Paolo Spinicci


Il mondo della vita e il problema della certezza
Lezioni su Husserl e Wittgenstein

 

 

 

 

 

 

 

 Lezione sedicesima

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. Il metro campione e la prassi del misurare

 

 

 

 

 

Se dovessimo brevemente indicare il risultato della lezione precedente potremmo forse esprimerci così: Wittgenstein riconosce che vi è un insieme di certezze di cui non è lecito dubitare, e tuttavia sostiene che la loro indubitabilità non può valere come un segno del fatto che nel pronunciarle io sia infallibile, ma dalla funzione che ad esse compete all'interno del sistema delle mie credenze. Quale sia questa funzione l'abbiamo soltanto accennato: vi sono credenze che sono implicate da una molteplicità di giochi linguistici e che costituiscono il terreno su cui si essi si fondano e il metro di cui si avvalgono. Posso dubitare di aver eseguito correttamente un calcolo sull'abaco, e per questo posso ripetere una seconda e una terza volta l'operazione: non posso invece dubitare che l'abaco abbia davvero dieci palline per fila, perché se metto in dubbio anche la mia capacità di contare sino a 10 nego necessariamente la possibilità di fare qualsiasi altra operazione numerica.

Su questo punto dobbiamo cercare di venire in chiaro, e tuttavia piuttosto che rivolgere fin da principio lo sguardo al problema complesso della relazione che le certezze stringono con l'universo delle proposizioni del sapere è forse opportuno attirare l'attenzione su un terreno più circoscritto in cui tuttavia il problema che anima le pagine di Della certezza si manifesta per la prima volta: la prassi della misurazione. Anche su questo terreno possiamo indicare innanzitutto un campo di possibili risultati: ogni res extensa può essere misurata e ciò significa da un lato che è possibile determinare un numero che caratterizza la sua dimensione, dall'altro che è possibile indicare una prassi che ci permette di rendere ragione di quel numero e di accertare ciò che parla a favore di quella determinazione numerica. Così, se dico che sono alto 175 centimetri dico qualcosa che può essere messa in dubbio e controllata secondo una prassi che posso descrivere in modo sufficientemente preciso: il misurare è una prassi conforme a una regola, e si può in generale dire che è in linea di principio possibile indicare quale sia la distanza che separa i due estremi di un qualsiasi oggetto. Di tutti gli oggetti, per il vero, tranne uno:

Di una cosa non si può affermare e nemmeno negare che sia lunga un metro - del metro campione di Parigi. - Naturalmente con ciò non gli abbiamo attribuito nessuna proprietà straordinaria, ma abbiamo soltanto caratterizzato la sua funzione particolare nel gioco del misurare con il metro. Possiamo esprimere ciò nel modo seguente: questo campione è uno strumento del linguaggio col quale facciamo asserzioni relative [alla lunghezza]. In questo gioco non è ciò che è rappresentato, ma è il mezzo della rappresentazione [...]. Ciò che apparentemente deve esserci, appartiene di fatto al linguaggio. È un paradigma del nostro gioco: qualcosa con cui si fanno confronti. E constatare ciò vuol dire fare una constatazione importante; ma resta una constatazione che riguarda il nostro gioco linguistico - il nostro modo di rappresentazione (Ricerche filosofiche, op. cit., § 50).

Il senso di questa proposizione è chiaro. Del metro campione non possiamo dire che è lungo un metro, poiché affermare di qualcosa che è lunga un metro significa attribuirle una proprietà che spetta alle cose solo in quanto possono essere fatte combaciare con un oggetto particolare che funge da unità di misura. Quanto poi all'unità di misura, è evidente che è possibile renderla oggetto di una misurazione: se ho dubbi sull'esattezza di un metro posso confrontarlo con un altro metro, che ritenga più sicuro, perché fatto di un materiale meno deformabile. Prima o poi, tuttavia, una simile prassi deve aver termine, poiché infine ogni misurazione rimanda ad un oggetto che valga come paradigma e quindi come unità di misura. Di quest'oggetto che vale come paradigma della prassi di misurazione - del metro campione conservato a Parigi - non si può più dire che è lungo un metro, poiché in questo caso, a dispetto della forma linguistica enunciativa, non ci troveremmo affatto di fronte ad una proposizione che afferma di qualcosa che ha una certa proprietà (che dice di una barra di platino conservata a Parigi che è lunga un metro), ma alla formulazione linguistica di una regola che indica il modo in cui intendiamo avvalerci del metro campione nella prassi del misurare. Così, quando, indicando il metro campione, dico "questo è lungo un metro" non intendo in primo luogo formulare un giudizio poiché non mi prefiggo di affermare qualcosa sulle proprietà di un oggetto, ma voglio solo rendere esplicito il modo in cui d'ora in poi utilizzerò il metro nella prassi del misurare - sto dunque proponendo un uso linguistico. Prima dei risultati della misurazione che ci dicono di ogni oggetto quanto sia grande vi è dunque la prassi istitutiva del gioco linguistico, la ripetizione paradigmatica di una prassi che definisce insieme qualcosa come strumento della misurazione, come unità di misura - un termine che dobbiamo cercare di capire, poiché in realtà racchiude in sé la risposta al nostro problema: il metro campione è appunto lungo un metro, poiché lo usiamo come unità nella misurazione.

Del resto, che l'espressione "questo è lungo un metro", detto indicando ciò che funge da metro campione, non sia una proposizione in senso proprio è già racchiuso nel fatto che l'ipotesi che il metro campione non sia lungo un metro non è soltanto falsa, ma insensata. Pronunciarla significherebbe infatti negare ciò che si concede per ipotesi, e cioè che si possa impiegare questo regolo rigido (per es., la sbarra di platino che si conserva a Parigi) come metro campione.

Di qui possono essere tratte alcune conclusioni. La prima ci riconduce al fatto che la necessità degli elementi campione è di natura puramente linguistica; i campioni debbono esistere solo in quanto sono paradigmi linguistici:

Ciò che corrisponde al nome, e senza il quale il nome non avrebbe alcun significato è, ad esempio, un paradigma che nel gioco linguistico viene usato in connessione con il nome (ivi, § 55)

Il metro campione deve essere conservato, deve esistere, perché senza di esso non si può misurare. E tuttavia la necessaria esistenza di questo oggetto che si merita davvero il suo posto in una teca di un museo - in questa moderna versione del cielo iperuranio - non parla il linguaggio ontologico della dottrina delle idee ma ci riconduce al ruolo che esso esercita del gioco linguistico del misurare.

In quest'ordine di considerazioni ci imbattiamo del resto anche quando rammentiamo quali siano le proprietà che il metro campione, in quanto tale, deve avere. Per misurare è necessario un metro, ma il metro campione (e tale è ogni metro nell'atto del misurare) deve essere un oggetto la cui grandezza non muta. Ma ciò è quanto dire: l'essere sempre eguale in grandezza non è una proprietà empirica del metro campione, che è appunto qualcosa di cui non si può dire che sia grande un metro in un qualsiasi istante di tempo - si tratta infatti di una caratteristica che parla non dell'oggetto, ma del ruolo che esso svolge nella misurazione. Rileggiamo l'osservazione di Wittgenstein:

Di una cosa non si può affermare e nemmeno negare che sia lunga un metro - del metro campione di Parigi. - Naturalmente con ciò non gli abbiamo attribuito nessuna proprietà straordinaria, ma abbiamo soltanto caratterizzato la sua funzione particolare nel gioco del misurare con il metro (ivi, § 50).

Ancora una volta, il rimando alla funzione paradigmatica delle idee platoniche può permetterci di comprendere meglio il senso del nostro problema. Per Platone, le idee assolvono una funzione paradigmatica, ma questa loro funzione dipende dall'esemplarità del loro essere: possiamo chiamare unità le singole cose che contiamo, si legge nel Fedone, solo perché possiamo rapportarle all'unica cosa che merita davvero questo nome - all'idea di unità, all'eidos immobile e sempre identico a sé che funge da paradigma. Per Wittgenstein il quadro è mutato: della barra di platino che funge da metro campione non possiamo dire che è inalterabile e che è, vedi il caso, lunga esattamente un metro, ma diciamo invece che nel gioco linguistico della misurazione quell'oggetto vale come il paradigma immutabile cui rapportare la lunghezza degli oggetti misurati. Io dunque non so se il metro campione è inalterabile; sono tuttavia certo che così lo uso, proprio come non dubito che questo significhi misurare, anche se non posso tentare di giustificare questa prassi. Le spiegazioni e le giustificazioni prima o poi finiscono, e non resta altro che descrivere la regola che sorregge la prassi, e che ci consente di apprenderla.

E tuttavia sarebbe un errore pensare che i presupposti della prassi della misurazione siano soltanto il frutto di un'assunzione arbitraria. Che la barra di platino di Parigi sia un metro campione dipende dalla funzione che gli assegno nella prassi della misurazione; ma che sia un buon paradigma dipende anche dal fatto che in quella prassi sia possibile intendersi, e questa possibilità fa tutt'uno con quelle caratteristiche che sono garantite dalla misurazione con un regolo rigido. Così, se ci chiediamo quali siano le condizioni che rendono comprensibile e sensato il gioco linguistico del misurare, ci imbatteremo fin da principio nella constatazione che questa prassi ha come suo fondamento la costanza delle misurazioni: il misurare ha un senso solo se più misurazioni dello stesso oggetto danno più o meno lo stesso risultato. Non solo: se la richiesta di misurazioni sempre più accurate ci ha indotto a scegliere come regolo rigido oggetti sempre diversi, ciò non dipende da un capriccio insensato, ma dalla necessità di porre i risultati della misurazione nel contesto del nostro sapere. Così, posso senz'altro affermare che l'inalterabilità del metro campione dipende dalla funzione che esso esercita nel gioco linguistico, ma non per questo debbo dimenticare che i risultati delle mie misurazioni si inseriscono in un sistema di proposizioni, che a loro volta decide della loro plausibilità e della possibilità di impiegare un qualche oggetto come metro campione. Ma ciò è quanto dire che la possibilità stessa del misurare dipende dalla costanza dei risultati ottenuti e dalla loro capacità di inserirsi in un sistema più ampio di conoscenze. Per quanto questo possa suonare strano, la sensatezza del gioco linguistico della misurazione dipende anche dal suo successo:

Della comprensione che si raggiunge con il linguaggio non fa parte solo la concordanza nelle definizioni, ma anche (per quanto strano ciò possa sembrare) la concordanza nei giudizi. Ciò sembra togliere di mezzo la logica, ma non è così. - Una cosa è descrivere i metodi di misurazione, un'altra ricavare ed enunciare i risultati della misurazione. Ma ciò che chiamiamo "misurare" è determinato anche da una certa costanza nei risultati della misurazione. (ivi, § 242).

Si tratta di un'affermazione impegnativa, poiché effettivamente sembra minare un presupposto di fondo della logica: la tesi secondo la quale la sensatezza di un enunciato è prima della sua eventuale verità o falsità e quindi non ne dipende. Ora questa tesi, che è uno dei punti fermi del Tractatus, deve essere messa da parte per riconoscere che possiamo apprendere il gioco della misurazione solo se chi misura la lunghezza di un certo oggetto (che si ritiene per buone ragioni invariato) ottiene sempre (o pressoché sempre) lo stesso risultato: se la misurazione desse risultati casuali, se il metro mutasse improvvisamente la sua lunghezza (e cioè: se gli oggetti misurati avessero sempre di nuovo grandezze differenti) sarebbe per noi impossibile comprendere il senso della strana cerimonia cui assistiamo. Riportare più volte da un estremo all'altro di un certo oggetto un regolo rigido e poi dire ad alta voce un numero non significa ancora misurare una lunghezza; perché ciò accada è necessario un momento di identità: il numero che si assegna allo stesso oggetto deve essere sempre lo stesso, poiché solo nella possibilità della ripetizione si manifesta la regola che dà un senso a quella prassi. E ciò è quanto dire che nella concordanza dei giudizi trova dunque espressione l'effettiva percorribilità di un gioco linguistico, il suo essere non soltanto una pratica condivisa, ma condivisibile.

 

 

 

 

 

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