Paolo Spinicci


Il mondo della vita e il problema della certezza
Lezioni su Husserl e Wittgenstein

 

 

 

 

 

 

 

 Lezione diciasettesima

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. La logica dei giochi linguistici e la certezza

 

 

 

 

 

 Il risultato cui siamo giunti nelle lezioni precedenti può essere rapidamente richiamato alla memoria proponendo uno schema che traggo da un libro di Michael Kober (Gewissheit als Norm. Wittgensteins erkenntnistheoretische Untersuchungen in "Über Gewissheit", De Gruyter, Berlin - New York 1993) sul problema della certezza in Wittgenstein:

 

 

Credenze in S

 

 

Spazio del dubbio in S

Certezze

 

 

S

Vn-->Vi-->...V3-->V2-->V1

...-->(C1...Cn)

 

 

 

Spazio del sapere in S

Proposizioni empiriche che fungono da norma di rappresentazione in V1...Vn

 

 

 

 

Questo schema si legge così: data una prassi S (la ricerca storica, per esempio) vi è innanzitutto l'insieme delle proposizioni fondate di S - l'insieme delle verità storiche accertate sulla base di documenti, di fonti indirette, e così di seguito. Tutte queste verità, tuttavia, presuppongono che una ricerca storica sia in generale possibile, e ciò significa dichiararsi disposti a credere, per esempio, che la Terra esista già da molto tempo prima della nostra nascita, che gli antichi uomini avessero comunque un linguaggio e pratiche simili alle nostre e che dunque i reperti e le iscrizioni possano essere intese noi le intendiamo - come utensili o come testimonianze affidate alla parola scritta. Su queste e altre cose allo scolaro dell'esempio non è più lecito dubitare: se davvero dubitasse anche di questo, come unico risultato si impedirebbe l'accesso ad una molteplicità di comportamenti che fanno parte della nostra forma di vita.

Tutto questo dovrebbe essere ormai chiaro. E tuttavia non è difficile scorgere proprio in questo schema la forma più generale di un problema in cui ci siamo già imbattuti e che costituisce nella sua generalità il motivo teorico di queste pagine - un problema che potremmo formulare così: vi sono proposizioni cui dobbiamo credere se vogliamo realizzare la condizione su cui poggia la sensatezza di molte altre. Per dirla con un esempio: che la terra esista da prima della mia nascita è una proposizione contingente, e tuttavia debbo già credere ad essa se voglio che abbiano un senso le indagine sulle fonti e sulle testimonianze storiche. È a questo problema che Wittgenstein pensa quando osserva che

la verità di certe proposizioni empiriche appartiene al nostro sistema di riferimento (ivi, § 83)

- una tesi, questa, che non soltanto equivale ad affermare che il sistema di coordinate del nostro linguaggio - la sua forma grammaticale - è per così dire ancorato ad un insieme di proposizioni contingenti sulla cui certezza non è lecito dubitare, ma che a sua volta implica che queste stesse proposizioni appartengano alla grammatica del linguaggio poiché sono le condizioni della sua applicazione al mondo.

Muoviamo innanzitutto da questo secondo punto. Che alla forma del linguaggio appartenga anche ciò che permette alle singole proposizioni o ad ogni singola mossa di un gioco linguistico di far presa sulla realtà, è una delle tesi caratteristiche della riflessione filosofica di Wittgenstein, e sin dai tempi del Tractatus (proposizione 2.1513). Ed è una tesi che ha un forte significato filosofico: ricondurre alla forma grammaticale del linguaggio - al suo simbolismo o ai suoi mezzi di rappresentazione - anche ciò che determina il suo nesso con la realtà significa infatti garantirne l'autonomia e la chiusura.

Ora, finché ci si muove sul terreno della riflessione filosofica del primo Wittgenstein questa tesi chiama in causa il punto in cui la proposizione e lo stato di cose da essa inteso giungono a contatto. Quale sia questo punto è presto detto: la proposizione, per il Tractatus, ha la forma di un'immagine proposizionale e può intendere uno stato di cose perché lo raffigura - perché alla relazione tra oggetti che costituisce lo stato di cose fa corrispondere un'analoga relazione tra nomi. E poiché non dobbiamo addentrarci in questo tema, possiamo affidare la nostra comprensione ad un esempio. Una successione di tre note è uno stato di cose: tre suoni si rapportano gli uni agli altri nello spazio sonoro. Rappresentarli vorrà dire costruire uno spazio logico - il pentagramma - e segnare sul pentagramma tre punti che stiano tra loro nella stessa successione e nello stesso rapporto di altezze dei suoni che abbiamo appena ascoltato. La prima condizione per l'applicazione dell'immagine allo stato di cose inteso è dunque la comunanza della forma: la successione di suoni e la successione dei punti sul pentagramma debbono condividere la stessa forma logica. Ma qualcosa ancora manca: perché il disegno sul pentagramma raffiguri la successione di note che abbiamo percepito dobbiamo ancora applicare l'uno all'altra, e per farlo dobbiamo connettere i punti-nomi ai suoni. Ora, proprio questa operazione che fa dei punti sul pentagramma nomi di suoni, o più in generale: degli elementi dell'immagine nomi degli oggetti dello stato di cose appartiene necessariamente al linguaggio, poiché non può essere attuata se non da una qualche operazione linguistica - per esempio da una tabella - che ancori il nome alla cosa. Wittgenstein in Philosophische Grammatik osserva che

la coordinazione tra nome e oggetto [...] è una parte del simbolismo (Werkausgabe, v, op. cit., § 56, p. 97)

e ciò significa appunto che il modo in cui il linguaggio determina il suo far presa sul mondo non può che essere determinato dal linguaggio.

Per quante cose cambino dal Tractatus alle Ricerche filosofiche questa tesi generale mantiene il suo senso: anche per il secondo Wittgenstein le condizioni che permettono al linguaggio di far presa sulla realtà debbono essere messe nel conto della grammatica, anche se ciò non significa più sostenere che gli stati di cose e le forme proposizionali condividono loa forma logica, ma nemmeno cercare il punto in cui l'immagine proposizionale tocca con le sue antenne gli oggetti degli stati di cose, ma vuol dire invece mostrare il radicamento dei nostri giochi linguistici. Così, se nel Tractatus il problema era sito nell'identità della forma logica e nel nesso tra nome ed oggetto come condizione dell'applicazione dell'immagine proposizionale allo stato di cose inteso, nel secondo Wittgenstein l'attenzione si sposta sul gioco linguistico nel suo complesso e sulle applicazioni paradigmatiche della regola su cui esso poggia. Di qui la diversa richiesta che il problema dell'applicazione del linguaggio alla realtà avanza alla grammatica dei giochi linguistici: ora ci imbattiamo infatti nella tesi secondo la quale al sistema di riferimento (e cioè alla grammatica) di ogni singolo gioco linguistico debbono appartenere anche quella o quelle proposizioni vere che nel gioco linguistico assolvono una funzione paradigmatica. Ancora una volta il rimando alla prassi della misurazione chiarisce bene il nostro problema. Misurare la lunghezza di un oggetto significa utilizzare un regolo rigido lungo un metro e riportarlo quante volte è necessario per giungere da un estremo all'altro di ciò che si intende misurare. Ora che cosa possa fungere da unità di misura lo decide naturalmente il linguaggio: il metro campione è appunto una parte del simbolismo della misurazione. E tuttavia porre quella barra di platino (o qualunque altro metro si impieghi) come unità di misura significa anche proporre una misurazione paradigmatica ("questo è lungo un metro") e creare così le condizioni che permettono al gioco del misurare di far presa sul mondo. Il nastro di stoffa che usiamo per misurare è così un Giano bifronte che da un lato appartiene al simbolismo del linguaggio, dall'altro - in quanto è una cosa lunga un metro - determina la regola di proiezione che stringe il gioco del misurare al mondo.

Di qui il primo punto cui precedentemente alludevamo. Se della grammatica di ogni singolo gioco linguistico debbono far parte anche le condizioni paradigmatiche della sua applicazione allora dobbiamo riconoscere che al nostro sistema di riferimento - e cioè alla forma grammaticale del nostro linguaggio - debbono appartenere anche alcune proposizioni empiriche. La forma linguistica è appunto ancorata su alcune certezze di fondo.

Basta tuttavia riflettere sulle considerazioni che abbiamo appena proposto per rendersi conto che in questa nuova forma che il problema wittgensteiniano assume è di fatto implicito anche un ripensamento della prospettiva filosofica che lo sorregge. Lo abbiamo dianzi osservato: la tesi secondo la quale alla forma del linguaggio appartiene anche ciò che permette alle singole proposizioni o ad ogni singola mossa di un gioco linguistico di far presa sulla realtà fa corpo con la prospettiva filosofica secondo la quale la grammatica del linguaggio deve essere autonoma, e autonomia significa letteralmente questo: che non è in alcun modo legittimo cercare di rendere conto delle regole della grammatica facendo riferimento ad una qualche altra norma, per esempio ad una qualche struttura profonda della realtà. Questa tesi è enunciata in forma lapidaria nella Philosophische Grammatik:

non chiamo convenzioni determinate regole di rappresentazione se si lasciano giustificare in questo modo: che la rappresentazione, che sia ad esse conforme, coincide con la realtà. così, la regola "Dipingi il cielo più chiaro di qualsiasi cosa riceva da esso la luce" non è una convenzione. Ma le regole della grammatica non si lasciano giustificare così - mostrando che la sua applicazione conduce ad una coincidenza della rappresentazione con la realtà. Una simile giustificazione dovrebbe infatti descrivere a sua volta ciò che è rappresentato (Werkausgabe, v, op. cit., § 134).

Per giustificare la forma grammaticale del linguaggio attraverso il rimando alla forma della realtà dovremmo a sua volta poterla rappresentare, e non si vede perché - conclude Wittgenstein - dovremmo concedere al linguaggio della giustificazione di proiettare le sue regole sulla grammatica del linguaggio che si pretende di giustificare.

Dalla tesi dell'autonomia della forma grammaticale Wittgenstein non intende liberarsi, e tuttavia questo problema deve essere ripensato ed in particolar modo deve essere profondamente ripensata la tesi secondo la quale la convenzionalità della forma della rappresentazione fa tutt'uno con l'impossibilità di giustificarla facendo riferimento ad una sua ipotetica coincidenza con la realtà, ed io credo che proprio questo problema costituisca il motivo teorico dominante nelle pagine di Della certezza - in queste pagine in cui ci si invita ad osservare come la possibilità di un gioco linguistico sia ancorata alla certezza di determinate proposizioni.

Una volta che si sia compreso che questa è la posta in gioco, possiamo tornare al nostro problema e chiederci che cosa significhi sostenere che la forma logica di un gioco linguistico è ancorata ad alcune certezze di fondo, o - come possiamo dire in prima approssimazione - poggia anche sulla verità di determinati giudizi. Questa tesi non deve essere fraintesa: riconoscere che determinati giudizi empirici (o in generale determinate certezze) fungono da principi del giudicare (Della certezza, op. cit., § 124) e appartengono quindi al sistema di riferimento dei nostri giochi linguistici non significa sostenere che la logica sia una scienza empirica e che la forma dei giochi linguistici sia un fatto tra gli altri. Trarre una simile conclusione vorrebbe dire non avere colto il duplice ruolo che le mosse paradigmatiche assumono all'interno di un determinato gioco linguistico: da un lato sono proposizioni vere, dall'altro modelli che ci guidano nella prassi e che ci permettono di controllare la correttezza di altre proposizioni. Scrive Wittgenstein:

se però qualcuno dicesse: "Dunque anche la logica è una scienza empirica" avrebbe torto. Ma questo è giusto: che la medesima proposizione può essere trattata una volta come una proposizione da controllare con l'esperienza, un'altra volta come una regola di controllo (ivi, § 98).

Il senso di queste affermazioni è chiaro. Wittgenstein ci invita a distinguere tra la dimensione grammaticale e la dimensione empirica, anche se ciò non significa che sia possibile tracciare un confine rigido tra le proposizioni che appartengono all'uno o all'altro dominio, poiché in generale è possibile che ciò che ora vale come un'asserzione possa mutare in seguito la sua funzione e fungere da regola del gioco. Di qui la tesi che Wittgenstein ci invita a percorrere: cercare di far luce sul sistema delle nostre credenze vuol dire innanzitutto attirare lo sguardo sulla possibilità di trasformare un'asserzione in un postulato o in un'ipotesi:

Dico: ogni proposizione empirica può essere trasformata in un postulato - e allora diventa una norma di rappresentazione. Ma anche di questo diffido. La proposizione è troppo generale. Quasi quasi si vorrebbe dire: "teoricamente ogni proposizione empirica può essere trasformata...", ma che cosa vuol dire qui "teoricamente"? Sa fin troppo di Tractatus logico-philosophicus (ivi, § 321).

Certo, in qualche misura le cose stanno proprio così: le certezze fungono da postulati su cui poggiano altre proposizioni, e questo rende almeno in parte legittimo il tentativo di comprendere il nesso che lega le certezze alle proposizioni che su di esse si fondano alla luce della relazione che lega le proposizioni di una teoria ai postulati o alle ipotesi che la caratterizzano. E tuttavia di questo modo di porre il problema Wittgenstein ci invita a diffidare. E non a caso: se all'origine delle nostre considerazioni dobbiamo porre le riflessioni di Moore sul senso comune, è evidente che il parlare di ipotesi o di postulati non può più di tanto convincerci, poiché le certezze del senso comune non sono state mai avanzate a titolo di ipotesi e sono principi di cui siamo da sempre certi. Dire che ogni proposizione empirica può essere trasformata in un postulato significa davvero avvalersi di una massima troppo generale, poiché una simile tesi non è in grado di distinguere ciò che infine deve essere distinto: il rapporto tra certezze e proposizioni vere da una parte e la struttura che abbraccia postulati e teoremi dall'altra.

E tuttavia, piuttosto che invitarci a tracciare fin da principio questo discrimine e a riflettere sulle diverse forme in cui i giochi linguistici si ancorano al mondo ponendo la loro forma sotto l'egida della certezza, Wittgenstein ci invita a seguire un cammino più complesso, che lascia emergere le differenze sullo sfondo di un terreno comune. Così, se il nesso che lega le proposizioni di una teoria ai postulati su cui si fonda può essere richiamato alla mente è perché il rapporto tra le certezze del senso comune e le credenze che su di esse si fondano deve essere colto sullo sfondo di una rete di situazioni affini.

 

 

 

 

 

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