Paolo Spinicci


Il mondo della vita e il problema della certezza
Lezioni su Husserl e Wittgenstein

 

 

 

 

 

 

 

 Lezione prima

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2. La filosofia e la sua dimensione etica

 

 

 

 

 

Le considerazioni che abbiamo appena proposto ci hanno mostrato il cammino che Husserl intende seguire. Dalla crisi del presente, il filosofo è chiamato ad un duplice compito di natura storica: da un lato deve riappropriarsi della propria responsabilità filosofica e quindi del compito universalmente razionale della filosofia che nel presente si è venuto smarrendo, dall'altro deve invece ripercorrere il cammino della filosofia, per liberarla da quella mossa falsa che le ha impedito di rimanere fedele a se stessa. Ora, la meta cui questo percorso deve condurci è ben chiara: dal ripensamento critico del passato deve essere possibile accedere al terreno di una filosofia rigorosa, capace di far fronte ai compiti che le spettano. Il ripensamento critico della filosofia moderna cui Husserl si accinge nella seconda parte della Crisi deve porsi così come una vera e propria introduzione alla fenomenologia, il cui metodo deve da un lato porsi come una risposta all'errore in cui è rimasta invischiata la riflessione moderna - quella prospettiva obiettivistica su cui dovremo presto riflettere, ma deve anche, dall'altro, mostrarci come la fenomenologia pura sia fin da principio sotto l'egida della filosofia fenomenologica, di un progetto filosofico generale che sappia riproporre l'idea di ragione in tutta la ricchezza del suo significato.

Su questi temi dovremo immergerci presto. E tuttavia, prima di addentrarci nelle pieghe del racconto storico-filosofico che Husserl ci offre, è opportuno richiamare l'attenzione sulla luce particolare che quest'introduzione di carattere proietta sulla fenomenologia nel suo complesso - una luce di cui non può sfuggirci la matrice etica.

Ripercorriamo brevemente il cammino che abbiamo percorso. Husserl muove dalla constatazione che nel presente la ragione sembra aver smarrito il suo carattere progettuale e quindi la sua intima connessione con la vita e con l'orizzonte dei suoi problemi. Ora prendere atto della crisi del presente vuol dire, per Husserl, volgere lo sguardo verso il passato per cercare di scorgere quale errore del pensiero abbia condotto la riflessione filosofica su un terreno che di fatto esclude il libero sviluppo di una filosofia razionale. Di qui la luce in cui la fenomenologia deve apparirci: da una riflessione critica sul passato deve poter prendere forma un metodo filosofico nuovo - un metodo che garantisca alla filosofia un pieno dispiegamento, restituendo alla ragione il suo significato per l'esistenza e per l'uomo.

La fenomenologia diviene così, vedi il caso, la risposta ad un travaglio teorico vecchio di secoli, e la filosofia fenomenologica assume le vesti regali della filosofia, e con essa i compiti maiuscoli che spettano ad una disciplina che racchiude in sé il movimento stesso della ragione. Non credo che al metodo fenomenologico e alle sue effettiva potenzialità possano essere affidati compiti così impegnativi e in generale credo che sia opportuno relativizzare ogni argomento che pretenda di giustificare il presente cogliendovi una risposta a ciò che il passato aveva lasciato in sospeso, e questo semplicemente perché vi sono molti modi di raccontare la storia così come vi sono diversi metri per decidere che cosa sia effettivamente un problema. E tuttavia, se si vuol cogliere in profondità la dimensione etica di cui Husserl investe la filosofia e quindi la riflessione fenomenologica, è necessario porre sullo sfondo le nostre riserve e compiere un passo ulteriore. Il compito delle considerazioni storiche e critiche cui Husserl si accinge consiste - lo abbiamo detto - nel restituire alla filosofia la funzione cui deve assolvere, ma questa affermazione si comprende davvero solo se ci si chiede quale sia questa funzione e per quale motivo il filosofo debba farla sua.

La risposta che Husserl offre a questo primo quesito ci riconduce agli albori della filosofia, al suo sorgere come superamento del mito e come critica di una cultura fondata essenzialmente sul concetto di tradizione. Su questi temi Husserl torna infinite volte nei molti scritti che accompagnano la stesura della Crisi, alcuni dei quali sono stati di recente pubblicati. Ed in tutte queste pagine, in forme spesso solo letterariamente diverse, siamo posti di fronte ad un identico quadro che nelle sue linee generali non si discosta dall'esposizione classica di un manuale di filosofia. Il quadro tracciato è chiaro: innanzitutto vi è il mondo del mito, e cioè un mondo la cui sensatezza è garantita da una tradizione culturale che, come tale, appartiene ad un popolo e ad una storia. Il mondo mitico a sua volta sorge su un mondo ambiente, sul mondo come si dispiega nella vita quotidiana in ragione della nostra esperienza, delle abitudini, degli interessi pratici. E proprio come il mondo mitico ci appare nella dipendenza che lo lega ad una tradizione, così anche le "verità" in cui si scandisce la nostra certezza del mondo sono caratterizzate in linea di principio da una certa relatività. Che questo foglio sia bianco è, per esempio, sancito dall'accordo che si forma quando dico che ha quel colore, anche se questo non toglie che possa talvolta capitare che a qualcuno, magari per un attimo, appaia grigio o giallastro. Anche su questo piano è, in altri termini, possibile il dubbio e la verificazione, ma la certezza si ricostituisce comunque sul terreno della normalità della percezione. O della normalità della prassi: quanto sia lunga la stoffa che compriamo al mercato lo decide il gesto ben fatto del misurare, dove "ben fatto" allude ovviamente ad una normalità condivisa. Al di là di questa normalità non ci si spinge, ed è per questo che Husserl parla di un orizzonte chiuso del mondo: proprio come il mondo del mito è chiuso perché si determina rispetto ad una cultura data, così il mondo circostante è chiuso perché la norma è costituita appunto dalla normalità della prassi e dell'esperienza.

È dunque qualcosa di radicalmente nuovo ciò che simbolicamente accade con Talete, questo sapiente che la tradizione ci ha consegnato, stringendo nel nodo di una sola vicenda esistenziale ciò che per Husserl delinea i contorni della teoria. Talete è il filosofo naturalista, e nel gesto filosofico che conduce alla teorizzazione dell'acqua come principio primo il rimando alla tradizione e alla narrazione del mito è chiaramente superato in vista di una spiegazione che chiede di essere giudicata per sé. Ora non si cerca più di articolare una tradizione che ha innanzitutto il compito di risolvere in un racconto il problema delle relazioni dell'uomo con il mondo - con l'alternarsi delle stagioni, con il ritmo del giorno e della notte, con i fenomeni meteorologici, e così di seguito; l'obiettivo è appunto mutato: il filosofo che coglie nell'acqua il principio primo delle cose ha abbandonato il terreno degli interessi pratico vitali e si è lasciato guidare da un'istanza teoretica - è divenuto cioè per un qualche tempo uno spettatore disinteressato del mondo. Nella Conferenza di Vienna (La crisi dell'umanità europea e la filosofia, 1935) Husserl scriveva così: dall'atteggiamento mitico pratico

si stacca l'atteggiamento "teoretico", l'atteggiamento del meravigliarsi a cui [...] Platone e Aristotele fanno risalire l'origine della filosofia. L'uomo è preso dalla passione per una considerazione e per una conoscenza del mondo che si stacca da tutti gli interessi pratici e che, nell'ambito circoscritto delle sue attività conoscitive e nei tempi ad esse dedicati, non persegue e non produce altro che una pura teoria. In altre parole: l'uomo diventa uno spettatore disinteressato, un osservatore del mondo nel suo complesso (ivi, p. 343).

Agli occhi di un simile spettatore il mondo mitico deve apparire come il frutto di una tradizione che nel confronto con altre diverse immagini mitiche del reale rivela la sua relatività: nell'atteggiamento teoretico

l'uomo considera innanzitutto la molteplicità delle nazioni, la propria e quelle straniere col mondo circostante ovviamente valido, con le loro tradizioni, i loro dei, i loro demoni, le loro potenze mitiche. Questa sorprendente contrapposizione rivela la differenza tra la rappresentazione mitica e il mondo reale e pone il nuovo problema della verità; non il problema della verità quotidiana vincolata alla tradizione, bensì di una verità identica e valida, non più accecata dalla tradizione, della verità in sé (ivi, p. 344).

Sorge così, in stretta connessione con il nascere dell'atteggiamento teoretico, l'idea di una verità in sé, posta come meta infinitamente lontana del processo conoscitivo. Così, se il mondo della tradizione ci è, per così dire, consegnato dal passato il mondo in sé come correlato obiettivo della verità in sé ci appare come meta ideale di un approfondimento conoscitivo che si dipana nel futuro.

Ciò che traspare nella decisione del naturalista si coglie anche nella prassi del protogeometra che dalle forme definite nella loro tipicità muove per indicare il limite ideale cui tende il processo di idealizzazione. La pertica che uso per misurare una distanza deve essere sufficientemente diritta: questo è chiaro. Ma se la prassi ci dice quando un bastone può ragionevolmente farsi metro, un pensiero rivolto verso la geometria può scorgere nella possibilità di migliorare lo strumento di cui ci si avvale l'indice di una concettualità nuova cui allude un processo che è evidentemente aperto all'infinito e che pone il dato empirico in relazione con un modello ideale infinitamente lontano. Doveva sorgere così un nuovo criterio di esattezza e insieme doveva farsi strada l'idea di una conoscenza effettiva, di un essere vero, la cui effettiva datità è infinitamente lontana. Dal mondo chiuso del pressappoco si doveva così muovere verso il mondo, aperto all'infinito, dell'esattezza.

Di quest'immagine della filosofia come una prassi razionale che per sua stessa natura non accetta l'ovvietà del dato e della tradizione e si dispone come un sapere critico universale i paragrafi quinto e sesto della Crisi fanno la loro bandiera, e tuttavia per cogliere davvero che cosa sia la filosofia per Husserl dobbiamo necessariamente rivolgere lo sguardo alla sua ricaduta esistenziale. E in questa luce il gesto dell'uomo che si fa filosofo assume un'importanza centrale. Assumere l'atteggiamento teoretico significa infatti disporsi criticamente nei confronti di ciò che è ritenuto vero solo per tradizione ed abitudine; ma ciò è quanto dire che un filosofo è davvero tale solo nel suo porsi non come il frutto di una tradizione, ma come il risultato di una libera scelta. E in questa scelta libera ed autonoma è implicita la forma stessa dell'eticità. Certo, in qualche misura l'uomo è sempre frutto di una scelta libera:

Ciò che anche contraddistingue l'essenza dell'uomo è la possibilità, invece di essere preda in maniera passiva e non libera delle proprie pulsioni (delle proprie inclinazioni e dei propri affetti) e di essere pertanto mosso dagli affetti nell'accezione più ampia del termine, di "agire" liberamente e attivamente, a partire da sé [...]. Questo significa che l'uomo ha la facoltà di "inibire" gli effetti del suo fare passivo (esser spinto in maniera consapevole) e dei presupposti che lo motivano passivamente (inclinazioni, intenzioni), di metterli in questione, di sottoporli ad esame e di prendere una decisione volontaria (Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie. Texte aus dem Nachlass 1934-1937, Husserliana xxix, a cura di R. Smid, Kluwer, Dordrecht 1999, p. 29).

Ma se la capacità di accordare la propria vita ad un progetto di carattere generale è un fatto tipicamente umano, un'umanità piena del vivere sorge solo quando, passando attraverso l'esperienza del dubbio e della delusione, l'uomo impara a non lasciarsi guidare, nella propria scelta, dai valori che la tradizione gli offre, e si impegna in un atteggiamento critico universale, volto a giustificare in modo evidente le proprie scelte. Sorge così l'idea della coscienza etica come responsabilità della ragione, poiché l'uomo diviene pienamente responsabile solo quando rinuncia a pensarsi come un'eredità del proprio tempo, come il frutto di valori tradizionalmente consacrati. La scelta filosofica dell'epoché che pretende una giustificazione razionale per ogni atteggiamento esistenziale diviene così kantianamente il gesto che tutti siamo chiamati a compiere e che per ciascuno di noi sancisce l'ingresso nella maggiore età:

Ognuno deve compiere per sé e in sé almeno una volta nella vita una autoriflessione universale, e deve prendere la decisione che decide la sua intera vita, grazie alla quale diviene un uomo che ha raggiunto eticamente la maggiore età e fonda originariamente la propria vita come vita etica (ivi, p. 51).

Ma ciò è quanto dire che la filosofia, come forma in cui l'atteggiamento teoretico si apre in ogni direzione, assume il significato di un'autentica scelta esistenziale: nel farsi filosofo, l'uomo decide per un'esistenza libera - dai pregiudizi, dalla tradizione, dalle ovvietà.

Sulla piega idealistica che attraversa queste considerazioni husserliane avremo occasione di tornare in seguito. Ora, vorremmo invece soffermarci su un corollario di questa tesi che apre la prospettiva esistenziale ed etica della filosofia ad una dimensione di stampo universalistico: proprio perché la filosofia si pone come critica radicale della tradizione e del mondo chiuso che le corrisponde, dal gesto filosofico deve poter sorgere un'umanità nuova, caratterizzata in senso sovraculturale.

All'uomo immerso nell'orizzonte della propria cultura e chiuso nel mondo cui appartiene, all'individuo che è determinato nel suo senso da un insieme di pratiche ereditate si contrappone l'umanità che si costruisce nella prassi filosofica come libero esercizio della ragione - un'umanità che non è data dal suo essere il prodotto della storia e dei luoghi in cui si è sviluppata, ma che si costruisce autonomamente in un dialogo razionale. Dietro a queste affermazioni che parlano il linguaggio vecchio degli elogi della filosofia vi è comunque un problema autentico che potremmo formulare così: per Husserl, la filosofia e quindi la fenomenologia debbono reagire all'istanza relativistica secondo la quale le culture sono realtà chiuse, poiché i loro linguaggi e i loro valori altro non sono che convenzioni che possono essere accettate, ma non effettivamente condivise, se di una condivisione si può propriamente parlare quando le forme di vita degli altri non sono soltanto riprese, ma anche comprese nelle loro ragioni e discusse in un dialogo che crea un nuovo e più ampio terreno di accordo. La filosofia, per Husserl, non può accettare una simile posizione poiché è per essenza mossa da un'istanza universalistica e razionale, e naturalmente potremmo a questo proposito rammentare Socrate che è condannato per non aver creduto agli dei della propria città. Ma preferisco volare basso e sostenere che la filosofia deve trovare le ragioni per la morale di Passepartout - del servitore del Giro del mondo in ottanta giorni, che senza pensarci troppo decide che deve salvare la vedova indiana dal rogo su cui verrà bruciato il marito morto.

Un problema serio, dunque, che nelle pagine di Husserl assume tuttavia una forma intricata su cui dobbiamo ancora indugiare. La filosofia prospetta un'umanità nuova, ma quest'umanità nuova che non riceve la propria identità dal passato della tradizione e che ritiene possibile costruirla in una riflessione razionale idealmente aperta a tutti nasce, per Husserl, nella Grecia del vi secolo a. C., e si diffonde poi nella cultura grecizzata dell'Impero romano: la filosofia doveva legarsi così alla storia dell'Europa e alle sue diverse vicissitudini. La comunità ideale dei filosofi doveva trovare così una comunità reale in cui radicarsi e lo spazio ideale della filosofia doveva assumere i contorni geografici ben noti di quella piccola penisola dell'Asia cui tanto siamo affezionati.

Le ragioni ideologiche che sono all'origine di questo processo storico non sono difficili da capire e ci riconducono ad un modello che ha precedenti illustri: si pone l'indice sulla città ideale della ragione per difendere e giustificare le gesta della città reale che la ospita, anche se poi queste non sono sempre degne di quella. Così con un tocco di penna si possono dimenticare quegli aspetti della città reale che non si rispecchiano nella città ideale, e si può dunque giustificare l'agire dell'una in virtù dell'altra, sino a credere che il processo di europeizzazione del mondo che accompagna il fenomeno della colonizzazione sia in fondo un segno della marcia faticosa della ragione nella non ragione. Su questo sfondo politico della Crisi non intendiamo soffermarci, anche perché il razionalismo husserliano lo pone comunque al riparo da esiti che la storia del Novecento avrebbe reso terribilmente concreti. Certo, l'umanità filosofica nasce, per Husserl, come umanità europea, e se questo termine non può non suscitare legittime perplessità nel lettore di oggi, resta comunque certo che l'elogio dell'Europa che Husserl viene tessendo nella Crisi non ha un significato razziale. Se vi è un merito dell'Europa, esso consiste - per Husserl - proprio nell'aver dato vita ad un'idea che è destinata a sconvolgere la naturalità delle razze e la radicale individualità delle culture. Ma il termine "Europa" non ha nemmeno un significato storico-culturale: per Husserl non si può essere europei per tradizione o per appartenenza geografica. Così, quando leggiamo fin nel titolo dell'opera che la crisi è crisi delle scienze europee, dobbiamo prendere atto con stupore del fatto che quest'aggettivo non aggiunge davvero nulla al nome cui si riferisce. La crisi delle scienze europee è crisi dell'idea di ragione - di quell'unica ragione cui tutti gli uomini possono attingere poiché coincide con la forma stessa dell'umanità.

A partire di qui la funzione etica della filosofia e, quindi, della filosofia fenomenologica non può sfuggirci: di fronte ad una società e ad una cultura che riscoprivano il mito della razza, che pretendevano di intendere le culture e i popoli come monadi chiuse e determinate da un loro singolare destino, il filosofo doveva riscoprire il carattere eminentemente sovraculturale della filosofia, il suo porsi come un tentativo di costruire un diverso atteggiamento culturale ed un diverso stile di vita. Per dirla con Husserl: la filosofia deve costruire un'umanità nuova - ed in questo caso il singolare è d'obbligo, perché l'umanità nuova può formarsi soltanto se si costituisce un unico terreno di accordo. Così, negli anni difficili tra le due guerre, la filosofia doveva assumere dunque il significato di una radicale negazione della possibilità stessa di una "zoologia dei popoli" (Crisi, op. cit., p. 333) - ma questa negazione doveva insieme prendere la forma, non priva di accenti inquietanti, di una apologia dell'Europa e della sua missione.

 

 

 

 

 

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