Paolo Spinicci


Il mondo della vita e il problema della certezza
Lezioni su Husserl e Wittgenstein

 

 

 

 

 

 

 

 Lezione quindicesima

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. Il gioco linguistico con la parola "sapere"

 

 

 

 

 

Possiamo ora lasciarci alle spalle le nostre considerazioni introduttive e cercare di addentrarci nelle prime riflessioni di Wittgenstein che di fatto si legano ai problemi che Moore aveva sollevato nella sua Difesa del senso comune. Nelle pagine di questo scritto, che Wittgenstein critica in più punti ma che egualmente ritiene importante poiché pone in una luce falsante un problema filosofico autentico, Moore muove da una serie di proposizioni che egli dichiara di sapere e che, come abbiamo visto, sono caratterizzate dall'avere un'identica forma e un analogo contenuto: sono infatti proposizioni come "io so che la terra esiste da molti anni", "io so che vi sono corpi umani", "io so che vi sono relazioni spaziali tra il mio corpo e gli oggetti che lo circondano", e così via. Ora, tutte queste proposizioni hanno questo di caratteristico: ci basta enunciarle per renderci conto che ciascuno di noi le sa.. Di qui il cammino che Moore ci propone: se è vero che per qualsiasi proposizione pi di {p1...pn}si può dire "io so che pi", allora per dimostrare la verità del senso comune è sufficiente mostrare che, per ciascuna di quelle proposizioni, posso davvero dire che la so.

La ragione di questo fatto è chiara. Il verbo "sapere" ha una caratteristica che lo distingue da verbi come "credere", "pensare", o "ritenere": il sapere si riferisce infatti non ad un certo contenuto proposizionale, ma allo stato di cose che gli corrisponde e ciò fa sì che il sapere (ma non il credere o il pensare) leghino la loro legittimità alla verità di ciò che si pretende di sapere. Così, se qualcuno afferma di essere convinto che Napoleone non sia esistito, io posso senz'altro credergli: dalla proposizione "A crede che p" non segue affatto p, e ciò è quanto dire che la falsità di p non è un argomento per rifiutare anche la proposizione "A crede che p". Le cose stanno diversamente nel caso del sapere: in questo caso se dico che A sa che Napoleone è morto a Sant'Elena mi impegno a sostenere che ciò che A sa è vero: di A non si potrebbe infatti dire che sa dove Napoleone sia morto se lo credesse morto in battaglia a Waterloo. Detto in altri termini: da "A sa che p" è lecito dedurre p (Della certezza, op. cit., § 415), poiché il sapere si riferisce non a p come possibile contenuto di pensiero, ma allo stato di cose espresso.

Di qui sembra possibile muovere per un'ulteriore conclusione che, per Wittgenstein, guida implicitamente le pagine di Moore. L'argomento di Moore suonerebbe così: se è lecito dedurre p da "io so che p", allora p è dato insieme all'indubitabilità del mio sapere di sapere. Il presupposto cartesiano della trasparenza della coscienza a se stessa si sommerebbe così alla derivabilità dell'oggetto del sapere dal sapere stesso. Da un fatto psichico si potrebbe così dedurre uno stato di cose:

"Io so..." sembra descrivere un dato di fatto che garantisce che quello che si sa è un certo stato di cose (ivi, § 12).

"Se so qualcosa, allora so anche di saperlo, ecc.. "è come dire che "io so questo" significherebbe "in questo io sono infallibile". Ma che lo sia davvero deve potersi stabilire oggettivamente (ivi, § 16).

Propriamente, il punto di vista di Moore mette capo a questo: il concetto 'sapere' è analogo ai concetti 'credere', 'congetturare', 'dubitare', 'essere convinti', in questo: che l'enunciato "Io so..." non può essere un errore. E se è così allora da un atto espressivo [Äusserung] si può concludere alla verità di una asserzione. E qui si trascura la forma "io credevo di sapere". - Ma se non si deve ammettere questa forma, allora si deve riconoscere che anche nell'asserzione deve essere logicamente impossibile l'errore. E di questo non può non rendersi conto chi conosce il gioco linguistico: l'assicurazione di qualcuno degno di fede che lui lo sa non può aiutarlo (ivi, § 21).

Da un atto espressivo si conclude alla verità di un'asserzione: questa è la mossa che ci si invita a compiere. Ed è una mossa illegittima: comunque stiano le cose in Moore, è evidente che il fatto che qualcuno manifesti ciò che in lui accade - il suo riconoscere che sa che p - non è ancora un buon motivo per dire che p sia vera. Possiamo fidarci di qualcuno che dice di sapere come stanno le cose, ma non possiamo escludere che le cose stiano altrimenti, e questo semplicemente perché talvolta ci si può convincere a torto di sapere qualcosa. Ed è per questo che non possiamo accontentarci delle assicurazioni di chi dice di sapere:

Sarebbe certamente strano se dovessimo credere a uno degno di fede che dicesse "Io non posso sbagliarmi" o a chi dicesse "Io non mi sbaglio" (ivi, § 22).

Si può appunto credere di sapere, e di quest'espressione ci serviamo tutte le volte in cui ci accorgiamo che le cose sono diversamente da ciò che credevamo: se da "Io so che p" si può dedurre p, allora è anche banalmente vero che da non p discende la falsità della premessa.

Tutto questo è in qualche misura ovvio; perché allora insistervi tanto? Perché, io credo, qui ci si mostra con relativa chiarezza come non sia possibile attribuire al gioco linguistico "Io so che..." il significato di un gesto espressivo che rende noto a chi ascolta la modalità specifica del mio atteggiarmi rispetto alle cose. Se di questo si trattasse l'espressione "credevo di sapere" non avrebbe senso, proprio come non ha senso dire "credevo di avere un forte mal di testa, ma ora mi accorgo che stavo benissimo". E ciò è quanto dire che tra il dire "Io so che p" e l'esclamare "ho mal di testa!" vi è una differenza più profonda di quanto non sembri:

Il falso uso che Moore fa della proposizione "Io so" consiste in questo: che la considera una manifestazione che non si può mettere in dubbio più di quanto non si possa mettere in dubbio, per esempio, "Io provo dolori". E siccome da "Io so che è così" segue. "È così", anche di quest'ultima proposizione non si può dubitare (ivi, § 178).

Sarebbe corretto il dire "Io credo..." ha una verità soggettiva, mentre "Io so" non ce l'ha (ivi, § 179).

"Io credo" è un atto espressivo, ma non lo è "Io so..." (ivi, § 180).

Di qui possiamo trarre la nostra prima tesi: la proposizione "Io so che..." non vuole rendere noto un atteggiamento vissuto, ma esprime innanzitutto un impegno poiché quando dico di sapere qualcosa mi assumo insieme la responsabilità che ciò che dico sia vero. Per dirla ancora una volta con Wittgenstein: invece di dire "Io so", Moore avrebbe potuto dire "Io giuro" (ivi, § 181), poiché di fatto quando dichiariamo di sapere qualcosa vogliamo anche dire a chi ci ascolta che di noi in questo caso si può fidare. Dire "lo so io!" significa dunque assumersi da un lato determinate responsabilità, dall'altro invitare chi ci ascolta a non porsi ulteriori domande.

E tuttavia "Io giuro" non significa "Io so" - questo è anche troppo ovvio. Il motivo ci è già noto: anche in questo caso dobbiamo ricordarci della forma "io credevo di sapere", - una forma che nel caso del giuramento non può essere riproposta. Certo, il giurare è un atto che può implicare una qualche cerimonia, la cui ignoranza potrebbe invalidare il giuramento; e tuttavia è, nella norma, privo di senso dire "io credevo di giurare, ma in realtà non stavo giurando affatto". Di qui la necessità di riflettere su che cosa distingua l'impegno che si assume chi promette qualcosa da ciò che accade quando qualcuno afferma di sapere determinate cose. Di questa differenza potremmo forse rendere conto così: se per esempio prometto di essere clemente agli esami, mi impegno rispetto a chi mi ascolta a comportarmi in un certo modo, e un impegno ha luogo anche se affermo di sapere come andranno in realtà le cose. Ma in questo secondo caso chi ascolta non può affatto accontentarsi di un'assunzione di responsabilità, ma è legittimato a chiedere le ragioni - quelle ragioni che debbono essere presenti se di un sapere si vuole parlare. Posso pure promettere di essere clemente, ma so che non manterrò quella promessa, perché conosco la mia indole malvagia. Chi promette si impegna ad un comportamento determinato; chi afferma di sapere si fa garante della veridicità di un enunciato fondandosi su un insieme di buone ragioni. Scrive Wittgenstein:

"Io so" si dice quando si è pronti a dare ragioni cogenti. "Io so" si riferisce a una possibilità di provare la verità. Si può mostrare se qualcuno sa qualcosa, posto che ne sia convinto (ivi, § 243).

Spesso "io lo so" vuol dire: ho buone ragioni per dire quello che dico. Quindi se l'altro conosce il gioco linguistico dovrebbe ammettere che lo so. Se conosce il gioco linguistico, l'altro deve essere in grado di immaginare come si possa sapere una cosa del genere (ivi, § 18).

Se non so se una persona abbia due mani (per esempio non so se le mani gli siano state amputate o no) posto che si tratti di una persona degna di fede crederò alla sua assicurazione di avere due mani. E se dice che lo sa, questo per me può significare soltanto che quella persona ha potuto convincersene, e che dunque, per esempio, le sue braccia non sono più nascoste da coperte e da bende, ecc. ecc. Il fatto che qui io creda a questa persona degna di fede deriva dunque da questo: che gli riconosco la possibilità di convincersi (ivi, § 23).

Quest'ultima riflessione spiega bene il senso dell'osservazione che la precede: se qualcuno mi dice di sapere qualcosa, gli credo non perché - o soltanto perché - è una persona degna di fede, ma perché posso ben comprendere come si possa nella sua situazione attingere quegli elementi di prova che in generale permettono di parlare di un sapere. Posso crederti quando affermi di sapere come si è svolta la battaglia di Bibracte, perché mi hai appena detto che hai da poco terminato la lettura del De bello gallico, in cui di quella battaglia si narra. Non sarei altrettanto sicuro di quello che affermi se tu mi dicessi di sapere molte cose sul modo in cui si vive in Cina, poiché so che non sei masiu stato in quel lontano paese.

Di qui, da queste considerazioni generali, possiamo trarre una nuova conclusione relativamente al significato dell'espressione "Io so che...". Ora, possiamo infatti osservare che questa proposizione non soltanto non rende noto uno stato d'animo soggettivo, ma ha - per la sua stessa natura - un significato eminentemente obiettivo. Chi dice di sapere non soltanto non esprime una sua convinzione, ma di fatto sottomette la sua affermazione ad un insieme di ragioni che la giustificano e che debbono essere condivise dagli altri. Così come non dobbiamo dimenticarci dell'espressione "credevo di sapere", alla stessa stregua dobbiamo ricordarci della forma "Tu credi di sapere" - una proposizione, questa, che ha senso solo perché il fondamento su cui poggia la legittimità del mio dire "Io so che..." è il fondamento pubblico delle buone ragioni che ci convincono della veridicità di ciò che si ritiene di sapere. Anche qui, dunque, ci imbattiamo in una differenza significativa rispetto a forme come "Io credo che..." o "Io sono certo che...", poiché è evidente che non potremmo davvero dire a qualcuno "Tu credi di credere" o "Tu credi di essere certo":

a chi uno dice di saper qualcosa? A se stesso o a un altro. Se lo dice a se stesso, allora come si distingue ciò che dice dalla constatazione che lui è certo che le cose stiano così? Non c'è nessuna sicurezza soggettiva che io sappia qualcosa. Soggettiva è la certezza, non il sapere. Se dunque mi dico: "Io so di avere due mani", e quello che dico non deve soltanto dare espressione alla mia certezza soggettiva, allora devo potermi convincere di avere ragione (ivi, § 245).

Siamo così ritornati al cuore del problema, e cioè alla tesi secondo la quale l'espressione "io so" si usa quando si è pronti a dare ragioni cogenti, solo che ora sottolineiamo che queste ragioni debbono essere ragioni condivisibili, ed è di qui che si comprende il senso di un'osservazione altrimenti oscura di Wittgenstein:

che cosa sia una ragione valida non lo decido io (ivi, § 271)

o per esprimerci con un'osservazione tratta dalla Philosophische Grammatik:

una ragione si può dare solo all'interno di un gioco linguistico (Werkausgabe, v, § 97).

Che cosa sia una buona ragione per convincersi della veridicità di una proposizione non possiamo essere noi a deciderlo, poiché la regola d'uso del gioco linguistico di cui discorriamo presuppone che gli altri possano decidere se davvero sappiamo - se, in altri termini, le ragioni da cui ci lasciamo convincere sono davvero buone ragioni. Così, se facendo le scale di casa avverto viva la sensazione che sia accaduto qualcosa non posso dire che so che qualcosa è accaduto, perché per quanto viva sia questa mia supposizione, non per questo mi è lecito farmi convincere da un simile argomento. Che cosa è una buona ragione non lo decido io, ma il gioco linguistico - quella prassi che ho appreso e che mi ha insegnato ad usare la parola "sapere" solo quando mi è possibile dare per le mie affermazioni un certo tipo di ragioni.

Di questo primo risultato possiamo ora dichiararci soddisfatti, anche se ciò significa prendere le distanze dalle riflessioni di Moore, poiché in questo in Moore ci aveva innanzitutto colpito: il suo tentativo di sostenere che vi sono proposizioni che sappiamo anche se non abbiamo ragioni per sostenere la loro verità:

ci troviamo tutti, credo, in questa strana situazione: sappiamo di fatto molte cose, riguardo alle quali sappiamo anche che dobbiamo aver avuto qualche prova evidente della loro verità, ma non sappiamo come siamo venute a saperle, cioè non riusciamo a individuare la prova originaria della loro verità (in difesa del senso comune, in Scritti filosofici, op. cit., p. 35).

Ecco, l'uso dell'espressione "io so che..." sembra propriamente escludere questa possibilità: il gioco linguistico con il verbo "sapere", proprio perché tollera le forme "credevo di sapere" e "credi soltanto di sapere", ha la forma di una prassi che si legittima nel rimando ad un insieme di possibili buone ragioni.

Così, pur con qualche cautela che è giustificata da qualche riflessione wittgensteiniana che sembra voler mettere nuovamente tutto in discussione, possiamo dire perché la formula "Io so...", che per Moore esprime l'atteggiamento che dobbiamo assumere rispetto alle tesi del senso comune, desta necessariamente un sospetto fondato: il fastidio che avvertiamo nell'enfasi che la forma "io so!" proietta sulle tesi del senso comune non ha la sua radice soltanto nelle consuetudini della lingua ma nelle regole di un gioco linguistico - il gioco linguistico secondo il quale chi dice di sapere vincola la sua affermazione al suo disporre di un insieme di ragioni che sanno convincerlo della veridicità di ciò che dice.

Di qui è possibile trarre una prima valutazione della distanza che separa Wittgenstein dalle pagine di Moore. Per Moore le proposizioni del senso comune sono un sapere di cui è lecito non rendere conto, e questo proprio perché solo così è possibile rispondere allo scettico: proponendo un sapere che si regge senza un fondamento che possa essere messo in dubbio. Se ci limitiamo a dire che il mondo c'è senza esibire i criteri su cui far poggiare questo nostro sapere, togliamo allo scettico il diritto di negare la conoscenza mostrandone soltanto l'inaffidabilità. Così, di fronte a un sapere che presenta ciò che sa rinunciando esplicitamente a fondarsi su un qualsiasi criterio, allo scettico non resta altra via di uscita che opporre il no al sì, che disporsi sul terreno dogmatico ed affermare qualcosa - che il mondo non c'è o che non sa se vi è. La formula "io so!" che il filosofo premette alle tesi del senso comune diviene così l'arma per costringere lo scettico a dire che cosa egli sa o non sa sul mondo, e siccome il sapere indica pur sempre una relazione tra un insieme di proposizioni e una soggettività (l'io che sa) diventa poi possibile per Moore mostrare come ciò che lo scettico afferma di non sapere è presupposto da ogni suo effettivo comportamento. Ma si tratta di un'arma spuntata, poiché l'uso del verbo sapere cui Moore ci invita è un uso filosofico, che nasce da un'incomprensione della grammatica di quel termine. Di quest'uso dobbiamo liberarci, come di un fraintendimento del linguaggio motivato da preoccupazioni filosofiche: Moore forza il linguaggio in una direzione particolare perché vuole attribuire ad alcune proposizioni uno statuto logico peculiare - vuole porle da un lato come asserzioni inconfutabili, dall'altro come proposizioni contingenti che dobbiamo aver acquisito conoscitivamente. In una sua riflessione ironica, Wittgenstein osservava che i filosofi sono come selvaggi che non comprendono il linguaggio ordinario e avanzano per questo strane congetture. Liberarsi da queste strane ipotesi vuol dire allora dimenticarsi dell'impiego filosofico dei termini più consueti cercare di rimanere aderenti all'uso ordinario del linguaggio:

Vorrei riservare l'espressione "Io so" per i casi in cui la si usa nel normale commercio linguistico (ivi, § 260).

E tuttavia, lo abbiamo già osservato, il progetto di Moore non può essere semplicemente congedato ponendo l'indice sulla discrasia tra il linguaggio filosofico e il linguaggio ordinario, ed uno dei compiti che è ragionevole porsi per comprendere il senso di queste pagine wittgensteiniane consiste proprio in questo: nel cercare di comprendere le ragioni per le quali la riflessione sul senso comune di Moore è comunque importante per venire a capo del problema della certezza. Di qui la necessità di indugiare ancora sulla grammatica del verbo sapere e sulla relazione che lo stringe alle forme dell'errore e del dubbio.

 

 

 

 

 

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