Paolo Spinicci


Il mondo della vita e il problema della certezza
Lezioni su Husserl e Wittgenstein

 

 

 

 

 

 

 

 Lezione quindicesima

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2. Sapere, dubitare, sbagliare

 

 

 

 

 

Le considerazioni che abbiamo appena proposto ci hanno mostrato quanto rilevante sia la distanza che separa Wittgenstein da Moore per ciò che concerne la grammatica filosofica del verbo "sapere". Questa distanza, del resto, ci appare in tutta la sua rilevanza non appena attiriamo l'attenzione su un fatto che abbiamo dianzi rammentato. Per Moore, dire "Io so che la Terra esiste da molti anni" significa proporre un'asserzione su cui non è possibile dubitare e che è certamente vera; per Wittgenstein, tuttavia, al di là di ogni valutazione concernente il contenuto di senso delle proposizioni del senso comune su cui Moore chiede il nostro assenso, il porle sotto l'egida del sapere significa necessariamente costringerle nello spazio di quelle proposizioni su cui è lecito dubitare e su cui è possibile sbagliarsi.

Che le cose stiano così per Wittgenstein, non è difficile mostrarlo. Si può dire "io so che..." solo quando si possono dare ragioni cogenti, e dunque solo quando si è disposti a rendere conto della verità di ciò che si dice; tuttavia, proprio in questo fatto è implicito il rimando alla possibilità del dubbio o dell'errore: se di una proposizione dobbiamo rendere conto è perché è comunque sensata l'ipotesi che quella proposizione sia falsa. Potremmo anzi esprimerci così: quando diciamo che "Io so che p", questa nostra proposizione può essere intesa come una risposta risolutiva ad un possibile dubbio. Dubitiamo di qualcosa e proprio per questo cerchiamo le ragioni che placano la nostra coscienza e che ci permettono di dire che p è vera: il sapere dunque nega il dubbio o, come potremmo altrimenti esprimerci, risponde ad una domanda. Ma vale anche la reciproca: abbiamo bisogno di ragioni proprio perché per tutto ciò che possiamo sapere il dubbio è comunque possibile. Certo, per dubitare abbiamo bisogno di ragioni (ivi, § 122), e di fatto sappiamo molte cose intorno alle quali non abbiamo mai nutrito il minimo dubbio, come per esempio la legge di gravitazione universale o il nome della capitale della Francia. Ma dubitare è possibile, e sapremmo dire con chiarezza quale forma dovrebbe assumere un simile dubbio, quali ragioni potrebbe trovare per accrescere e per indebolire le pretese della proposizione cui si applica. Così, anche se non è vero che il dubbio si annidi in ogni conoscenza, è comunque vero che il suo campo di applicazione coincide con quello del sapere e che quindi alla domanda wittgensteiniana:

Si può dire "Dove non vi è dubbio non vi è nemmeno sapere"? (ivi, § 121)

si può in questo senso dare una risposta affermativa. Il dubbio è sempre dubbio relativamente ad una conoscenza possibile e - correlativamente - ogni conoscenza è in linea di principio riconducibile, come sua negazione, ad un possibile dubbio. Potremmo allora esprimerci così: il sapere, proprio perché in generale è attestazione del fatto che vi sono buone ragioni per dire che è vero ciò che crediamo, si dispone sullo stesso terreno del dubbio - sul terreno che è circoscritto dalla sensatezza della prassi volta a soppesare le ragioni che parlano a favore o contro un determinato asserto.

Un discorso analogo vale anche per la possibilità dell'errore. Anche l'errore concerne quelle proposizioni per cui ha un senso soppesare il pro e il contro. E ciò è quanto dire: proprio come il dubbio, anche l'errore è errore relativamente ad una conoscenza possibile. Lo spazio logico dell'errore - lo spazio in cui un errore è possibile - coincide dunque con lo spazio logico del dubitare e del sapere, con lo spazio in cui un sapere e un dubitare sono in linea di principio sensati. A partire di qui la distanza da Moore sembra profilarsi con ancor maggiore chiarezza: se dubbio, sapere ed errore si contendono lo stesso terreno e se in linea di principio possono l'uno prendere il posto dell'altro, allora l'ipotesi che si possa dire di una proposizione che so che è al di là di ogni possibile dubbio è, per così dire, una contradictio in adjecto, - di ogni proposizione che dico di sapere si può avanzare poi il dubbio che sia falsa.

Queste considerazioni sono ancora una volta ovvie, e tuttavia se è opportuno proporle è perché nel richiamare la nostra attenzione su di esse, Wittgenstein intende insieme farci riflettere su di un fatto che merita un interesse più approfondito. Questo fatto concerne innanzitutto il nostro impiego di termini come "dubbio" ed "errore", - un impiego che è caratterizzato dal fatto che il dubbio e l'errore sembrano comunque presupporre un contesto di convinzioni vere e certe. Possiamo sbagliarci in molti casi e possiamo spesso essere preda del dubbio: questo è ovvio. Ma che dire se l'errore e il dubbio fossero la norma? Possiamo davvero immaginare che un mondo in cui dubbio ed errore la facessero sempre da padroni?

Riflettiamo innanzitutto sulla natura dell'errore e immergiamoci allora nella finzione di un uomo che sbagli in tutto ciò che dice e che commetta errori anche là dove non ci sembra possibile che ciò accada:

Potremmo immaginarci un uomo che sbagliasse sempre là dove riteniamo che un errore sia escluso e dove di fatto non ne incontriamo mai? Per esempio, quel tizio mi dice con la medesima sicurezza (e con tutti i segni della sicurezza) con cui lo dico che lui abita in questo luogo così e così, che ha questa determinata età, che viene da questa città così e così, ecc.; però si sbaglia. Ma in che rapporto sta con questo errore? Che cosa devo supporre? (ivi, § 67).

Che dire appunto di questo strano esempio? Che dire di una persona che commettesse errori anche là dove non ci sembra possibile commetterne? Dubiteremmo probabilmente del significato delle sue parole: della sua serietà e sincerità o avanzeremmo dei dubbi sulla sua salute mentale. Di una cosa tuttavia saremmo certi: che il protrarsi dell'errore e il suo spingersi anche là dove la possibilità di sbagliarsi non può essere presa in considerazione, trascinerebbe con sé la possibilità dell'accordo su cui il gioco linguistico poggia. Se gioco a scacchi con un amico che commette le più incredibili ingenuità e che muove i pezzi in modo tale da facilitare il mio gioco, sulle prime potrei ancora pensare ad errori, ma poi finirei con il convincermi che non giochiamo affatto allo stesso gioco e che solo apparentemente seguiamo le stesse regole. Un discorso analogo vale anche per i nostri giochi linguistici. Anche qui l'infrazione della regola deve essere un'eccezione e deve concernere solo certi casi se non si vuole che l'errore assuma la forma di una radicale negazione del gioco linguistico. Se qualcuno dicesse in tutta serietà che non ha un corpo, potremmo pensare che parli una lingua soltanto simile alla nostra, ma sorretta in realtà da altre regole, e lo stesso faremmo se qualcuno commettesse continuamente errori sulle cose più semplici:

per anni ho abitato all'indirizzo A, ho letto il nome della strada e il numero civico per un numero infinito di volte: qui ho ricevuto innumerevoli lettere e ho dato questo indirizzo a un numero enorme di persone. Se mi sbaglio su questo, il mio errore non è affatto più trascurabile che se io credessi (a torto) di scrivere in cinese e non in italiano (ivi, § 70).

Quest'ultimo dubbio deve essere preso alla lettera perché è così che reagiremmo se qualcuno commettesse errori inspiegabili - ci chiederemmo se parla davvero italiano. E ciò significa a sua volta che vi sono certi errori che non tolleriamo, poiché ci sembrano mettere in questione la comprensione delle regole del gioco. Così, se qualcuno ci dicesse di essere nato da pochi minuti, noi non ci limiteremmo a non credergli, ma penseremmo di essere di fronte ad una persona che non sa quel che dice e che, nel pronunciare una simile insensatezza, non commette un errore ma implicitamente toglie il terreno dell'accordo su cui poggiano verità e falsità. E ciò è quanto dire che, per potersi dire falsa, una proposizione deve essere comunque plausibile. O più precisamente: deve comunque accordarsi all'immagine complessiva che delle cose ci siamo fatti:

Si può dire: "Un errore ha non solo una causa, ma anche una ragione"? Cioè, all'incirca: si può inserire tra le conoscenze vere di chi sbaglia (ivi, § 74).

O se si preferisce:

L'esercizio dell'uso della regola mostra anche che cosa sia un errore nel suo impiego (ivi, § 29).

Il senso di queste osservazioni è, nel complesso, chiaro. Wittgenstein vuole sostenere che non è vero che ogni falsa credenza sia un errore (ivi, § 72), poiché un errore è tale solo se può comunque collocarsi nello spazio delle conoscenze vere di chi sbaglia, se dunque è tale da porsi come un'infrazione e quindi come una mossa che non soltanto non toglie il gioco linguistico ma si pone nello spazio definito dalla regola che, proprio per questo, può sanzionarla e giudicarla come una mossa erronea. Proprio come di un musicista si può dire che ha perso il tempo o il ritmo solo se nel corso dell'esecuzione di norma quel tempo o quel ritmo lo tiene rendendolo così percepibile come la struttura che sorregge l'evento musicale, così l'errore nell'applicazione della regola di un gioco linguistico presuppone la normalità del comportamento corretto: se l'errore è scarto da una regola d'uso, allora il suo porsi come un errore è possibile solo sino a quando la regola è comunque preservata nella sua specificità.

Le stesse considerazioni valgono naturalmente anche per il dubbio. Anche nel caso del dubbio possiamo immergerci nella finzione, così ricca di risonanze filosofiche, di un uomo che voglia dubitare di tutto. Ma ciò che a questo nuovo Cartesio spetta in sorte non è di fondare una nuova filosofia, ma solo di scalzare con la pretesa di un dubbio iperbolico la possibilità stessa del dubbio:

chi volesse dubitare di tutto, non arriverebbe neanche a dubitare. Lo stesso gioco del dubitare presuppone già la certezza (ivi, § 115).

Chi non è certo di nessun dato di fatto, non può neanche essere certo del senso delle sue parole (ivi, § 114).

Come faccio a sapere che un tizio dubita? Come faccio a sapere che usa le parole "Io ne dubito" così come le uso io? (ivi, 127).

Un dubbio senza fine non è neppure un dubbio (ivi, § 625).

Il dubbio iperbolico ha come prezzo il silenzio, poiché il dubbio iperbolico nega a se stesso la possibilità di esprimersi come dubbio, poiché il dubitare è un gioco linguistico tra gli altri e implica quindi un insieme di regole: le regole che sorreggono la prassi del dubitare e le regole che circoscrivono l'oggetto del dubbio. Ma il silenzio del dubbio iperbolico è di fatto ancor più inquietante, poiché in generale il linguaggio è una prassi che poggia su regole ed implica quindi un comportamento conforme ad esse. E poiché non vi è altro modo di imparare il significato delle parole che esser certi di alcuni giudizi che assolvono una funzione paradigmatica nel determinare che cosa posso intendere quando uso certi termini, è evidente che il dubbio iperbolico si porrebbe come una mossa che cancella la sua stessa possibilità. Così, perché si possa dubitare di avere un corpo, come Cartesio ci chiede di fare nella Prima delle sue Meditazioni, dobbiamo aver appreso che cosa significhi la parola "corpo" e ciò è possibile solo se non ci neghiamo il diritto di indicare qualcosa che possa fungere da modello cui vincolare la significatività di quel termine. Ma ciò è quanto dire che una parola non può dirsi compresa se non possiamo alludere ad una situazione paradigmatica che fissi la regola d'uso di quel termine, connettendola ad alcune asserzioni esemplarmente vere:

Del significato delle mie parole non sono più certo di quanto non lo sia di certi giudizi. Posso dubitare che questo colore si chiama "blu"? (ivi, § 126).

E ciò che è vero nel caso della finzione di un dubbio iperbolico, vale anche nel caso in cui il dubbio pretenda di far presa su ciò di cui non sapremmo come dubitare. Non ogni dubbio è possibile, poiché il dubitare di qualcosa presuppone comunque che si possano allegare ragioni per giustificare ciò che si crede e che queste ragioni possano essere revocate in dubbio. Su questo punto ci siamo già soffermati: il dubitare, proprio come il sapere, presuppone che abbia un senso chiedersi che cosa parli in favore e che cosa parli contro la veridicità di un certo assunto.

Ma le cose stanno sempre così? Si può davvero sempre sostenere che abbiamo ragioni per credere a ciò cui pure crediamo? L'ipotesi che dobbiamo fin d'ora vagliare è che la certezza sfugga a quest'ordine di considerazioni e che vi siano dunque credenze per le quali non ha affatto senso chiedersi se tutto parla in loro favore e nulla contro:

Ma si può anche dire: "Nulla parla contro, e tutto parla in favore del fatto che il tavolo è là anche quando nessuno lo vede"? Ma che cosa parla dunque a favore? (ivi, § 117).

A favore o contro questa tesi non parla nulla: ne siamo semplicemente certi, di una certezza che si manifesta in innumerevoli forme della prassi ma non per questo può porsi sotto l'egida di una ragione che la giustifichi. E di questa certezza non possiamo dubitare, così come non sappiamo dubitare del fatto che abbiamo proprio due mani - anche se questo naturalmente non significa che la proposizione "io ho due mani" sia necessariamente vera. Il punto è un altro: è che di quella proposizione sono certo, senza per questo fondarla su una qualche buona ragione. E del resto, quale potrebbe essere in questo caso, una buona ragione?

Se un cieco mi chiedesse: "Hai due mani?", non me ne accerterei guardandomi le mani. Sì, non so perché, se mai ne dubitassi, dovrei credere ai miei occhi. Infatti, perché non devo mettere alla prova i miei occhi guardando se vedo tutte e due le mie mani? Che cosa si deve controllare e con quale mezzo?! (ivi, § 125).

In circostanze normali, che io abbia due mani è tanto sicuro quanto qualsiasi altra cosa che potrei addurre come evidenza del fatto che ho due mani. Per questa ragione non sono nella posizione di considerare come evidenza di ciò il fatto che vedo le mie mani (ivi, § 250).

Qui il dubbio sembra smarrire la propria sensatezza, poiché il suo porsi mette in questione la possibilità stessa di effettuare un qualsiasi controllo. Gli esempi potrebbero essere moltiplicati. Posso dubitare che il soffitto di casa mia sia davvero alto tre metri, ma non posso dubitare che il metro sia lungo un metro: un simile dubbio cancellerebbe la possibilità stessa del misurare e con essa la sensatezza del dubbio rispetto ad una qualsiasi misurazione. E ancora: posso dubitare che la penna sia nel cassetto, ma se lo apro e non c'è non posso poi farmi prendere dal dubbio che vi sia ora che l'ho appena richiuso - un simile dubbio toglierebbe ogni senso alla prassi del cercare e del trovare e renderebbe quindi insieme insensato dubitare che qualcosa sia in un certo posto. Ma ciò è ancora una volta quanto dire che il dubbio è possibile soltanto all'interno di un sistema di certezze (ivi, § 247) e non è quindi possibile che esso si spinga sino a minare il gioco linguistico che ne circoscrive la sensatezza. Proprio come l'errore assume per noi la forma del disturbo mentale quando insiste su quelle certezze che fanno da metro della veridicità di altri giochi linguistici, così un dubbio che cercasse di far presa su ciò di cui non sappiamo dubitare perché è almeno tanto certo quanto ogni strumento per verificarlo cesserebbe di apparirci come un dubbio. La prassi del dubitare per aver senso e per poter essere riconoscibile per quello che è, presuppone un contesto di certezze:

Il dubbio ha certe manifestazioni caratteristiche, che sono tuttavia davvero caratteristiche soltanto in certe circostanze. Se un tizio dicesse che dubita dell'esistenza delle sue mani, e continuasse a guardarle da tutte le parti, e cercasse di convincersi che non c'è trucco fatto con gli specchi, o altre cose del genere, noi non saremmo sicuri di poter dire che tutto questo è un dubitare. Potremmo descrivere il suo modo di agire come uno dei comportamenti simili al dubitare, ma il suo gioco non sarebbe il nostro (ivi, § 255).

E ciò è quanto dire che un dubbio che pretende di sussistere anche in presenza di quei giudizi certi su cui infine poggia anche il gioco linguistico del dubitare, cancella le condizioni cui è vincolata la sua sensatezza e si pone al di là di quella prassi regolamentata che dà ad una certa sequenza di azioni il significato di un dubbio.

Quale conclusione dobbiamo trarre da queste considerazioni sui limiti interni alla possibilità del dubbio e dell'errore? Dobbiamo, io credo, renderci conto che lo spazio delle proposizioni cui crediamo non è interamente occupato dalle proposizioni su cui è lecito dubitare o che è in linea di principio possibile sapere - da quelle proposizioni, insomma, per cui è lecito domandarsi che cosa parli a favore e che cosa parli contro. Vi sono dunque proposizioni cui di fatto crediamo, ma che non possiamo dire di sapere:

"Io so" si dice quando si è pronti a dare ragioni cogenti. "Io so" si riferisce a una possibilità di provare la verità. Si può mostrare se qualcuno sa qualcosa, posto che ne sia convinto. Se però quello che crede è tale che le ragioni che può darne non sono più sicure della sua asserzione, allora non può dire di sapere quello che crede (ivi, § 243).

Non vi è dubbio che tra queste proposizioni vi siano, per esempio, le proposizioni di Moore e i suoi curiosi richiami al fatto che sappiamo di avere due mani. Ora, tuttavia, ciò che ci interessa è innanzitutto ribadire la tesi che abbiamo appena enunciato: l'universo delle credenze è più ampio dell'universo di ciò che si può dubitare o sapere. Così, se volessimo rappresentare graficamente la relazione che abbiamo appena espresso, potremmo semplicemente porre all'interno dell'insieme delle credenze il sottoinsieme delle proposizioni di cui ha senso dire "so che..." o "dubito che...".

Si tratta di una possibile schematizzazione della distinzione che abbiamo proposto, e tuttavia non è difficile scorgere in essa un aspetto falsante: un simile schema non ci dice ancora nulla circa la relazione - che pure abbiamo intravisto - tra le proposizioni che crediamo ma di cui non è possibile un sapere e le proposizioni che crediamo e che sappiamo. Sulla specificità di questa relazione dovremo in seguito tornare, ma fin d'ora possiamo anticipare un primo giudizio: ciò di cui non possiamo dubitare e ma che non possiamo nemmeno sapere vale per noi come una certezza che svolge una funzione istitutiva nei confronti di altri giochi linguistici. So che Cesare attraversò il Rubicone, perché ci sono fonti storiche che lo attestano; non posso dire invece di sapere che la Terra esisteva sin da prima che io nascessi poiché questa mia certezza è il terreno su cui poggia la mia fiducia nella possibile verità delle fonti storiche, nel loro poter essere ciò che pretendono di essere. Nessuna testimonianza può convincermi del fatto che la Terra c'era già molto tempo prima che io nascessi, poiché nessun racconto, nessun libro e nessun reperto archeologico può valere come una ragione per credere ciò cui debbo già credere se voglio prendere sul serio quelle testimonianze.

Di qui la possibilità di ritrovare una via per leggere in positivo il saggio di Moore, - un saggio che non può certamente essere seguito nelle sue linee di fondo, ma che sa comunque richiamare l'attenzione su un problema importante:

Quando dice di sapere questa e quest'altra cosa, Moore si limita, in effetti, a enumerare proposizioni empiriche cui noi assentiamo senza sottoporle a un controllo particolare, e dunque proposizioni che nel sistema delle nostre proposizioni empiriche svolgono una funzione logica del tutto particolare (ivi, § 136).

Le proposizioni che Moore enumera come esempi di verità che lui conosce sono davvero interessanti. Non perché tutti ne conoscano la verità, o tutti credano di conoscerla, ma perché tutte esercitano una funzione simile nel sistema dei nostri giudizi empirici (ivi, § 137).

Così, il fatto che nessuna delle proposizioni di Moore si ponga come risultato di una ricerca diviene ora lo spunto per una riflessione nuova, volta a mostrare come la certezza di quelle proposizioni dipenda dalla funzione che esse assumono nel sistema delle nostre proposizioni, dal loro avere un ruolo nell'immagine complessiva del mondo che ci è propria..

 

 

 

 

 

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