Paolo Spinicci


Il mondo della vita e il problema della certezza
Lezioni su Husserl e Wittgenstein

 

 

 

 

 

 

 

 Lezione seconda

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. La metessi platonica e l'"origine" della geometria

 

 

 

 

 

Le considerazioni proposte nella nostra prima lezione possono essere forse riassunte così: nella prima parte della Crisi Husserl si interroga innanzitutto sulla fine della modernità e si chiede se il chiudersi di quest'epoca debba portare con sé il venir meno del progetto di una filosofia puramente razionale o se dal disagio del presente non si possa uscire ripercorrendo idealmente il cammino della storia del pensiero per scorgere dove e per quali errori si sia smarrita la fiducia nella filosofia come scienza rigorosa, come ragione pienamente dispiegata. Sappiamo già che la Crisi ci propone di seguire solo quest'ultima via: per Husserl, dunque, la fine della modernità non è un destino che debba essere accettato, ma un fatto storico che ha ragioni culturali e filosofiche su cui pensare e a cui reagire. La crisi del presente deve dunque invitarci a riflettere sulla storia della ragione nell'età moderna, poiché è qui che deve essere accaduto l'errore che ne ha falsato il senso e che ne ha impedito lo sviluppo. Ora, la storia della ragione nell'età moderna si lega necessariamente alla storia della scienza poiché è proprio sul terreno dell'indagine naturalistica che il progetto di una comprensione universalmente orientata trova una sua prima esemplare realizzazione. Di qui le ragioni che spingono Husserl a riflettere sull'origine della scienza moderna, per cogliere quali siano le ragioni che ci permettono di dire che Galileo - questa figura che deve d'ora in poi valere come immagine paradigmatica del nascente pensiero scientifico - "è un genio che scopre e insieme occulta" (ivi, p. 81).

Ora, il compito di mostrare quale sia il cammino che ci permette di uscire dalla modernità salvando la modernità deve essere affidato ad una riflessione di carattere epistemologico: Husserl ci invita infatti a soffermarci sulla genesi dell'immagine scientifica del mondo, quell'immagine che viene esemplarmente ricondotta all'opera di Galilei e che occupa per intero il paragrafo nono della Crisi. Di fronte a queste indagini che non hanno il taglio di un'autentica indagine storica e che, dal punto di vista teorico, si mantengono sul terreno di una vaga generalità, il lettore contemporaneo può forse rimanere perplesso e chiedersi che cosa spinga Husserl a cimentarsi in poche pagine su un terreno che nella Germania degli anni Trenta era stato ampiamente dibattuto sia in ambito neokantiano, sia nelle indagini teoriche del neopositivismo. E tuttavia, piuttosto che interrogarsi su ciò che manca alle pagine husserliane se le si leggono come una riflessione storica sulla genesi del pensiero scientifico, è opportuno chiedersi quale sia il vero tema che intendono affrontare e quale la prospettiva che lo rende filosoficamente centrale.

Quale sia la risposta che deve essere data a queste domande si intravede già nell'incipit che apre il nono paragrafo della Crisi:

Per il platonismo il reale aveva una metessi più o meno perfetta all'ideale. Ciò fornì alla geometria antica la possibilità di una rudimentale applicazione alla realtà. Nella matematizzazione galileiana della natura questa stessa realtà viene idealizzata sotto la guida della nuova matematica; in termini moderni: essa diventa a sua volta una molteplicità matematica (ivi, p. 53).

La metessi platonica - questo è il punto. Per Platone, la realtà sensibile (il mondo dei fenomeni percepiti) può essere compreso e conosciuto solo perché in esso si rispecchia imperfettamente il mondo delle idee - di quelle realtà perfettissime che racchiudono in se stesse l'essere vero di ciò che appare. Le cose sensibili, dice Platone, partecipano delle realtà intelligibili - delle idee - ed è appunto questo rapporto di partecipazione che da un lato fa di ciò che appare l'immagine di una verità razionale e conoscibile, dall'altro una mera parvenza. Ora, così (o pressappoco così) stanno le cose in Platone, ma questo ancora non basta per farci comprendere perché della nozione di metessi dovremmo avvalerci anche per intendere il primo passo che caratterizza la comprensione scientifica della natura - la riconduzione dello spazio-tempo fenomenico allo spazio-tempo ideale della geometria.

La risposta, tuttavia, è a portata di mano, e per coglierla dobbiamo rammentarci della natura della geometria, di questa disciplina che da un lato parla dello spazio e che, come tale, sembra muoversi sul terreno dei fenomeni, ma che dall'altro può assumere la forma di una disciplina puramente matematica - di una dottrina che si muove sul terreno di ciò che è puramente ideale. Sulla natura peculiare della geometria e sul suo essere sospesa tra la dimensione fenomenica e il terreno dell'idealità la riflessione filosofica si è spesso confrontata e le difficoltà di venire a capo della duplicità della geometria si leggono in controluce tanto nella dottrina platonica dello spazio come concetto bastardo che racchiude in sé le forme della sensibilità e dell'intelletto, quanto nella teoria kantiana dell'intuizione pura e del sintetico a priori - per rammentare solo due possibili forme di un imbarazzo filosofico. Ma un punto è chiaro: comunque stiano le cose, la geometria si pone come il terreno privilegiato per intendere la relazione che lega l'idealità matematica all'esperienza. Di qui la sua centralità per la scienza nell'età dell'origine: per il "rinnovato platonismo" (ivi, p. 37) dell'età moderna la geometria svela l'essere in sé dello spazio intuitivo, e ciò è quanto dire che il rapporto tra lo spazio reale e lo spazio geometrico può essere inteso alla luce del concetto platonico di metessi - alla luce cioè della tesi secondo la quale il mondo fenomenico parteciperebbe della struttura ideale della realtà. Il mondo è scritto in termini matematici, sosteneva Galilei, e se da questa metafora platonica l'età moderna si stanca malvolentieri è perché essa ci consente di indicare nella metessi la garanzia della legittimità della applicazione della matematica all'esperienza. Così, se Husserl avverte il bisogno di richiamare alla mente questo antico concetto è perché se ci si dispone in una prospettiva platonica il rapporto che lega l'ideale all'empirico ci appare alla luce di una garanzia metafisica, che cancella con un tratto di penna il problema dell'idealizzazione dell'universo fenomenico e di quella riconduzione dello spazio-tempo intuitivo allo spazio-tempo matematico che è così caratteristica della fisica galileiana. Che in una prospettiva dominata dal concetto platonico della metessi il problema dell'applicazione della geometria al mondo sensibile non sia affatto un problema non è difficile comprenderlo. Per Platone, la conoscenza è conoscenza delle idee; le idee, tuttavia, sono il nucleo vero dell'essere e disvelano ciò che nel fenomeno è verità; ne segue che il problema dell'applicazione di un modello ideale alla realtà fenomenica si dissolve in un duplice riconoscimento: da un lato infatti la filosofia platonica ci invita a considerare il rapporto tra il fenomeno e l'idea come un nesso antecedente alla conoscenza e comunque risolto sul terreno metafisico della metessi, dall'altro ci permette di interpretare lo scarto tra il fenomeno e la sua matrice ideale come se fosse una differenza irrilevante, di cui non si deve rendere conto se non all'interno di una prospettiva metafisica generale. L'idea - si argomenta - è la verità del fenomeno; ne segue che ciò che nel fenomeno è irriducibile all'idea deve essere interpretato sul piano gnoseologico come un evento trascurabile e sul terreno metafisico come un segno della necessaria opacità che all'ideale si aggiunge nel suo avventurarsi nel mondo che ci è dato sensibilmente. E se le cose stanno così, disporsi in una prospettiva in senso ampio platonica vuol dire anche fare della conoscenza del mondo ideale la conoscenza dell'unico vero mondo e quindi anche la ragione per rimuovere il mondo fenomenico in cui si gioca la nostra esistenza quotidiana.

Ora, basta leggere le poche righe che seguono questo breve richiamo platonico per rendersi conto che della metessi Husserl ci parla perché questa nozione suggerisce quello che a suo avviso è lo sfondo teorico che sorregge la fiducia della scienza moderna nella possibilità di ricondurre a formule matematiche le relazioni tra i fenomeni. Lo scienziato che applica al mondo sensibile la geometria e che cerca la via per ricondurre la relatività del mondo intuitivo all'esattezza della matematica compie un cammino che può essere dimenticato una volta che sia stata raggiunta la meta, poiché la conoscenza può essere pensata come un processo in cui ciò che è apparenza si dissipa, lasciando scorgere ciò che davvero è - l'universo matematico della fisica. La teoria della metessi doveva valere così come una garanzia metafisica del fatto che l'universo è davvero scritto in termini matematici e che l'idealità delle costruzioni scientifiche è la realtà ultima di questo mondo che nella vita ci appare nella forma provvisoria della sensibilità, - una forma di cui dobbiamo infine dimenticarci.

Da questo orizzonte platonico si deve, per Husserl, prendere commiato, e ciò significa in primo luogo esercitare l'arte del ricordo e richiamare l'attenzione sul problema del nesso che lega la dimensione ideale al mondo sensibile. E poiché la scienza moderna nasce innanzitutto come scienza del movimento, il nostro primo problema consisterà nel richiamare l'attenzione sulla geometria ed in particolar modo sul problema della sua applicazione al terreno dell'esperienza. E che qui vi sia un problema è un fatto che occorre rammentare, poiché oggi questa possibilità è divenuta ovvia per noi:

Consideriamo dapprima la "geometria pura", la matematica pura delle forme spazio-temporali in generale che Galilei attingeva a un'antica tradizione, consideriamola [...] in quanto scienza delle "idealità pure", costantemente applicata d'altra parte al mondo dell'esperienza sensibile. Il commercio tra la teoria a priori e l'empiria ci è tanto familiare che noi abitualmente tendiamo a non distinguere lo spazio e le figure spaziali di cui parla la geometria dallo spazio e dalle figure spaziali della realtà dell'esperienza, quasi si trattasse della stessa cosa (ivi, p. 54).

Ma appunto la stessa cosa non sono: lo spazio geometrico non è lo spazio esperito. Il mondo in cui viviamo e che è percettivamente presente per noi ha una sua forma spaziale intuitiva che può essere compresa geometricamente; questo tuttavia non significa che i concetti della geometria euclidea siano già dati con la percezione o siano il frutto di una modificazione immaginativa del mondo percettivo. Le forme dello spazio geometrico sono costruzioni ideali:

nel mondo circostante intuitivo, nella considerazione che mira all'astrazione delle forme spazio-temporali, noi esperiamo innanzitutto corpi - non i corpi geometrici ideali, bensì quei corpi che noi davvero esperiamo, provvisti di quel contenuto che è il reale contenuto dell'esperienza. Certo, noi possiamo riplasmarli arbitrariamente nella fantasia; ma le libere possibilità, in un certo senso "ideali", che noi attingiamo non sono affatto possibilità geometrico-ideali, non sono affatto forme "pure" geometricamente delimitabili nello spazio ideale - corpi "puri", rette "pure", piani "puri", figure "pure". Lo spazio geometrico non è dunque qualcosa come lo spazio fantastico o, in generale, lo spazio di un mondo sempre riplasmabile fantasticamente (ivi, p. 54).

Di qui la meta verso cui le argomentazioni husserliane sono dirette. Far luce sulla possibilità di applicare la geometria all'esperienza non vorrà dire richiamarsi platonicamente al concetto di metessi, ma significherà piuttosto indagare la prassi grazie alla quale si costituisce il sapere geometrico. Il primo passo per far luce sull'applicazione delle idee alla realtà si traduce così in un'indagine volta a far luce sull'origine della geometria.

Ora, che cosa si debba intendere quando Husserl parla di una "origine" della geometria non è poi così facile dirlo. In diversi passi della Crisi, e soprattutto in differenti manoscritti coevi, Husserl sottolinea esplicitamente che nell'indicare l'origine della geometria intende anche tracciarne la storia. E tuttavia, appena pronunciata, questa parola deve essere subito attenuata nelle sue pretese, e così leggiamo che il problema filosofico dell'origine non può andare in cerca di un qualche mitico Talete e nemmeno perdersi sul terreno di una storia del pensiero matematico nel senso più ovvio del termine - chi nelle pagine husserliane cercasse argomenti per restituire al divenire storico che li ha prodotti i molteplici contributi che si fondono nell'unità di un sistema negli Elementi di Euclide resterebbe senz'altro deluso. Di una storia del pensiero geometrico nella Crisi non vi è traccia, e del resto lo stesso Husserl sente il bisogno di limitare con un aggettivo le pretese di quel sostantivo così imbarazzante: se l'origine della geometria ha un significato storico è perché la storia di cui si parla è una storia interna o ideale, non la storia esterna o reale che deve necessariamente sostanziarsi di nomi, di opere, di date.

Se prima ci sembrava relativamente ovvio che cosa ci si poteva attendere da un'indagine sull'origine della geometria, ora le nostre idee si sono fatte davvero confuse: che cosa può mai essere una storia senza nomi e senza date, e che senso ha parlare di una storia ideale, ma non reale della geometria? Rispondere a queste domande significa in realtà rivolgere lo sguardo in una direzione nuova ed abbandonare la dimensione delle indagini volte a far luce sulla storia di una disciplina - la geometria, per disporsi in un atteggiamento filosofico generale che, in quanto tale, ha soltanto di mira il significato dei concetti geometrici e la complessità dei piani su cui si dispongono i giochi linguistici della geometria. Così, se Husserl ci invita a tracciare la storia ideale della geometria è solo perché ritiene che una comprensione effettiva di concetti come "punto", "retta", "piano" sia possibile non avvalendosi del metodo della definizione concettuale, ma nemmeno ripercorrendo le traversie storiche che hanno condotto alla loro effettiva formazione; la via da seguire - per Husserl - è un'altra: alla domanda sull'origine della geometria si può rispondere soltanto percorrendo il cammino di una ricostruzione razionale dei concetti geometrici che faccia luce sulla loro natura, ripetendo le operazioni soggettive che debbono essere state compiute poiché sono implicate dallo spessore dei concetti, dalle loro interne stratificazioni di senso. Così, nel suo tracciare la genesi della geometria, il filosofo può, in linea di principio, disinteressarsi di ciò che Talete, Pitagora o Euclide hanno fatto poiché la storia che deve narrare è dettata dalla natura degli oggetti geometrici, dal loro essere in se stessi il risultato di una prassi intersoggettiva che si radica nel terreno dell'esperienza. Il compito della chiarificazione concettuale si lega così al riconoscimento che ogni concetto implica una prassi che lo istituisca.

Di qui si deve muovere per comprendere il senso delle prime mosse che Husserl ci invita a compiere: se, come abbiamo osservato, le figure geometriche non appartengono allo spazio percettivo, dobbiamo chiederci in primo luogo quale sia la natura del concetto di forma sul terreno pre-geometrico e, in secondo luogo, quali siano le operazioni soggettive che sono chiamate in causa dalla posizione dei concetti geometrici elementari. Rispondere al primo interrogativo vuol dire innanzitutto rivolgere la nostra attenzione agli oggetti del mondo intuitivo, alle cose che ci circondano e che sono in parte prodotte dalla natura, in parte dall'uomo; per le une e per le altre, tuttavia, la forma è avvolta in una mobile quanto vaga generalità:

Le cose del mondo intuitivo e tutte le loro proprietà sono immerse in generale nelle oscillazioni della mera tipicità; la loro identità, il loro essere eguali a se stesse e la loro temporanea permanenza nell'eguaglianza è soltanto approssimativa, proprio come lo è la loro eguaglianza con le altre cose. Ciò vale anche per tutti i loro mutamenti, per tutte le loro eguaglianze e per i loro mutamenti di eguaglianza. E ciò vale corrispondentemente anche per le forme, colte astrattamente, dei corpi empiricamente intuitivi e per le loro relazioni (ivi, p. 55).

Queste considerazioni non debbono essere fraintese. Husserl non intende sostenere che l'aspetto percettivo delle forme sia vago, come può essere vago il profilo di un colle visto in lontananza. Nella norma, la forma degli oggetti ci appare in tutta chiarezza nella ricca molteplicità dei suoi dettagli, e ci appare anche come qualcosa di cui percepiamo l'eguaglianza pur nel variare della relazione prospettica: i mobili della stanza in cui cammino si danno secondo prospettive sempre diverse, eppure la loro forma percepita non muta, ed io continuo a percepire nitidamente l'orizzontalità dei piani e la verticalità delle fiancate. E tuttavia, la nitidezza dell'apparire non determina l'univocità e la permanenza della forma sul terreno obiettivo: posso percepire nitidamente un cespuglio nel giardino, ma la sua forma per me non muta anche se di giorno in giorno nuove foglie nascono, qualche ramo si spezza, qualcun altro cresce di poco. La questione è tutta qui: dal punto di vista intuitivo la forma non è fissata da un insieme di proprietà definite con esattezza e formulate linguisticamente, ma si muove nei confini di una tipicità che permette oscillazioni più o meno ampie. La vaghezza non è vaghezza dell'apparire, ma parziale indeterminatezza di ciò che appare, la cui identità, nel gioco molteplice delle percezioni che sono ad esso rivolte, non si disegna in un nucleo esattamente definito di proprietà formali. E ciò che è vero per la forma di un cespuglio, vale anche per la forma degli oggetti costruiti dell'uomo. Un tavolo è una superficie piana, ma le piccole righe che ogni giorno facciamo sulla sua superficie non ne modificano la forma intuitiva: anche in questo caso, la forma percepita oscilla in un campo di tipicità, e non è ancorata ad un insieme rigido di determinazioni. Così, quando diciamo che un tavolo è un perfetto piano di appoggio non intendiamo dire che è una superficie esattamente piana; la perfezione, infatti, non concerne la forma in se stessa, ma la sua adeguatezza ad uno scopo.

E tuttavia volgere lo sguardo alle cose costruite dall'uomo significa comunque confrontarsi con qualcosa di nuovo. La forma di un utensile si adegua ad uno scopo, e la tecnica di costruzione proietta sull'oggetto reale le esigenze della prassi, sancendo così un criterio in vista del quale le cose possiedono, o non possiedono ancora, una buona forma. Un buon tavolo deve essere piano, un'anfora non deve avere spigoli, e la tecnica di costruzione deve saper soddisfare queste esigenze. Di qui il primo passo verso una determinazione della forma: la forma dell'anfora e del tavolo divengono la meta di una prassi condivisa che da un lato tende a ricondurre la forma dell'oggetto ad una sua interna misura (il tavolo per essere un buon tavolo deve essere liscio, l'anfora per essere una buona anfora deve essere rotonda), dall'altro proponendo una tecnica di lavorazione - la levigatura e l'arrotondamento, per esempio - pone la forma dell'oggetto nel movimento di un perfezionamento praticamente possibile. E se la possibilità del perfezionamento ci appare dapprima vincolata ai limiti della tecnica di alterazione della forma, il divenire stesso delle tecniche e il loro continuo perfezionamento determina il sorgere di un nuovo pensiero: la meta di un perfezionamento praticabile si traduce nell'idea limite di un perfezionamento idealmente possibile. Sullo sfondo del divenire delle tecniche, la prassi del perfezionamento orienta la forma verso un limite che non è determinato da una prassi concreta, ma dall'idea di una prassi possibile. Scrive Husserl:

Senza voler penetrare più profondamente questi nessi essenziali [...] siamo già in grado di comprendere come sulla base della prassi del perfezionamento, nella libera penetrazione negli orizzonti di un perfezionamento pensabile, nel "sempre di nuovo", si delineino in ciascuna direzione forme limite, verso cui ogni singola serie di perfezionamento tende, come a un polo invariabile e insieme irraggiungibile [...]. Al posto della prassi reale - sia di quella che di fatto agisce, sia di quella che considera le possibilità empiriche e che ha a che fare con corpi empirici reali o realmente possibili - abbiamo ora la prassi ideale di un "pensiero puro" che si mantiene esclusivamente nel regno delle pure forme limite (ivi, pp. 55-6).

In questo primo movimento da ciò che è realmente possibile a ciò che è idealmente pensabile il significato della prassi muta: sorge ora un nuovo genere di operazioni - le operazioni idealizzanti della geometria. Sorgono, è tuttavia il caso di ripeterlo, in un contesto intersoggettivo che può essere codificato linguisticamente: nascono così nomi come retta, piano, triangolo, cerchio - nomi che denotano oggetti ideali che possono essere determinati con esattezza, proprio perché sono costruiti secondo un procedimento che li determina in modo univoco. Di qui la loro differenza da ciò che è dato percettivamente. Le forme intuitive sono colte nell'impressione complessiva che le rende concretamente riconoscibili (nella loro tipicità) e ciò significa che la loro determinatezza ha comunque un margine di tolleranza; non così le forme geometriche: proprio perché sorgono come limite di una serie, le forme geometriche sono univocamente determinate ed esattamente riconoscibili. Alla vaghezza delle forme intuitive fa così da contrappunto l'assoluta identità con se stesse delle forme geometriche, il loro essere univocamente ed esattamente determinabili. È qui che entra in gioco il linguaggio, poiché a questo punto diviene possibile una prima operazione di trasposizione linguistica della forma intuitiva: ora che la forma ci appare come il limite ideale correlato ad una prassi operativa rigidamente determinata nei suoi passi diviene possibile fissarla linguisticamente - diviene possibile cioè dire le proprietà della forma esaurendo in esse la forma stessa. La circonferenza che si pone come limite ideale della prassi operativa dell'arrotondare è davvero soltanto questo - il risultato di una prassi che si può ripetere e che fissa in un gioco linguistico apertamente ripetibile una forma percettiva che si impone già per la sua peculiare stabilità. La prassi di costruzione della forma diviene così la definizione che la rende disponibile per noi: la forma intuitiva diviene così una forma geometrica che si riconosce nella somma dei predicati che la caratterizzano, - un fatto questo che non vale per le molteplici forme intuitive che appartengono all'orizzonte immediato della percezione e che sono avvolte nella trama aperta delle tipicità.

E tuttavia la geometria non consta soltanto di alcune forme limite, ma presuppone la possibilità di costruire l'insieme di tutte le forme geometriche ideali. Anche in questo caso il cammino verso la geometria muove dal terreno dell'esperienza: vi sono infatti forme privilegiate - percettivamente privilegiate - che sono normalmente disponibili, ma che possono poi fungere in un contesto operativo come elementi fondamentali, a partire dai quali costruire la totalità delle forme geometriche - anche di quelle forme che di per sé non hanno una regolarità apprezzabile sul piano intuitivo. Per dirla con Husserl:

È però possibile - ed è stata questa la scoperta da cui è nata la geometria - grazie ad alcune forme elementari privilegiate di solito già generalmente disponibili ed in virtù di alcune operazioni che potevano essere compiute con esse, costruire non soltanto sempre di nuovo altre forme che erano già intersoggettivamente ed univocamente determinate per mezzo del metodo della loro produzione. Si doveva dischiudere così la possibilità di costruire tutte le forme ideali pensabili in generale mediante un metodo apriori onnicomprensivo e sistematico (ivi, pp. 56-7).

Forse potremmo ricordarci qui del Timeo platonico, e del fascino che su Platone esercita il triangolo, questa figura semplice con cui possono essere costruiti tutti i solidi regolari. Ma il punto davvero importante è un altro. Dobbiamo cioè richiamare l'attenzione su un modo di pensare lo spazio che ha alle spalle un certo modo di operare con esso - un modo di pensare lo spazio che è caratterizzato dal fatto che la paroletta "in" che nel linguaggio denota innanzitutto il rapporto del contenuto al contenente ha assunto piuttosto la funzione di indicare il rapporto che lega la parte all'intero. E ciò è quanto dire che lo spazio deve apparirci ora non come un'anfora che racchiude le cose, ma come un'estensione che si scandisce nelle sue parti - e deve apparirci così in virtù di un'operazione: della scomposizione della forma in forme. Anche in questo caso, tuttavia, l'operatività cui la geometria deve il suo costituirsi come scienza rimanda ad un'operazione che appartiene alla prassi intersoggettiva: la riconducibilità delle figure complesse alle figure semplici ha il suo antecedente pre-geometrico nella misurazione. La misurazione è innanzitutto una prassi che è resa possibile dalla forma intuitiva dello spazio: "ciò cui la misurazione tende [e cioè la scansione dell'intero secondo una sua parte] - scrive Husserl - ha la sua evidente origine nella forma essenziale del mondo della vita" (ivi, p. 57), poiché lo spazio è per sua natura fatto in modo tale che le sue forme trapassino le une nelle altre con continuità, cosa questa che permette di costruire ogni parte dello spazio come se fosse il risultato di una somma di elementi Ora misurare significa ricondurre una forma all'iterazione di un'altra: ne segue che la continuità indifferente dello spazio può porsi come il fondamento di un'operazione di carattere costruttivo, volta a pensare ogni parte di spazio e lo spazio intero come risultato dell'iterazione di un modulo, di una qualche figura geometrica che diviene così l'elemento di base di altre configurazioni spaziali. Di qui, da questa libera possibilità di costruire lo spazio come iterazione di un modulo, nasce lo spazio geometrico - uno spazio che nella regola della sua costituzione ha già chiaramente abbandonato la dimensione dell'immediatezza percettiva.

È tuttavia opportuno sottolineare che nella prassi intersoggettiva della misurazione vi è di più. Misurare non significa soltanto scoprire la riconducibilità delle figure complesse all'iterazione di figure semplici, ma vuol dire anche trovare la via per subordinare le forme mutevoli del mondo intuitivo alle forme stabili e pienamente obiettive del pensiero geometrico. In altri termini: la misurazione è sempre anche un modo per applicare la geometria all'esperienza. Ma ciò significa che la misurazione è quella forma della prassi che permette di determinare intersoggettivamente le forme degli oggetti intuitivi, superando la loro mobile indeterminatezza: l'atto del misurare si pone così come il primo passo per costruire un'immagine obiettiva del mondo.

Di qui, da queste considerazioni generali che ci hanno permesso di cogliere il significato dell'applicazione della geometria a partire dalla sua genesi dall'esperienza, si deve muovere per comprendere meglio quale sia il senso di quella matematizzazione della natura, la cui possibilità Galileo per primo intravide. Perché questo è certo: la concezione matematica della natura di cui la scienza moderna si è fatta portatrice nasce proprio di qui - da una radicale generalizzazione dell'applicazione della geometria al mondo intuitivo:

Galilei partì dunque dal modo praticamente comprensibile in cui la geometria mette capo ad una determinazione univoca in una sfera da tempo tramandata del mondo sensibile e si disse: dovunque si è giunti ad elaborare un simile metodo si è anche con ciò superata quella relatività delle apprensioni soggettive che è di fatto essenziale al mondo empirico-intuitivo. In questo modo, infatti, noi attingiamo una verità identica e assoluta, di cui ciascuno che sia in grado di comprendere e di esercitare questo metodo si può convincere. Così dunque noi conosciamo un essere vero in sé, - anche se solo nella forma di una sempre migliore approssimazione che dalla mera datità empirica di continuo si accosta ad una forma geometrica ideale che funge da polo guida (ivi, p. 59).

La geometrizzazione dello spazio intuitivo deve così indicare la via per delineare quell'immagine matematica del mondo cui la scienza moderna ambisce.

 

 

 

 

 

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