbe alzarsi e andare a vederli un poco più da vicino. E non è una differenza da poco: se non posso provare meglio una sensazione ciò accade perché la sensazione è tutta racchiusa nell’atto che la pone e non si costituisce come un referente cui possono liberamente rivolgersi differenti atti percettivi. Ogni sensazione è quello che è e si dà come si dà: l’oscurità e la confusione di una singola sensazione debbono dunque valere non come indici di una manifestazione propria della cosa, ma come caratteristiche interne della sensazione stessa, che potrà dirsi confusa non in relazione al modo della sua datità ma alla forma tipica in cui sensazioni del genere si danno. Una strana sensazione di allegria non è un’allegria vissuta, per così dire, da lontano, ma è una felicità di cui non si riesce a capire la ragione e che non si colora dunque di quella peculiare sfumatura che ai nostri stati d’animo aggiunge la consapevolezza della causa che li ha scatenati.

  3. Non si può sbagliarsi intorno ad una sensazione, né dubitare di essa. Non posso dire che forse sento un lieve prurito alle mani, e non avrebbe senso affermare che credevo di avere mal di denti. Se ci muoviamo su questo piano non vi è spazio né per il dubbio, né per l’errore. E quindi nemmeno per il sapere che si pone, in linea di principio, come possibile risposta ad un dubbio. Non ha senso dire "Ora so che ho mal di denti!", perché non si può immaginare un contesto in cui si possa dubitarne. Certo, si può dire "ora so che cosa sia il mal di denti!", ma è evidente che il senso di questa proposizione non poggia su un dubbio che abbia per oggetto una qualche sensazione. Ciò che una simile esclamazione dice è soltanto questo: che ora provo per la prima volta o in una forma particolarmente viva che cosa si avverta quando si soffre per colpa dei denti.

  4. La sensazione ha cause, ma non ha un oggetto che vada al di là di se stessa. Così, il dolore che provo nel dente non mi consente di percepire la malattia che lo provoca anche se naturalmente vale come una ragione per dire che il mio dente è malato. Diversamente stanno le cose nel caso della percezione. Se, guardando un albero nel cortile dico che c’è un albero nel cortile non mi avvalgo di un indizio che abbia dalla sua una forte probabilità, ma semplicemente applico il criterio su cui poggia la possibilità di affermare sensatamente l’esistenza di un oggetto sensibile. Ma ciò è quanto dire che il nesso tra la malattia del dente e il dolore che mi provoca è diverso dal nesso che lega il mio percepire l’albero e il suo esserci, ed una riprova ne è il fatto che posso convincermi di non avere una carie anche se il dente mi fa (ancora) male, mentre non posso non credere che vi sia un albero nel cortile se lo vedo.

  5. Una sensazione di dolore c’è solo quando l’avverto, e non avrebbe senso chiedersi dove si sia nascosto il dolore che è appena passato. Un oggetto percepito può invece scomparire dalla nostra vista, per ricomparire poco dopo in un altro luogo. Potremmo anzi esprimerci così: si può parlare della percezione di un oggetto A se e solo se ha senso affermare che A può essere stato percepito male o che può esistere anche se noi ora non lo percepiamo più. Nel caso della sensazione invece ciò non può accadere: non possiamo sentir male il benessere che ci pervade quando scacciamo la sete con un bicchiere d’acqua e non avrebbe senso chiedersi dove si sia nascosto il senso di arsura che ora non avvertiamo più.

Non vi è dubbio che tutte queste considerazioni ci riconducono in prossimità della critica che Thomas Reid aveva rivolto alla nozione empiristica di idea. Le idee — aveva osservato — hanno lo statuto grammaticale delle sensazioni e le sensazioni sono oggetto del nostro intelletto in un senso molto diverso da come le cose sono oggetto della nostra percezione:

sento un dolore e vedo un albero: la prima asserzione designa una sensazione, la seconda una percezione. Entrambe risultano all’analisi grammaticale composte di un verbo attivo e di un oggetto. Se però consideriamo quello che significano, troviamo che nella prima la differenza tra l’atto e l’oggetto non è reale ma grammaticale, e che nella seconda tale distinzione non è grammaticale ma reale. La forma dell’espressione sento un dolore sembrerebbe implicare che il sentire sia qualcosa di diverso dal dolore sentito, mentre in realtà non esiste alcuna distinzione. Come l’espressione pensare un pensiero non significa altro che pensare, sentire un dolore non significa altro che soffrire. […] La sensazione […] esiste soltanto in un essere senziente e non può essere separata dall’atto della mente in cui è sentita. La percezione [invece] ha sempre un oggetto distinto dall’atto in cui è percepito (Ricerca sulla mente umana secondo i principi del senso comune, a cura di A. Santucci, utet, Torino 1975, p. 274).

Di qui la tesi di Reid: la percezione non è solo un evento che ci riconduce ad un oggetto come alla sua causa, ma è anche un atto psichico che nel suo senso si pone come apprensione di una realtà trascendente. Al linguaggio empiristico delle idee si deve contrapporre un vocabolario teorico più articolato: ogni percezione ci rimanda infatti da un lato all’impressione da cui scaturisce, dall’altro ad un atto psichico che è avvertito sensibilmente dalla soggettività che lo vive e che si rapporta ad un oggetto che lo trascende (Essays on the Intellectual Powers of Men, op. cit., p. 292).

Di questa tesi potremmo ora avvalerci, dimenticandoci delle conclusioni che di qui Reid trae e che trasformano questo passo così significativo in una teoria molto difficilmente percorribile. In questa breve citazione sono infatti in qualche misura racchiuse le considerazioni che abbiamo dianzi svolto, e che potrebbero essere forse ricondotte alla constatazione grammaticale cui Reid ci invita.

Potremmo forse farlo, ma il nostro obiettivo è un altro: vorremmo provare a radicalizzare un poco le conseguenze cui siamo giunti, chiedendoci non quali siano le differenze cui si deve far fronte se si intende l’oggetto percettivo alla luce della grammatica delle sensazioni, ma domandandoci se sia in generale possibile parlare di sensazioni come se fossero oggetti, come se fosse questo ciò che intendiamo quando parliamo di questo foglio sul tavolo, della cartelletta che lo contiene, del suo colore rosso, e così via.

Ora, come stiano le cose in Locke ci è ormai noto. Locke ritiene che le nostre idee siano i termini di un linguaggio mentale che di fatto circoscrive la sfera dei significati che ci sono accessibili, e ciò è quanto dire che non soltanto il linguaggio parla di sensazioni, ma che le sensazioni sono il suo unico e vero oggetto e insieme il criterio cui è vincolata la sua significatività. Quando uso la parola "rosso", ciò che intendo è un’idea, e quest’idea è a sua volta il criterio che ci permette di impiegare correttamente quel termine: ciascuno di noi ha, per Locke, nella propria mente la capacità di ridestare le idee e di saggiare se ciò che ora percepiamo e chiamiamo così corrisponde al campione ideale che è racchiuso nella memoria come una definizione è fissata nella pagina di un dizionario.

Si tratta di un modello chiaro e semplice, ma discutibile, e che qualche problema si possa celare dietro tanta apparente ovvietà ci si era già mostrato quando ci eravamo lasciati guidare dalle considerazioni di Locke sull’impossibilità per un cieco di apprendere il significato della parola "rosso". Già allora ci eravamo chiesti se per un cieco non fosse possibile comprendere qualcosa della natura del colore, ed avevamo osservato che vi sono regole che sorreggono l’uso di quel concetto e che queste regole hanno una natura formale che può essere compresa anche da chi non vede. Di qui c’era poi sembrato opportuno osservare che il significato della parola "rosso" avrebbe potuto ricondurci non ad un qualche vissuto, ma alla regola del suo uso, e ciò è quanto dire che la nostra capacità di percepire i colori, lungi dall’essere la fonte dei significati del nostro vocabolario cromatico, altro non sarebbe che la condizione cui è vincolata la nostra possibilità di giocare al gioco linguistico chiamato in causa da quel termine. Per usare correttamente la parola "rosso" dobbiamo poter discernere i colori, ma questo ancora non vuol dire che il significato di questo termine sia un’idea racchiusa nella mia mente: la parola "rosso" potrebbe significare una certa regola d’uso — il modo in cui ho imparato ad usare gli esempi che mi sono stati proposti e che insieme consideriamo come il metro di quell’accordo.

Di qui, da queste considerazioni che avevamo lasciato volutamente in sospeso, dobbiamo ora prendere le mosse per cercare di dare a quel sospetto uno spessore nuovo, e ciò significa chiedersi che cosa voglia dire in generale apprendere il significato della parola "rosso". Wittgenstein ci invita a ragionare così: capiamo che cosa vuol dire quella parola perché chi la usa ci propone un esempio che può assumere poi una funzione paradigmatica, e guidare altre future mosse di quel gioco linguistico. Da bambini i nomi dei colori li abbiamo imparati così: partecipando alle azioni degli adulti e comprendendo le parole con cui le accompagnavano ed ascoltando eventualmente i loro chiarimenti e i loro incoraggiamenti. I nomi dei colori li abbiamo imparati muovendo da esempi, e questo legame che si manifesta chiaramente sul terreno dell’apprendimento non è meno presente quando ci interroghiamo sul significato dei nostri concetti. Il rosso non è un eŠdoj nel cielo iperuranio, ma è una regola operativa — la regola d’uso di un determinato esempio che diviene il paradigma che guida le nostre future mosse linguistiche e il nostro avere a che fare con il colore. Scrive Wittgenstein:

si danno esempi e si vuole che vengano compresi in un certo senso. — Ma con questa espressione non intendo: in questi esempi deve vedere la comunanza che io — per una qualche ragione — non ho potuto esprimere, ma: deve impiegare questi esempi in modo determinato. Qui l'esemplificare non è un metodo indiretto di spiegazione, — in mancanza di un metodo migliore (Ricerche filosofiche, a cura di M. Trinchero, Einadui, Torino 1976, § 71).

Il senso di queste affermazioni è chiaro. Se mi interrogo sul significato di una parola posso spiegarmela aprendo un dizionario e leggendo la definizione che mi viene proposta, seguendo un cammino in cui le parole si spiegano le une con le altre; e tuttavia il fondamento ultimo di ogni spiegazione deve infine ricondurmi sul terreno degli esempi e questo proprio perché i concetti sono giochi linguistici, e cioè comportamenti condivisi e determinati da una regola che si mostra nell’esemplarità di quella prima mossa cui si deve poi attribuire il valore di paradigma. Questo è il rosso, così si conta, questa è una successione in ragione di 2 — di qui, dal divenire paradigma di questi esempi, dal loro porsi come regole di una futura prassi condivisa intersoggettivamente, sorgono i nostri concetti. E qui il rimandare ad esempi non è un metodo indiretto di spiegazione, — in mancanza di un metodo migliore. L’esempio non è qualcosa che giunga dopo il concetto e che semplicemente ci aiuti a capirlo, ma è il fondamento operativo su cui poggia la prassi del gioco linguistico, poiché "rosso" non significa altro se non questo — la regola d’uso di questo esempio che funge da paradigma del rosso. Il concetto di rosso è il nostro trovarci d’accordo nell’usare così questo campione e il nostro adoperarci per usarlo proprio come gli altri lo usano, in un gioco di reciproco richiamo alla normatività di una regola che si mostra nella esemplarità di un rimando intuitivo e di una prassi d’uso.

Certo, perché ciò sia possibile debbono essere presupposte molte cose, e tra queste in primo luogo la costanza della natura umana (l’accordo può fungere da norma solo se è di fatto reso possibile dal nostro convergere verso un’identica meta percettiva) e molto probabilmente, in secondo luogo, anche una qualche predisposizione fattuale a distinguere ciò che sul piano concettuale di fatto si distingue. Così, la possibilità di un vocabolario cromatico e quindi l’effettiva praticabilità dei nostri giochi linguistici con i colori presuppone che gli uomini abbiano da un lato un’eguale sensibilità alle lunghezze d’onda della luce e, dall’altro, un qualche meccanismo innato che elabori separatamente e quindi distingua le forme dai colori e i colori dalle molte altre caratteristiche che sono implicate in ogni percezione concreta. Ma il rimando a questi presupposti non cambia il problema che ci sta a cuore: che cosa debba e possa significare la parola "rosso" il bambino lo comprende soltanto quando entra in un gioco linguistico ed impara ad usare quella parola come noi la usiamo, lasciandosi guidare da un esempio che appartiene ad una situazione intersoggettiva e che deve porsi come paradigma che regoli ogni futuro impiego di quel termine. Il significato della parola "rosso" è tutto qui: è un modo condiviso di usare un rimando esemplificativo che diviene regola e metro di ogni ulteriore applicazione di quel termine.

Ancora una volta è forse opportuno osservare che, perché ciò sia di fatto possibile, sono necessari alcuni presupposti di natura fisiologica: in tutte le lingue se vi è un nome per i colori vi è anche il nome del rosso e se si cerca quale sia il centro della sua area di applicazione ci si imbatte in una concordanza che non può essere casuale e che va spiegata cercando quali siano le determinanti fisiche e fisiologiche di una simile costanza. Così stanno appunto le cose, ma ancora una volta ciò non muta in linea di principio il discorso che Wittgenstein ci propone e che ritengo sia comunque giusto seguire. Possiamo essere predisposti ad ancorare le nostre parole a certi punti dello spazio cromatico e possiamo anche spingerci ad affermare che vi sono (e che debbono di fatto esserci) punti d’approdo determinati per i nostri nomi di colore, che si orientano quindi naturalmente e senza sforzo verso il senso che loro compete; ciò non toglie tuttavia che il significato di una parola resti egualmente ancorato ad una regola d’uso e che è a questa regola che dobbiamo sentirci vincolati quando parliamo. Vi sono condizioni fattuali del significato (possiamo di fatto capirci quando usiamo la parola "rosso" perché tutti siamo predisposti per ancorare i nomi di colore agli stessi punti dello spazio cromatico), ma non per questo dobbiamo confonderle con le condizioni ideali della sensatezza — con quella dimensione normativa che deve esserci se il nostro parlare vuole essere di per sé una prassi che cerca l’accordo e che si sottomette ad esso.

Ora, la norma che vincola l’uso linguistico è tutta racchiusa nel rimando implicito o esplicito ad una qualche esemplificazione concreta che possa assumersi l’onere di fungere da paradigma e quindi porsi come l’unità di misura intersoggettiva cui, in vista di un accordo, è subordinato ogni gioco linguistico. E che le cose stiano così lo si vede quando talvolta ci accorgiamo che non ci intendiamo pienamente e che non diamo un significato del tutto coincidente alle nostre parole. Così capita ai bambini che, quando imparano a parlare, non sempre riescono ad usare le parole come noi adulti le usiamo e che danno ai loro gesti linguistici una funzione che non ha un’eco precisa nel linguaggio degli adulti. Il bambino si lascia guidare ancora dalle sue rappresentazioni, ma presto si sforzerà di adeguarsi al normale uso linguistico: i bambini vogliono usare le parole come gli adulti le usano. E ciò che accade al bambino che impara a parlare accade anche a noi, e di fatto talvolta ci capita di doverci fermare su una parola per chiarire quale sia la regola del suo impiego. Dobbiamo in altri termini chiarire — per rammentarci ancora del nostro esempio — che quando parliamo di un rosso scarlatto ci riferiamo a questo colore e che è questo il modello che dà una norma comune ai nostri usi linguistici vincolandoli ad una regola d’uso. Ecco, la parola "rosso scarlatto" dobbiamo usarla così — come mostra l’esempio, poiché il suo significato non è qualcosa che ci appartenga e nemmeno qualcosa che appartenga di fatto a ciascuno di noi, ma è il nostro comune intento di riconoscerci nel valore paradigmatico di una qualche esemplificazione che sia in linea di principio intersoggettivamente disponibile.

Ora, di fronte a questo modo di ragionare, sembra possibile prendere le distanze muovendosi in una direzione che ci conduce in prossimità delle tesi lockeane. In fondo, si potrebbe obiettare, che cosa sia il rosso lo sappiamo anche troppo bene e questo sapere è impresso nella nostra mente: il modello che ci sorregge è un fantasma mentale, è l’idea di rosso che ciascuno di noi porta impressa nella propria mente. Sembra possibile, ma non lo è poiché la possibilità dell’accordo implica un terreno comune e questo terreno non può essere cercato nello spazio privato della mia soggettività. Che cosa tu provi dentro di te quando vedi una macchia di rosso scarlatto è qualcosa cui, in linea di principio, non posso accedere e che non può quindi fungere da metro o anche solo da oggetto dei nostri discorsi. Della nostra idea del rosso (se mai ve n’è una) non possiamo parlare poiché essa si sottrae alla possibilità di un accordo. Così quando diciamo di questa macchia che è rossa non alludiamo ad una sensazione che sia dentro di noi e che dovrebbe fungere da metro di ogni nostro giudizio ma ci riferiamo necessariamente a questo colore rosso che ricopre nella forma di una macchia la superficie di questo foglio che tutti possiamo vedere. Perché una parola abbia significato ciascuno deve poterla usare proprio come gli altri la usano, e questo dovere e questo potere sono proprio quelli che necessariamente vengono meno nel caso di un linguaggio fondato sulle sensazioni: infatti, anche se tutti avvertissimo di fatto la stessa sensazione di colore, non avrebbe senso dire che tutti dobbiamo poter provare quella stessa esperienza cromatica. Una regola si deve poter seguire e non ha senso trovarsi di fatto per caso a seguire una regola, perché una regola c’è solo se non la si segue soltanto per caso, poiché ciò che differenzia una regola — per esempio (nà (n+2)) — dalla presenza di coppie numeriche del tipo <2, 4>, <4, 6>, <6, 8> è che solo se interpretiamo queste attraverso quella avrebbe un senso sostenere che <6, 9> non è soltanto una coppia numerica diversa, ma anche falsa. Solo il porsi di una mossa come paradigma conferisce al gioco linguistico la necessità che è implicita nel suo valore logico. Se questa necessità viene meno ciò che resta è solo la circostanza fattuale del nostro comportarci, e non più la costrizione ideale del nostro dover dire così. I giochi linguistici sono essenzialmente dialogici, e il dialogo non può ridursi ad un’armonia prestabilita.

Di qui la conclusione cui tendono le considerazioni di Wittgenstein. proprio perché tutti ci intendiamo sul significato della parola ‘rosso’ non possiamo porre poi il criterio del suo uso (l’applicazione paradigmatica che ci mostra la regola) in un luogo che sia consultabile solo privatamente da ciascuno, poiché un simile oggetto nascosto non può fungere da metro della misurazione, poiché non può godere del crisma dell’esemplarità. Wittgenstein illustra queste nostre considerazioni proponendoci, come di consueto accade nelle sue pagine, uno strano gioco di società, che ci ripropone — sotto un velo piuttosto esile — una discussione più generale sulla coscienza e i suoi vissuti:

Ora qualcuno mi dice di sapere che cosa siano i dolori soltanto da se stesso! — Supponiamo che ciascuno abbia una scatola in cui c’è qualcosa che noi chiamiamo ‘coleottero’. Nessuno può guardare nella scatola dell’altro; e ognuno dice di sapere che cos’è un coleottero solo guardando il suo coleottero. — Ma potrebbe ben darsi che ciascuno abbia nella scatola una cosa diversa. Si potrebbe addirittura supporre che questa cosa mutasse continuamente. — Ma supponiamo che la parola ‘coleottero’ avesse tuttavia un uso per queste persone! — Bene, non sarebbe certo quello di designare una cosa. La cosa contenuta nella scatola non fa parte in nessun caso del gioco linguistico; nemmeno come un qualcosa: la scatola potrebbe anche essere vuota. — No, si può ‘tagliar corto’ con questa cosa che è nella scatola (ivi, § 293).

A partire di qui Wittgenstein muove per trarre una serie di considerazioni molto ricche e significative. A noi tuttavia interessa qui soffermarci su un unico tema: se riflettiamo sul significato dei termini non siamo ricondotti alla sfera delle nostre sensazioni, ma al terreno di un’esperienza comune, poiché solo ciò che appartiene ad un terreno comune può fungere da paradigma dei nostri giochi linguistici. Ma ciò è quanto dire che il linguaggio che abbraccia l’orizzonte semantico della nostra esperienza non può fondarsi sulla trama delle nostre sensazioni, come pure Locke pretendeva, ma ci riconduce ad un mondo comune, a questo mondo che è di fatto il terreno su cui poggia ogni nostra prassi.

Di qui la conclusione che dobbiamo trarre. Le parole che noi usiamo, le parole della nostra esperienza che ci parlano di colori e di suoni, di alberi, di case e di persone, non parlano delle nostre sensazioni e non dicono nulla di ciò che accade nella mente, ma si riferiscono tutte ad un terreno comune, alle cose del mondo in cui viviamo, a quelle cose che vediamo e tocchiamo e di cui non dubitiamo che anche gli altri abbiano un’eguale esperienza. E tuttavia di questo mondo — che non è affatto il mondo reale che la scienza scopre nelle sue indagini conoscitive — dobbiamo pur chiederci se sia davvero lecito parlare. Noi vediamo case, alberi e strade, ma sappiamo che tutto questo è apparenza: perché dovremmo allora sentire il bisogno di restare ancorati a queste falsità? Certo, si dirà che tutto questo appartiene alla dimensione del senso comune, ed è quindi difficile liberarsene. Ma questo non è ancora un argomento: il senso comune potrebbe essere una malattia, e se lo fosse sarebbe senz’altro opportuno liberarsene.

Lezione dodicesima

1. Il tema nel quale ci siamo imbattuti nelle osservazioni conclusive della scorsa lezione ci costringe ora ad una riflessione più approfondita che deve permetterci di comprendere quale sia il peso che dobbiamo attribuire ad una considerazione fenomenologica e grammaticale dell’esperienza. Di una simile riflessione vi è bisogno, perché non è di per sé chiaro che cosa significhi dire con un tono assertorio che noi usiamo così la parola "percezione" e che nei nostri giochi linguistici differenziamo con cura gli oggetti che ci circondano dalle sensazioni da un lato e dalle entità non essenzialmente intuitive ed ipoteticamente inferite dall’altro. Certo, facciamo così, ma questo non è ancora un buon motivo per dover dire che sia giusto farlo. Qualche volta, sia pure con le migliori intenzioni del mondo, ci siamo sbagliati. Così, di fronte ad un simile modo di procedere si potrebbe semplicemente obiettare che per secoli gli uomini hanno creduto che il cuore fosse la sede delle passioni o che la Terra fosse piatta, ma che questo non sarebbe un buon argomento per credere che le cose stiano proprio così. Forse ancora oggi ci sono molte persone che credono nella magia e nell’astrologia ma questo non significa che abbiano ragione, né che si debba seguire il linguaggio quando ci invita nelle pieghe dell’etimologia a cedere a queste credenze: quando riflettiamo su un problema che ci sta a cuore lo facciamo oggetto di un’attenta considerazione e una catastrofe è per noi un disastro. Tra i compiti del filosofo non vi è l’obbligo di tessere le lodi del pregiudizio.

Che dire di fronte a queste obiezioni? Su un punto, credo, si debba convenire. Se ci chiediamo che cosa sia la percezione realmente allora dobbiamo semplicemente riconoscere che il lambiccarsi il cervello con la grammatica filosofica del verbo "percepire" è un inutile gioco. Che cosa sia la percezione e come si dipanino i processi percettivi è qualcosa che non possiamo certo spiegare additando i nostri usi linguistici e compiacendoci per la loro adesione alla superficie descrittiva dei fenomeni. Dal punto di vista reale la percezione è un evento tra gli altri e negarlo non sarebbe poi tanto diverso che sostenere che la Terra è piatta o che si trova al centro di un sistema di sfere cristalline.

Tutto questo mi sembra indiscutibile. Ma le cose mutano se ci poniamo una differente domanda — se ci chiediamo se sia davvero necessario o addirittura possibile fare a meno del linguaggio del mondo della vita. Che si tratti di una diversa domanda è chiaro: ora non ci chiediamo più che cosa sia la percezione come processo reale che lega il nostro corpo all’ambiente che lo circonda e che eventualmente determina un insieme di reazioni, ma ci interroghiamo sull’opportunità di impiegare o meno un linguaggio che ci autorizza a parlare dei colori come proprietà degli oggetti e che in linea di principio distingue persone e cose, senza per questo avanzare alcuna teoria su una simile distinzione. Il nostro problema è un problema soltanto filosofico: senza pretendere di dire nulla su ciò che la percezione è, vogliamo interrogarci sul significato che dobbiamo attribuire al mondo della nostra immediata esperienza — a quel mondo che Husserl indicava quando parlava di Lebenswelt.

Affrontiamo innanzitutto il primo aspetto del problema e chiediamoci se il sapere scientifico ci costringa a rinunciare al linguaggio della Lebenswelt. In un certo senso la risposta sembra scontata: se vi è un sapere del mondo della vita, questo sapere è con ogni probabilità falso, intessuto com'è di elementi immaginativi e di vaghe analogie che di fatto distolgono lo sguardo dalla necessità di spiegazioni effettive. Le piante affondano le loro radici nel terreno e di lì traggono l’acqua che è necessaria per la loro vita. Questo lo sanno anche i bambini, ma come possono le piante convincere l’acqua a risalire lungo le radici sino a giungere in alto fino alle foglie? Una domanda banale che ha una risposta facile, che potrebbe tuttavia suonarci nuova poiché sembra così ovvio spiegare che così accade perché le piante sono vive e quindi succhiano l’acqua dal terreno. Del fuoco — ricorda Bachelard — si dice che si alimenta come un essere vivente, e questa che è per noi una metafora vale sino agli albori della chimica moderna come un pensiero nascosto che spinge ad intendere la digestione come un fuoco sopito e a pensare alla fiamma come una sostanza capace di assimilarne altre. Di questo sapere che nasce dalle intuizioni immaginative del vivere la riflessione scientifica deve, prima o poi, liberarci, restituendo al terreno immaginativo ciò che gli compete — questo, almeno, è ciò che Bachelard sostiene in un suo libro (La psicoanalisi del fuoco (1938)) da cui avremmo potutto trarre più di un esempio curioso.

E tuttavia questa affermazione così ovvia si scontra con un fatto che non può non farci riflettere: da molti anni sappiamo che i colori appartengono soltanto al mondo che percepiamo e che non hanno cittadinanza nell’universo della scienza, e tuttavia non rinunciamo per questo a dire che la neve è bianca o che i mattoni sono rossi. A tutto questo non sappiamo rinunciare e ci sembra strano dover confessare che ciò accade soltanto per un’inguaribile pigrizia. Ci sembra strano, perché in altri contesti gli uomini sono meno pigri di quanto non dovremmo di qui dedurre che siano. Un tempo credevamo che la natura avesse orrore del vuoto: oggi ci siamo ricreduti e la nostra presunta pigrizia non ci esime dal credere che il vuoto vi sia persino nelle confezioni di molti prodotti alimentari. E ancora: gli uomini hanno un tempo creduto che le malattie avessero oscure cause astrologiche cui oggi non crediamo più, anche se non siamo medici e forse comprendiamo soltanto sommariamente la dinamica reale degli eventi che accadono nel nostro corpo. Qui appunto ci siamo ricreduti, ma abbiamo potuto farlo non perché qui la nostra pigrizia ci abbia miracolosamente abbandonati, ma perché un sapere falso si scontrava con un sapere più saldo su un terreno in cui a ragione si poteva opporre ragione, per quanto complesse siano le forme in cui si confrontano e si scontrano spiegazioni diverse. Credevamo che gli oggetti cadessero perché tendono verso il basso o forse verso il loro luogo naturale, ed ora di questo perché non sappiamo più convincerci e sentiamo il bisogno di argomentare diversamente: le cose cadono perché vi è la forza di gravità.

E ora ci chiediamo: stanno così le cose anche quando abbiamo a che fare con il "sapere" del mondo della vita? Rispondere a questa domanda significa, io credo, rendere conto della ragione di quelle virgolette che in qualche modo dobbiamo porre se vogliamo parlare di un sapere che concerne le distinzioni più ovvie e più elementari. Sappiamo che vi è un mondo di cose che esistono indipendentemente da noi e sappiamo che intorno a noi vi sono persone e animali e piante, e che vi sono differenze sufficientemente precise che distinguono queste diverse realtà e che ci impediscono di dire sensatamente che un sasso se ne sta pigramente sul greto del fiume o che una pianta fa progetti per il suo futuro o rimpiange di non avere affondato altrove le sue radici. Tutto questo, appunto, lo sappiamo, ma si tratta di un "sapere" che non rimanda ad una vera e propria acquisizione conoscitiva e che non ha ragioni che lo giustifichino e che valgano come criterio della sua verità, ma — per così dire — costituisce la grammatica della nostra esperienza, ed è prima di ogni effettivo conoscere. Ed è per questo che ci meraviglieremmo se qualcuno, tutt’a un tratto ci dicesse con il tono di chi ha fatto una grande scoperta: "Ora so che una pianta non può rimpiangere di aver messo proprio qui le sue radici!": di questa esclamazione — che può essere pronunciata solo nei soliloqui della filosofia — in realtà non abbiamo alcun bisogno, poiché essa pretende di dire qualcosa che si mostra comunque nella prassi e che determina il senso di ciò che per noi è una pianta. Imparare quella proposizione non vuol dire scoprire una verità nuova, ma significa solo dare erroneamente la forma di un sapere empirico alle regole del gioco linguistico che normalmente giochiamo quando parliamo di alberi e piante; chi provasse a negarla non direbbe il falso, ma pronuncerebbe un’assurdità che si rivelerebbe tale non perché contraddice altre tesi precedentemente asserite, ma perché nega il senso implicito in molte nostre azioni. Che una pianta non provi rimpianti non è né vero né falso, poiché se qualcuno mi domandasse come faccio a sapere che così stanno le cose non potrei rispondere in altro modo che additando gli esempi e le situazioni concrete che circoscrivono il senso che attribuisco a quella parola. Si rimpiange qualcosa solo se ci si comporta così, e solo se questo comportarsi così accade sullo sfondo di molte altre cose che danno a quel comportamento il suo giusto spessore: può rimpiangere solo chi conosce il gioco del ricordo e del progetto, ed è per questo che il fruscio delle foglie può diventare una voce solo nel contesto di una riflessione poetica. Così, se quella strana proposizione non ci sembra del tutto insensata ciò accade soltanto perché in essa si esprime quell’insieme dei presupposti che sorregge il nostro gioco linguistico dell’attribuire a qualcuno un rimpianto: ciò che qui si esprime (e che di fatto non ha un senso effettivo esprimere) è solo una goccia della grammatica che ci guida nel dire che le piante crescono e invecchiano, senza tuttavia acquistare le malizie dell’età. Questa è l’esperienza che abbiamo del mondo e sono queste evidenze che ci guidano nei nostri usi linguistici. Ma ciò è quanto dire che in questo caso non andiamo al di là dell’evidenza: ragioni da poter esibire per giustificare queste nostre certezze non ve ne sono, e questo semplicemente perché prima o poi le ragioni finiscono e rimaniamo ancorati a ciò che evidentemente fa da sfondo alle nostre credenze e a quei pensieri che riteniamo di poter giustificare. Ne segue che il "sapere" del mondo della vita non sembra essere un sapere, poiché chi pretendesse di negarlo non si limiterebbe a sostenere la falsità di alcune tesi, ma cancellerebbe l’insieme delle regole che sorreggono la nostra prassi, compresa quella del valutare ed eventualmente del negare la validità di una tesi. Per dirla con Husserl: qui non abbiamo a che fare con un fatto che meriti di essere constatato, ma con una struttura dell’esperienza, con un momento di quella rete di nessi essenziali entro cui si gioca ogni esperienza ed ogni acquisizione conoscitiva.

Di qui, da questa autonomia del mondo della nostra esperienza quotidiana dal mondo delle nostre conoscenze in senso proprio, la sostanziale impermeabilità della Lebenswelt ai nostri progressi conoscitivi: le certezze del mondo della vita possono nutrire una sovrana indifferenza per le acquisizioni della ricerca scientifica proprio perché le certezze non si reggono su ragioni e possono quindi ignorarle. Posso sapere che i colori sono solo l’ultimo anello di una catena causale che si dispiega prevalentemente nella soggettività psicologica e che, come unico appiglio nella cosa, ha la capacità che ad essa compete di riflettere solo certe frequenze d’onda e non altre, — posso saperlo e di fatto che le cose stiano pressappoco così lo si sa sin dai tempi di Democrito. Eppure la grammatica della parola "colore" resta ben ferma nel proporci un uso ben preciso dei termini che vi si sottomettono: i colori sono proprietà delle cose e sono proprio là dove la mano tocca la superficie dell’oggetto. La parola "colore" la usiamo così, e da quest’abitudine non sappiamo liberarci poiché di fatto si situa in una dimensione dell’esperienza che, proprio perché è "prima" di ogni esplicita teoria, sembra essere poi sorda alle sollecitazioni che le giungono dal terreno teorico. Quest’uso linguistico è, alla lettera, un preconcetto, ed è indifferente a ciò che accade sul terreno propriamente conoscitivo.

Di qui la prima conclusione che vorremmo suggerire: prima ancora di essere il luogo in cui si prende una posizione sul sussistere o meno di determinati fatti, l’esperienza intuitiva è il luogo in cui prende forma per noi il dizionario dei nostri concetti — un dizionario che non ha altre ragioni se non l’evidenza dei suoi possibili impieghi. Così, anche se la scienza ci impone sul suo terreno un diverso linguaggio, non siamo per questo costretti a correggere gli usi linguistici di cui quotidianamente ci avvaliamo e questo perché le ragioni che ci spingono ad avvalercene non sono di ordine conoscitivo. Del resto, anche quando l’esperienza percettiva ci guida sul terreno dei fatti non ha forse senso pensare di disporla in prossimità del sapere. Chi di un filo d’erba dice che è verde non intende affermare nulla che possa fungere da oggetto dell’espressione "io so"; intende invece affermare che vi è una differenza ben chiara tra il colore dell’erba e quello dei fiori che sul suo sfondo risaltano. Abbiamo un’esperienza del mondo molto prima di avvertire il bisogno del verbo "sapere", poiché di un sapere in un senso pregnante del termine si può sensatamente parlare solo quando si pone in questione ciò di cui abbiamo esperienza e ci si interroga sulle ragioni che potrebbero fondare i nostri giudizi. Certo, sembrerebbe possibile obiettare che vi sono molte occasioni in cui di fatto diciamo di sapere che le cose stanno proprio come le percepiamo. Così, anche se di fronte a un prato raramente esclamiamo: "so che l’erba è verde" potrebbe capitarci di rispondere a qualcuno che ce ne domandasse il colore che sappiamo bene di che colore essa sia. Basta tuttavia riflettere un poco per rendersi conto che di questo verbo così impegnativo potremmo in questo e in simili casi fare a meno, poiché se dico che so che l’erba è verde non dico nulla di più di questo: che la vedo, o che ricordo di averla vista, di quel colore. Parlare di un sapere non significa allora in questo caso disporre di un criterio che dia alle nostre affermazioni un fondamento nuovo, ma ci rammenta soltanto che vediamo o che abbiamo visto il colore dell’erba e che, proprio per questo, siamo certi che le cose stiano così non soltanto per me ma anche per chiunque altro, poiché fa parte della grammatica implicita nel percepire la natura intersoggettiva dei suoi oggetti. Di qui la distinzione che intendiamo proporre: quando percepiamo qualcosa non abbiamo criteri per dire che qualcosa c’è — semplicemente esperiamo così e siamo certi che le cose stiano così. Ma se dal terreno percettivo muoviamo verso il sapere allora di un criterio vi è bisogno ed assume un senso preciso la domanda che chiede quale sia il fondamento di ciò che diciamo di aver ragione di credere. E ciò è quanto dire che la tesi secondo cui non dobbiamo prendere necessariamente commiato dal linguaggio del mondo della vita fa tutt’uno con la sensatezza della distinzione tra il terreno dell’esperienza e il terreno del sapere in senso pregnante.

Non vi è dubbio che nella vita questa distinzione noi la tracciamo con chiarezza, e gli esempi proposti ne sono una conferma evidente. Ora, abbiamo già cercato di mostrare che dietro questo fatto vi è una ragione insita nella distinzione grammaticale tra percepire e sapere: il mondo della mia esperienza non è un mondo che so ed è, proprio per questo, tetragono alle proposte di revisione che sul terreno del conoscere dobbiamo necessariamente avanzare. Su questa distinzione vorremmo tuttavia soffermarci un poco, per cercare di darle una veste più chiara ed io credo che un modo per comprenderla meglio consista nel riflettere sulla discontinuità tra gli oggetti del sapere e gli oggetti della percezione. Vedo un filo d’erba e dico che è verde, ma poi mi dispongo nella prospettiva del conoscere e sono costretto a riconoscere che non mi è lecito dire che l’erba abbia davvero quel colore, poiché il colore dipende da molte cose ed in particolar modo dalla diversa ampiezza d’onda della luce che giunge sino ai nostri occhi. Dovremmo allora sostenere che il verde altro non è se non questo — una certa lunghezza d’onda — e che il nostro percepire verdi i prati è un errore da cui dobbiamo emendarci. Del resto, si potrebbe argomentare, la percezione è comunque soggetta ad errori, che non ci rifiutiamo di correggere: nessuno rifiuterebbe di ravvedersi sulla forma di un oggetto se, fattoglisi più vicino, dovesse ricredersi sulla sua configurazione complessiva. Perché allora rifiutarsi di accettare che anche la nostra percezione del verde dell’erba sia un buon esempio degli errori in cui la percezione ci getta?

Per una buona ragione, io credo. Se mi inganno sulla forma di un oggetto è la percezione stessa nel suo normale decorso che mi costringe a ritornare sui miei passi: lo spazio che credevo reale si rivela poi un’immagine speculare ed io vedo la reale misura degli spazi e, insieme ad essa, colgo l’errore in cui ero dianzi caduto. Alla continuità del trapasso tra posizione erronea e nuova determinazione percettiva fa invece eco la discontinuità in cui ci imbattiamo quando ci costringiamo ad affermare che l’erba in realtà non è verde. In questo caso nessuna possibile percezione può convincerci a formulare questo giudizio e non vi è un’esperienza che ci manifesti il nostro errore percettivo — e non vi è perché di un errore percettivo non ha senso parlare, poiché qui la percezione non sbaglia ma ci mostra l’oggetto come meglio non potrebbe. Certo, la fisica ha ragione quando osserva che i colori a rigore non sono che risposte soggettive a differenze che concernono la natura della luce, ma questa constatazione si muove sul terreno di una nuova comprensione del reale che si lascia guidare da nuovi criteri e che a rigore non è costretta a ripetere la scansione oggettuale che sul terreno percettivo si impone al nostro sguardo. Così, in un certo senso, avrebbe senso affermare che l’erba è davvero verde, perché l’erba è innanzitutto questo — qualcosa che vediamo, proprio come avrebbe senso negare che il verde sia una determinata ampiezza d’onda poiché il verde è innanzitutto un colore, e cioè una proprietà degli oggetti che è colta nel gioco linguistico che ha a che fare con questi oggetti e che assume come suoi paradigmi queste visibili proprietà. Per dirla in breve: se parliamo di sedie e di tavoli, di fili d’erba e di fiori del prato allora ha davvero senso dire che un colore l'hanno — quel colore che di fatto vediamo, e ha senso dirlo perché "tavolo", "sedia" e "filo d’erba" sono parole che hanno un senso solo quando parliamo di questo nostro mondo che la percezione ci porge. Tavoli, sedie e fili d’erba sono oggetti che appartengono soltanto al nostro mondo percettivo, poiché se ci disponiamo sul terreno della fisica o della biologia non abbiamo più alcuna ragione di considerare quegli oggetti come oggetti. Di queste prime articolazioni della realtà — che hanno comunque un fundamentum in re e che non sono affatto arbitrarie o soltanto dettate da una qualche proiezione soggettiva — è forse opportuno prima o poi dimenticarsi, e alla fisica e alle scienze nel loro complesso spetta appunto il compito di mostrare come questa stessa realtà di cui la percezione così ci parla debba essere diversamente descritta, secondo regole che solo in parte debbono ricalcare l’immagine che i sensi ci consegnano — un’immagine che, in questa prospettiva, dovrà apparirci come inguaribilmente soggettiva ed antropologicamente determinata. Ed è appena il caso di dire che in questo caso di colori non si dovrà semplicemente parlare e che i nomi del rosso, del giallo e del verde saranno solo il ricordo di una descrizione spuria che deve essere abbandonata poiché stringe in un unico nodo eventi chimici, fisici e psicologici indicando come una proprietà delle cose ciò che è invece frutto di un’interazione complessa.

 

2. Le considerazioni che abbiamo appena svolto intendevano mostrare che, se anche la scienza ci parla dello stesso mondo della nostra percezione, non siamo per questo costretti a rinunciare alla descrizione che l’esperienza percettiva ci offre, e questo perché il mondo percepito da un lato non è mera apparenza e, dall’altro, ci porge una descrizione parziale ma relativamente chiusa e coerente della realtà che ci circonda — un fatto che ci era parso di cogliere anche disponendoci sul versante soggettivo ed osservando la differenza che per la soggettività si disegna tra un mondo in cui argomentazione e conoscenza procedono di pari passo e l’universo delle cose cui crediamo anche se non abbiamo alcuna ragione per farlo.

A questo primo risultato vorrei tuttavia affiancarne un altro. Vorrei infatti sostenere che la nostra credenza nel mondo della vita non è soltanto legittima, anche se parziale e limitata, ma svolge una funzione essenziale da cui non è possibile prescindere. Il mondo della vita — scriveva Husserl — è il terreno delle evidenze originarie, e ciò significa che se ci muoviamo sul piano della nostra quotidiana esperienza non abbiamo dubbi su un insieme di distinzioni fondamentali, come quelle che concernono la differenza tra cose e persone, tra realtà ed apparenze, tra oggetti culturali ed oggetti materiali, tra oggetti della percezione e mere sensazioni, e così di seguito. Ora, per tutte queste distinzioni possiamo proporre un insieme di esempi capaci di renderle intuitivamente evidenti e di confermare con la loro valenza paradigmatica la certezza della prassi che su di esse si fonda; tuttavia sottolineare che così stanno le cose vuol dire implicitamente riconoscere che prima del sapere che può e sa esibire ragioni, vi sono certezze che non possono addurre altra credenziale se non quella di essere da sempre parte della nostra vita e di costituire il fondamento su cui poggiano gli altri giochi linguistici. L’abbiamo detto poco fa: l’esperienza intuitiva è il luogo in cui prende forma per noi il dizionario dei nostri concetti elementari. Così, asserire che la Lebenswelt è il terreno su cui poggia la nostra prassi non significa soltanto asserire il nostro disporre di un insieme di certezze su cui non sappiamo dubitare: vuole anche dire che le spiegazioni prima o poi debbono finire e che il rimando alle evidenze originarie si configura come un metodo degli esempi che si limita a mostrare ciò che non può essere ulteriormente detto. Che cosa sia una persona e che cosa la differenzi da una cosa non posso dirtelo, proponendoti una definizione che circoscriva una volta per tutte un concetto sito nel cielo sopra i cieli, ma posso egualmente mostrarti oggetti e persone e richiamare la tua attenzione su come in certi contesti reagiscono le cose e come invece si comportano le persone. Questo e non altro posso fare, e così facendo non ti nascondo nulla di quello che so, poiché questo è ciò che vale sul terreno della Lebenswelt — un insieme di situazioni esemplificative, cui è appunto affidato il compito di fissare il dizionario dei nostri concetti elementari.

Ora di questi concetti non possiamo fare a meno e questo per un duplice ordine di ragioni: da un lato infatti la prassi conoscitiva dello scienziato si muove in questo nostro mondo, facendo affidamento nei suoi passi sulle certezze del vivere, dall’altro costruisce i propri concetti muovendo dalle nozioni che la vita stessa le porge. Non è dunque soltanto un fatto che vi siano certezze: le certezze debbono esserci se vogliamo che i nostri giochi linguistici abbiano un senso e possano porsi sia come lo sfondo che rende possibile l’accordo che è implicato da qualsiasi attività di ricerca, sia come il sostegno di una elaborazione concettuale che ha le sue radici sul terreno dell’esperienza.

Osserveremo allora, in primo luogo, che prima ancora di potersi disporre sul terreno delle ragioni deve essere in qualche modo definito lo spazio di ciò su cui ha senso interrogarsi e su cui si può legittimamente dubitare. Possiamo, per esempio, dubitare di ciò che la tradizione sembra tramandare, ma non possiamo per questo mettere in dubbio che vi sia stato un passato o che vi siano altri uomini, e che sia possibile intendersi, proprio come la sfiducia nei sensi non può spingersi sino al punto di negare che si diano comunque quelle certezze rispetto alle quali soltanto il dubbio può farsi strada. Questi dubbi non avrebbero come risposta una qualche indagine più accurata, ma cancellerebbero semplicemente lo spazio di ogni possibile indagine. Dubitare del fatto che vi sia un mondo, che questo mondo esista da prima che vi rivolgessimo lo sguardo o che vi sia stato un passato della nostra specie umana non significa dissentire su un sapere: vuol dire invece recidere il ramo su cui siamo seduti e su cui poggia ogni nostro possibile accordo.

Su quest’ordine di considerazioni le pagine del secondo Wittgenstein ci offrono più di uno spunto e non vi è pagina in Della certezza in cui questo tema non emerga con grande chiarezza. Il sapere, si legge, implica ragioni e giustificazioni, ma proprio per questo ci riconduce di là da esso ad un terreno in cui per le giustificazioni non vi è più posto; proprio come, nel caso della misurazione, ogni misurare concreto ci riconduce ad un metro che non può essere a sua volta misurato, così anche nel caso delle proposizioni vere si deve riconoscere che la catena di fondazioni che le sorregge deve infine giungere a certezze per cui non possiamo più assumerci l’onere della prova. Wittgenstein lo osserva più volte:

C’è certamente giustificazione, ma la giustificazione ha un termine (Della certezza, § 192).

A un certo punto si deve passare dalla spiegazione alla descrizione pura e semplice (ivi, § 189).

Una ragione può essere indicata soltanto all’interno di un gioco. Vi è un termine della catena delle ragioni ed esso coincide con i limiti del gioco (Philosophische Grammatik, in Werkausgabe, v, op. cit., § 97).

E se vi è un termine alla catena delle giustificazioni, allora si dovrà anche riconoscere che là dove le ragioni finiscono ci si imbatte necessariamente in proposizioni che non possono più dirsi né vere né false, in un fondamento per cui non ha senso chiedersi che cosa parli a favore e che cosa contro:

se il vero è ciò che è fondato, allora il fondamento non è né vero né falso (Della certezza, op. cit., § 205).

Non è difficile comprendere il senso di queste proposizioni muovendo dall’analogia con la prassi della misurazione. "Di una cosa non si può affermare e nemmeno negare che sia lunga un metro — del metro campione di Parigi" — così osservava Wittgenstein, e questa stessa tesi deve valere ora anche su un terreno più generale: se possiamo dire vere solo le proposizioni fondate e se la catena delle giustificazioni ha un limite, allora è evidente che le proposizioni vere debbono ricondurci ad un terreno che non è né vero né falso, proprio come la misurazione ci riconduce ad un metro campione di cui non si può predicare la lunghezza.

Tutto questo è relativamente chiaro. Che la prassi del misurare abbia bisogno di un metro campione è ovvio, così come non è difficile comprendere perché del metro campione non si possa accertare la grandezza: ciò che funge da paradigma non può controllare se stesso, più di quanto non si possa verificare la veridicità delle notizie pubblicate su un giornale comprando un’altra copia dello stesso giornale. Ma appunto: perché le cose debbono stare così anche al di là della prassi del misurare? Che cosa ci spinge a sostenere che questa forma possa essere generalizzata? Rispondere a questi interrogativi significa rammentare ancora una volta la natura dei giochi linguistici e il loro porsi come il fenomeno originario entro cui si definiscono i significati di cui ci avvaliamo. Così un gioco linguistico è senz’altro il misurare la lunghezza di un oggetto o, per esempio, l’affermarne l’esistenza, e nell’uno e nell’altro caso ha senso sostenere che si tratta di giochi linguistici che mettono capo a risultati, di cui si può chiedersi se siano veri o falsi. E tuttavia, proprio come nel caso del misurare, anche nel gioco linguistico della posizione di esistenza non avrebbe senso sostenere che potremmo sempre sbagliarci, e questo semplicemente perché se ci sbagliassimo sempre non potremmo elevare alcuna mossa a criterio paradigmatico cui ricondurre il gioco del dichiarare esistente. Dire che un oggetto esiste significa questo — significa, per esempio, toccarlo, vederlo, afferrarlo o, più in generale, averne una diretta esperienza: su questo non abbiamo dubbi. Ma se ora ci si chiedesse che cosa giustifica questa mossa del nostro gioco — che cosa, in altri termini, ci permette di dire che un oggetto c’è se lo vedo e lo tocco non potremmo che esprimerci così: il gioco del porre qualcosa come esistente si gioca così, questa è la regola che lo sorregge. Ne segue che il gioco linguistico che pone qualcosa come esistente pone insieme se stesso come paradigma cui deve richiamarsi ogni posizione di esistenza: negare che si possa essere certi che qualcosa c’è, vorrebbe dire negare la regola del gioco linguistico che definisce che cosa voglia dire affermare o dubitare che esistano cose. Di qui la conclusione di Wittgenstein: prima del dubbio e dell’errore debbono esservi proposizioni certe che fissino il paradigma e la regola dei giochi linguistici — di quei giochi linguistici entro i quali soltanto è possibile il dubbio e l’errore. Ma ciò è quanto dire: quanto più ci allontaniamo dalle proposizioni fondate per riaccostarci alle certezze entro cui si determina il paradigma di un gioco linguistico, tanto più arduo diviene immaginare come possa darsi l’errore:

non è dunque vero che passando dall’esistenza del pianeta a quella della mia mano l’errore si limita a diventare sempre più improbabile. Piuttosto, a un certo punto, non è nemmeno più pensabile (ivi, § 54).

Non è più pensabile, naturalmente, non perché vi siano certezze rispetto alle quali siamo infallibili, ma perché negare le esperienze paradigmatiche su cui si fonda la posizione di esistenza significa insieme cancellare lo spazio logico entro il quale ha senso affermare o negare l’esistenza di qualcosa.

Gli esempi possono essere moltiplicati. Posso naturalmente dubitare che tu sia davvero contento di vedermi e posso convincermi che il tuo sorriso sia falso e dissimuli una diversa affettività: il gioco che sorregge l’attribuzione di uno stato d’animo contempla la possibilità dell’inganno. Ma non può contemplarla sempre: posso pensare che tu ora mi inganni solo perché la regola dell’attribuzione normale degli stati animo è tenuta ben salda da una molteplicità di situazioni paradigmatiche, di esempi tanto certi quanto indiscutibili:

Siamo forse troppo precipitosi nell’assumere che il sorriso del lattante non sia simulazione? — E su quale esperienza poggia la nostra assunzione? (Il mentire è un gioco linguistico che deve essere imparato, come ogni altro) (Ricerche filosofiche, op. cit., § 249).

E tuttavia, se non possiamo pensare che il sorriso del lattante sia simulazione non è perché in generale i bambini piccoli siano troppo onesti per volerci ingannare. La questione è un’altra: è che qui abbiamo a che fare con un’esperienza elementare che assolve ad una funzione paradigmatica — la sua certezza è innanzitutto espressione della funzione che a quella proposizione compete nel complesso dei giochi linguistici ad esso simili e non parla affatto di una presunta infallibilità in chi la pronuncia.

Ora, se ci poniamo in questa prospettiva, la domanda che ci eravamo posti trova facilmente una risposta: del mondo della vita non possiamo fare a meno perché delle sue certezze non può fare a meno nemmeno lo scienziato che fonda le sue ipotesi su ciò che gli mostra l’indicatore di uno strumento che vede, che si lascia convincere dai ragionamenti che qualcuno gli propone e che ritiene valido un ragionamento ed attendibile un metodo quando così risulta ad altre persone. La prassi della ricerca ha per oggetto il mondo com’è — a rigor di logica, ma si muove in questo mondo, sfruttandone l’attrito.

Del resto, ed in secondo luogo, la stessa dimensione argomentativa e concettuale che ci costringe a rivedere le pretese conoscitive che si dipartono dalla nostra immagine del mondo, poggia almeno in parte sulla dimensione preconcettuale dell’esperienza. Che cosa sia una relazione causale tra particelle non può che spiegarcelo una teoria fisica definita; ma ciò non significa ancora che non sia vero che il senso di quel concetto e del cammino teorico che ad esso ci ha condotti non si manifesti nel suo senso più pieno se non ponendo sullo sfondo quella nozione intuitiva di causalità da cui abbiamo comunque preso le mosse e che ci ha guidato in un cammino che è almeno in parte dettato dall’esigenza di pensare meglio ciò che abbiamo da sempre percepito. Credo che se vi è un senso nell’elaborazione teorica che Husserl propone nella Crisi sia proprio qui: nella convinzione che nell’esperienza vi siano strutture che sorreggono la genesi dei concetti e delle forme logiche e che ogni tentativo di chiarificazione concettuale giunga infine sul terreno intuitivo degli esempi. Di un metodo degli esempi che introduca i concetti e che ci mostri che il loro libero cammino ha inizio sul terreno dell’esperienza non possiamo fare a meno, e non può farne a meno nemmeno lo scienziato che se ne distacca avvalendosene, perché — comunque stiano le cose — anche la sua prassi teorica si muove e si realizza sul terreno dei concetti e delle distinzioni che ci sorreggono quotidianamente. Certo, nella scala della conoscenza l’immagine scientifica del mondo occupa un posto più alto di quello che spetta alle certezze del senso comune, e sarebbe falso voler contrapporre questo a quella — questo è chiaro: e tuttavia, proprio l’immagine della scala dovrebbe rammentarci che la solidità di ogni gradino poggia sui precedenti e che non è in generale possibile vantare i privilegi dell’altezza senza rammentare che comunque è sul terreno che la scala poggia. E ciò è quanto dire che nel rifiuto di dichiarare insensati i concetti e le regole del mondo della vita non trova espressione solo la constatazione della relativa indipendenza dell’esperienza percettiva dal conoscere ma anche la convinzione che l’universo del nostro sapere si radichi infine sul fondamento di un mondo cui crediamo senza averne ragione, di un accordo che non possiamo giustificare ma che dobbiamo salvaguardare poiché circoscrive la forma stessa del (nostro) vivere.

Lezione tredicesima

1. Nella scorsa lezione volevamo mostrare che il linguaggio del mondo della vita e quindi la famiglia dei concetti che di qui muovono non è soltanto legittimo, ma svolge anche una funzione fondante, poiché è sul terreno delle certezze più elementari che poggiano i giochi linguistici più complessi. Questa tesi è, per noi, della massima importanza poiché ad essa spetta il compito di rendere legittima la prospettiva generale da cui abbiamo ritenuto opportuno orientare le nostre critiche nei confronti di una teoria rappresentazionalistica (in senso proprio) della percezione. Il nodo del problema è tutto qui: se si riconosce che non è possibile liberarsi della grammatica del linguaggio e del suo implicito realismo fenomenologico, allora si deve anche accettare che, accanto alla percezione come evento reale che accade nel mondo e che è determinato dall’azione causale degli oggetti sui nostri organi di senso, vi è uno spazio autonomo che spetta alla percezione nella sua dimensione descrittiva — alla percezione colta non come un atto compiuto da un io psicologico, ma come un titolo generale cui ricondurre il modo in cui gli oggetti ed il mondo sono per noi intuitivamente presenti. Riconoscere la legittimità e la funzione fondante delle "certezze" della Lebenswelt significa allora indicare in linea di principio quale sia il terreno entro cui ha senso discutere della percezione in questa seconda accezione. Solo se ci poniamo in questa dimensione ha senso parlare di questo mondo di cui quotidianamente parliamo — di questo mondo che è presente come il terreno che determina l’accordo che sorregge i nostri giochi linguistici e che dà corpo agli esempi che fondano quel dizionario dei nostri concetti elementari che guida la nostra esperienza e che di fatto rende possibile ogni futuro accordo ed ogni più ricca articolazione di senso.

Tutto questo potrebbe forse bastarci. E tuttavia, se davvero vogliamo cercare di saggiare i limiti del rappresentazionalismo di matrice lockeana, non possiamo limitarci a proporre un insieme di critiche e di argomenti volti a mostrare in quali punti la riflessione di Locke zoppichi, ma dobbiamo anche chiederci quali siano le ragioni e quali siano le evidenze che in linea di principio sorreggono la proposta di quell’atteggiamento teorico. Nessun tentativo di discussione di una posizione filosofica può dirsi completo se non cerca di dare una risposta nel proprio linguaggio ai problemi e alle oscurità concettuali cui la teoria avversa riteneva di poter facilmente far fronte. In altri termini, anche se è vero che le teorie filosofiche non poggiano su esperimenti e su verifiche empiriche, ciò non significa che non vi siano alcuni fatti che sembrano trovare un’interpretazione particolarmente felice se si accetta di parlare il linguaggio delle rappresentazioni mentali e delle idee. Ora, ci siamo già soffermati su alcuni di questi fatti che trovano un’interpretazione felice nel linguaggio teorico del rappresentazionalismo, ed in particolar modo avevamo messo in luce quattro possibili ragioni che avrebbero potuto essere addotte per sorreggere la teoria della percezione che Locke ci propone.

La prima di queste ragioni poggia, credo, sulla mancata distinzione tra la dimensione reale del percepire ed il suo porsi come il titolo generale sotto cui raccogliere gli oggetti che ci si danno sensibilmente. Così, osservare che la teoria rappresentazionalistica si lega meglio alla constatazione che il percepire è una relazione reale che accade nel mondo tra due sue parti non è più per noi un argomento che possa avere una particolare presa, poiché — come abbiamo più volte osservato — per chi si dispone sul terreno del realismo fenomenologico non vi è nessun motivo per negare che le cose stiano anche così. Vediamo gli oggetti che ci circondano e li vediamo in virtù di un nesso causale che lega l’uno all’altro uno stato cerebrale e un qualche evento connesso alla presenza dell’oggetto percepito — tutto qui. Ma il rappresentazionalismo non si ferma qui e sostiene che l’ultimo anello della catena causale che ci lega all’evento da cui la percezione prende le mosse debba necessariamente essere l’oggetto di cui siamo consapevoli, e non invece un determinato stato cerebrale. Si tratta di una necessità di cui non riesco a vedere le ragioni. Tutt’altro: una causa reale dovrebbe avere un effetto reale ed empiricamente controllabile, e ciò è vero per lo stato cerebrale che accade in me, ma non può valere invece né per l’oggetto così come è conosciuto (che si dà come qualcosa di esterno a me) né per quegli oggetti soltanto mentali che Locke chiama idee e che non godono né di un’accessibilità intersoggettiva, né di una qualche efficacia pratica. Locke (e non soltanto Locke) sembra non rendersi conto che il mio udire il treno in lontananza non è una cosa diversa dallo stato cerebrale che ha luogo quando sento quel rumore lontano. Non è una cosa diversa, anche se naturalmente è davvero molto diverso parlare di uno stato cerebrale o della mia esperienza, e ciò significa che dobbiamo soppesare un poco le parole, se non vogliamo confondere il quadro che stiamo appena iniziando a intravedere. Uno stato cerebrale è un evento che accade nel mio cervello e che, come ogni altro evento del mondo, appartiene ad una catena aperta di nessi causali. Nulla di tutto questo è vero se parliamo del percepire disponendoci sul terreno descrittivo: quando dico che sento in lontananza il rumore del treno voglio dire che vi è un treno che passa lontano e che io lo sento. Il mio udire in lontananza il treno è dunque diverso dallo stato cerebrale che l’accompagna, ma appunto non è una cosa diversa da quello poiché non è affatto una cosa. Una cosa è il treno, un evento il suo passare lontano ed anche ciò che accade nel mio cervello quando sento quel rumore ben noto: non è invece né una cosa né un evento reale il mio sentire quel suono. Se dico che sento il rumore del treno non voglio dire che è accaduto un evento nuovo in me: mi limito a sostenere che per me il passare del treno è intuitivamente presente. Così, se qualcuno mi chiedesse se sento anch’io il rumore del treno, la mia risposta affermativa non varrebbe come una descrizione di un nuovo fatto, ma solo come conferma di quell’unico evento che accade laggiù, dove le rotaie piegano per andare finalmente verso la stazione.

Di qui, credo, si deve muovere per comprendere perché il termine "idea" deve essere abbandonato. Quel termine è l’incrocio di una duplice fraintendimento: da un lato ci invita a pensare l’oggetto che percepiamo come se fosse un oggetto mentale, suggerendo così una radicale negazione del significato obiettivo dell’esperienza; dall’altro, invece, quel termine ci invita a pensare all’esperienza come se fosse una cosa — le idee sono appunto oggetti mentali, il cui accadere implica una causa. Ma si tratta appunto di un duplice fraintendimento, perché da un lato ci vieta di attribuire al percepire l’oggetto che gli compete — le cose che ci circondano, dall’altro ci spinge a pensare che sul terreno reale l’evento percettivo possa condurci a qualcosa di diverso da uno stato cerebrale — ad un oggetto sfuggente, che dovrebbe essere da un lato tanto reale quanto la causa che lo produce, dall’altro tanto irreale da risolvere la sua presenza nella coscienza che ne abbiamo. Così dalle idee, da questo Giano bifronte che parla ora il linguaggio delle relazioni reali, ora quello delle dinamiche intenzionali, credo sia opportuno prendere definitivamente commiato.

Le considerazioni che abbiamo appena proposto non aggiungono per il vero nulla di nuovo a ciò che abbiamo già detto, lezione dopo lezione. Un discorso diverso vale invece per le riflessioni concernenti la seconda ragione che potrebbe essere opportuno addurre per giustificare le scelte teoriche del rappresentazionalismo, ed alludo qui alle riflessioni concernenti la presenza di un intervallo temporale tra l’evento da cui ha luogo il percepire e la percezione stessa. Talvolta ciò che esperiamo non accade quando lo esperiamo: il tuono giunge a noi dopo il lampo ed anche il lampo per il vero ci parla di un evento che è già accaduto, anche se davvero da poco. Ora, se questo scarto si aprisse soltanto tra il percepire come evento del mondo e l’evento percepito non vi sarebbe un problema, almeno per noi. Ma le cose non stanno così, poiché ciò che percepiamo è percepito come se fosse presente: come non sostenere allora che ad essere presente non è l’oggetto reale — la stella o quell’evento peculiare che scatena i tuoni — ma solo la sua replica mentale? Di fronte ad un simile argomentare io credo si debba rispondere semplicemente prendendo sul serio l’ipotesi che la percezione possa sbagliare. Di questo intervallo si deve rendere conto così: riconoscendo che non tutte le nostre percezioni sono veritiere, e che in questo caso abbiamo a che fare con una percezione che è forse vera per ciò che concerne il contenuto, ma ingannevole per ciò che riguarda invece la collocazione temporale che ad esso assegna. Ora vedo nel cielo stelle che potrebbero non esistere più da migliaia e migliaia di anni, e lo strano stupore che accompagna questa constatazione testimonia del fatto che per me che ora lo osservo, il cielo stellato è presente come sono presenti tante altre cose che appartengono al mio presente percettivo. La percezione, dunque, mi inganna, — capita di rado, ma capita. E se ci accontentiamo di piccoli errori possiamo dire che capita sempre, poiché uno scarto temporale ha sempre e necessariamente luogo, anche se il più delle volte si tratta di uno scarto ineffabile.

Ora, in questa "trascuratezza" temporale del percepire non vi è di norma nulla di male — almeno per il filosofo. I problemi sorgono quando riteniamo necessario spiegare l’errore della percezione sostituendo un fatto ad un altro ed invitandoci a pensare che se può accadere che l’oggetto che crediamo di percepire non esiste più, allora la percezione è percezione di un oggetto mentale.

Questa conclusione è infondata perché non credo che vi siano buone ragioni per sostenere che se nel cosmo non vi è in questo istante la stella che guardo allora di quella stella debbo parlare come di un oggetto che c’è ed è ora ma dentro di me: dentro di me potrà esserci la legge morale, ma per il cielo stellato non vi è obbiettivamente posto. Ma se questa conclusione è infondata è perché muove da una premessa infondata, poiché non è affatto vero che una percezione erronea sia una percezione esatta di qualcos’altro: dire che l’oggetto che dico di vedere non esiste più non significa che veda in realtà un altro oggetto che ora cè, sia pure soltanto nello spazio angusto della nostra mente.

Su questo punto è opportuno indugiare un poco, e per farlo vogliamo rivolgere l’attenzione ad un tema di carattere più generale, che ha giocato un ruolo centrale nella storia della filosofia della percezione — intendo il tema delle illusioni percettive. Per imbattersi in questo tema basta aprire le pagine dei primi filosofi: che siano di Parmenide o di Democrito, di Gorgia o di Platone, molte sono le pagine in cui si leggono lamentele sugli occhi che non vedono, sulle orecchie che rimbombano di suoni illusori e, in generale, sull’inaffidabilità dei sensi di cui si dice che sono come testimoni che, avendoci ingannato più di una volta, non meritano di essere più creduti. E a fronte di tutte queste accuse ci si imbatte in una piccola antologia di esempi, per il vero piuttosto discutibili: una stessa torre da lontano ci appare rotonda e da vicino quadrata, ciò che per noi è piccolo appare grande agli occhi di un insetto, e l’itterico — assicura ancora una volta Sesto Empirico — vede giallastre le cose bianche. Ma soprattutto è l’esempio del bastone immerso nell’acqua ad invocare la resa di chi pretende di attribuire alla percezione un significato obiettivo: ciò che la mano avverte diritto e intatto appare spezzato alla vista e poiché il principio di non contraddizione ci impedisce di pensare che di uno stesso oggetto si possano predicare proprietà contraddittorie dobbiamo necessariamente riconoscere che la percezione ci inganna. Di qui una conclusione che potremmo formulare così: se la vista dice che è spezzato ciò che invece è in sé intero e diritto, allora è segno evidente del fatto che l’oggetto che propriamente percepiamo non è il bastone reale, poiché oggetti che hanno predicati che si contraddicono non possono essere uno stesso oggetto. Se so che il remo è ancora intatto quando si immerge nell’acqua del mare non posso dire che sia lo stesso remo che vedo spezzato: uno stesso oggetto non può avere predicati contraddittori. Ma se l’oggetto che vedo non può essere l’oggetto reale, allora deve essere soltanto una sua immagine: il bastone spezzato può trovare un suo legittimo spazio nella sfera della nostra esperienza solo a patto di retrocedere dal terreno dell’essere per accettare una dimora mentale — ciò che vediamo deve essere soltanto un’immagine del reale, poiché solo così la contraddizione può essere elusa. E poiché non è ragionevole attendersi che la percezione muti il proprio oggetto a seconda che sia veritiera o ingannatrice è lecito supporre che la riflessione sulle illusioni percettive abbia davvero qualcosa da insegnarci poiché ci mostra che ogni percepire si riferisce ad un’entità mentale di natura meramente fenomenica — ad un’entità che non deve essere confusa con l’oggetto trascendente da cui eventualmente deriva in virtù di una qualche complessa relazione causale.

Si tratta di una conclusione che sembra del tutto ovvia e che tuttavia poggia su un principio che non è enunciato esplicitamente e che potremmo formulare così: se percepisco qualcosa che ha una determinata qualità sensibile, allora deve esistere qualcosa — un oggetto mentale — di cui sono consapevole e che di fatto ha quella proprietà sensibile. Così, quando guardo un bastone che appare spezzarsi nel punto in cui l’acqua lo lambisce, non potrò sostenere che ciò accada davvero al bastone reale, ma non dovrò per questo rinunciare a dire che vi è qualcosa di spezzato nella coscienza: il principio che abbiamo appena enunciato ci invita a ragionare così e a cercare nella mente ciò che non c’è nella realtà.

Come reagire a questo principio, che potremmo chiamare principio di oggettualità fenomenica? Credo che la prima mossa per decidere della sua plausibilità consista nel chiedersi che cosa vediamo quando osserviamo un remo che appare spezzato nel punto in cui si immerge in acqua. E la risposta mi sembra chiara: non abbiamo affatto coscienza di un oggetto apparente che è spezzato, ma abbiamo una percezione di un oggetto reale che appare spezzato, ed è per questo che la percezione si modalizza e contiene un elemento di negazione — perché ad apparire spezzato è proprio ciò che sento diritto al tatto. Il remo che ci appare spezzato è un oggetto reale che ha una proprietà apparente, non un oggetto apparente che ha una proprietà reale, — questo è il punto: il fatto poi che la mente sia un luogo particolare non ci permette di sciogliere il nodo in cui ci avviluppiamo, proprio come non ci consente di sostenere la tesi secondo la quale l’inesistenza di una cosa reale dovrebbe affiancarsi all’esistenza di una cosa apparente. Del resto, se si trattasse di un altro oggetto semplicemente non avrebbe senso dire che vi è un’illusione percettiva: avremmo appunto due diversi oggetti simili tra loro, ma dislocati in due spazi interamente diversi — l’uno lo spazio reale delle cose del mondo, l’altro lo spazio mentale che si apre nel mio intelletto. Ed invece non è questo il senso della mia percezione. Quando mi inganno guardando il remo immerso nell’acqua non confondo l’oggetto reale con l’oggetto mentale, ma vedo falsamente l’unico remo che c’è — quello con cui mi aiuto per muovere la barca. Ed è per questo che l’errore percettivo non si chiude con una distinzione di piani oggettuali, ma con un’esplorazione percettiva che cerca di sanare il dissidio che si è aperto in seno alla percezione. Ecco, ora osservo il remo e lo vedo spezzato, ma la mano avverte che le cose non stanno così, e l’inganno viene smascherato: il remo ora si immerge nell’acqua integro e la sua ingannevole apparenza cessa di allarmarmi e diviene il modo consueto in cui le cose mi appaiono quando l’acqua le nasconde al mio sguardo.

Forse, nell’ascoltare queste considerazioni di natura critica, qualcuno di voi ha represso a fatica un’obiezione che merita senz’altro di essere fatta e che potremmo formulare così: tu ti rendi troppo facile il gioco e dimentichi che quando percepiamo spezzato il remo che si immerge nell’acqua abbiamo pur sempre percepito qualcosa, e di questo qualcosa si deve pur rendere conto. Fuori il remo spezzato non c’è, ma dentro deve pure esservi, poiché qualcosa ho pur visto: negare che nella mente vi sia un oggetto mentale sembrerebbe allora negare il fatto che io abbia percepito qualcosa. Ora, di fronte a questo modo di argomentare credo si debba rispondere innanzitutto osservando che affermare che comunque abbiamo percepito così non significa ancora sostenere che deve esistere un oggetto della percezione, sia pure di natura mentale. Parlare di un oggetto percepito vuol dire infatti sostenere che vi è qualcosa che ha in generale le caratteristiche di un oggetto: vuol dire, in altri termini, asserire che vi è qualcosa che può fungere da referente di una molteplicità aperta di atti, di esperienze idealmente ripetibili da una comunità di soggetti percipienti. Quando dico che vedo qualcosa intendo propriamente questo: che c’è di fronte a me un oggetto — questo remo, per esempio — che posso liberamente osservare e che anche tu puoi guardare ed esplorare percettivamente nelle modalità più varie. Ma se questo qualcosa non vi è, non ha, proprio per questo, senso sostenere che deve esserci un oggetto che non gode di nessuna delle caratteristiche che degli oggetti sono proprie. Questa mossa non è legittima, poiché da un lato ci invita a parlare di oggetti, mentre dall’altro ci chiede di non parlarne nell’unico modo che ci è noto e che è implicito nella grammatica di quel termine: ci chiede, in altri termini, di trasformare la mia esperienza del veder così nella mia esperienza che vi è un qualcosa di fatto così, anche se poi ci vieta di dire di questo qualcosa qualsiasi cosa che vada al di là del fatto che, percependolo, io percepisco così.

Forse queste considerazioni ci sembrano sufficienti per disarmare l’argomento che muove dalla possibilità dell’illusione percettiva. Ma forse no. Forse vi è ancora qualcosa che sembra renderla plausibile, ed io credo che sia la facilità con cui pensiamo al percepire lasciandoci guidare da immagini falsanti. Locke ne è un esempio: le idee, leggiamo, sono come i mobili che arredano un grande locale vuoto, un locale che ad ogni nuova percezione ci propone una nuova disposizione degli spazi ed un diverso alternarsi dei pieni e dei vuoti. Quest’immagine parla chiaro: le idee sono davvero oggetti, sono cose che possono dare un corpo ed un luogo anche a ciò che è soltanto apparente. I fenomeni sono questo — oggetti mentali, mobili che arredano lo spazio della mente. Ma basta poco per rendersi conto che si tratta di un’immagine falsa: basta rammentarsi delle conclusioni che avevamo tratto quando avevamo parlato della geometria dei visibili e della radicale impossibilità di intendere il senso di ogni percezione come se essa constasse di una serie di oggetti fotografici. Una fotografia sta a sé, ed è un oggetto che ha un senso raffigurativo per quello che è. Non così un fenomeno, che assume un senso solo nella sua necessaria inerenza ad un decorso. Così, se guardo la penna che faccio ruotare tra le mie mani, ho esperienza di un unico oggetto la cui forma non muta, mentre varia l’orientamento con cui mi si presenta; basta dimenticarsi che è così che descriviamo le cose per lasciarsi guidare dall’immagine che ci spinge ad identificare fenomeni e cose perché una percezione tanto banale ci presenti un’infinità di problemi — poiché ogni scena percettiva ci porge un nuovo bastone spezzato, una forma che non può appartenere ad altri che a sé. Nell’immagine dell’oggetto mentale si manifesta così ancora una volta quella reificazione della coscienza che caratterizza in profondità ogni teoria che non distingua con sufficiente chiarezza i significati diversi che spettano al concetto di percezione.

 

2. Nelle riflessioni che abbiamo appena proposto abbiamo sottolineato come gli inganni della percezione siano tali proprio perché nelle scene che la percezione ci impone si delineano proprietà contraddittorie: sciogliere l’inganno pensando di disporre la percezione su differenti piani ontologici vorrebbe dire da un lato rendere incomprensibile il suo porsi come uno scacco interno al decorso percettivo, dall’altro togliersi in linea di principio la possibilità di capire perché la percezione si ponga comunque come un tentativo di venire a capo degli ostacoli che si frappongono all’unità del suo decorso. Lo stupore che accompagna gli inganni percettivi o anche soltanto le illusioni ottiche è un segno evidente del significato reale che attribuiamo alle nostre percezioni e del loro porsi come un tentativo di dipanare e determinare in modo sempre più esatto l’oggetto che abbiamo di fronte a noi, di coglierlo a dispetto della sua apparente contraddittorietà.

Su questo punto ci siamo appena soffermati, e tuttavia c’è ancora una domanda che dobbiamo porci — una domanda ingenua ma utile. La domanda possiamo formularla così: ma davvero non abbiamo nulla da imparare dalle illusioni percettive? Possiamo davvero relegarle al di là dei margini della riflessione filosofica come un fatto poco interessante?

Prima di prendere una posizione su questo tema è forse opportuno, una volta tanto, ricordarsi che non siamo soli nell’universo della filosofia e che vi è una lunga storia di riflessioni e di discussioni sulla percezione che ha fatto della centralità degli inganni percettivi la propria bandiera. Lo abbiamo già osservato: per tanta parte della filosofia antica l’inganno dei sensi vale come un biglietto di invito per partecipare alla festa della ragione o al funerale scettico della conoscenza. Ma la tematica dell’inganno percettivo ha assolto anche, e sin dall’antichità, un diverso ruolo: ha mostrato che se i sensi ci ingannano è perché le loro risposte sono comunque soggettive e traducono una realtà materiale nel linguaggio dei nostri vissuti.

Questa via ha una sua eco nella filosofia moderna su cui ci siamo già a lungo soffermati. E tuttavia, piuttosto che insistere su questo tema, è opportuno osservare che la riflessione filosofica settecentesca doveva anche in questo caso indicare un diverso cammino ed abbandonare in parte il solco tracciato dalla tradizione. La possibilità di un diverso approccio al tema degli "errori dei sensi" appare con chiarezza nelle pagine di Berkeley e di fatto nella sua Teoria della visione le illusioni ottiche non parlano più il linguaggio di una filosofia orientata in chiave razionalistica, scettica o meccanicistica, ma mostrano invece il normale funzionamento dell’esperienza che non può tacere la sua natura linguistica là dove l’erroneità del rimando mette in luce la presenza delle strutture denotative di cui consta. Di per sé, l’esperienza percettiva non può ingannarci poiché ogni scena percettiva è in se stessa esatta, coincidendo di fatto con il proprio oggetto. Così, la vista che ci presenta spezzato il bastone che immergiamo nell’acqua non ci inganna affatto, né è propriamente contraddetta da quanto il tatto ci mostra quando stendiamo la mano per toccare il bastone. L’illusione non riguarda nessuna di queste due idee singolarmente prese, ma solo quel nesso di designazione che, sancito dall’abitudine, lega una determinata esperienza visiva all’attesa di una determinata esperienza tattile che si rivelerà poi diversa da quella che di fatto avremo (Cfr. Three Dialogues between Hylas and Philonous, in Works, a cura di A. A. Luce e T. Jessop, Edinburgh 1950, vol. I, p. 245).

Che le illusioni ottiche possano insegnarci molto sulla natura della percezione è una convinzione che ritroviamo negli autori e nelle opere della psicologia scientifica degli ultimi anni dell’Ottocento. E tuttavia dalla posizione berkeleyana ci si è almeno in parte allontanati e rispetto ad un tema che è per noi di grande importanza: laddove per Berkeley le illusioni percettive mettevano in luce il disaccordo tra i sensi e si ponevano quindi come esempi di un nesso denotativo empiricamente infondato, per gli psicologi di fine Ottocento le illusioni ottiche divengono oggetto di studio proprio perché mostrano la discrepanza tra la situazione obiettiva dello stimolo e la natura del percetto.

Ai remi che, immersi nell’acqua, sembrano spezzati e su cui tanto si è soffermata la tradizione filosofica, si debbono così contrapporre le riflessioni su segmenti obiettivamente eguali, che ci appaiono di grandezza diversa o sull’incurvarsi di rette parallele su cui si disegnino fasci di linee oblique, e se di questi diversi esempi si intende discorrere ciò accade perché dietro questi inganni della vista traspare una dinamica interna ai fatti percettivi che ci mostra come la percezione non sia una passiva ripetizione dello stimolo.


Illusione di Zöllner


Illusione di Sandor


Spirale di Frazer

Quest’ordine di considerazioni si può già in qualche misura scorgere nelle pagine di Estetica dello spazio e le illusioni ottico-geometriche (Voss, Hamburg 1894) — un saggio di Theodor Lipps dedicato a far luce sulla natura delle illusioni ottiche. Certo, per Lipps l’origine di queste illusioni non riposa sulla percezione, ma sul sovrapporsi ad essa di processi rappresentativi che hanno la loro origine nell’io: Lipps non è, in altri termini, disposto a negare la dipendenza univoca della percezione dalle condizioni dello stimolo e ritiene quindi necessario far dipendere dalla soggettività l’inganno di cui essa stessa è vittima (ivi, 63-9). Basta tuttavia leggere con attenzione queste pagine per rendersi conto che in antiche fogge si fa avanti un contenuto nuovo. Se infatti alla percezione nella sua obiettiva esattezza può sovrapporsi e sostituirsi una rappresentazione erronea, ciò accade perché la forma, nella sua determinatezza fenomenica, "costringe" chi la osserva a coglierla come se fosse il frutto di un agire, come se in essa l’io potesse riconoscere quelle tendenze e quei dinamismi che caratterizzano la vita. Sotto lo sguardo della soggettività le forme spaziali si animano, poiché alla percezione nella sua obiettività vengono sostituendosi le rappresentazioni dell’oggetto che hanno la loro origine nell’atteggiamento proiettivo dell’io: all’esserci della forma subentra così il suo vivere, il suo animarsi di una molteplicità di dinamismi che tendono a liberarla dalla fissità del dato. E tuttavia se le rappresentazioni proiettive possono sorgere e tacitare l’obiettività del dato ciò accade soltanto perché nella forma percettiva dell’oggetto vi sono le "ragioni" che ci spingono a viverla secondo un’angolatura determinata. Un rapporto per certi versi analogo tra dimensione soggettiva del percepire e natura non sensoriale delle illusioni ottico-geometriche traspare anche nelle analisi di Benussi. Anche per Benussi infatti le illusioni ottiche rimandano ad un intervento della soggettività che dai dati elementari di senso è invitata ad una apprensione formale che risulta essere inadeguata rispetto alla costituzione obiettiva del dato. Come abbiamo dianzi osservato, l’interesse di Benussi doveva tuttavia soffermarsi soprattutto su quella forma di illusioni dei sensi che sono riconducibili sotto il titolo dell’ambiguità: qui la possibilità di variare l’assetto percettivo dell’immagine giocando sugli orientamenti dell’attenzione doveva mostrare in vitro la presenza della soggettività nella strutturazione asensoriale dell’immagine.

Il tentativo di ricondurre le illusioni ottiche alla dinamica delle proiezioni soggettive doveva presto lasciare il campo ad altre soluzioni; diverso doveva essere invece il destino della convinzione, che pure anima le pagine di Lipps e di Benussi, secondo la quale la scena percettiva è percorsa da una molteplicità di tendenze che determinano il senso di ciò che esperiamo. Di questa tesi la psicologia della forma doveva fare la sua bandiera, ed in questa luce le illusioni ottiche dovevano necessariamente apparire come una dimostrazione del fatto che la percezione è determinata da un insieme di regole che le permettono di andare al di là dell’informazione contenuta nello stimolo ma che, proprio per questo, possono talvolta indurci in errore. Il capitolo degli inganni percettivi doveva così offrire una ricca messe di materiale per mostrare da un lato l’insostenibilità della tesi secondo la quale la dimensione sensibile della percezione dipende esclusivamente dallo stimolo e per ribadire dall’altro che nella percezione sono all’opera regole di formazione e di unificazione.

Come reagire di fronte a tanto sapere speso su questo tema così capace di catturare la nostra curiosità? Credo si debba reagire così, proponendo innanz itutto una prima riflessione. Parliamo di illusioni e di inganni percettivi, ma non saremmo disposti a mettere sotto questo titolo ogni percezione ingannevole ma, per così dire, solo quelle che resistono alla nostra capacità di correggerle.

Che cosa intendo dire è presto detto: vi sono casi in cui la nostra percezione è, per così dire, messa in scacco, e questo perché ci pone di fronte a situazioni percettive che possono essere sanate nell’unità del loro riferimento oggettuale solo prescindendo da una qualche peculiarità della scena percettiva. Non è così che stanno le cose nel caso dei molti errori percettivi nei quali normalmente ci imbattiamo. Si narra che Zeusi avesse dipinto un grappolo d’uva tanto vero a vedersi da ingannare gli uccelli accorsi a beccarlo, ma che avesse dovuto poi cadere nell’inganno sottile di Parrasio che dipinge sulla tela un panno che invano Zeusi cerca di sollevare. Così sapevano un tempo ingannare e ingannarsi i pittori, e tuttavia se di questo vecchio aneddoto è opportuno qui ricordarsi è perché in questo caso lo sguardo che scopre l’inganno è insieme latore di una nuova decisione percettiva che illumina ciò che percettivamente si dà di una nuova istanza interpretativa. Lo sguardo che cede all’immagine e al gioco del trompe l’œil cerca di cogliere nell’immagine tutto ciò che la anima di una tridimensionalità che non le appartiene, ma non appena la mano svela l’inganno anche lo sguardo corre a cercare ciò che può redimerlo dall’errore: ora, riguardando quel disegno, lo sguardo cade su tutti i particolari che assecondano ciò che il tatto ci ha rivelato e di fatto l’inganno si dissipa e la vista nuovamente vede proprio ciò che la mano tocca.

Ma non sempre le cose stanno così; nel caso dell’esempio del bastone spezzato, non posso vedere diritto il bastone — non posso nemmeno dopo che l’ho toccato e che mi sono accertato del fatto che non vi è alcuna rottura. Meglio di così il remo non posso vederlo, anche se so che lo vedo male e che non è affatto vero che sia spezzato. Qualcosa di simile accade anche nel caso di molte illusioni ottiche. Posso sapere che le sbarrette della Müller-Lyer sono eguali e posso accertarmene in vario modo, ma non posso fare a meno di vedere l’una più lunga dell’altra. Le cose stanno così e non c’è null’altro da fare che accettare di credere che le cose siano diverse da come le vediamo. Di qui una constatazione che è necessario fare: la persistenza dell’illusione e insieme lo stupore che ci pervade di fronte alle illusioni e agli inganni insanabili della percezione ci costringono a riflettere sul fatto che una prospettiva meramente descrittiva è in ultima istanza insufficiente per venire a capo della percezione nel suo complesso.

Qui la nostra percezione del mondo mostra dall’interno i suoi limiti, additando il punto in cui il suo "sapere" non basta più. Vi è un punto in cui l’immagine percettiva del mondo si fa incoerente, ed è in questo punto che dobbiamo armarci di pazienza e comprendere che vi è una diversa nozione di percezione che fa tutt’uno con il sistema delle cause e che ci costringe a prendere atto che questo mondo è solo nostro. Il bastone resta inspiegabilmente piegato, e questa parola — inspiegabilmente — allude già al passo che abbiamo compiuto o che siamo invitati a compiere: ciò che non si può comprendere sul piano fenomenologico si pone come indice della dimensione fisica e psicologica della percezione e ci chiede di abbandonare il terreno della descrizione per riconoscere le ragioni della spiegazione.

Nelle nostre considerazioni sul pensiero di Locke avevamo avvertito il bisogno di sottolineare come la scoperta della dipendenza del nostro esperire dalla natura dei nostri organi di senso si legasse ad una divagazione di natura etica: nella constatazione della dipendenza dell’universo sensibile dalla natura dei nostri sensi risuona ancora percepibile l’eco della scoperta che questo non è il mondo, ma solo il nostro mondo, che così ci appare solo perché di fatto questa è la nostra contingente natura. Nell’affascinato stupore che destano in tutti noi i giochi illusionistici della percezione vorrei dunque invitarvi a scorgere una goccia di metafisica.

Il gambo del fiore immerso nell'acqua appare spezzato in questo quadro di Hannah Höch

   

Lezione quattordicesima

1. Prima di poter trarre le conseguenze delle nostre considerazioni dobbiamo cercare di dare una risposta all’ultima delle tesi che stanno sullo sfondo del rappresentazionalismo in Locke: la distinzione tra qualità primarie e secondarie. Richiamiamo brevemente il senso delle considerazioni di Locke: per un filosofo cresciuto nell’età della nuova scienza, colori, suoni e sapori non sono proprietà reali degli oggetti, ma dipendono dal modo in cui la nostra sensibilità reagisce alle cose stesse. I colori (i suoni, i sapori, ecc.) non sono nelle cose, ma nella soggettività che le percepisce: è dunque legittimo supporre che ciò che vale per alcune valga anche per tutte le nostre percezioni. Ora, ciò che è vero per il colore è ragionevole attenderselo per ogni altra qualità sensibile, indipendentemente dal fatto che sia o meno un’immagine fedele delle cose stesse: la natura meramente soggettiva delle qualità secondarie vale così come un invito a considerare ogni esperienza come un evento di natura soggettiva, come qualcosa che si dà nella mente del soggetto.

Ho già detto che, in generale, una simile conclusione non mi sembra plausibile: non mi sembra, in altri termini, legittimo sostenere che se una percezione si rivela illusoria, allora deve esistere qualcosa di diverso — un oggetto mentale — dentro di me. E ciò che vale sul terreno delle illusioni, dovrebbe evidentemente valere anche nel caso delle qualità secondarie che non possono quindi arrogarsi il diritto di costringerci a vestire di mentale ciò che percepiamo come obiettivamente presente.

Eppure, anche in questo caso è opportuna qualche cautela, perché non vorrei affatto sostenere che qualità secondarie ed illusioni percettive meritino davvero di essere poste su uno stesso piano. Così vorrei proporvi di riprendere le argomentazioni di Locke (o almeno: alcune delle argomentazioni di Locke) per cercare di vedere verso quale meta esse propriamente ci conducano.

Tra i suoi argomenti, Locke ci invitava a riflettere sulla natura soggettiva delle qualità secondarie proponendoci un esempio divenuto famoso:

Flame is denominated hot and light; snow, white and cold; and manna, white and sweet, from the ideas they produce in us. Which qualities are commonly thought to be the same in those bodies that those ideas are in us, the one the perfect resemblance of the other, as they are in a mirror, and it would by most men be judged very extravagant if one should say otherwise. And yet he that will consider that the same fire that, at one distance produces in us the sensation of warmth, does, at a nearer approach, produce in us the far different sensation of pain, ought to bethink himself what reason he has to say — that this idea of warmth, which was produced in him by the fire, is actually in the fire; and his idea of pain, which the same fire produced in him the same way, is not in the fire. Why are whiteness and coldness in snow, and pain not, when it produces the one and the other idea in us; and can do neither, but by the bulk, figure, number, and motion of its solid parts? (ivi, II, viii, 16).

Il senso di questo argomento è ben chiaro: se la percezione del calore del fuoco trapassa nella sensazione di dolore che avvertiamo solo perché ci facciamo più vicini alla fiamma è perché il calore e il dolore si assomigliano in questo — sono entrambe sensazioni soggettive che non ci parlano della natura dell’oggetto, ma della reazione del soggetto ad una certa datità obiettiva. E proprio come nessuno ritiene che il dolore ci parli della punta del coltello con cui ci siamo tagliati, così sarebbe opportuno non dire che il fuoco è caldo.

Come reagire a questo argomento? Osservando, io credo, che non è affatto vero che il calore del fuoco e la sensazione di dolore stiano in una relazione di continuità, anche se è banalmente vero che al crescere dell’uno possa insorgere l’altra e possa crescere sino a cancellare la mia capacità di rivolgermi ad altro che non sia il mio corpo. Ma le cose normalmente non stanno così: di solito avverto il calore del fuoco e il piacere che me ne deriva, e se mi dispongo alla giusta distanza dalla fiamma non è perché avverta dolore ma perché ho un’esperienza adeguata di quanto il fuoco in se stesso sia caldo. Non è in altri termini vero che normalmente io confonda la sensazione dolorosa della scottatura con la percezione del calore bruciante del fuoco, e prova ne è il fatto che io avverto che il fuoco brucia ed è caldissimo anche se, di norma, non mi scotto affatto. Del resto, lo stesso argomento potrebbe essere ritorto anche contro le proprietà primarie: avverto quanto asia acuminata la punta di un coltello soloi fino a quando la sensazione tattile della forma non viene tacitata dall'avvertimento dolore che la lama provoc in me: il dolore nasconde la sensazione della forma, ma questo naturalmente non vuol dire che una esperienza trapassi nell'altra.

Si potrebbe tuttavia osservare che l’argomento di Locke, al di là della sua forma, allude a un problema effettivo. Le qualità secondarie, si dice, sono paragonabili alle sensazioni di dolore e lo sono proprio perché leggono la natura degli oggetti da cui derivano alla luce della prospettiva della soggettività che le percepisce. E se formuliamo così il nostro problema, abbandonando la determinatezza dell’esempio per tradurlo in una forma più astratta, potremmo dire che tutte le qualità secondarie sono accomunate da un rimando alla soggettività esperiente. Questo rimando può avere forme diverse e diversi gradi: ciò che tuttavia Locke ritiene possibile cogliervi è un segno descrittivo della dipendenza delle qualità secondarie dall’esserci del soggetto percipiente e dal suo essere fatto così. Del resto, verso questa conclusione siamo spinti per Locke anche da un’analogia che rammenta quella dianzi proposta e che ci invita a considerare qualità come il dolce o l’amaro, il giallo o il rosso, il caldo o il freddo come se fossero riconducibili a proprietà come l’essere nutriente o l’essere velenoso — a proprietà che possono essere predicate solo se si definisce quali siano i soggetti esperienti che sono chiamati in causa e rispetto ai quali soltanto quella proprietà può dirsi esistente. Il rosso lo vediamo noi uomini ma non lo vedono i topi, proprio come determinati cibi che per noi sarebbero letali sono invece un accettabile nutrimento per un ratto: ciò che è velenoso è velenoso per noi e non lo è in se stesso, proprio come ciò che è rosso è rosso solo per chi lo percepisce così, poiché i colori non sono una determinazione assoluta delle cose ma il modo in cui a queste reagisce una determinata soggettività percipiente. E ciò è quanto dire che le proprietà secondarie sono qualità che esistono solo in relazione ad un io che le percepisce.

Ora, di fronte a queste considerazioni credo si debbano avanzare alcune perplessità che sorgono innanzitutto dalle frequenti oscillazioni che sono implicite nell’argomentare lockeano. Torniamo al dato su cui siamo invitati a riflettere: non tutti gli animali percepiscono i colori, che sono dunque un possibile segno per caratterizzare il nostro universo visivo. Di qui, tuttavia, non mi sembra lecito muovere a nessuna delle conseguenze che Locke intende trarne. Il fatto che gli uomini, ma non i topi, vedano il rosso non significa necessariamente che i colori siano il modo in cui gli uomini reagiscono psichicamente ad una qualche realtà: potrebbe semplicemente voler dire che vi sono proprietà obiettive che gli uomini, ma non i topi, colgono. Abbiamo già osservato che è questa la via che ci sembra giusto seguire. Quando parliamo del rosso o di qualsiasi altro colore non intendiamo parlare delle nostre sensazioni e non cerchiamo nemmeno di ancorare il significato delle nostre parole alle sensazioni che eventualmente si danno sul terreno della soggettività; il senso della nostra prassi è un altro: ci riferiamo senz’altro a proprietà che attribuiamo agli oggetti e lo facciamo avvalendoci di termini che traggono il loro significato dal rimando ad un insieme di esempi cui spetta una funzione paradigmatica. Il significato è la regola d’uso di un termine, e la regola d’uso ci riconduce ad un certo modo di usare un esemplificazione concreta, non ad una qualche sensazione privata. Di qui la conclusione che intendiamo trarre: per poter usare correttamente la parola "rosso" dobbiamo necessariamente saper distinguere il rosso dagli altri colori e questo naturalmente circoscrive lo spazio di chi può sensatamente avvalersi di quel termine. E tuttavia alludere all’insieme dei prerequisiti che sono chiamati in causa dalla grammatica dei nomi di colore non vuole affatto dire che nel significato dei nomi di colore sia implicito un riferimento a chi questi prerequisiti possiede. Non potremmo parlare del rosso se non fossimo capaci di distinguere questo colore dagli altri, ma il fatto che abbiamo un sistema percettivo che soddisfa questo prerequisito della grammatica dei colori non vuol dire che nel significato della parola vi sia un qualunque riferimento al nostro sistema percettivo. "Rosso" non significa "rosso per me", e nemmeno "rosso per noi", anche se l’utilizzo sensato di quel termine postula la mia e nostra capacità di discernere ciò che è rosso da ciò che non lo è. Ma se le cose stanno così, il rimando analogico a predicati come "velenoso" o a sensazioni come il dolore non può che risultare del tutto improprio. Dire di una cosa che è velenosa significa effettivamente descrivere solo il modo in cui reagiamo ad essa e lo stesso facciamo quando diciamo che il fuoco scotta: in tutti questi casi ci limitiamo ad asserire che, in virtù di una qualche sua proprietà che tuttavia non descriviamo, l’oggetto genera in noi una reazione peculiare — ed è solo quest’ultima che viene indicata. Così se qualcuno ci chiedesse che cosa significa dire che il fuoco scotta, potremmo indicare come si comporta chi ha messo una mano sul fuoco: insegnare a qualcuno ad usare quel termine vuol dire dunque muovere dall’oggetto verso il soggetto che lo esperisce. Diversamente stanno le cose quando a dover costituire materia d’apprendimento è la parola "rosso": in questo caso non vi è davvero bisogno di indicare il comportamento percettivo di nessuno, poiché basta additare un campione di quel colore, facendo affidamento sul fatto che chi l’osserva possa avvalersene secondo la regola d’uso che ci è nota.

Credo che queste considerazioni (che potete almeno in parte leggere in un bel libro di Hacker, intitolato Appearance and Reality) siano sufficienti a chiarire in che senso non ritengo valide le argomentazioni lockeane. E tuttavia prendere commiato da quelle posizioni teoriche vuol dire anche, io credo, mostrare in che senso non sia vero un corollario che può essere dedotto dalle tesi dianzi esposte: la tesi secondo la quale la natura delle qualità secondarie è tale da ricondurre interamente l’essere all’apparire, di modo che non è possibile distinguere tra manifestazioni apparenti e reali di una determinata proprietà. Se una cosa sembra rossa di fatto è anche rossa perché — così si argomenta — nel caso delle qualità secondarie l’essere fa tutt’uno con l’apparire e non può quindi darsi il caso che qualcosa appaia ma non sia così come appare. Certo, talvolta possiamo correggerci in una attribuzione cromatica, ma questo accade — si potrebbe argomentare — solo perché non ci troviamo d’accordo con il giudizio della maggioranza e quindi non perché l’esperienza ci costringa a revocare in dubbio la nostra percezione, ma perché non ci accordiamo sul nome che dobbiamo attribuirle. Per il primo uomo un’esperienza del colore che sia di fatto esposta alla dialettica dell’essere e dell’apparire non può esservi — almeno così deve ragionare chi ritiene che le qualità secondarie siano datità meramente soggettive.

Ma appunto: le cose stanno davvero così? Credo si debba dare una risposta negativa, e per due ragioni strettamente connesse.

In primo luogo non mi sembra vero che non abbia senso pensare ad un’esperienza che ci costringe a rivedere i nostri giudizi sul colore di ciò che ci sta di fronte. Posso ricredermi sul colore di una stoffa o di una parete, e posso essere invitato a farlo: ad una persona che creda di vedere rosso ciò che in realtà non lo è posso dire di guardare meglio e questo consiglio ha un senso proprio perché il colore non è una sensazione privata ma una proprietà obiettiva.

In secondo luogo, poi, riconoscere che possiamo non trovarci d’accordo con altri nell’attribuire ad un oggetto proprio questo colore non significa solamente sostenere che non abbiamo lo stesso standard di riferimento, ed una riprova ne è il fatto che quando ci accorgiamo che un nostro giudizio non collima con quello degli altri non per questo ci interroghiamo fin da principio sullo standard d’uso della parola, ma guardiamo meglio ciò che abbiamo di fronte a noi per vedere se non ci siamo sbagliati. Anche in questo caso, dunque, la percezione cerca sul suo terreno di sanare il dissidio che da essa stessa è sorto, e ciò è quanto dire che nel senso dei processi percettivi che hanno per loro oggetto il colore vi è sufficiente spazio per tracciare il discrimine che separa l’una dall’altra apparenza e realtà.

Le considerazioni che abbiamo sin qui proposto indicano con sufficiente chiarezza quale via dovremmo seguire per rispondere alla strana convinzione di Locke secondo la quale sarebbe legittimo sostenere che un fiore al buio non ha un colore, ma solo la possibilità di suscitarlo in un soggetto percipiente normale quando si diano migliori condizioni di illuminazione.

Ora, non vi è dubbio che quest’affermazione si fondi ancora una volta sulla convinzione che vi sia un’effettiva identità tra colore e sensazione cromatica ed è per questo che potremmo semplicemente liberarcene sottolineando ancora una volta che i nomi di colori non stanno per sensazioni e che una simile ipotesi si scontra da un lato con il senso che attribuiamo al nostro discorrere di oggetti della percezione, dall’altro con la stessa dinamica dell’apprendimento di termini come "rosso", "caldo", "pesante", e così di seguito.

Ora, questo argomento così lontano dal senso comune ci invita ad una riflessione ulteriore che ci porta al cuore della asimmetria che per Locke caratterizza le qualità secondarie. Lo avevamo osservato: per Locke le qualità secondarie sono innanzitutto poteri; ne segue che affermare di una cosa che è rossa significa soltanto asserire che è tale da sembrare rossa a qualcuno che le guardi in circostanze normali. Di qui un’ulteriore conclusione che Locke ci invita a trarre con estrema chiarezza: quando parliamo del potere, insito in una cosa, di apparire così a chi la guardi, dobbiamo riconoscere che ne parliamo sul fondamento di ciò che percettivamente ci appare, poiché solo dall’effetto possiamo in questo caso cogliere quale sia la natura della causa. E tuttavia, anche se dipende nella sua intelligibilità dalla sensazione che suscita in noi, ogni potere ha come suo fondamento una determinazione assoluta, ed il cuore dell’argomentazione lockeana sulle qualità primarie e secondarie consiste propriamente nel sostenere che vi sono idee il cui contenuto sembra legittimare la proiezione dall’apparire all’essere, altre invece — ed è il caso delle idee delle qualità secondarie — in cui un simile nesso non è legittimo. Ma appunto, se la proiezione che ci spinge a sostenere di un determinato oggetto che è rosso è erronea ciò accade perché essa poggia su un unico criterio: diciamo di questo frutto che è rosso solo perché ci sembra rosso, e il suo sembrarci così è l’unica ragione che possiamo addurre per dire che quel frutto è appunto di quel colore. Nel caso delle qualità primarie le cose stanno diversamente: se traccio due segmenti su un foglio e dico che l’uno è più grande dell’altro non dico qualcosa che abbia come suo unico criterio fondante il fatto che così percettivamente ci sembra, poiché è in linea di principio possibile prendere un segmento e riportarlo sull’altro, misurandoli. Per dirla con un altro esempio: per decidere se una ruota è rotonda posso farla rotolare su un piano e stare attento ad eventuali sobbalzi, ma se debbo decidere se è blu non posso fare altro che aprire gli occhi e guardare.

Credo che anche in questo caso considerazioni vere e false si stringano in unico nodo. Ma le considerazioni false decidono la sostanza del problema, e concernono la legittimità della tesi secondo la quale le nostre esperienze percettive sarebbero di fatto il criterio sul cui fondamento sosteniamo che qualcosa è, per esempio, rosso. Non credo che questa sia una descrizione accettabile, e non lo credo perché parlare di un criterio è legittimo solo se ha senso parlare di un’inferenza più o meno fondata, e non mi sembra che possa essere questo il caso del nostro percepire qualcosa di rosso. Un’inferenza implica un terreno di certezze: posso inferire dal fumo che vi è del fuoco, ma appunto del fumo debbo essere immediatamente certo senza doverlo a sua volta inferire. Da qualche parte si deve pur cominciare, ed il carattere della nostra esperienza percettiva è di norma coerente con l’esigenza di costituire un terreno che consenta di sostenere, là ove è necessaria, la prassi delle inferenze. E tuttavia questa prassi non può essere generalizzata e non è difficile scorgere che vi è una differenza descrittiva tra i casi in cui applichiamo un criterio che ci consente di muovere dal nostro percepire un certo insieme di caratteristiche sensibili a qualcosa di diverso da esse e il caso in cui riteniamo di poter muovere dall’apparire così all’essere così. Guardando una persona posso dire che sembra stanca ed in questo caso inferisco la sua stanchezza da molti e diversi tratti del suo viso e del suo comportamento, e per ciascuno di essi avrebbe senso parlarne come di un criterio della stanchezza, poiché di fatto avremmo a che fare con un insieme di caratteristiche percepibili (e percepite) che tuttavia non coincidono con la stanchezza e che sono date senza che si avverta il bisogno di fare affidamento su un criterio qualsiasi. Ma questa situazione descrittiva è di fatto interamente diversa da quella che abbiamo indicato — qui ci si chiede infatti di sostenere che l’apparirmi rosso di qualcosa non sia il criterio per inferire qualcosa di diverso dal colore, ma sia il fondamento su cui far poggiare il mio giudizio che quella cosa è di quel colore. Di qui la conclusione che ci sembra opportuno trarre: l'apparirmi rosso di un cesto di fragole non è una ragione per sostenere che le fragole siano rosse e non ha quindi senso cercare di indebolirla sostenendo che si tratta di un criterio che poggia interamente sulla determinatezza fattuale del nostro sentire. Se vedo rosse le fragole non ho né una buona né una cattiva ragione per inferire che le fragole siano di quel colore: ciò che percettivamente si mostra non è un criterio che mi permetta di giudicare, ma è la forma sensibile entro la quale soltanto si costituisce il riferimento su cui verte ogni mio successivo domandare se le fragole, e cioè questo frutto rosso e profumato, sono davvero rosse e profumate. Prima di potersi porre come un (debole) criterio per affermare l'esser così di qualcosa, la percezione è il luogo in cui quel qualcosa si definisce come un riconoscibile oggetto.

 

2. Sulle ragioni che ci spingono a non considerare vincolanti gli argomenti che Locke ci propone per difendere la sua dottrina delle qualità secondarie sarebbe forse opportuno soffermarsi ancora a lungo — ma non ne abbiamo il tempo, e dobbiamo dunque accontentarci delle poche cose che abbiamo detto. E tuttavia vi è almeno un punto su cui dobbiamo ancora riflettere e che forse è all’origine di molte delle perplessità che sorgono non appena cerchiamo di lasciare da parte questa vecchia distinzione metafisica: non vi è dubbio infatti che una simile distinzione sia stata tracciata in seno alla scienza e che di questa frattura tra qualità obiettive e soggettive la riflessione scientifica abbia offerto più di una conferma. Si possono avanzare molti dubbi sulla distinzione galileiana tra qualità primarie e secondarie, ma un fatto è relativamente certo: che le scienze hanno cancellato suoni, odori e colori dall’universo fisico e reale e si sono sforzate di parlare esclusivamente il linguaggio delle qualità primarie. I colori non vi sono: vi sono invece onde elettromagnetiche che hanno una determinata frequenza; il caldo e il freddo non ci sono: vi è invece il movimento delle particelle della materia; i sapori non vi sono: vi sono invece determinate proprietà chimiche che agiscono sui nostri organi del gusto, e così di seguito. Perché non rassegnarsi allora al progresso scientifico e perché non riconoscere a quella distinzione una sua legittimità?

Di fronte ad un simile modo di argomentare si potrebbe forse osservare che qualcosa nella descrizione che abbiamo appena proposto è meno nitido di quanto non sembri. In primo luogo dobbiamo avanzare un’obiezione di principio. Quando parliamo di colori e di suoni e quando diciamo della neve che è fredda è soffice ci muoviamo sul terreno della nostra esperienza percettiva e così facendo non intendiamo affatto prendere una qualsiasi posizione sul terreno della fisica. Dire che le fragole sono rosse e la neve è bianca non significa asserire nulla sulla realtà che la fisica vuole indagare, proprio come non vuol dire essere fautori di una teoria geocentrica sostenere che il Sole sorge e tramonta. Anzi, per essere almeno un poco più precisi, del Sole con la lettera maiuscola — della stella intorno a cui ruotano i nostri nove pianeti — non è affatto lecito parlare, almeno sino a quando ci si muove sul terreno del mondo della vita: su questo piano non si parla ancora dei corpi dell’astronomia, e questo semplicemente perché su questo piano non vi è ancora la Terra, ma solo il terreno su cui poggiamo i piedi. Alla stessa stregua, quando diciamo che la neve è fredda e bianca non intendiamo affatto dire qualcosa che vada contro la termodinamica o che neghi la teoria fisica dei colori: vogliamo soltanto dire che così è fatta la neve, e cioè questa cosa che vedo e tocco. Certo, le scienze ci mostreranno che le cose non stanno così, ma come ho provato a sostenere questo non è un buon argomento per dire che sia illegittimo parlare di questo nostro mondo di qualità secondarie, né tanto meno per ricondurre gli oggetti delle nostre esperienze percettive nell’universo chiuso della nostra mente.

Ma vi è anche una seconda considerazione che è forse opportuno proporre. Le scienze matematiche hanno abbandonato le qualità secondarie, ma questo non significa ancora che abbiano davvero sposato le qualità primarie, perché è davvero molto dubbio che lo spazio e i corpi di cui ci parla la fisica possano essere semplicemente ricondotti ai concetti di spazio, di tempo e di materia che la percezione sensibile ci porge. Si potrebbe forse dire di più e osservare che le cosiddette qualità primarie circoscrivono un’idea di corpo che non è poi così priva di contorni antropocentrici, e vi è chi ha osservato che la cosa costruita sulle qualità primarie più che un’entità astrattamente conoscibile è un corpo concretamente manipolabile, quasi che l’idea di spiegazione scientifica che la sorregge sia stata ritagliata sulla base di un modello che l’uomo facilmente comprende, poiché l’agire causale viene ricondotto alla dinamica concreta di un meccanismo, in cui le parti si correlano le une alle altre proprio come le nostre membra fanno forza sugli oggetti su cui esercitiamo la nostra prassi. Lungi dall’essere un’immagine priva di riferimenti al nostro apparato percipiente, l’immagine della cosa disegnata sulla falsariga delle qualità primarie è il soggetto ideale di una spiegazione che non vuole allontanarsi da modelli fortemente intuitivi.

Credo che in queste considerazioni vi sia qualcosa di vero, e tuttavia sarebbe un errore ritenere che di questa distinzione non si debba in alcun modo tenere conto o che essa sia priva di un qualche legame con la dimensione propriamente percettiva. Non vi è dubbio che quando la fisica seicentesca ha sentito il bisogno di distinguere le qualità primarie dalle qualità secondarie si è innanzitutto lasciata guidare da una constatazione importante: lo spazio, il tempo e il movimento possono essere descritti matematicamente ed è in questo caso possibile una matematizzazione diretta di queste grandezze.

Potremmo forse esprimerci così: le qualità primarie sono predestinate al numero. E tuttavia, questa vocazione matematica delle qualità primarie non ci riconduce soltanto ad un fatto che diviene possibile sul terreno della prassi scientifica, ma allude anche ad una dimensione che si manifesta sul terreno dell’esperienza. In questo fatto ci siamo già imbattuti: il colore è oggetto soltanto della vista, mentre posso vedere, toccare e forse anche udire la spazialità — su questo ci siamo a lungo soffermati. Ma sottolineare la molteplice accessibilità dello spazio vuol dire anche sottolineare che già sul terreno dell’esperienza esso si pone come una proprietà che di per sé tende a farsi astratta e a liberarsi dal come della sua manifestazione sensibile determinata. Lo spazio colorato, ombreggiato e prospettico della visione "rinuncia" a queste sue forme intuitive quando la mano sfiora i contorni delle cose e ritrova lo stesso spazio che lo sguardo aveva percorso — lo ritrova, a patto di scindere la dimensione meramente tattile di ciò che gli si mostra dalla sua ossatura formale. Lo spazio può essere colto da più fonti sensibili solo perché nella percezione della res extensa vi è qualcosa che accomuna tatto e vista e che permane come identico polo del riferimento percettivo nel progressivo venir meno delle componenti idosincratiche della percezione. Qui le osservazioni di Locke ci costringono a riflettere su un problema autentico: quando Locke osserva che un cieco non può imparare ad usare la parola "rosso" mette l’indice sulla natura concreta del colore, sul suo essere di fatto inseparabile dal come della sua manifestazione visiva. Ma se un cieco non può imparare ad usare correttamente i nomi dei colori, può invece usare senza errori tutto il vocabolario dello spazio percepito: può parlare di grandezze e di distanze, di alto e di basso, e può distinguere i luoghi grazie alla logica dei deittici. Può naturalmente imparare anche la grammatica del prospettivismo, ma deve in questo caso disporsi sul terreno di considerazioni geometriche relativamente complesse — quelle considerazioni che ci mostrano la dimensione obiettiva che sorregge l’eco soggettiva della dinamica dei punti di vista.

Sullo sfondo di queste considerazioni si pone un problema cui abbiamo più volte alluso — il problema della geometria. La geometria nasce quando la forma intuitiva cede il terreno alla descrizione logica della forma: se Euclide è davvero il padre della geometria non lo è in virtù dei teoremi che portano il suo nome, ma perché per primo ha sentito il bisogno di dire che cos’è una retta e che cos’è un angolo — di dire una volta per tutte che cosa sono queste cose che sembrano così chiare perché in qualche misura le vediamo. E tuttavia anche se la geometria nasce quando la forma si dispiega in una qualche definizione, ciò non significa che non abbia un senso ricordarsi del fatto che la retta di parole che Euclide ci porge ha prima di sé un cammino che si snoda sul terreno dell’esperienza percettiva. Verso quella meta si indirizza già l’esperienza dello spazio che è, proprio come diceva Platone, un concetto bastardo, in cui la percezione si tende verso la dimensione concettuale.

Nel suo porsi come l’identico che permane al di là delle molteplici forme del suo manifestarsi lo spazio guadagna una sua più valida aspirazione all’obiettività, ed in questo caso le considerazioni lockeane sulla dimensione antropologica delle qualità secondarie possono essere recuperate. Le forme spaziali si mostrano come un identico che permane al di là dell'unicità della fonte sensibile che le rende accessibili, ed è in generale vero che dello spazio possiamo parlare "dimenticandoci" del nostro umano sentire così. Non così per i colori: qui vi è davvero qualcosa che li ancora alla nostra esperienza: è dal punto prospettico che ci è stato assegnato che il mondo ci appare nella varietà dei suoi colori.

Del resto, nelle nostre considerazioni sulle argomentazioni lockeane abbiamo spesso avvertito il bisogno di riconoscere che una conclusione che ci era parsa illegittima si legava ad osservazioni su cui vale davvero al pena di soffermarsi. In particolar modo, discorrendo delle qualità secondarie ci eravamo imbattuti in una considerazione interessante: avevamo osservato come non vi fosse altro criterio per decidere se un oggetto ha davvero il colore che ha se non quello di guardarlo, laddove della rotondità di una ruota ci si può convincere anche lasciandola rotolare ed osservando come si comporta. Sulle conclusioni che di qui si volevano trarre avevamo avanzato alcune obiezioni, ma il fatto evidentemente resta: le qualità secondarie non sono causalmente efficienti, laddove le qualità primarie partecipano evidentemente ad una molteplicità di nessi causali. La ruota procede regolarmente perché la sua forma è quella di una circonferenza più o meno esatta, e noi compendiamo con chiarezza la ragione di questo nesso. Non vi è invece alcuna traiettoria che possa dipendere dal colore della ruota che, se non è quello del materiale di cui è fatta, è stato sxcelto per ragioni puramente estetiche.

Certo, è stato osservato che un oggetto nero si scalda al sole e che le pareti bianche tengono fresche le nostre case, ma anche se questo è vero non vi è dubbio che la ragione del nesso ci sfugge e che di un nesso causale non è in questo caso lecito parlare né sul terreno dell'esperienza percettiva, né sul terreno del sapere scientifico. Sul terreno percettivo vi è soltanto una concomitanza che non si dispiega in un nesso evidente, e sul terreno scientifico il colore scompare per far posto a considerazioni che concernono esclusivamente l'assorbimento dei raggi luminosi. E ciò è forse sufficiente per cogliere un margine di verità nella tesi secondo la quale i colori e le altre qualità secondarie non hanno un posto nel sistema delle interazioni causali del mondo — un fatto questo che sembra in effetti testimoniare a favore della loro natura soggettiva.

Così, di fronte a tutte queste considerazioni, è forse opportuno porsi una nuova domanda: vorrei, in altri termini, domandarmi se tra queste qualità non vi sia, già sul terreno fenomenologico, una qualche differenza che renda conto del loro diverso destino. È per questo motivo che alle considerazioni critiche sulla teoria lockeana della percezione vorrei far seguire una rapida discussione delle pagine che Husserl dedica alla costituzione della cosa materiale e quindi anche alla distinzione tra qualità primarie e secondarie.

Si tratta di una discussione complessa che si situa all'interno di un progetto filosofico molto ricco ed impegnativo: Husserl affronta il problema della genesi del concetto di cosa materiale nel (progettato, ma mai definitivamente concluso) secondo volume delle Idee per una fenomenologia pura ed una filosofia fenomenologica, — in un testo, quindi, in cui le preoccupazioni analitiche e descrittive sui stringono già con i progetti filosoficamente pèiùambiziosi della fenomenologia. Ora, di questi progetti che confluiscono nel disegno di una critica fenomenologica della ragione così come del significato complessivo che il metodo fenomenologico proprio in quegli anni assume per il suo fondatore non avremo in queste lezioni l'opportunità di parlare. E non a caso: anche se è necessario essere consapevoli che la fenomenologia per Husserl era questione ben più impegnativa, vorrei avvalermi del metodo fenomenologico come di un metodo degli esempi che ci aiuti a chiarire che cosa propriamente intendiamo quando parliamo degli oggetti della nostra esperienza. Così, addenrtrarci nelle pagine husserliane non vorrà dire ora far luce sul significato complessivo della sua fenomenologia, ma solo riproporre un insieme dui analisi che ci consenta dio dare una formulazione nuova ai problemi che abbiamo sin qui discusso.  

Lezione quindicesima

1. Come abbiamo osservato nella lezione precedente, queste ultime lezioni avranno per tema le pagine in cui Husserl si sofferma sulla distinzione tra qualità primarie e secondarie, all'interno di una discussione più ampia sul concetto di cosa materiale.

Ora, parlare di costituzione della cosa materiale vuol dire innanzitutto sottolineare il carattere genetico delle analisi che si intendono proporre. Il progetto husserliano è, sotto questo riguardo, chiaro: parliamo, per esempio, di costituzione della cosa materiale per sottolineare che il nostro percepire un oggetto materiale in quanto tale rimanda ad un processo relativamente complesso, che può essere analizzato e scandito evidenziando una serie di differenti livelli di senso. Certo, parlare di costituzione significa parlare di genesi, e tuttavia ciò non significa affatto che le analisi fenomenologiche possano dirci come di fatto si siano formate nella nostra mente le attese percettive che ci guidano per esempio nella percezione di un sasso, determinando implicitamente il posto che esso occupa all’interno di una più generale ontologia dei fenomeni. La costituzione fenomenologica non è un capitolo di una nuova psicologia filosofica che possa parlarci del come della nostra esperienza senza per questo assumersi l’onere dell’indagine sperimentale; l’obiettivo delle indagini fenomenologiche è un altro: le analisi costitutive debbono assumere la forma di una genesi solo per mostrare quali siano le stratificazioni di senso che sono implicite negli oggetti di cui ci parla. Potremmo forse esprimerci così: noi parliamo di cose materiali, ma l’applicabilità di questo concetto rimanda ad un intreccio di esperienze che aggiungono senso a senso, secondo una regola di composizione che potremmo scorgere se, procedendo a ritroso, impoverissimo l’esperienza che abbiamo delle cose sino al punto di renderle non più adatte a fungere da modello di una cosa materiale. Questo stesso cammino si può tuttavia percorrerlo procedendo nella direzione opposta, seguendo la via di una genesi immaginaria, in cui le esperienze più semplici precedono quelle più complesse, secondo una regola che è dettata solo dallo spessore dell’oggetto di cui si deve rendere conto. Ma ciò è quanto dire che la genesi che Husserl ci propone è una genesi ideale, non una genesi reale: essa concerne il senso dell’oggetto costituito, colto nello spessore delle sue stratificazioni di senso, non la storia reale del suo effettivo porsi come un prodotto della soggettività psicologica.

Credo che queste considerazioni possano aiutarci a non cadere in un equivoco che deve essere sin da principio messo da parte: Husserl parla di costituzione fenomenologica e ci invita insieme a condividere una prospettiva trascendentale, e per quanti significati possano annidarsi nello spessore storico di questo termine una conclusione è comunque legittima: una prospettiva filosofica può dirsi trascendentale se riconduce l’essere all’esperienza che ne abbiamo, qualunque significato poi si attribuisca al come di questa riconduzione. Parlandoci della nostra esperienza delle cose materiale Husserl intende dunque tracciare anche un capitolo di ontologia: l’esperienza della cosa materiale ci mostra quale sia la natura di quella peculiare regione ontologica cui ci riferiamo quando parliamo di oggetti inanimati. E tuttavia accettare la risonanza ontologica e trascendentale del discorso di Husserl non significa ancora assumere una prospettiva propriamente idealistica: anche se Husserl parla di costituzione della natura materiale e ci invita per questo a disporci sul terreno dell’analisi e della descrizione della nostra esperienza percettiva, non intende per questo sostenere che la natura e, in generale, i differenti oggetti della nostra esperienza siano il frutto di una creazione soggettiva, di un fare dell’io che crea i propri oggetti a partire da ciò che si dà sul terreno della coscienza. La prospettiva husserliana è diversa: Husserl ritiene che l’indagine costitutiva abbia una funzione metodica e che sia innanzitutto finalizzata a svelare quale sia il significato che assumono per noi gli oggetti esperiti. Tracciare la genesi fenomenologica della regione "natura" non significa allora indicare quale sia il processo reale da cui la natura sorge: vuol dire invece descrivere la genesi ideale del significato che nella nostra esperienza la natura come regno delle mere entità materiali assume.

Queste premesse sono necessarie, io credo, per addentrarsi nelle prime (ed oscure) pagine del secondo volume di Idee che Husserl scrive nel 1912, pensando di pubblicarlo poco dopo ma che, come tante altre opere fenomenologiche, diverrà tema di continue revisioni, che occuperanno prima Husserl, ma poi anche Edith Stein e Landgrebe, cui in tempi diversi sarà affidato il compito di una pubblicazione che tuttavia non avverrà se non dopo la morte di Husserl.

L’incipit di queste pagine tradisce bene quale sia l’obiettivo che le anima: se la fenomenologia vuole davvero essere una critica della ragione e della conoscenza, deve cercare di rendere conto della struttura e dell’articolazione del sapere scientifico, e nei primi decenni del secolo scorso ciò significa innanzitutto interrogarsi sulle ragioni che rendono conto della distinzione tra le scienze della natura e le scienze dello spirito. Ora questa distinzione deve essere giustificata, e tuttavia ciò che caratterizza l’approccio husserliano al problema consiste nella convinzione secondo la quale alla distinzione metodologica tra scienze della natura e scienze dello spirito deve essere anteposta una differenziazione che concerna la natura degli oggetti così come sono da noi esperiti. In altri termini: la riflessione metodologica deve essere innanzitutto ancorata ad un’indagine ontologica, e questo termine così carico di risonanze filosofiche deve essere inteso in un’accezione di senso peculiare, poiché quando Husserl ci parla di ontologia e di ontologie regionali intende soltanto mettere in luce quali siano le caratteristiche invarianti che appartengono alle diverse tipologie di oggetti di cui abbiamo esperienza. L’ontologia fenomenologica è, in altri termini, il risultato di un’analisi descrittiva, volta a mettere in luce la grammatica dei concetti di cosa materiale, di corpo proprio, di persona. E per intendere la grammatica di questi concetti altra via non vi è, per Husserl, che immergersi nel terreno delle indagini costitutive: il compito della chiarificazione concettuale deve prendere le forme di un’indagine volta a mostrare l’intreccio delle esperienze attraverso le quali sorgono per noi le diverse regioni (la regione materiale, animale, spirituale) in cui si articola l’ontologia fenomenologica — l’ontologia delle cose così come si manifestano nella nostra esperienza.

Come abbiamo più volte osservato, il nostro compito consiste nel cercare di rendere conto della grammatica del concetto di cosa materiale ed il primo passo in questa direzione che Husserl ci invita a compiere consiste nel prendere le mosse dal concetto che raccoglie sotto un unico denominatore le scienze chimiche e fisiche: il concetto di natura. Ora, cercare di precisare l’area semantica di questo concetto significa innanzitutto osservare che la natura in quanto tale è, come dice Husserl, l’universo spazio temporale che, come tale, abbraccia la totalità delle realtà trascendenti. Tutte le cose sono appunto cose nella natura, e ad essa appartengono in virtù della loro determinatezza spaziale e temporale: se la natura ha una sua unità essa deve dunque dipendere innanzitutto da questa duplice caratteristica dei suoi oggetti.

La natura è l’universo di tutto ciò che è spaziale e temporale — questa è la prima definizione che ci viene proposta, ma piuttosto che cercare di fissarne con esattezza il significato vorrei cercare di sottolineare qual è la prima conclusione che di qui possiamo trarre. Del resto, il senso di una definizione si comprende quando diviene chiara quale sia la linea di confine che essa ci aiuta a tracciare, ed è evidente che il rimando alla determinatezza spaziale e temporale esclude alcuni oggetti dall’ambito di ciò che appartiene alla natura: i numeri, per esempio, sono in un qualche senso del termine oggetti ma non sono nello spazio e nel tempo, e lo stesso dicasi per i teoremi geometrici ed in generali per quegli "oggetti" che hanno natura ideale. Per questi oggetti dire "dove" e "quando" significa dire cose insensate: "7+5" no è eguale a 12 qui ed ora, ma in qualsiasi luogo. O più propriamente: il senso di quest'operazione non è ulteriormente determinabile sul terreno dei predicati spaziali e temporali.

E tuttavia questa prima delimitazione del terreno non basta, e Husserl ci invita a segnare un ulteriore confine: per delimitare l’area semantica del concetto di natura

il concetto di oggettività spazio temporale non basta […]. Anzi risulterà anche che non tutti i predicati che in verità vanno attribuiti alle realtà spazio temporali, e che noi infatti attribuiamo loro, ineriscono all’essenza di quell’oggetto naturale che è il correlato dell’idea della scienza naturale (Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, a cura di E. Filippini, Einaudi Torino 1974, vol. II, p. 401 (eventuali cambiamenti nella traduzione non verranno in seguito segnalati)).

L’oggetto delle scienze naturali è una realtà spazio temporale, ma non tutto ciò che siamo soliti attribuire alle realtà spazio-temporali può davvero essere messo nel computo delle cose della natura: vi sono, in altri termini, predicati che attribuiamo alle cose che sono nel tempo, ma che non appartengono per ciò stesso alla natura. Gli esempi sono a portata di mano:

sotto questo profilo è fin da principio evidente che tutti i predicati che noi attribuiamo alle cose sotto il titolo di accettabilità, bellezza, utilità, adeguatezza pratica, perfezione rimangono del tutto fuori considerazione (valori, beni, oggetti diretti a un fine, utensili, buono per qualcosa, ecc.). Questi predicati non riguardano lo studioso della natura, non fanno parte della natura nel senso che il naturalista le attribuisce (ivi, p. 402).

Che le cose stiano così è relativamente ovvio: il fisico può indagare la traiettoria di un corpo lanciato in aria, ma la indaga disinteressandosi della funzione che a quel corpo spetta — che si tratti di un satellite, di un obice o di un pallone da calcio nulla cambia da un punto di vista strettamente naturalistico. Ma appunto: qual è il fondamento di questa astrazione metodica? E più propriamente: nel tracciare questo discrimine lo scienziato si lascia guidare una decisione arbitraria che è esclusivamente fondata nei suoi interessi metodici o segue una regola necessaria che ripete sul terreno teoretico ciò che comunque si manifesta anche sul piano dell’esperienza? Anche su questo punto Husserl non intende abbandonare il dettato dell’obiettivismo fenomenologico:

Ora, questa scienza [la scienza naturale] non è affatto propensa a limitarsi arbitrariamente nella scelta dei suoi oggetti oppure dei predicati che si riferiscono ai suoi oggetti. Piuttosto alla base di essa sta, anche se indefinita, un’idea essenziale della natura. Correlativamente: la coscienza che funge come esperienza scientifico naturale, e quindi anche come pensiero interno all’esperienza scientifico naturale, ha una sua essenziale unità fenomenologica, ed è proprio questa coscienza che ha come suo correlato essenziale la natura; una "appercezione" dominante determina dunque preliminarmente che cos’è oggetto delle scienze naturali e che cosa non lo è (ivi, p. 401).

Di qui il problema che Husserl ci invita a porci: se l’idea di natura è un’idea tutt’altro che arbitraria e se da un lato implica una procedura astrattiva e, dall’altro, non può essere delimitata semplicemente indicando quali oggetti le appartengano e quali no, allora si deve far luce sull’impostazione fenomenologica che sorregge quell’atteggiamento intenzionale che negli oggetti spazio-temporali coglie soltanto ciò che è natura, tralasciando i predicati valutativi, emotivi e pratici. Delineare l’idea di natura vorrà dire allora chiedersi che cosa dia una sua interna unità a quella forma dell’esperire che ci rende sordi a tutti i predicati obiettivi che trascendano la sfera della mera natura.

Rispondere a questa domanda significa rivolgere l’attenzione ad un particolare atteggiamento fenomenologico che Husserl propone di chiamare atteggiamento teoretico. Che cosa Husserl intenda è presto detto: parliamo di atti teoretici in senso stretto per indicare quegli atti in cui non soltanto si avverte ma si constata la presenza di un certo oggetto. Ora, constatare è qualcosa di più che percepire, poiché implica il farsi avanti di un interesse effettivo per l’oggetto esperito. Se entro in un’aula vuota vedo molte cose, ma non è affatto detto che constati qualcosa: lo sguardo può correre sui tavoli e sulle sedie, sulle pareti e sulle finestre senza per questo renderli tema di un’osservazione particolare. Ma perché si dia lo spazio per una constatazione basta poco: ora rientro nell’aula per vedere se è qui che ho dimenticato l’ombrello e di fatto lo vedo appoggiato alla sedia. In questo caso il vedere è mutato di segno, anche se questo naturalmente non significa che ora percepisca un’immagine più nitida o che avverta chissà quale vissuto peculiare: ciò che è mutato non è la qualità sensibile dell’atto, ma nemmeno il suo accompagnarsi ad una qualche altra sensazione che potrebbe comunque aver luogo — per esempio: vedo l’ombrello e mi sento "sollevato" per non averlo di nuovo smarrito. Ciò che di significativo muta non riguarda la dimensione introspettiva del vissuto, ma solo il posto che esso occupa nel contesto della mia esperienza: non appena lo sguardo si fa espressione di un interesse percettivo che lo guida esplicitamente verso una meta, l’esperienza perde il suo carattere di sfondo e guadagna un esplicito riferimento oggettuale. Solo allora ha luogo un constatare: solo quando qualcosa diviene tema di un interesse percettivo che ad esso si rivolge, rendendolo a pieno titolo oggetto della mia esperienza. Ecco, ora apro la borsa e constato che non mi sono dimenticato di quel foglio importante, e se posso esprimermi così non è perché abbia fatto qualcosa di più che vedere se nella borsa il foglio effettivamente vi era, ma solo perché lo sguardo era in questo caso animato da un interesse effettivo e rispondeva ad una domanda particolare che poteva trovare solo nella percezione di quel foglio una risposta.

È per fissare questa differenza che Husserl ci propone di parlare di atti di natura teoretica, osservando come tali atti siano le forme intenzionali in cui effettivamente il soggetto afferra e coglie un oggetto:

In questi atti non soltanto vi è in generale un oggetto per l’io, ma l’io in quanto tale vi si dirige nella forma della constatazione (del pensare, del porre attivamente) e quindi anche dell’apprensione; in quanto "teoretico" l’io è dunque obiettivante in senso attuale (ivi, 403).

Non vi è dubbio che proprio questa sia la caratteristica degli atti teoretici che attira l’attenzione di Husserl: negli atti teoretici l’oggetto è propriamente posto dall’io che lo coglie nella sua datità come tema del proprio interesse, — di un interesse che è intento a cogliere le caratteristiche obiettive della realtà che si vuole conoscere. Se dunque la natura consta di oggetti, gli atti teoretici dovranno insegnarci qualcosa intorno ad essa.

Ora, tracciare una simile distinzione in seno agli atteggiamenti intenzionali non è ancora sufficiente per venire a capo del problema che ci sta a cuore. E la ragione ci è ormai nota: parlare di oggetti, sia pure spazio temporali, non significa ancora disporsi nell’orizzonte della natura poiché — come abbiamo già osservato — vi sono oggetti che da un lato hanno predicati che non appartengono alla dimensione che siamo soliti definire naturalistica ma che, dall’altro, possono egualmente divenire tema di un interesse teoretico. Su questo punto Husserl ci invita ad assumere una posizione molto netta che è fortemente coerente con l’obiettivismo fenomenologico che gli è proprio: quando troviamo bello un libro e buona un’azione non proiettiamo sugli oggetti alcuni predicati relazionali che in realtà descrivono l’eco soggettiva che la percezione delle cose ridesta in noi, ma ci disponiamo propriamente sul terreno obiettivo e costituiamo una oggettività nuova che può essere colta in un atto teoretico ad essa rivolto. Trovare bello un libro non significa dire che vi è un testo che suscita in chi lo legge un certo piacere: significa invece, per Husserl, che nel piacere si avverte una proprietà del libro che può divenire poi tema di un atto ad essa diretto — l’atto che si orienta verso l’essere bello di quel libro. Husserl si esprime così:

la bellezza la colgo intuitivamente nell’oggetto, anche se ciò non accade certo in una percezione sensibile semplice come nel caso del colore o della forma; e tuttavia, la bellezza la trovo proprio nell’oggetto. Il bello non è affatto un predicato di relazione, come accade invece quando di un oggetto dico che mi piace. Il "piacevole", il "lieto", il "triste" e tutti gli altri predicati dell’oggetto di eguale livello nel loro senso obiettivo non sono predicati di relazione che si riferiscano agli atti. […]. Io provo ancora piacere, sento ancora gioia o tristezza ecc., ma invece di essere semplicemente allegro o triste, invece di compiere questi atti emotivi, li traduco, in virtù di una modificazione dell’atteggiamento, in un diverso modo intenzionale: sono ancora vissuti, ma non vivo più propriamente in essi. Io rivolgo lo sguardo verso l’oggetto e — disposto nel mio atteggiamento modificato che si è fatto teoretico — trovo nell’oggetto stesso il correlato di quell’atto emotivo, trovo uno strato obiettivo, sovrapposto allo strato dei predicati sensibili: lo strato del "lieto", dell’oggettivo e obiettivamente "triste", del "bello" e del "brutto", ecc. (ivi, 413-414).

Il senso di queste considerazioni è chiaro: Husserl ci invita a sostenere che è possibile un rivolgimento dell’interesse tale da consentirci di avere esperienza non soltanto di un oggetto che ci piace ma anche della bellezza di quell’oggetto, non soltanto di una situazione che ci addolora, ma della tristezza che le è propria. In altri termini: Husserl sostiene che negli atti emotivi, valutativi e pratici si manifestano alcune caratteristiche obiettive (in una casa il suo essere accogliente, in un tavolo il suo offrirci un piano d’appoggio, in una sera d’estate la serenità, ecc.) che tuttavia possiamo cogliere come un nuovo strato obiettivo in seno alle cose che le fondano soltanto in virtù di uno sguardo nuovo, di un nuovo atto teoretico che invece di vivere nella tonalità emotiva o nell’inclinazione pratica che la situazione o le cose ci suggeriscono si rivolge ad esse, per cogliere nella presenza di quella tonalità o di quell'inclinazione ciò che chiamiamo lieto o triste, utile o inutile.

Ora, parlare di un mutamento dell’atteggiamento intenzionale significa di fatto sottolineare che gli atti teoretici che ci permettono di cogliere come predicati obiettivi il bello e il buono sono atti essenzialmente mediati, poiché presuppongono gli atti pratici ed emotivi da cui traggono origine. Posso cogliere il bello come un predicato obiettivo che appartiene al quadro, ma posso farlo solo perché prima di rivolgermi teoreticamente ad esso ho vissuto la percezione di quel dipinto nella coscienza della soddisfazione estetica. Ha così luogo una modificazione dell’atteggiamento intenzionale: la coscienza non si orienta più verso il godimento dell’oggetto, ma cerca nell’oggetto di cogliere la presenza obiettiva di un valore. Scrive Husserl:

Noi possiamo osservare un quadro "godendolo". In questo caso viviamo nello svolgersi del piacere estetico, di un atteggiamento di apprezzamento che è anche un godere. Ma possiamo anche giudicare "bello" il quadro con gli occhi dello storico o del critico d’arte. Allora viviamo in un atteggiamento teoretico, nell’atteggiamento del giudizio e non più nell’atteggiamento valutativo del piacere (ivi, p. 408).

In questo rimando al costituirsi dei predicati assiologici e pratici negli atti corrispondenti e nel loro essere presupposti dagli atti teoretici che danno statuto obiettivo a ciò che in quelli prende preliminarmente forma, sembra manifestarsi un nuovo punto di contatto con gli atti teoretici che sono coinvolti dall’idea di natura. Non vi è dubbio, infatti, che anche quando rivolgiamo il nostro sguardo per constatare e prendere atto dell’esser così di qualcosa presupponiamo egualmente un terreno di predatità: perché il mio interesse percettivo possa rivolgersi verso una meta determinata è necessario che il terminus ad quem di quel tendere sia già stato predelineato sul terreno percettivo. Per dirla in breve: posso rivolgermi verso un oggetto e renderlo tema del mio interesse solo se quell’oggetto si è già fatto strada nella mia coscienza come una cosa di un certo tipo e ha ridestato la mia attenzione. Per aver voglia di osservare bene qualcosa bisogna averla già vista. Ma appunto: ciò è quanto dire che gli atti teoretici presuppongono gli oggetti cui si riferiscono, anche se non è coinvolto alcun atto pratico o valutativo, — anche se l’oggetto non chiede di essere colto come qualcosa che reca in sé un valore. Scrive Husserl:

bisogna tenere ben presente che inerisce alla peculiarità dell’atteggiamento teoretico e degli atti teoretici […] il fatto che in essi sono come già racchiusi quegli oggetti, che solo in seguito diventeranno propriamente teoretici. Vi sono dunque oggetti costituti anche sul terreno preteoretico, anche se si tratta di oggetti di cui non ci si appropria teoreticamente e che quindi non sono oggetti intesi in senso proprio, né tanto meno sono oggetti di atti teoretici che li determinino (ivi, p. 405).

Basta tuttavia leggere con attenzione le considerazioni che Husserl ci propone per rendersi conto che l’apparente simmetria nella quale ci siamo imbattuti nasconde una differenza significativa che ci riconduce ad una dualità insita nella nozione di obiettivazione e che si manifesta nel diverso rapporto che gli atti teoretici stringono con le predatità da cui sorgono.

Affrontiamo innanzitutto il primo punto e riflettiamo su quale sia il significato che attribuiamo alla tesi secondo la quale una cosa si fa propriamente oggetto per me quando il mio sguardo si dirige verso di essa, rendendola tema di un interesse percettivo. E per farlo muoviamo innanzitutto da un esempio. C’è un sasso che vedo, insieme agli altri ciottoli sul greto del fiume, ma non lo osservo affatto e ciò fa sì che esso non occupi in senso proprio la mia soggettività che non è ad esso rivolta: ma ciò che ora non osservo può ridestare in seguito il mio interesse, e se ciò accade dirò che quel sasso è divenuto oggetto della mia attenzione. Ora, parlare degli atti teoretici e dire che hanno una funzione propriamente obiettivante può significare proprio questo: sottolineare il fatto che alla percezione di sfondo che non si rivolge esplicitamente ad un tema può sostituirsi una prassi attiva ed esplicitamente tematica, e che solo in questo secondo caso la cosa che ci sta di fronte può assumere il senso di un oggetto cui siamo intenzionalmente rivolti. E se le cose stanno così, dire che ciò che osserviamo e constatiamo diviene oggetto in senso proprio non significa null’altro se non questo: che vi è qualcosa — un sasso, una penna, un quadro — cui siamo intenzionalmente rivolti e che, proprio per questo, ci si dà nella forma logica dell’essere un soggetto di possibili predicazioni. Sottolineare la funzione obiettivante degli atti teoretici vorrà dire allora, in questo caso, sottolineare il nuovo posto e la nuova forma che spetta a qualcosa in quanto è posto come un oggetto per la soggettività. Il divenire oggetto è in questo caso una determinazione sintattica: ci dice qual è il posto che qualcosa occupa nella struttura articolata dell'esperienza percettiva.

E tuttavia parlare di obiettività non significa soltanto questo; l’atteggiamento teoretico può assumere una funzione obiettivante in un senso interamente diverso del termine, e per rendersene conto è sufficiente rivolgere lo sguardo a quegli atti teoretici che hanno come loro presupposto atti pratico-valutativi: in questo caso parliamo di obiettivazione per alludere a quel rivolgimento dell’orientamento intenzionale che ci spinge a indirizzare lo sguardo dal modo in cui emotivamente o praticamente l’oggetto si manifesta al che cosa di quel manifestarsi. Ma ciò è quanto dire che l’atto teoretico in questo caso non si limita a rendere tema ciò che comunque era già presente sullo sfondo dell’esperienza, ma si rivolge alla nostra esperienza nel suo complesso per cogliere l’eco obiettiva della nostra partecipazione alla realtà percepita. In altri termini: perché si possa parlare di un oggetto che ha predicati valutativi di vario genere vi è bisogno di una forma di obiettivazione nuova, che dia forma obiettiva a ciò che si manifesta nelle diverse forme del nostro aver cura delle cose. Ed in questo caso, il divenir oggetto non significa acquisire una mera proprietà sintattica: nel nuovo rivolgimento dell'interesse soggettivo ciò che era soltanto un modo di rapportarsi alla cose viene colto come una sua proprietà di secondo lvello, come una sua determinazione assiologica.

Di qui la conclusione che vogliamo trarre: il nesso che lega gli atti teoretici alle datità che sono da essi presupposte conosce due diverse forme, poiché in un caso abbiamo uno stesso oggetto che si manifesta in una forma impropria ed extra tematica e in una propria e tematica, nell’altro due oggetti parzialmente diversi — l’uno è una cosa che è vissuta secondo una determinata coscienza emotiva, l’altro è un oggetto teoretico che ha un predicato assiologico. Ma ciò è quanto dire che in questo duplice significato del concetto di obiettivazione vi è lo spazio per tracciare una distinzione tra quegli oggetti che possono essere resi tali semplicemente sollevandoli dallo sfondo in cui erano posti — gli oggetti della natura, privi di predicati assiologici — e le entità che chiedono un rivolgimento teoretico che sorga dagli atti partico-valutativi, per scorgere il nuovo strato di senso che in essi implicitamente si manifesta — gli oggetti assiologicamente e praticamente determinati.

Di qui, da questa differenziazione tra le forme di presupposizione degli atti teoretici, comincia a farsi strada una prima delineazione della legittimità dell’idea di natura. Gli atti teoretici sono atti in cui qualcosa diviene propriamente oggetto per noi, ma questo processo di obiettivazione può assumere la forma di una mera esplicitazione e tematizzazione di ciò che è dato: gli stessi momenti della cosa che la rendevano meramente presente per noi sono ora oggetto di una osservazione esplicita, volta a scorgere che cosa propriamente li caratterizza. Ma è possibile un diverso scenario: possiamo orientare diversamente il nostro interesse teorico e, senza perdere la presa sugli aspetti che lo contraddistinguono, possiamo rivolgere lo sguardo anche a ciò che in esso traspare in virtù degli atti valutativi e pratici: l’oggetto può apparirci allora come bello, lieto, utile, e così di seguito. Ma questo rivolgimento porta con sé una nuova nozione di obiettività: nel suo aprirsi alla specificità di senso che si manifesta negli atti valutativi, l’oggetto abbandona la dimensione puramente naturale.

Del resto, questo stesso ordine di considerazioni si ripropone anche se indichiamo un cammino lievemente differente. Avevamo osservato che gli atti teoretici presuppongono gli oggetti cui di fatto si riferiscono ed avevamo utilizzato per alludere all’ambito dei presupposti la nozione di predatità. Ora, non vi è dubbio che la catena delle presupposizioni può contenere più anelli: posso rallegrarmi del fatto che tu trovi bella la dimostrazione del teorema di Pitagora, — basta formiulare una proposizione perché il gioco delle concatenazioni si mostri nell'aperta iterabilità dei suoi nessi. Ma per quanto sia lunga la catena, dobbiamo infine poter giungere ad oggettualità che non implichino prima di sé altri oggetti. Ora, l’atto teoretico che ha per oggetto l’essere bello di questo marmo implica necessariamente un atto valutativo che colga in questo marmo il fondamento di un determinato godimento estetico in cui si manifesta implicitamente un nuovo strato di senso dell’oggetto; ma appunto: l’atto valutativo del godimento estetico implica a sua volta, e necessariamente, la presenza percettiva dell’oggetto di cui gode e ciò è quanto dire che gli atti valutativi e pratici sono essenzialmente fondati e che rimandano necessariamente ad atti che si limitano a porre l’oggetto nella sua obiettiva presenza — a porlo, dunque, come qualcosa che sussiste di per se stesso e che non ha bisogno di fondarsi su altre oggettività. Di anello in anello siamo così ricondotti ad oggetti che stanno di per se stessi e che non implicano nel loro senso il rimando ad alcuna precedente esperienza. Ora questi oggetti sono caratterizzati innanzitutto da questo: non hanno alcun predicato di natura assiologica e pratica, e non implicano alcuna costruzione logico-ideale, come accade invece quando abbiamo a che fare con "oggetti" peculiari come i numeri o gli stati di cose. Questi oggetti che non hanno natura ideale e che sono del tutto privi di predicati non reali sono gli oggetti dei sensi — quegli oggetti, il cui essere si scandisce interamente in proprietà sensibili come la forma, il colore, la temperatura, il peso, e così di seguito. Il nesso delle fondazioni ci riconduce così come alla sua base ultimamente fondante alla percezione sensibile:

se noi risaliamo lungo la struttura intenzionale di una qualsiasi oggettività data […], perveniamo […] a oggettività fondanti, a noemata che non contengono più nessun retro—riferimento, giungiamo ad oggetti che sono o possono essere afferrati in tesi semplici e che non rimandano più a tesi, implicite e da riattivare, che contribuiscano alla compagine costitutiva dell’oggetto. Gli oggetti così caratterizzati fenomenologicamente — e quindi gli oggetti originari cui per la loro costituzione rimandano tutti gli oggetti possibili — sono gli oggetti dei sensi (ivi, p. 416).

Possiamo ora circoscrivere meglio che cosa intende dire Husserl quando parla della regione "natura": per Husserl, la sfera della natura abbraccia l’esplicitazione teoretica di quegli oggetti — gli oggetti sensibili — che non hanno bisogno di fondarsi in altre obiettività. Ed il senso di questa definizione non è poi così difficile da cogliere: Husserl ci invita a distinguere sul terreno dell’obiettività l’ambito delle cose reali — la sfera di quegli oggetti che non hanno bisogno di altro per potersi dare e che non esibiscono alcun nesso di fondazione — dall’ambito delle oggettualità pratiche, valutative e categoriali — dall’ambito di quelle oggettualità che non sono immediatamente date e che nel loro stesso senso implicano il rimando ad una prassi soggettiva di esplicitazione. Circoscrivere l’idea di natura vuol dire allora indicare un’unità fenomenologica essenziale: le appartengono infatti gli oggetti che nel loro senso non rimandano al come del loro essere esperiti da una soggettività.

Di qui possiamo muovere per trarre due ulteriori conclusioni. La prima risulta con immediatezza da ciò che abbiamo appena detto: se gli oggetti reali della natura appartengono all’ambito di ciò che non implica nel suo darsi alcun rapporto di fondazione, allora si può sostenere che l’ontologia regionale della cosa materiale occupa necessariamente il primo posto nel campo delle considerazioni ontologiche. Ma vi è anche una seconda conclusione di carattere più ampiamente metodologico che di qui può essere tratta: per venire a capo dell’idea di natura, Husserl ci invita a tornare sul terreno dell’esperienza percettiva, poiché è qui che abbiamo imparato a compitare la grammatica filosofica del concetto di cosa materiale.

2. Il risultato cui siamo sin qui giunti non è soltanto interessante perché ci permette di dare un significato più preciso a ciò che Husserl intende quando parla dell’idea di natura e quando osserva che essa possiede una sua essenziale unità fenomenologica, ma anche perché addita il camino che le nostre analisi dovranno seguire: la comprensione del concetto di natura ci ha infatti sospinti verso il terreno della percezione sensibile nella sua immediatezza — verso la percezione di oggetti che hanno soltanto le caratteristiche che si annunciano in una percezione sensibile semplice che non si fonda su altre percezioni, orientandone diversamente il significato.

Su questo tema dovremo tra breve tornare. Ora tuttavia dobbiamo affrontare una possibile obiezione che forse si sarà già fatta sentire. Husserl ci invita a prendere le mosse dagli oggetti meramente sensibili, ma non è difficile rendersi conto del fatto che le nostre percezioni non sono mai del tutto prive di una qualche eco pratica o emotiva. Se entro nella mia stanza e guardo ciò che la occupa vedo libri, sedie, tavoli e un computer e ciascuno di questi oggetti è innanzitutto caratterizzato da un significato d’uso che gli spetta necessariamente, proprio come gli spetta una certa coloritura affettiva: quei libri sono i miei libri, ed anche quando non mi dicono nulla, il loro "non dirmi nulla" è una peculiare connotazione affettiva. Anche l’indifferenza è un predicato valutativo ed allude quindi ad un orizzonte grammaticale che in linea di principio dovrebbe essere assente dalle cose della natura, così come Husserl la delimita. Ma se le cose stanno così, non dovremmo semplicemente dire che una mera natura semplicemente non c’è e che l’essere non è mai nella forma della mera presenza?

La risposta è semplice: non dovremmo affatto, e non perché sia possibile che davvero vi sia una soggettività capace di dimenticarsi ogni atteggiamento valutativo per avere di fronte a sé il mondo delle mere cose. Ancora una volta non è una questione empirica quella che ci interessa, ma una possibilità grammaticale, e questa possibilità non può essere messa da parte semplicemente additando la difficoltà di dare ad essa una veste reale. Una circonferenza è una linea chiusa i cui punti sono equidistanti da un punto. Bene, ora lo sai, ma questo non significa che tu sia per questo in grado di disegnarla, nemmeno con il compasso. Ma sarebbe ridicolo a partire di qui sostenere che di circonferenze non si deve parlare.

Forse una simile argomentazione può convincerci, anche se sembra suggerirci una conclusione in tono minore: forse si può parlare di mere cose, ma non si può per questo dimenticare che si tratta di astrazioni, con cui raramente abbiamo a che fare. Nulla ci impedisce di parlare di un’idea di natura, ma il luogo di questo discorso è il cielo lontano delle astrazioni. Un discorso plausibile ma falso, poiché dimentica il fatto che il senso implicito in molte delle nostre azioni ritaglia un significato meramente cosale negli oggetti. Il vento sposta i fogli sul tavolo, ed io li fermo con un libro — ma anche se si trattasse della Critica della ragion pura nel senso di quella prassi non vi sarebbe nulla di più che il peso che la caratterizza. E ancora: un bambino può essere molto orgoglioso nel misurare la sua altezza perché di lì si comprende quanto sia cresciuto; l’orgoglio del diventar grandi si avvale tuttavia di un metro che mostra in generale soltanto questo — che è possibile far combaciare in due punti distinti gli estremi di due corpi. E ciò è quanto dire: il fatto che le mere cose appartengano ad una dimensione astrattiva non le rende per questo meno presenti nella vita quotidiana.

Credo che il senso di queste considerazioni possa essere facilmente compreso, e tuttavia è forse opportuno osservare che è proprio qui la ragione per cui Husserl parla di atteggiamento teoretico e non soltanto di atti teoretici. Quando siamo nell’atteggiamento teoretico siamo prevalentemente rivolti verso le cose, ma questo non significa che tutti gli atti valutativi siano messi da parte o che non vi siano istanze pratiche: vuol dire solo che non sono esse a tracciare il canovaccio che ci guida.

Così scrive Husserl: nelle ricerche di ordine teoretico

noi siamo atteggiati teoreticamente, anche se nello stesso tempo possiamo realizzare intenzioni spontanee e vivissime di piacere; per esempio durante ricerche ottico-fisiche possiamo provare un intenso sentimento di piacere per la bellezza dei fenomeni che si vanno manifestando. Inoltre sullo sfondo si possono prendere anche decisioni, per esempio la decisione di mostrare ad un amico la bellezza di quei fenomeni, anche se noi non siamo ancora nell’atteggiamento pratico e continuiamo a mantenere e a perseguire il "tema" dell’atteggiamento teoretico (ivi, p. 412).

Il disporsi in un atteggiamento piuttosto che in un altro non vuol dire allora fingere di tacitare ogni diverso interesse: vuol dire soltanto dare un peso maggiore alle voci dell’esperienza che sono con esso coerenti.  

Lezione sedicesima

1. Possiamo ora rivolgere la nostra attenzione alla nostra esperienza percettiva delle cose materiali, per indicare passo dopo passo quali siano i livelli costitutivi che le sono propri.

A dire il vero Husserl ci invita ad una distinzione preventiva di cui dobbiamo rendere conto. Il primo passo consiste nell’osservare che ciò che chiamiamo "natura" va al di là della sfera delle mere cose: la natura abbraccia infatti sia le cose materiali, sia gli esseri viventi cui pure spetta il titolo di entità reali, di enti che appartengono al nostro mondo.

Ora, che questo modo di intendere l’universo delle cose naturali non sia arbitrario lo si ricava innanzitutto da una considerazione di carattere generale: le cose materiali e gli esseri animali appartengono comunque all’ordine del tempo ed occupano nel suo unitario ordinamento un posto definito, che non spetta invece agli oggetti ideali. Le cose reali della natura hanno dunque un posto nel tempo:

qualsiasi essere del tipo "cosa" ha un’estensione temporale; ha una propria durata, e si articola saldamente, insieme con la propria durata, nel tempo obiettivo. Quindi, insieme con la sua durata, ha un posto ben stabile nel tempo unico del mondo che è una forma generale di esistenza di qualsiasi cosalità. Tutto ciò che la cosa altrimenti "è", tutto ciò che le spetta in base alle altre determinazioni essenziali, è nella sua durata, è con la precisa determinazione di un quando. È giusto quindi distinguere tra la determinazione temporale (tra la durata della cosa) e la caratteristica reale, che come tale riempie la durata e si estende attraverso di essa (ivi, p. 426).

Da queste considerazioni si possono dedurre molte cose, ed in modo particolare si può dedurre che è nella natura delle cose la possibilità del cambiamento. Ma la conclusione che deve essere tratta è un’altra: Husserl vuole infatti mostrarci che tutte le cose sono reali perché hanno un posto nell’unico tempo nel mondo che ci appare così come la forma che è presupposta da ogni cosa o da ogni evento, indipendentemente dal suo appartenere alla natura materiale o animale.

Accanto al tempo vi è poi lo spazio, ed anche in questo caso si deve rammentare che

qualsiasi essere del tipo "cosa" ha nello spazio del mondo una sua posizione che è relativa a quella di tutte le altre cose e che è in linea di principio modificabile (ivi, p. 427).

Al momento dell’eguaglianza si deve tuttavia affiancare la constatazione della differenza, e Husserl ci invita a constatare che un essere animato è sì nello spazio, ma solo perché ha un corpo: il mio essere un individuo è un fatto che è sì localizzato e ancorato ad un luogo, ma che non si distende nello spazio come accade invece al colore o al peso di un oggetto qualsiasi. Quando pronuncio la parola "io" alludo a qualcosa che è sì localizzata nello spazio e che è proprio là dove è il mio corpo, ma questo non significa che il mio essere un io sia una proprietà che riempia lo spazio come un colore "riempie" la superficie degli oggetti. Scrive Husserl:

riguardo all’estensione corporea occorre distinguere tra la cosalità materiale e la cosalità della natura animale. Non senza ragione Cartesio definisce l’extensio un attributo essenziale della cosa materiale che, proprio per questo, si dice anche semplicemente corporea rispetto all’essere psichico o spirituale, il quale nella sua spiritualità, non ha un’extensio e anzi la esclude per essenza (ivi, p. 427).

Di qui dovremmo muovere, secondo Husserl, per tracciare con maggiore chiarezza la distinzione tra realtà materiali e natura animale.

Non è tuttavia questa la meta che ci proponiamo, e del resto lo stesso Husserl ritiene che di questo breve accenno alla definizione cartesiana della sostanza attraverso il predicato dell’estensione ci si debba avvalere non tanto per tracciare un discrimine tra gli ambiti della natura cui abbiamo alluso, quanto per cogliere una caratteristica fenomenologica essenziale delle cose materiali. Dobbiamo, in altri termini, interrogarci sulla dimensione fenomenologica che spetta alla tesi cartesiana della res extensa.

Affrontare una simile tesi significa chiedersi quale sia la natura della relazione che stringe tutto ciò che chiamiamo "cosa", e che le appartiene, all’estensione che necessariamente le spetta. Ora, il primo passo in questa direzione consiste, per Husserl, nel dire che cosa dobbiamo intendere quando parliamo dell’estensione di una cosa. Una prima ipotesi deve essere fin da principio messa da parte: quando parliamo di estensione in relazione ai corpi non intendiamo, per Husserl, alludere semplicemente ad una parte dello spazio in cui casualmente vi sia qualcosa. L’estensione di un corpo non è una superficie o un volume, non è in altri termini una parte dello spazio, ma è una parte della cosa, un suo (necessario) attributo. L’estensione è, per essenza, spazio riempito, ed è per questo che Husserl ci invita a parlarne come di una Raumkörperlichkeit, di una corporeità spaziale o, se si vuole, di una spazialità che si è fatta corpo.

Le ragioni di questa prima mossa sono evidenti - se ci si dispone sul terreno fenomenologico. Dal punto di vista percettivo la partizione dello spazio è innanzitutto dettata dalla presenza dei corpi: perché si possa parlare di estensione sul terreno percettivo debbo poter vedere o toccare un corpo che occupi lo spazio, circoscrivendo così un luogo che si contrappone al vuoto che lo circonda. Ma se l’estensione è lo spazio di un luogo, un luogo vi è solo là dove vi è anche un corpo: la nozione di estensione ci invita dunque a riflettere su quella corporeità spaziale di cui Husserl così insistentemente ci parla.

Non vi è dubbio che in questa prima caratterizzazione del concetto di Raumkörperlichkeit sia innanzitutto all’opera l’esigenza teorica di non disgiungere l’estensione dalla cosa, e tuttavia proprio l’evidenza di questo intento teorico non deve spingerci verso un possibile fraintendimento su cui è forse opportuno indugiare un attimo. Le cose che vediamo hanno una loro estensione: occupano appunto un certo spazio che ha una sua determinata ampiezza e che è fissato dai confini ultimi del corpo cui appartiene. Ora se immaginiamo di accrescere o di diminuire la mole dell’oggetto muterà anche la sua estensione: lo spazio occupato varia evidentemente con la grandezza dell’oggetto. Ma che dire se decidiamo di muovere l’oggetto e se mutiamo quindi il luogo che lo ospita? Una prima risposta potrebbe suonare così: quando un corpo si muove non muta la propria estensione che, per così dire, è così strettamente legata alla materia da poterla seguire nei suoi spostamenti. Basta tuttavia riflettere un poco per rendersi conto che un simile considerazione presuppone una considerazione astratta dell'estensione che viene ridotta alla sua componente meramente relazionale: l’estensione è solo quell’identico rapporto tra i limiti che circoscrivono il corpo, al di là della variazione del luogo che essi delimitano. Perché questo è chiaro: quando un corpo si muove non può portare con sé lo spazio su cui si estende, e ciò è quanto dire che ogni spostamento di un corpo implica una modificazione dell’estensione. Muovendosi, la cosa muta la propria estensione proprio perché muta il proprio luogo, che non può seguirla poiché in generale nessuna parte dello spazio può muoversi:

per essenza, né lo spazio stesso, né un pezzo dello spazio può muoversi; lo spazio stesso non può mai presentare una lacuna, cioè un punto vuoto di spazialità, un punto che possa riempirsi soltanto quando vi si introduca qualche cosa. Lo spazio è assolutamente "rigido", le sue parti non sono "estensioni" nel senso che abbiamo definito, non sono "corpi" per esempio corpi rigidi nel senso della fisica (ivi, p. 428).

Di qui la definizione di estensione che Husserl ci propone - una definizione che, come abbiamo osservato, tende a ricondurre il concetto di Raumkörperlichkeit alla nozione di luogo occupato, di spazio sensibilmente riempito:

per estensione spaziale o meglio corporea di una cosa intendiamo la corporeità spaziale che inerisce alla sua concreta compagine essenziale, esattamente nel modo in cui le inerisce, nella sua piena determinatezza; così, non soltanto qualsiasi cambiamento di grandezza che lasci intatta la forma spaziale comporta una modificazione dell’estensione, e così qualsiasi modificazione della forma che lasci intatta la grandezza, e qualsiasi deformazione, in qualsiasi senso si assuma questo termine: anche ogni mutamento di posizione comporta un mutamento dell’estensione (ivi).

Ora, in questa definizione è implicita una prima determinazione del modo in cui l’estensione si rapporta alla cosa: Husserl ci invita infatti a pensare all’estensione come allo scheletro e all’impalcatura sensibile su cui percettivamente si danno e in cui si fondano le differenti qualità sensibili di cui la cosa consta.

Per trarre questa conclusione Husserl richiama innanzitutto la nostra attenzione sulla possibilità ideale della frammentazione che così evidentemente caratterizza le cose materiali. Questa proprietà è, per Husserl, una proprietà essenziale dell’estensione, e di questo fatto ci accorgiamo se ci rammentiamo del fatto che lo spazio è di per sé divisibile in parti che non smarriscono la loro natura spaziale.

Ma appunto: l’estensione non è una parte di spazio, ma è spazio occupato da un corpo. Ne consegue che la divisibilità dello spazio assume nella Raumkörperlichkeit la forma della frammentazione: proprio perché ogni corpo ha una sua estensione e proprio perché l’estensione si fonda nella divisibilità dello spazio, si può affermare che per ogni cosa materiale è idealmente possibile una frammentazione, e che a sua volta la frammentazione conduce a parti che sono in linea di principio (anche se non necessariamente in linea di fatto) ulteriormente frammentabili. Scrive Husserl:

l’essenza stessa dell’estensione comporta la possibilità ideale della frammentazione. È evidente che qualsiasi frammentazione dell’estensione comporta una frammentazione della cosa stessa, fa sì cioè che la cosa si scomponga in parti, ciascuna delle quali ha a sua volta un carattere pienamente cosale, il carattere della cosalità materiale. Viceversa, qualsiasi suddivisione della cosa in cose, qualsiasi frammentazione della cosa come tale, frammenta anche l’estensione cosale (ivi, p. 428).

Il cammino che abbiamo indicato ci ha permesso di leggere la possibilità della frammentazione della cosa alla luce della divisibilità dello spazio in cui è sita. La divisibilità, tuttavia, non è identica alla frammentazione: lo spazio si può dividere, ma non si può frammentarlo, perché non è una cosa e non può quindi andare in pezzi e disperdersi in una molteplicità di nuove cose. La divisione dello spazio conduce alla definizione di una molteplicità di parti che tuttavia rimangono in seno ad un identico spazio che non viene meno nella prassi della segmentazione: le parti dello spazio sono nello spazio, che non è affatto tolto dalla sua partizione. Nel caso della frammentazione, invece, la cosa viene meno e al suo posto si danno nuove cose - nuove parti reali che valgono ora come nuovi oggetti.

All’origine di questa diversità vi è, naturalmente, ciò che di nuovo è implicato dalla prassi della frammentazione: il suo riferirsi non allo spazio ma alla corporeità estesa, a quello spazio realmente riempito che sta a fondamento del concetto di cosa. Ma ciò è quanto dire che la possibilità della frammentazione è un indice puntato sulla differenza tra spazio e Raumkörperlichkeit: nella frammentazione ci si mostra che cosa lo spazio è diventato quando si è fatto corporeità spaziale. Ma vi è di più: quando qualcosa si rompe e va in pezzi ci si mostra anche che cosa accada alla cosa come insieme di proprietà quando ne modifico una - l’estensione corporea. Il colpo di cesoia che recide il ramo modifica innanzitutto la forma della pianta, ma insieme è il gesto che crea un nuovo oggetto: il ramo che cade.

Di qui si deve muovere per cogliere la particolarità dell’estensione corporea che non è affatto una proprietà tra le altre, proprio perché non si somma a proprietà come il peso o il colore, ma sta prima di esse, poiché si pone come il sostrato su cui esse poggiano. La possibilità della frammentazione mostra proprio questo: che vi è una prassi concreta che, agendo sull’estensione, frantuma la cosa in una molteplicità di cose, laddove non esiste alcuna prassi che possa mettere capo ad un analogo risultato operando sulle altre qualità dell’oggetto. Posso modificare il colore di una cosa senza che questo debba necessariamente alterare la forma o levigatezza che le compete, proprio come posso modificarne la consistenza e il peso senza che sia per questo lecito pensare che debbano necessariamente modificarsi le altre proprietà dell’oggetto, estensione compresa. Ma se un piatto cade e va in frantumi, il frammentarsi dell’estensione porta necessariamente con sé il venir meno dell’unità dell’oggetto e il suo disperdersi in una molteplicità di cose materialmente determinate: in questo caso la prassi che agisce sulla cosa, alterandone l’estensione, porta con sé un mutamento che coinvolge necessariamente tutte le qualità dell’oggetto che vengono ad appartenere a nuove entità materiali.

All’immagine empiristica che vuole ricondurre la cosa percepita ad una mera somma di qualità (di idee nel senso lockeano) si deve così contrapporre la consapevolezza che la funzione e la posizione della corporeità estesa nell’unità della cosa materiale non è affatto paragonabile alla funzione e alla posizione delle altre qualità reali che le si attribuiscono. Ma ciò è quanto dire che l’estensione corporea - la Raumkörperlichkeit - non è affatto una proprietà tra le altre:

In altre parole: la cosa non è un che di esteso soltanto in questo senso, e cioè che tra altre determinazioni possiede anche quella determinazione che chiamiamo estensione corporea; è vero piuttosto che la cosa in tutto e per tutto ciò che contenutisticamente è (in tutto ciò che concerne il suo essere di sostanza che riempie il tempo così come nelle sue caratteristiche) si estende ed è qualcosa che riempie la sua estensione corporea (ivi, p. 428).

Il senso di quest’osservazione è chiaro. Le cose materiali non sono pesanti, colorate ed anche estese, poiché il loro essere colorate e pesanti si dà solo come il modo qualitativamente determinato secondo cui l’estensione si dà. E correlativamente: le cose non sono colorate, pesanti ed estese, poiché coloratezza e pesantezza sono tali solo nel loro estendersi, nel loro disporsi nella forma dell’estensione che non è dunque una proprietà tra le altre ma è la struttura che permette ad ogni determinatezza della cosa di manifestarsi.

Così, a partire dalla prassi della frammentazione, si mostra come vi sia una differenza effettiva tra la determinazioni reali della cosa e quella sua peculiare determinatezza che è l’estensione corporea. Queste proprietà debbono essere chiaramente distinte poiché non stanno sullo stesso piano - le proprietà reali della cosa si danno infatti come riempimenti dell’estensione, come suoi plena sensibili. Da una parte avremo allora le determinazioni estensive della cosa (la grandezza, la forma, la figura e, in generale, tutte le determinazioni concretamente geometriche della Raumkörperlichkeit), dall’altra le qualità reali della cosa stessa che si danno come le forme concretamente sensibili della sua forma corporea.

Ora, in queste considerazioni non è difficile scorgere il terreno per tracciare una distinzione che ci è già nota. Da una parte, infatti, abbiamo la Raumkörperlichkeit che determina la struttura formale della cosa e che ne costituisce l’impalcatura fondamentale, dall’altra vi sono le sue qualità reali che si danno come riempimenti della sua struttura, come sue forme di qualificazione. Da una parte abbiamo dunque le qualità primarie, dall'altra le qualità secondarie:

la cosa non conosce altre determinatezze estensive se non la pura corporeità (qualità primaria) e le qualità sensibili che la modificano, le qualità secondarie "qualificanti" (ivi, p. 429).

Quest’affermazione merita una parola di commento. Husserl parla di qualità primarie e di qualità secondarie, ma è evidente che il riproporsi di questa distinzione in questo contesto non allude più ad una distinzione che corra tra il mentale e il reale, poiché nulla è più lontano dalla prospettiva husserliana della tesi secondo la quale colori e sapori sono determinazioni che si giocano sul terreno della soggettività. Dire che il colore o il peso sono qualità secondarie non significa, per Husserl, sostenere che siano determinazioni mentali; vuol dire invece alludere al diverso ruolo che le determinazioni estensive giocano nel processo di costituzione della cosa - un ruolo che, come abbiamo visto, si manifesta nella possibilità pratica del frazionamento. Se prendo un foglio di carta e lo faccio a pezzi, le proprietà dell’intero si ritroveranno nelle parti, e ciò è quanto dire che vi è un’asimmetria tra l’estensione e le altre proprietà della cosa: in un caso abbiamo proprietà il cui cambiamento non incide sul come dell’estensione, dall’altra una Raumkörperlichkeit la cui variazione si ripercuote sulle proprietà che ospita e che su di essa si estendono. La distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie deve essere dunque riformulata in una distinzione concernente le qualità riempienti da un lato e la struttura spaziale che le sorregge dall’altro:

ogni qualità corporea di una cosa "riempie il corpo spaziale", in essa la cosa si espande, ed in ciascuna la cosa stessa riempie la propria corporeità (estensione) che in uno stesso punto del tempo è la stessa per ogni diversa qualità reale. E ciò che vale per l’intero, vale anche per le parti. In modo particolare, qualsiasi cosa è diversa dalle altre, ognuna può avere una sua diversa estensione spaziale, e questa estensione può a sua volta riempirsi qualitativamente in diversi modi; il riempimento dello spazio […] può essere diverso, a seconda della specie delle caratteristiche e a seconda del fatto che siano presi in esame qualità durevoli o meri stati reali […]: ma il tipo generale è sempre e necessariamente lo stesso. Per qualsiasi specie di qualità si deve dire che essa può avere i suoi modi particolari di riempire la corporeità spaziale, di coprirla, di estendersi in essa. Ma qualità riempiente lo è necessariamente. La cosa non conosce altre determinatezze estensive se non la pura corporeità (qualità primaria) e le qualità sensibili che la modificano, le qualità secondarie "qualificanti" (ivi, p. 430).

Ora, non è difficile scorgere in questo rapporto un nesso di dipendenza che lega le determinazioni estensive della cosa alle sue determinazioni qualitative, e tuttavia se riflettiamo su questo nesso sembra possibile trarre una conclusione che tende a riproporre una sostanziale simmetria in seno alle determinazioni che in generale spettano alle cose in quanto tali: proprio come il colore non può esistere senza un’estensione che lo sorregga, l’estensione della cosa non può essere priva di determinazioni riempienti, e non è in generale pensabile se non come una corporeità spaziale determinata. Il nesso di fondazione è un nesso bilaterale e questo sembra convincerci dell’opportunità di lasciare da parte il richiamo a quella distinzione metafisica cui stiamo da tempo dedicando le nostre attenzioni.

Non credo che questa conclusione sia legittima. Certo, un’estensione senza plena non è pensabile, ma questo non significa che vi sia davvero un rapporto di simmetria tra forma estensiva e qualità riempienti. E la ragione ci è nota: ogni forma riempiente rimanda all’estensione che la sorregge e in cui necessariamente ogni proprietà reale della cosa si distende, laddove l’estensione - per poter assumere una sua Raumkörperlichkeit - ha bisogno soltanto di un rimando ad un qualche riempimento. Un’estensione corporea che fosse priva di qualsiasi proprietà sarebbe propriamente un nulla: possiamo parlare di estensione della cosa distinguendola dalla mera datità dello spazio solo perché, in quanto spazio di un corpo, l’estensione è qualitativamente determinata e si pone come un che di reale. Ma se è vero che l’estensione corporea chiede di fungere da sostrato di una qualche determinazione reale, ciò non toglie che essa non rimandi in sé ad una qualche proprietà determinata: un colore deve essere necessariamente esteso, ma un’estensione non deve essere necessariamente colorata, come ci insegna il fatto che possiamo senz’altro esperire tattilmente l’esserci di un corpo esteso. Ancora una volta: la peculiarità delle determinazioni estensive della cosa non è nel loro essere una proprietà reale che stia accanto alle altre e che sia rispetto ad esse privilegiata dalla possibilità di occorrere da sola. La Raumkörperlichkeit non è un primus inter pares: non è la più importante tra le proprietà della cosa. La tesi di Husserl è diversa: la differenza tra qualità primarie e secondarie è tutta sita nel porsi delle determinazioni estensive come fondamento delle proprietà qualitative, come forma che è da esse necessariamente implicata e che fa tutt’uno con l’esserci della cosa e con la sua possibilità di porsi come un sostrato di proprietà. Le determinazioni estensive sono proprietà primarie perché su di esse si fonda la possibilità della cosa di avere una sua determinatezza empiricamente rilevante, e ciò è quanto dire che l’estensione corporea è la condizione essenziale su cui poggia la possibilità della cosa di essere ciò che è - di avere le qualità che ha. Ne segue che la Raumkörperlichkeit non è una proprietà reale, ma è il fondamento reale della determinatezza dell’oggetto, di quel suo essere così che è tale solo in virtù del suo esser una modificazione della forma essenziale dell’oggetto - la sua corporeità estesa. All’estensione corporea come livello zero della determinatezza della cosa si sovrappongono così le qualità di primo livello che di fatto sono modi in cui la corporeità estesa di fatto è: il rosso sarà così l’esser rosso di questa superficie, la pesantezza una determinazione che pervade le parti di un determinato volume, la durezza la resistenza che un corpo oppone alle forze che tendono a modificarne la forma, e così di seguito. Scrive Husserl:

naturalmente l’estensione corporea non può mai stare da sola, la sua particolare posizione non è quella di una qualità reale tra le altre. La cosa è ciò che è nelle sue qualità reali, che prese singolarmente non sono tutte nello stesso senso necessarie; ciascuna di esse è un raggio dell’essere della cosa. Ma l’estensione corporea non è in questo stesso senso un raggio dell’essere reale, non è in eguale modo ("propriamente non è") una qualità reale ma è una forma essenziale di tutte le proprietà reali. Ne segue che un corpo spaziale vuoto realiter è un nulla, e propriamente è soltanto in quanto una cosa con tutte le sue proprietà reali vi si estende. Più propriamente: il corpo è una determinazione reale, ma è determinazione fondamentale solo in quanto è fondamento essenziale e forma di ogni altra determinazione. In questo senso, l’estensione anche se, o meglio: proprio perché è "proprietà reale" in un senso del tutto differente dal consueto, può dirsi la caratteristica essenziale della materialità (ivi, p. 430).

Di qui la legittimità della riconduzione della differenza tra determinazioni estensive e determinazioni "riempienti" alla distinzione classica tra qualità primarie e secondarie può dirsi chiarita nelle sue linee essenziali, anche se - proprio da questo chiarimento - risulta evidente come il suo senso sia propriamente cambiato. Nel distinguere tra qualità primarie e secondarie Husserl sembra avere in mente innanzitutto un problema di ontologia fenomenologica, e non ancora una questione concernente le scienze fisico-naturali. Così, distinguere tra l’estensione e le determinazioni reali e qualitative dell’oggetto significa in primo luogo, per Husserl, invitarci a riflettere sulla natura delle cose materiali, sulla forma che dobbiamo attribuire a questo concetto e sul senso che è racchiuso nella sua grammatica.

Nella sua Critica della ragion pura, introducendo la sua distinzione tra giudizi analitici e sintetici, Kant ci invitava a distinguere tra la proposizione "tutti i corpi sono estesi" cui si deve attribuire valore analitico, e la proposizione "tutti i corpi sono pesanti" la cui natura è sintetica e implica l’operare trascendentale dell’intelletto. Ora, di fronte ad una simile distinzione si possono avanzare molti dubbi che nascono in parte dalla tesi che si possa davvero definire l’analiticità nella forma kantiana - analitico è per Kant quel giudizio in cui il concetto del predicato è racchiuso nel concetto del soggetto - in parte dalle molte oscurità che si addensano intorno alla nozione di una logica trascendentale come ambito teorico del sintetico a priori. E tuttavia proprio quegli esempi, e il modo stesso in cui Kant li introduce, possono apparirci ora in una nuova luce, poiché se ci poniamo nella prospettiva che abbiamo appena delineato deve assumere un senso il sostenere che l’estensione appartiene al concetto di corpo, mentre non vi appartiene invece il concetto di peso, poiché i plena non debbono necessariamente essere, poiché la presenza di ogni singola determinazione reale rimanda non alla forma dell’oggetto, ma alla sua concreta datità fattuale. Così, anche senza bisogno di immergerci nelle considerazioni difficili concernenti il significato dei termini che Kant riteneva di avere una volta per tutte chiarito, possiamo tuttavia dire che le determinazioni estensive, ma non il peso appartengono alla grammatica del concetto di corpo.

2. Le considerazioni che abbiamo dianzi proposto ci hanno mostrato in che senso, per Husserl, sia legittimo parlare delle qualità primarie e secondarie come di caratteristiche che determinano la natura del concetto di cosa materiale, colto nella sua dimensione intuitiva. Ora, nel tentativo di tracciare questa distinzione, Husserl ha attirato la nostra attenzione sulla differenza che sussiste tra l’impalcatura spaziale della cosa e la sua determinatezza qualitativa e quindi riempiente: alla spazialità estesa del corpo si debbono in altri termini affiancare le qualità che nell’estensione stessa si distendono.

Sul senso generale che deve essere attribuito a queste pagine di Husserl (al § 13 del secondo volume di Idee) non credo sia necessario indugiare ancora, e tuttavia è opportuno osservare che non tutte le proprietà che attribuiamo ad un oggetto si estendono nello stesso modo nella sua corporeità: il colore è, per esempio, una proprietà che si dà come modo della superficie della cosa, mentre il peso compenetra percettivamente lo spazio corporeo della cosa. Ancora diversa è la modalità di darsi di un profumo: l’odore di un cibo permea tutte le sue parti, ma si diffonde necessariamente nell’atmosfera e ha nella cosa più il suo centro di irradiamento che la sua completa localizzazione. Uno stesso discorso vale per il calore che si diffonde nello spazio circostante. Diverso è invece il caso del suono: vi sono rumori che pervadono il corpo che li emette, altri che percettivamente hanno soltanto origine da essi. Un suono sordo e grave come quando colpiamo con le nocche un armadio vuoto risuona nello spazio che è racchiuso dalle assi, mentre lo squillo acuto di un fischietto ha un’origine precisa ma non si diffonde nello spazio della cosa da cui ha origine.

Non vi è dubbio che qui vi è spazio per una molteplicità di indagini descrittive. Ma ciò che ora ci interessa sottolineare è che queste diversità, che appartengono evidentemente al tessuto costitutivo della nozione intuitiva di cosa materiale, si riverberano in una sorta di classificazione delle proprietà dell’oggetto, nel loro scandirsi secondo una diversa regola di inerenza e di prossimità rispetto alla cosa. Non tutte le proprietà appartengono alla cosa allo stesso titolo, e questo non accade soltanto perché vi sono proprietà che intuitivamente ci riconducono all’esser così dell’oggetto (la durezza) ed altre che sono invece colte fin sul terreno percettivo come stati relativamente mutevoli della cosa (il suo calore), ma anche perché non tutte le proprietà fanno presa sulla sua corporeità allo stesso modo: il colore appartiene alla cosa più del suo profumo ed entrambi cedono il passo alle determinazioni che ci riconducono nell’alveo della nozione ingenua di massa corporea. Quanto poi al suono che una cosa emette è relativamente evidente che in questo caso il parlare di una proprietà è in qualche misura fuori luogo, anche se vi sono contesti in cui questa differenza si fa più sfumata e l'imbarazzo meno avvertibile. Del resto, tutte le lingue ci mostrano un ordine nella serie degli aggettivi, una sorta di gerarchia implicita in cui è possibile almeno in parte cogliere l’eco linguistica della distinzione percettiva cui abbiamo appena alluso.

Su questo tema non è possibile indugiare più a lungo. E tuttavia, se a partire di qui rivolgiamo nuovamente l’attenzione al nostro problema ci imbattiamo in un ordine di considerazioni su cui è opportuno riflettere. L’abbiamo già osservato: un corpo spaziale vuoto realiter è un nulla, e per essere chiede che vi siano determinazioni reali che lo determinino e che diano al suo porsi come forma e impalcatura della cosa quella pienezza che è implicata dalla nozione stessa di realtà.

Quando ci eravamo imbattuti in questa tesi avevamo innanzitutto sottolineato come di qui si potesse dedurre il carattere della corporeità, il suo porsi come la forma e come il fondamento di ogni altra determinazione. Ora dobbiamo invece lasciarci incuriosire da un termine che Husserl consapevolmente impiega - da quel "realiter" cui affida il compito di introdurre un nuovo problema. La corporeità è spazio occupato, ed il modo in cui lo spazio si riempie passa innanzitutto attraverso la percezione sensibile: traccio un riquadro sul foglio e al suo interno lascio cadere una macchia di inchiostro e lo spazio vuoto che ho incorniciato con quattro tratti di penna ospita ora un oggetto percettivo, che fa tutt’uno con il riempirsi di una certa porzione di spazio. Proprio così:

Lo spazio è riempito, ma è davvero realiter riempito? Certo, io vedo una parte dello spazio riempita da un colore e questo sembra proprio ciò che è richiesto dalle considerazioni che abbiamo dianzi proposto: lo spazio si fa estensione - avevamo osservato - quando si dà nel suo stretto legame con un insieme di determinazioni qualitative. Ed uno spazio qualitativamente riempito è ciò che è richiesto dalla posizione fenomenologica del concetto di cosa materiale.

Ma le cose non stanno così, e non è difficile rendersene conto. Ciò che ora ci interessa non è infatti semplicemente il costituirsi di un oggetto della percezione, ma il porsi di questo oggetto come un esempio di ciò che chiamiamo "cosa". Di qui il problema che ci si apre e che è, a ben guardare, strettamente connesso con la distinzione tra qualità primarie e secondarie: dobbiamo infatti chiederci che cosa ci permetta di considerare reale una certa corporeità e le determinazioni che le sono proprie.

Non si tratta di un problema facile, e questo perché il bisogno di sottolineare il rimando alla realtà che è racchiuso nel concetto di cosa si lega alla constatazione che non è possibile indicare un contenuto intuitivo cui sia immediatamente riconducibile l’essere reale di qualcosa, il suo effettivo occupare uno spazio. Su questo punto le pagine di Husserl sono del tutto esplicite: se

ci atteniamo alla cosa per sé, prescindendo dal contesto che le è proprio, ci accorgiamo da un lato che non disponiamo di nessun mezzo per distinguere l’essenza della cosa dall’essenza di un vuoto fantasma e che, dall’altro, l’eccedenza dal lato della cosa non può giungere ad una datità evidente (ivi, 434).

Un punto deve essere fin da principio chiarito: quando osserviamo una sedia o un tavolo noi lo cogliamo come un oggetto reale, come una cosa che appartiene al mondo e che ha tutti i predicati della realtà - su questo Husserl non intende avanzare alcun dubbio. Ma la questione resta aperta: occorre infatti chiedersi che cosa attribuisca alla cosa i caratteri della materialità e della realtà, se - come Husserl sostiene - non vi sono contenuti sensibili in cui si manifestino direttamente la realtà e la materialità. Che una cosa sia rossa lo vedo, ma non posso vedere la sua realtà che non è già data nel fatto che io veda o avverta con la punta delle dita ciò che mi sta di fronte. Che ciò che vedo e tocco non sia soltanto un fenomeno è qualcosa di cui sono certo, ma il senso di questa certezza non si esaurisce nel mio percepire questo e quest’altro oggetto - nel concetto di realtà (materialità) vi è dunque qualcosa di più di quanto possa essere esibito semplicemente additando un oggetto ed invitando a guardarlo.

Potremmo forse esprimerci così: dobbiamo cercare di comprendere ciò che Cartesio non ci spiega quando parla di res extensa, e cioè il motivo per cui possiamo parlare non soltanto di estensione ma anche appunto di una res che in essa si estende. Il che è quanto dire che dobbiamo cercare di mostrare la genesi fenomenologica di un momento che appartiene al senso della nostra percezione di cose ma che non è immediatamente manifestato da un qualche contenuto sensibile della percezione stessa: il momento della materialità reale, della res.

Ora, in queste considerazioni che stiamo faticosamente dipanando dovrebbe farsi strada un ricordo filosofico che ci permette di ricucire in unità la seconda alla prima parte del corso: dovremmo in altri termini rammentarci delle pagine che Locke dedica al concetto di solidità. Sul significato di questa nozione in Locke ci eravamo soffermati abbastanza a lungo: per Locke la solidità è una proprietà tattile nella quale prende forma quel principio di impenetrabilità che fa tutt’uno con la possibilità di discriminare lo spazio dall’estensione corporea, il vuoto da ciò che realiter riempie lo spazio. E tuttavia, proprio discutendo della nozione lockeana di solidità ci eravamo imbattuti in una difficoltà su cui avevamo esplicitamente attirato l’attenzione: Locke ritiene di poter ricondurre la tesi dell’impenetrabilità dei corpi ad una sensazione tattile, che tuttavia non riesce a rendere in alcun modo perspicua. E non a caso: nel senso della nozione di impenetrabilità vi è di più di quanto possa essere racchiuso nel contenuto di una sensazione, poiché l’impenetrabilità si manifesta nel modo in cui i corpi interagiscono gli uni con gli altri, reclamando ciascuno per sé un posto nello spazio del mondo.

Di qui il compito che ci si impone: cercare di mostrare la genesi costitutiva della materialità, di quel qualcosa che ci permette di parlare degli oggetti come di entità che occupano realmente lo spazio e il tempo. Per farlo dobbiamo muoverci sul terreno percettivo, e questo significa che dobbiamo innanzitutto rivolgere lo sguardo al modo in cui percettivamente si danno le cose prese per se stesse, per poi cercare di mostrare quali esperienze percettive più complesse siano implicate per venire a capo di quel surplus di senso che è implicato dalla posizione della cosa in senso stretto. Il primo passo che dobbiamo compiere consiste dunque in questo: nel mostrare nella cosa materiale lo strato di senso che può essere pienamente insegnato attraverso il rimando ad una percezione semplice che lo abbia per oggetto. Solo dopo aver fissato questo primo punto potremmo sensatamente chiederci quali esperienze debbano necessariamente essere chiamate in causa per insegnarci che cosa sia ciò di cui normalmente parliamo quando discorriamo delle cose che appartengono al nostro mondo della vita.

 

 

 

 

 Lezione diciassettesima

1. Nella lezione precedente avevamo attirato l’attenzione su un problema importante: avevamo infatti osservato che il nostro discorrere di cose reali (o, come Husserl altrimenti si esprime, di sostanze materiali) allude ad un predicato che si costituisce sul terreno della nostra esperienza percettiva, ma che non può essere ricondotto ad un qualche momento sensibile come accade invece per proprietà come il peso o il colore. Di qui il compito che avevamo indicato: se davvero vogliamo tracciare una genesi del concetto intuitivo di cosa materiale dobbiamo mostrare come sia possibile che i predicati che attribuiscono all’oggetto trascendente della percezione la dimensione della materialità e della sostanzialità sorgano in seno alla nostra esperienza.

Il primo passo per raggiungere questo obiettivo consiste nel disporsi sul terreno di una finzione metodica: abbiamo di fronte a noi un oggetto — questa penna, per esempio — e noi vogliamo costringerci a coglierla, dimenticando interamente il contesto obiettivo cui pure appartiene. Ora, il contesto ha una sua ricaduta anche sul modo in cui gli oggetti si manifestano percettivamente: il colore dipende, per esempio, dalla luce che lo illumina e quindi anche dall’ora del giorno, e ciò che vale per i colori vale anche mutatis mutandis per le altre proprietà. Di questo non dubitiamo affatto, e tuttavia di questa trama di dipendenze vogliamo per il momento disinteressarci, e per renderci più facile questo compito vogliamo proporre un’ulteriore semplificazione metodica: anche se sappiamo che le cose materiali possono, per loro natura, mutare di forma, di aspetto e di luogo, ciò nonostante vogliamo limitarci per ora ad una finzione di comodo — vogliamo fingere di avere sott’occhio un oggetto che non muti affatto e che nel suo permanere com’è ci aiuti a dimenticare la sua dipendenza dal come delle circostanze cui appartiene.

Ma se appunto rivolgiamo il nostro sguardo ad un oggetto che non muti e che, proprio per questo, ci permetta di dimenticare il contesto cui appartiene ci imbattiamo in una constatazione importante: per Husserl, non abbiamo nulla che ci consenta di dire che ciò che vediamo è, nel suo senso, distinguibile da un mero fantasma. Davanti a noi vi è una penna, e cioè una cosa materiale: su questo non abbiamo dubbi. E tuttavia, se non oltrepassiamo i confini che ci siamo imposti, non abbiamo alcuna ragione per distinguere la penna che vedo da una parvenza, nel senso in cui una parvenza è — per esempio — l’arcobaleno o un’immagine vista in uno stereoscopio. Qualcosa evidentemente c’è anche in questi casi — vedo per esempio l’arcobaleno che è un oggetto che non ha natura immanente, che occupa un certo luogo nello spazio e che è in linea di principio intersoggettivamente accessibile; e tuttavia ciò che c’è non basta perché possa parlare dell’arcobaleno come di una cosa materiale: se ha un suo posto nelle favole e nelle leggende è perché l’arcobaleno è immateriale (anche se solo nella prospettiva dell’esperienza percettiva) e può proprio per questo porsi per l’immaginazione come un ponte tra la gravità della terra e la natura eterea del cielo. Ora, l’arcobaleno ma anche le nuvole o il fumo che si solleva dalla pentola ci appaiono così: come macchie di uno o più colori che occupano una parte circoscritta del cielo o dello spazio vuoto di fronte a noi. Ma — ed è questo il punto su cui Husserl ci invita a riflettere — se guardiamo una penna non vediamo in ultima analisi di più: anche in questo caso, infatti, ciò che sensibilmente si manifesta è una determinata estensione "riempita" (seppure in un modo significativamente diverso da ciò che accade nel caso del fumo o di una nuvola) da un qualche colore. Di qui la conclusione che Husserl ci invita a trarre:

un corpo spaziale riempito (un corpo determinato qualitativamente) dal plenum qualitativo che vi si estende non è ancora una cosa, una cosa nel senso consueto di un che di reale e materiale. D’altro canto è chiaro che ogni cosa sensibile nella sua datità presuppone, come elemento fondamentale della sua stessa essenza (e quindi come qualcosa che non può mancare né essere tolto), una simile corporeità estesa qualitativamente riempita. La cosa dunque è sempre data nella forma di un’estensione spaziale riempita, ma è anche sempre data come qualcosa che non si limita a questo. Diciamo allora che all’essenza di una cosa inerisce uno schema sensoriale, e per schema sensoriale intendiamo questa intelaiatura fondamentale, questa forma corporea ("spaziale") insieme al plenum che su di essa si distende. La cosa che si manifesta immobile e qualitativamente immutata non ci "mostra" altro che il suo schema o la sua apparenza, anche se al contempo viene appresa come un che di materiale. Ma sotto questo riguardo essa non ci si "mostra", non si porge propriamente alla vista, non giunge ad una datità originale. In ciò che è "propriamente" dato non muterebbe nulla se l’intero strato della materialità venisse cancellato dall’apprensione. Ciò è di fatto pensabile. Nell’esperienza originale, nella percezione, il "corpo" è qualcosa di impensabile senza una determinatezza sensibile, laddove il fantasma è dato originalmente ed è quindi anche pensabile senza le componenti della materialità, le quali a loro volta sono evidentemente non indipendenti (vi è dunque una scindibilità unilaterale) (ivi, p. 435).

In questo passo husserliano molte cose debbono essere sottolineate. In primo luogo Husserl ci invita a far valere un nuovo concetto: le cose, egli osserva, ci si danno innanzitutto come uno schema sensibile, che altro non è se non l’estensione corporea qualitativamente riempita. Così, quando parliamo dello schema sensibile visivo di una cosa intendiamo propriamente quella stessa cosa proprio come è vista da noi: il rimando alla nozione di schema vale allora come un mezzo per circoscrivere ciò che nella percezione di cosa coincide con il suo essere oggetto per la nostra esperienza percettiva.

Di qui, in secondo luogo, la conseguenza che Husserl ci invita a trarre. Se la nozione di materialità non rimanda ad un momento presentativo e se, d’altro canto, la cosa che si manifesta non ci "mostra" altro che il suo schema sensibile, anche se viene comunque appresa come un che di materiale, allora ogni percezione di cose materiali può essere intesa come il risultato del fondarsi di un momento nuovo e non direttamente presentativo sullo schema sensibile in virtù del quale qualcosa è oggetto della nostra esperienza. Ma ciò è quanto dire che lo schema sensibile può esservi anche se non è ancora data la cosa; le cose invece presuppongono la datità dello schema — questo è il punto. Ne segue appunto che l’apprensione che determina lo strato della materialità poggia sullo schema sensibile, ma non è ancora data con esso: la cosa materiale è dunque qualcosa di più di un oggetto spaziale determinato.

Ora, se l’apprensione della materialità non è ancora data insieme alla percezione di una qualche estensione qualitativamente determinata, dobbiamo evidentemente cercare di arricchire il nostro esempio, per vedere quali siano le esperienze che sono chiamate in causa dal concetto intuitivo di cosa materiale.

Il primo passo in questa direzione consiste nel rammentarsi della dimensione tattile: la penna che è di fronte a noi possiamo afferrarla, e ciò fa sì che non vi sia soltanto uno schema visivo, ma anche uno schema tattile della cosa — il suo porsi come un’estensione che ha qualità che si annunciano al tatto, come la morbidezza o il calore. Percepire significa del resto sempre avere esperienze che hanno origine da diversi sistemi sensibili, e questo comporta — per Husserl — che vi siano forme di connessione e di identificazione che ci permettano di mantenere l’identità del riferimento oggettuale e di cogliere nel variare della modalità sensibile della nostra percezione ora l’arricchirsi di nuove proprietà, ora il manifestarsi in forma nuova di determinazioni qualitative che ci erano già note.

Una descrizione effettiva di come ciò sia possibile è tutt’altro che semplice, e Husserl in queste pagine si limita ad indicare soltanto alcune linee generali del discorso. In primo luogo Husserl osserva che la percezione implica il costituirsi non di una molteplicità di schemi, ma di uno schema complessivo articolato in diversi strati, ciascuno dei quali rimanda ad una diversa modalità sensibile. Scrive Husserl:

Si deve riconoscere che il concetto di schema (fantasma) non è affatto limitato ad una sola sfera sensoriale. Una cosa percepita ha anche uno schema tattile che viene in luce nell’apprensione tattile. Nello schema complessivo vanno dunque distinti in generale tanti strati quanti sono i generi di dati sensoriali che possiamo trovare nel loro distendersi sull’estensione spaziale della cosa — su quell’estensione che ci si dà come identica. Lo schema non si fa dunque plurale a causa della multiformità del riempimento. Le qualità sensibili riempiono la corporeità spaziale, che resta una e assolutamente identica, disponendosi in diversi strati che, in virtù di quest’identità e della loro essenziale inseparabilità dall’estensione, non possono in linea di principio disperdersi in una molteplicità di schemi separati (ivi, 436).

Come ciò accada può essere in linea di principio chiarito rammentando innanzitutto il fatto che ogni percezione rimanda ad un orizzonte di percezioni possibili, che sono motivate da ciò che appartiene al presente percettivo o alla struttura di tipicità che caratterizza la percezione di qualcosa. Se, per esempio, osservo questa penna, vedo soltanto uno dei suoi infiniti profili, ma ciò è sufficiente perché il decorso percettivo assuma un suo orientamento definito: ciò che vedo delinea un possibile sviluppo della percezione che di fatto le attribuisce un senso definito, — un fatto questo che si manifesterebbe, per esempio, nello stupore da cui sarei pervaso se il retro della penna fosse concavo invece che convesso e se il colore fosse interamente diverso da quello che la sua parte manifesta esibisce. Ora ciò che percepisco non può essere disgiunto da questo orizzonte di possibili percezioni, che — nel loro essere sintatticamente connesse a ciò che propriamente si mostra — definiscono il senso di ciò che si manifesta: vedo una penna solo perché fa parte del senso percettivo che in ogni singolo istante mi si offre il fatto che ciò che vedo è soltanto un aspetto dell’oggetto, un aspetto che si continua secondo una certa regola negli altri aspetti, che non sono soltanto anticipati nella loro astratta tipicità, ma sono prefigurati secondo la regola di unificazione delle scene percettive che si è finora attestata.

E ciò che è vero sul terreno di un unico strato dello schema complessivo della cosa, vale anche quando chiamiamo in causa la molteplice difformità degli strati. Anche in questo caso ogni singola fase del decorso percettivo deve essere intesa come un momento reale il cui senso dipende dal suo connettersi con una molteplicità di percezioni possibili, solo che ora gli orizzonti di senso non rimandano più ad un unico strato dello schema, ma si orientano verso altri strati, anticipando ciò che verrà percepito quando, per esempio, stenderemo la mano per toccare ciò che vediamo. Ma se il senso di ciò che vedo è anche nel suo rimandare a ciò che avvertirei tattilmente se sfiorassi quella superficie di cui vedo la lucentezza, ciò accade soltanto perché la connessione tra percezioni reali e possibili non ha, per Husserl, la forma di una sintassi accidentale di immagini, ciascuna delle quali faccia parte a se stessa, ma è la forma sintetica in cui l’oggetto si manifesta per quello che è. Percepire un corpo significa cogliere un’unità sintetica complessa:

il corpo è un’unità dell’esperienza, ed è implicito nel senso di quest’unità il suo essere indice di una molteplicità di possibili esperienze, nelle quali il corpo stesso può giungere a datità in forme sempre nuove (ivi, p. 438).

Ma ciò significa che ciò che vedo e sento e tocco manifesta un identico oggetto che si struttura in proprietà diverse che si svelano a sensi diversi. Ma anche in proprietà obiettivamente identiche che si danno diversamente ai nostri sensi. Così, la lucentezza che vedo si lega alla sensazione tattile della levigatezza, ma l’una non è semplicemente accanto all’altra come lo sono invece gli eventi che l’abitudine stringe in un nodo, poiché la levigatezza mostra tattilmente ciò che la lucentezza fa visivamente vedere, e un’esperienza può sfociare e continuare nell’altra perché entrambe mostrano un identico modo di riempire una stessa superficie corporea. Husserl parla a questo proposito più che di un immediato mostrarsi, di un annunciarsi [bekunden] di un’identica proprietà obiettiva in forma sensibili differenti, e ciò che è vero nel caso della levigatezza e della lucidità vale anche nel caso della forma e dell’estensione che si obiettivano al di là della loro datità immediatamente visiva o tattile. Ma anche là dove non avrebbe senso parlare di un’identica proprietà che si manifesta in forme sensibili differenti, non per questo la connessione deve essere ricondotta ad una mera convenzione fondata sull’istituirsi di un’abitudine percettiva. Certo, le abitudini percettive possono giocare un ruolo importante, ed è vero che molti nessi chiedono di essere appresi e implicano nella loro genesi la ripetizione. Ma sarebbe semplicemente privo di senso sostenere che ogni apprendimento è apprendimento di una convenzione e che la ripetizione è necessaria perché ogni nesso si fonda sull’abitudine. Così, se freddo e caldo si associano, in un’esperienza più volte ripetuta, a contrazione ed espansione, ciò non significa che non vi sia altra ragione per legarli reciprocamente che non sia la trama psicologica dell’abitudine: io vedo che vi è un rapporto causale e che, al decrescere e al crescere del calore, l’aria occupa proporzionalmente un minore ed un maggior volume — vedo, in altri termini, una dipendenza, che in altri nessi causali è ancor più manifesta.

Su questo tema vi sarebbero ancora molte cose da dire, anche soltanto per chiarire tutto ciò che Husserl ci dice. Ma il punto verso cui tendono queste argomentazioni è un altro: Husserl vuole mostrarci che anche questo ampliamento del terreno esemplificativo non è sufficiente per farci accedere al terreno della materialità. Certo, l’aprirsi della schema alla tattilità dà alla percezione una motivazione in più per credere a ciò che le si mostra: se la mano non riuscisse ad afferrare ciò che vediamo potremmo ragionevolmente sospettare di avere un’allucinazione, e del resto si potrebbe osservare che esempi analoghi a quelli che abbiamo a suo tempo proposto potrebbero trovare nella tattilità il luogo in cui la loro peculiarità si manifesta — in fondo se qualcosa ci induce a negare l’applicabilità del concetto di cosa materiale al vapore che si leva nell’aria ciò accade anche perché il fumo è qualcosa che si vede ma non si può toccare.

E tuttavia, anche se il tatto gioca sicuramente un ruolo nella determinazione di ciò che è oggetto per noi (un oggetto intangibile è ancor meno accettabile di un oggetto invisibile) non ci permette ancora — per Husserl — di cogliere ciò che pure appartiene al senso delle cose materiali: il loro porsi da un lato come oggetti reali che non sono determinati soltanto dal loro essere oggetti percettivi e, dall’altro, il loro conseguente porsi come oggetti che non sono riducibili al loro manifestarsi così come di fatto si manifestano alla soggettività che li esperisce.

Sul significato di questa duplice tesi è opportuno indugiare un poco.

Ciò che Husserl vuole dire è, in primo luogo, che ogni cosa materiale non è soltanto caratterizzata dal suo darsi attraverso una serie di fenomeni, ma anche dal suo porsi come qualcosa che reagisce e interagisce con gli altri oggetti. L’oggetto percettivo è soltanto uno schema sensibile: si dà per quello che è a partire da ciò che di esso intuitivamente si manifesta e ciò è quanto dire che il suo essere si dispiega necessariamente nelle proprietà che l’esperienza sensibile e percettiva vi scorge. Dire che la cosa materiale non si esaurisce nello schema sensibile significa allora sostenere che possiamo parlarne come di un qualcosa il cui senso va al di là del suo essere dato soltanto come oggetto della percezione.

Ma vuol dire anche, in secondo luogo, che appartiene all’idea di cosa materiale il suo porsi non soltanto come l’unità sintetica delle manifestazioni sensibili, ma come qualcosa il cui senso non dipende esclusivamente dal come del nostro coglierla sensibilmente e non è interamente dato insieme al fatto che la cosa appare così — con questa forma, con questo colore, con il suo essere calda o fredda, e così via — al soggetto che la percepisce. Ne segue che anche se la cosa materiale si annuncia nei suoi schemi sensibili, non è per questo identica ad essi per ciò che concerne la sua natura. Di qui la conclusione che deve essere tratta e che è implicita negli sviluppi teorici del discorso che Husserl ci propone: se gli oggetti della percezione, che pure possono in generale essere diversi da come di volta in volta li percepiamo, sono necessariamente colti così come si danno in una qualche percezione (in una qualche concretizzazione del loro schema sensibile) e sono quindi in modo altrettanto necessario determinati da predicati di natura sensibile, le cose materiali sono invece in linea di principio determinabili da predicati che si manifestano in fenomeni di natura sensibile ma che in se stessi non sono necessariamente riconducibili al modo in cui appaiono e non necessariamente appartengono alla dimensione della sensibilità. Dobbiamo, in altri termini, rendere conto del fatto che appartiene al concetto intuitivo di cosa il suo poter essere diversa da come percettivamente si dà a soggetti come noi. Mostrare che la cosa materiale è qualcosa di irriducibile al suo schema sensibile significa dunque questo: rendere conto del fatto che, nel caso delle cose materiali, è lecito supporre che vi sia una differenza tra essere così e manifestarsi così.

Ora che di una simile differenza non sia possibile rendere conto semplicemente abbandonando la semplificazione metodologica che abbiamo preliminarmente assunto e che ci invitava a considerare esempi puramente statici è un fatto su cui non è opportuno soffermarsi a lungo: il mutamento può essere infatti inteso senza problemi come una mera modificazione degli schemi sensibili della cosa. Ma allora, se le cose stanno così, qual è il cammino da seguire per mostrare la genesi del concetto di materialità? E più in generale: se una cosa materiale è tale proprio perché il suo essere non è definitivamente vincolato al come del suo apparire, è davvero possibile indicare la genesi nell’esperienza di un momento di senso che consiste propriamente nell’annunciarsi dell’indipendenza della cosa dalla determinatezza che le deriva dal suo essere così esperita? In altri termini: non dovremmo intendere la materialità della cosa come un momento che segna il trapasso dalla dimensione dell’esperienza percettiva al terreno di un’oggettività non più esperita, ma inferita?

Non è questa la conclusione cui Husserl ci invita, e per rendersene conto è sufficiente lasciar cadere la vera discriminante metodica cui ci siamo sin qui attenuti: dobbiamo in altri termini rivolgere lo sguardo alla cosa, riconnettendola al contesto cui appartiene e che è immediatamente chiamato in causa dal variare della sua datità sensibile. Le cose materiali non sono semplicemente oggetti della nostra percezione, non sono in altri termini soltanto ciò che si costituisce nella sintesi percettiva delle datità sensibili, ma sono oggetti esperiti che hanno il senso che hanno perché sono immersi nel contesto del mondo, nella trama reale delle sue relazioni.

Ora, di questo rimando alla nozione di mondo non può più di tanto stupirsi chi conosce la riflessione fenomenologica e sa quale peso rivesta la struttura degli orizzonti nel pensiero husserliano. In molte delle sue pagine Husserl ci invita infatti a tenere conto del fatto che ogni oggetto che percepiamo è "qualcosa dal mondo" ed implica quindi nel suo senso le molte e stratificate certezze che fanno parte del vivere e che danno alle cose il loro giusto posto e il loro senso autentico. Così, un utensile — questo cacciavite, per esempio — è un oggetto che ha il senso che ha solo perché si dà insieme ad una rete di rimandi di natura operativa, ma insieme anche ad una serie di certezze che concernono la resistenza dei materiali, le leggi delle fisica, e così via. Il mondo, in questa luce, è dunque questo: quello sfondo di certezze e di presupposizioni che danno alle cose di cui abbiamo esperienza il loro giusto peso.

Ma se le cose stanno così è evidente che non è questo il significato che in questo caso vogliamo attribuire alla nozione di mondo. Richiamare l’attenzione sul fatto che gli oggetti appartengono al mondo non significa, in questo contesto, rammentarsi del fatto che ogni percezione implica, nel suo senso, molte certezze, ma vuol dire piuttosto richiamare l’attenzione sul fatto che gli oggetti si danno come cose materiali solo perché il loro darsi così dipende dall’insieme delle cause e delle concatenazioni causali di cui, interagendo con gli altri oggetti del mondo, fanno parte. La possibilità di cogliere gli oggetti come oggetti materiali ci riconduce così al loro essere parti del mondo e al loro condividere il destino delle sue interazioni causali.

 

 

2. Dobbiamo ora lasciar cadere il presupposto metodico da cui ci siamo lasciati guidare, e ciò significa che dobbiamo rivolgere nuovamente lo sguardo alla cosa, posta al centro del contesto cui appartiene. Avremo allora ancora una volta di fronte a noi un qualche oggetto — questo libro, per esempio — che si manifesta sensibilmente come una cosa che ha certe proprietà e, tra queste, un colore. Questa proprietà, tuttavia, si dà in una relazione di evidente dipendenza dalla natura della luce che illumina l’oggetto, e questo significa che, nel caso del nostro esempio,

noi esperiamo una stessa cosa in relazione alle sue proprietà ottiche, le quali nel mutare dell’illuminazione in accordo con il mutamento delle sorgenti di luce, mantengono la loro unità e la loro determinatezza. L’unità si attesta attraverso tutti gli schemi proprio in quanto sono cromaticamente riempiti. Ciò che così si costituisce è il colore "obiettivo", il colore che la cosa ha, sia che si trovi alla luce del sole o in una luce naturale fioca o nel buio di un armadio, e così in tutte le situazioni di illuminazione, cui ineriscono funzionalmente schemi sensibili interamente determinati, e tra questi anche il riempimento completo di uno schema visuale (ivi, p. 439).

Quale sia il senso che dobbiamo attribuire a queste considerazioni è presto detto. Innanzitutto vi è questo libro, la cui copertina muta di colore con il mutare delle condizioni di illuminazione che ce la rendono accessibile. Ora questo di questa mutevolezza del colore apparente delle cose abbiamo discusso più volte, e a suo tempo avevamo osservato come in questa aperta possibilità del trascolorare degli oggetti fosse apparentemente possibile scorgere un argomento per sostenere il carattere immanente delle qualità secondarie. Monet che dipinge le sue cattedrali sottolineando come ad ogni ora del giorno si manifesti uno spettacolo nuovo sembra offrire al filosofo lockeano un argomento per rifiutare ai colori un’esistenza effettiva.

E tuttavia non è affatto detto che di qui si debba trarre proprio questa lezione, ed anzi potremmo muovere proprio di qui per chiarire il senso di queste considerazioni husserliane. Ecco, di fronte a noi vi è la cattedrale di Rouen, con i giochi di colore che la luce nel suo mutare ci propone. A questo spettacolo, tuttavia, ci concediamo solo a patto di non tracciare la cornice che separa la scena percettiva dalla sua causa più prossima: dal diverso colore di cui si ammanta la luce ambientale. Certo, nell’aspetto della cattedrale vi è un cambiamento evidente, ma questo mutamento nello schema smette di assumere il significato di una mera variazione sensibile non appena riconnettiamo l’oggetto al contesto cui appartiene e da cui dipende — non appena cogliamo la relazione funzionale che lega la manifestazione sensibile del colore alla determinatezza della fonte di luce. Ora questa relazione funzionale è una relazione di natura causale: noi esperiamo la dipendenza del colore apparente dell’oggetto dalla natura della luce che lo illumina, e in questo nesso che si viene a creare tra determinati schemi sensibili da una parte e dall’altra sorge un senso apprensionale nuovo: ogni modificazione dello schema sensibile ci appare ora come l’annunciarsi [Bekundung] di un’identica proprietà obiettiva, che tuttavia non si manifesta nel gioco delle scene visive cui la sua percezione è legata, ma nella dipendenza che essa manifesta rispetto ad altre cose della natura.

Ma ciò è quanto dire che nel nesso che la lega alle circostanze cui appartiene, la cosa smette di essere soltanto un oggetto che si costituisce nella mia esperienza e che dipende nel suo aspetto dalle scene in cui si manifesta sensibilmente, ma assume il senso di qualcosa che reagisce all’azione delle altre cose, rivelandosi da un lato come una sostanza che interagisce in vario modo con gli oggetti e che nella regola di questo interagire mostra, dall’altro, in che senso sia un nucleo sostanziale obiettivo, un’entità di un certo tipo. Guardo la copertina di libro e la vedo rossa, ma il colore di ciò che vedo si mostra poi nel nesso di dipendenza che lega le apparenze cromatiche al mutamento della sorgente di luce, ed il senso della mia percezione muta: ora ho esperienza di una cosa che mi appare così, perché è fatta in modo tale da reagire in modo determinato alla luce che su di essa causalmente agisce. Ne segue che il colore smette di essere soltanto l’aspetto visivo della cosa e diviene il nome che diamo alla sua proprietà di reagire al mutare della qualità della luce secondo un criterio costante, in cui si annuncia il colore come proprietà obiettiva, come identico che si attesta nella variazione ordinata e coerente ad una regola delle singole "risposte" che l’oggetto, in quanto cosa dotata di quella determinata proprietà obiettiva, dà al variare delle circostanze da cui causalmente dipende.

Di qui la conclusione che deve essere tratta. Innanzitutto vi è l’oggetto percepito — l’oggetto trascendente e intersoggettivamente accessibile che tutti percepiamo e che fa da sfondo alla nostra prassi. Ma poi, a partire di qui, vi è la cosa come nucleo sostanziale che si costituisce non appena cogliamo le sue forme di manifestazione come effetti che rimandano necessariamente ad un sistema di nessi correlati causalmente. Ed in questo diverso modo di connettersi dei fenomeni si fa avanti un nuovo senso che la cosa acquisisce: lungi dall’essere soltanto qualcosa che si annuncia nella mia percezione, la cosa assume il senso di un quid che interagisce con gli altri oggetti e che si rivela nel modo in cui risponde alla loro azione. Così, proprio come la solidità si era venuta determinando come la capacità di un corpo di escludere ogni altro dal posto in cui esso si trova, così la nozione di materialità che ci viene qui proposta ci riconduce alla capacità delle proprietà reali di far valere la loro norma nelle relazioni funzionali che le connettono con l’ambiente circostante. In altri termini: è materiale tutto che offre una resistenza determinata agli oggetti che sono causalmente connessi con esso.

Ora, disporsi in questa prospettiva di carattere generale significa anche, assumere un diverso atteggiamento rispetto alle stesse manifestazioni fenomeniche. Ora guardo un oggetto e colgo in tutte le manifestazioni un identico oggetto che sensibilmente si manifesta, ma poi le singole manifestazioni mi si danno come dipendenti funzionalmente da un sistema di cause e ciò è quanto dire che in esse non posso più cogliere semplicemente ciò che vedo, ma un determinato stato reale della cosa, un suo modo di manifestarsi che occupa un posto determinato nell’unico tempo nel mondo:

Di fronte alla qualità reale e unitaria (nel nostro esempio: il colore obiettivo che non muta) vi è lo stato reale e momentaneo, che varia secondo una legge e che corrisponde alle "circostanze". Questo stato coincide con lo schema, ma non è meramente schema (la cosa non è un mero fantasma). All’apprensione modificata corrisponde un predicato modificato. Infatti nell’apprensione della cosa lo schema non viene percepito semplicemente come un’estensione riempita sensibilmente, ma è percepito come la "attestazione originaria" [Beurkundung] di una qualità reale e, appunto per questo, come stato della sostanza reale in un determinato punto del tempo (ivi, pp.440-441).

Al fenomeno come forma di manifestazione soggettiva della cosa si è sostituito così lo stato della sostanza come forma della dipendenza funzionale di un oggetto dalle circostanze di mondo cui appartiene. Ed a partire di qui è evidentemente possibile delineare una radicale riformulazione del concetto di cosa, una riformulazione che si orienti in chiave fisicalistica e ripensi all’oggetto proprio muovendo dalla centralità delle relazioni causali.

In un passo del Mondo come volontà e rappresentazione, Schopenhauer osservava che la lingua tedesca ha scelto una parola felice per esprimere il concetto di realtà: la parola Wirklichkeit. Ciò che spingeva Schopenhauer verso questa strana tesi è presto detto: la parola Wirklichkeit racchiude in sé il verbo wirken che significa agire, produrre e la parola Wirkung, che vuol dire effetto. Nel cuore (etimologico) del concetto di realtà vi è dunque l’idea stessa della relazione causale, e Husserl sembra condividere pienamente questa tesi poiché ci invita a sostenere che

Realtà […], sostanzialità e causalità sono inseparabilmente inerenti. Le qualità reali sono eo ipso qualità causali. Perciò conoscere una cosa significa sapere per esperienza come si comporterà sotto una spinta, sotto una pressione, quando verrà piegata, quando verrà rotta, sottoposta al riscaldamento e al raffreddamento; vale a dire come si comporterà nel contesto delle sue causalità, in quali stati verrà a trovarsi e in che modo rimarrà la stessa attraverso tutti questi stati (ivi, p. 442).

 

Lezione diciottesima

1. Nella lezione precedente abbiamo osservato come, in queste pagine husserliane, prenda forma una discussione del concetto di cosa materiale che si orienta in una direzione apertamente causalistica. Una cosa è una cosa materiale se e solo se appartiene al contesto causale del mondo, ma questa considerazione il cui senso dovrebbe esserci ormai chiaro allude di fatto ad un compito aperto all’infinito: gli oggetti che percepiamo sono infatti colti come un insieme aperto di proprietà che non sono necessariamente apprese nella loro dipendenza dal contesto reale del mondo. Ne segue che, nella norma, non è affatto vero che gli oggetti siano colti come entità realmente determinate in tutti i loro possibili aspetti. Finché ci muoviamo sul terreno della Lebenswelt le cose del mondo ci si danno come un intreccio di proprietà immediatamente sensibili cui si aggiungono alcune proprietà che dispongono la cosa nell’orizzonte di ciò che è reale. Ma dal terreno del mondo della vita si può prendere commiato, e di fatto l’indagine delle scienze naturali si pone il compito di sciogliere quell’intreccio e di comprendere ogni proprietà dell’oggetto alla luce dei nessi causali che proiettano le apparenze sensibili sul terreno obiettivo della realtà.

Quale sia la via che questo cammino deve intraprendere Husserl ritiene possibile indicarcelo con un esempio. Una molla reagisce al peso che su di essa poggia modificando la propria forma, che muta secondo una regola che è direttamente riconducibile al crescere o al decrescere della pressione che viene di volta in volta esercitata. Alcune bilance funzionano proprio così: si aggancia il peso ad una molla e si misura quale sia lo scarto tra la lunghezza che la molla assume quando è gravata dal peso e quella che assumerà di lì a poco quando ne sarà liberata. Per ogni modificazione del peso vi è una corrispondente alterazione della lunghezza della molla, e ciò è quanto dire che di fatto esperiamo una relazione funzionale tra due schemi sensibili: l’uno varia con l’altro, e questo variare secondo una regola fa sì che le diverse estensioni della molla siano esperite come la forma sensibile che ci parla di una nuova proprietà reale dell’oggetto — la sua elasticità. La molla non ha più soltanto una forma, un colore, un peso, una durezza, ma è anche qualcosa che è fatta di un materiale tale da permetterle di variare e di riacquisire la propria forma al variare secondo una regola di determinate circostanze.

Ora, l’elasticità non è un proprietà sensibile alla stessa stregua del colore o della forma: l’elasticità, per Husserl, è quella proprietà dell’oggetto che propriamente non percepiamo ma che sta a fondamento della regola percepibile che lega funzionalmente il variare sensibile delle circostanze (della pressione esercitata) al variare sensibile degli effetti (la tensione della molla). Ciò non toglie tuttavia che l’elasticità sia ancora una proprietà che si manifesta sensibilmente: anche se l’elasticità come fondamento di una relazione funzionale non è in sé una proprietà sensibile, sono invece direttamente percepiti quei comportamenti funzionalmente dipendenti in cui essa di fatto si annuncia.

Di qui tuttavia è possibile muovere per compiere un ulteriore passo che ci conduce in un terreno ancor più lontano dall’immediatezza sensibile. Possiamo infatti osservare che il ferro è elastico solo in certe circostanze, e che basta variarle perché quella proprietà reale ci appaia come uno stato di una nuova proprietà sostanziale. La lama di un coltello è elastica, ma ora la surriscaldo sino a fonderla e l’elasticità viene meno: ora questa proprietà reale e il suo venir meno assumono un senso nuovo e ci appaiono come stati reali di una sostanza che deve essere tale da giustificare il suo essere o non essere elastica a seconda delle circostanze — del crescere e del decrescere della temperatura. Ed in questo caso il variare delle proprietà allude ad un nuovo strato reale della cosa che si situa su un piano ancor più remoto dall’esperienza sensibile, che viene così progressivamente emarginata in questo lento processo di ricostruzione dell’oggetto a partire dalle sue proprietà causali.

Lungo questo cammino Husserl di fatto non si avventura e si accontenta di indicarci in linea generale quali siano le coordinate generali che lo determinano. Del resto, non è difficile scorgere che l’obiettivo di queste ultime considerazioni sul concetto di cosa materiale è un altro: Husserl non intende indicarci se non per grandi linee quanto diversa sia la cosa fisicalistica dall’oggetto intuitivo, poiché di fatto intende mostrarci come nel suo sorgere l’oggetto della fisica segua una regola che è già tracciata sul terreno dell’esperienza. Ora, questo tema tende ad assumere in queste pagine husserliane una formulazione relativamente oscura e sfuggente: Husserl si chiede infatti se i tre principi che (a suo dire) guidano la riflessione scientifica — ad eguali circostanze corrispondono eguali effetti; nessun mutamento avviene senza una causa; ogni cambiamento implica l’identità di un qualcosa che muta — sono principi metodologici che hanno un valore euristico o se sono invece regole che si radicano nella natura del concetto di realtà. Di fatto, credo che sia questa la domanda che Husserl si pone, ma la difficoltà di queste pagine nasce dall’intrecciarsi di questo interrogativo con una questione che sembra identica, ma non lo è: con la domanda che verte sulla legittimità di escludere a priori che qualcosa possa mutare senza una causa.

Proviamo allora innanzitutto a separare queste domande, per cercare soltanto in seguito di stringerle nel nodo che Husserl ci propone. Ed il primo passo in questa direzione consiste nel chiedersi se i principi che abbiamo dianzi elencato siano o non siano già implicati nella genesi del concetto di sostanza (di cosa reale). Credo che a questa domanda si debba dare una risposta affermativa, e per rendersene conto è sufficiente cercare di comprendere quale nuovo strato di senso si costituisca nell’oggetto quando lo cogliamo come un oggetto reale. Rammentiamoci delle conclusioni cui siamo giunti proponendo nuovamente un esempio. Sul tavolo vi sono più biglie che innanzitutto vedo come corpi che hanno un colore ed una forma peculiare. Ma poi lancio una biglia contro l’altra, e quanto più ripeto quest’operazione tanto più facilmente scorgo la relazione che visibilmente lega secondo una regola l’urto al movimento che ne scaturisce, ed in questo nesso che così chiaramente percepisco la biglia diviene per me una cosa reale, e cioè qualcosa che secondo una regola risponde alle circostanze che la sollecitano. L’essere una sostanza reale è tutto qui: in questa discontinuità che la cosa impone al corso delle cose con cui interagisce. Lanciamo la biglia sul tavolo e osserviamo la sua traiettoria rettilinea e il suo movimento inerziale — lo osserviamo sino a quando la biglia non urta contro qualcosa che ne devia il tragitto o che senz’altro la ferma. Questo qualcosa che determina una discontinuità nel movimento della nostra biglia è appunto un che di reale, ma ciò che caratterizza la posizione di Husserl consiste propriamente in questo — nel suo invitarci a cogliere in questa discontinuità e nel suo regolare manifestarsi il ripetersi su un altro terreno delle condizioni che determinano il porsi dell’identità della cosa nel gioco delle sue manifestazioni. La regola che lega il come di questa discontinuità al variare delle circostanze diviene così il contrassegno della presenza di una cosa reale e la forma stessa della realtà. Vi è una cosa reale se vi è questa capacità di segnare secondo una regola una discontinuità nel corso delle cose con cui si interagisce. Ma ciò è quanto dire che nella nozione di realtà è implicita, per Husserl, la dipendenza di ogni evento reale da una causa e la corrispondenza tra eguali effetti ed eguale circostanze: se non vi fosse un nesso funzionale tra gli effetti e le circostanze, se la discontinuità fosse priva di una regola non vi sarebbe quell’unità del decorso che è condizione della posizione di una oggettualità nuova.

Di qui appunto la risposta che Husserl dà alla domanda che abbiamo dianzi formulato: quando ci chiediamo se il principio che esclude cambiamenti senza una causa ha un significato euristico o è implicato dalla nozione di realtà, possiamo senz’altro optare per la seconda ipotesi, perché reale e tutto e solo ciò che si dà come causalmente efficiente.

Di qui tuttavia non sarebbe lecito muovere per una risposta affermativa alla seconda domanda che avevamo formulato, e questo perché la tesi secondo la quale il momento della causalità è parte essenziale della grammatica del concetto di sostanza non è ancora un argomento per dire che non siano pensabili accadimenti privi di una causa. E non è ancora un argomento perché non è affatto detto che il mondo di cui abbiamo esperienza sia nella sua totalità riconducibile sotto il concetto di realtà. Anche se non abbiamo alcuna ragione per credervi ed anche se non potremmo dire che sono reali, i miracoli potrebbero accadere. Così, se improvvisamente e senza ragione nascesse un cavallo alato dovremmo reagire proprio come l’Ariosto che ci assicura del fatto che animali come l’ippogrifo

 

Sui monti Rifei nascono, ma rari,

molto al di là degli agghiacciati mari.

 

E tuttavia se ci avventuriamo su questo insidioso terreno non è per rendere giustizia ad un animale improbabile come l’ippogrifo, ma perché a partire di qui è possibile cogliere un’inclinazione di senso che appartiene al discorso di Husserl. Se Husserl avverte la necessità di sostenere che non tutto ciò che esperiamo è necessariamente reale e se più volte osserva che l’oggetto intuitivo non è in linea di principio un oggetto concluso e non può quindi presentarsi come un tutto realmente determinato è perché intende rammentare che il processo di determinazione reale affonda le sue radici sul terreno della nostra esperienza intuitiva che è, in linea di principio, prima di ogni posizione di realtà. Così, se davvero ha un senso rammentare che non è esclusa a priori la possibilità di un cambiamento spontaneo non è per aprire un varco nel sistema della natura, ma è soltanto per ricordare che quel sistema si costruisce nell’esperienza e che non è in generale lecito anticipare un risultato che può essere invece solo empiricamente raggiunto.

 

2. Siamo giunti così alla fine delle considerazioni husserliane che intendevamo discutere e insieme anche alla fine del corso.

Vorrei soltanto aggiungere qualche rapida considerazione conclusiva. Il corso aveva un obiettivo, che spero possa essere ora colto con relativa chiarezza: volevo mostrare che una teoria rappresentazionalistica dell’esperienza percettiva è per molte e diverse ragioni insoddisfacente.

Questo intento ci ha guidato innanzitutto in una lettura particolare ma, spero, interessante delle prime pagine del secondo volume del Saggio di Locke, per spingerci poi ad una serie di considerazioni critiche su cui ci siamo soffermati a lungo e che non avrebbe senso rammentare ora se non per indicare la meta cui ci hanno condotto: le critiche al rappresentazionalismo di matrice lockeana ci hanno permesso infatti di distinguere con maggiore chiarezza di quanto forse non fossimo prima capaci due differenti significati della nozione di percezione — la percezione è innanzitutto un evento reale che accade nel mondo, ma è anche, in secondo luogo, il titolo generale cui ricondurre il nostro essere intuitivamente consapevoli di una certa classe di oggetti. Confondere queste due nozioni di percezione vuol dire avvilupparsi in un intrico di problemi da cui non si esce e in cui è, proprio per questo, meglio rinunciare senz’altro ad entrare.

Venire a capo del rappresentazionalismo (o più modestamente: mostrare quanti ostacoli crei a chi vuole seguirne il cammino) non significa soltanto puntare l’indice sui problemi che ne derivano, ma anche cercare di rispondere in altro modo a quelle esigenze teoretiche che il rappresentazionalismo aveva saputo soddisfare. Su questo terreno abbiamo cercato di muoverci nell’ultima parte del corso, dedicata a mostrare come una prospettiva di realismo fenomenologico potesse far fronte a ciò che di significativo vi è nella distinzione tra qualità primarie e secondarie e nella tesi lockeana secondo la quale è comunque possibile pensare ad oggetti che siano interamente diversi da come sensibilmente si presentano. La riflessione husserliana sulla Raumkörperlichkeit e sulla natura del concetto di realtà ci hanno mostrato una possibile via per impostare diversamente questo problema — anche se ciò non significa ancora che tutto in questo via ci convinca e possa essere senz’altro riproposto. E dire che ci manca il tempo per affrontare questo problema è insieme vero e comodo.

A questo tema centrale se sono affiancati altri durante lo svolgimento del corso che, del resto, si prefiggeva almeno altri due obiettivi.

Il primo è di natura didattica e teorica insieme e nasce dalla constatazione che si legge e che, anche quando si leggono i classici della filosofia, li si legge spesso con un atteggiamento troppo colto, come se l'unico o anche soltanto il primo problema che ci pongono fosse quello di ascoltare le molteplici risonanze culturali che sanno ridestare in un lettore attento e preparato. E invece io volevo invitarvi a leggere le pagine di Locke e di Husserl non soltanto perché è importante sapere qualcosa di questi due grandi filosofi ma per fare innanzitutto filosofia. E ciò significa innanzitutto leggere senza farsi distrarre da altre domande; vuol dire leggere lentamente e, per così dire, a bassa voce, senza lasciarsi convincere troppo facilmente da quello che si legge e senza dimenticare nel piacere che si lega alla comprensione delle risposte il compito di appropriarsi delle domande, anticipandole. Rispetto a questo compito mi sento, almeno in parte, inadeguato, ma si tratta di un obiettivo che andava perseguito comunque.

Il secondo obiettivo ci riconduce invece a un tema che abbiamo più volte sfiorato discorrendo di Locke e che abbiamo appena iniziato a mettere sul terreno nell’analisi delle pagine husserliane — intendo la descrizione fenomenologica del concetto di cosa materiale. Su questo tema Husserl dice molte cose e molto interessanti, ma — credo — si lascia troppo presto alle spalle il terreno della percezione sensibile e lascia cadere molte distinzioni importanti. Un accenno per il vero vi è, ed alludo a quella breve annotazione in cui Husserl osserva che nel tracciare la genesi del concetto di materialità si è lasciato guidare dal concetto di corpo solido, lasciando da parte le situazioni ambigue come il vetro o come quei materiali che non hanno di per sé una forma propria come l’acqua o l’aria. Si tratta di una considerazione importante che ci invita a tracciare una mappa del concetto di materialità — una mappa che ci mostra come questo concetto nasca con un suo centro più stabile i cui contorni si fanno via via più sbiaditi. Così, alla periferia del concetto di cosa troviamo i materiali senza forma e contorno — l’acqua e l’aria — quei materiali che essendo privi della durezza, ci costringono a raffinare il concetto di materialità. Quanto più la cosa ha contorni rigidi, tanto più netto è il discrimine che contraddistingue il suo esserci: la durezza è uno dei tratti che più evidentemente rendono visibile la materialità nel suo originario porsi come una proprietà delle cose. E tuttavia, la durezza della pietra può perdersi passo dopo passo nella plasmabilità del fango o dell’argilla — e al farsi melma della materia fa da contrappunto il divenire labile della cosa, il suo perdere una fisionomia definita. Sino a venir meno: quando la materia solida assume la forma di ciò che è liquido il gioco linguistico che fa della materialità un predicato delle cose si perde e con esso viene meno anche l’applicabilità del concetto di cosa. Alla materialità come tendenza dell’oggetto a mantenere la propria forma pur nel variare delle forze che su di esso agiscono fa così da riscontro la tendenza della liquidità a porsi come una vera e propria negazione intuitiva del concetto di cosa. Se le cose hanno una forma che si imprime e si consolida nella loro materialità, l’acqua — questa realtà ambigua che condivide con le sostanze eteree la trasparenza e la mobilità e con le sostanze materiali la pesantezza e la tangibilità — è una realtà amorfa che solo temporaneamente riceve una forma dal luogo che la ospita. Proprio come Proteo, il vecchio del mare, anche l’acqua è inafferrabile ed assume mille diverse forme che la rendono irriconoscibile. Ma se nell’acqua le forme si perdono così come si perdono le tracce che si disegnano sulla sua superficie, allora non è difficile comprendere perché l’acqua — e cioè la forma stessa della liquidità — tende a porsi come una cifra dell’oblio. Nell’acqua nulla di ciò che era permane, ed in questa proprietà dei liquidi vi è il motivo fenomenologico per cui l’acqua di un fiume che scorre — il Leté — può cancellare in chi si lascia bagnare dai suoi flutti il ricordo della vita. E l’immaginazione che ci guida nello scorgere le risonanze di senso che appartengono alla logica dei fenomeni, ci conduce lungo il cammino della teoria. L’acqua occupa un posto peculiare nei giochi dei bambini perché è il luogo in cui si fa visibile l’idea di una sostanza materiale che soggiace ai cambiamenti di forma e di stato. Questa vaga idea anima la prassi di molti giochi con l’acqua — il bambino travasa e riempie con la stessa acqua tanti diversi recipienti — ma assume per la prima volta la forma di un pensiero effettivo (di un pensiero pensato nelle parole del nostro linguaggio) nella mente di Talete, di questo primo filosofo che dà forma al concetto astratto di sostanza, senza per questo rescindere il nesso che lo lega all’intuizione concreta, all’immagine della liquidità dell’acqua. Il concetto astratto di materia nasce così dal pensiero intuitivo di una materia che è di fatto caratterizzata dal suo fare astrazione dalla cosa — che è, in altri termini, libera del vincolo che fa della materialità un predicato e che insieme la lega al contorno di un oggetto qualsiasi. La materia come sostrato delle forme ha dunque una sua origine intuitiva che sorregge i nostri primi passi sul terreno dell’astrazione e che sorge da un fantasticare coerente con la natura fenomenologica dell’acqua — questa materia informe che per la sua dimensione fenomenologica può aiutarci a pensare ciò che è in linea di principio al di qua della forma.

Vi sono molte altre cose che dovrebbero essere dette, ma ora è proprio il caso di concludere. Lo faccio con una massima di La Rochefoucauld che dice così:

Perdoniamo spesso chi ci annoia, ma non riusciamo a perdonare chi è annoiato da noi (Massime, 304).

Dunque non ditemi nulla.