Paolo Spinicci


Il mondo della vita e il problema della certezza
Lezioni su Husserl e Wittgenstein

 

 

 

 

 

 

 

 Lezione terza

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2. La scienza e l'obiettivismo moderno

 

 

 

 

 

Le considerazioni che abbiamo sin qui svolto ci hanno permesso di mettere in luce un problema che è, nelle pagine della Crisi, della massima rilevanza: da un'esposizione generale della genesi delle scienze esatte e dell'immagine matematica della natura, Husserl ricava infatti da un lato la convinzione secondo la quale le scienze sono un metodo per costruire un'idealizzazione progressiva del mondo sensibile, dall'altro la certezza che nella storia del sapere scientifico questa consapevolezza si è rapidamente spenta e al suo posto si è fatta avanti una tesi di sapore obiettivistico, secondo la quale le teorie scientifiche rispecchiano la realtà vera del mondo, la sua nascosta ossatura logica e matematica.

Ora, quest'immagine del mondo doveva, per Husserl, condurre la riflessione moderna in un vicolo cieco. La metafora galileiana di una natura scritta in termini matematici doveva infatti legarsi alla convinzione, così tipica dell'età moderna, della radicale falsità del mondo della vita.- di questo mondo in cui vi sono colori e forme e persone, non atomi, legami chimici e cervelli. Ma questo rifiuto del mondo della vita è, per Husserl, contraddittorio, poiché le scienze sorgono dal mondo della vita e lo implicano nel loro senso: gli scienziati sono persone che si intendono, che comprendono gli stessi argomenti e che danno per scontata la loro appartenenza ad un orizzonte comune e ad un unico mondo - quel mondo di cose che permane identico anche se non lo guardo, di oggetti che sono intersoggettivamente percepibili, di eventi che si susseguono secondo certi nessi causali intuitivi, e così via. Su queste certezze poggia anche la ricerca scientifica, che non può quindi far propria una filosofia che nega ciò che costituisce la sua premessa di senso.

Ma vi è un secondo errore cui l'obiettivismo del pensiero moderno doveva di fatto condurre: l'immagine di una natura retta da leggi esatte, di un universo obiettivo che svela l'essere vero del mondo doveva in linea di principio rendere enigmatica la soggettività: se tutto è natura e se la natura è retta da leggi causali esatte, allora per l'esistenza personale, per l'esserci del soggetto libero e moralmente responsabile non vi è più posto. Doveva sorgere così un paradosso nuovo, poiché il mondo scoperto dalla scienza - questo risultato della prassi razionale dell'uomo - doveva negare il proprio carattere di costruzione teorica, per porsi come un essere vero in sé, come una realtà causalisticamente determinata nella quale non vi è più posto per nessi che non appartengano all'ordine fattuale della natura. Ed il paradosso è proprio qui, poiché l'immagine scientifica del mondo si fonda sulla matematica e quindi su un insieme di regole che non può essere interpretato alla stregua di un fatto qualsiasi. Il mio cervello è una parte della natura e potrebbe quindi essere fatto diversamente, ma questa possibilità - così come la possibilità di una deduzione geometrica che penso - non dipende da come il mio cervello è fatto. Il mondo razionale della scienza doveva così negare di fatto la possibilità di ritrovare la ragione e la scienza nel mondo. L'idea di natura che la ragione elabora si traduce così in una naturalizzazione della ragione, che rende in linea di principio incomprensibile la forma stessa della razionalità. Per Husserl questo nodo teoretico ha una forma ben precisa: il vecchio filosofo che scrive le pagine della Crisi ritrova qui ciò che aveva sostenuto nelle Ricerche logiche nelle pagine dedicate a confutare il fraintendimento psicologistico della logica. Gli argomenti che Husserl nelle Ricerche logiche aveva proposto sono molteplici, ma ci riconducono in ultima analisi ad un'unica tesi: ogni riflessione che sostenga che i principi logici si fondano sulle leggi fattuali che regolano il decorso della nostra vita psichica cancella - insieme alle condizioni di verità di ogni enunciato - la sua stessa legittimità come teoria. Da un lato infatti si sostiene che ogni evento e quindi il pensiero come fatto psicologico è un evento causale, ma poi - dall'altro lato - si pretende che questa tesi debba essere accettata come una proposizione vera che esclude necessariamente la sua contraria.

Di questa vena scettica insita nelle teorie naturalistiche della ragione si deve ora rendere conto, anche se ciò non significa più cercare nella cultura positivistica le possibili forme dello psicologismo ottocentesco, ma vorrà dire piuttosto volgere la propria attenzione all'intera storia del pensiero moderno, per cercare di cogliere nelle pieghe dell'obiettivismo post-galileiano le ragioni della crisi moderna del concetto di ragione. In altri termini: se il naturalismo racchiude in sé un esito potenzialmente scettico, allora la storia dell'obiettivismo moderno dovrà apparirci come un processo in cui lo sviluppo stesso della ragione contiene il germe destinato a travolgerla.

Di qui il compito che le nostre prossime lezioni dovranno affrontare: dovremo seguire Husserl nel suo tentativo di mostrare le ragioni della crisi dell'obiettivismo moderno e insieme i motivi che ci conducono di là da esso. Sappiamo già qual è la strada che deve essere battuta per raggiungere questo duplice scopo: la via che deve ricondurci dalla crisi della ragione alla razionalità fenomenologica deve essere scandita da un ripensamento delle dottrine filosofiche da Galileo a Kant. Il filosofo deve vestire allora i panni dello storico - di uno storico sui generis, poiché la storia della filosofia in cui Husserl ci invita ad addentrarci è interamente determinata dal suo dover dare una risposta ad un interrogativo che solo il presente le pone. Non solo. Questo obiettivo, in sé legittimo, si lega - nelle pagine della Crisi - ad una concezione teleologica della storia che è chiamata a giustificare non soltanto l'interrogativo intorno a cui di fatto sorgono le riflessioni che Husserl ci propone, ma anche la meta cui esse additano come alla soluzione dei problemi del presente - quella fenomenologia trascendentale cui spetta il compito, vedi il caso, di riassumere in sé gli sforzi della tradizione filosofica.

Quale sia il fondamento di questa teleologia della storia è presto detto. Come ogni uomo, anche il filosofo appartiene ad una tradizione storicamente determinata: appartiene, in quanto filosofo, alla dimensione attuale della storia della riflessione filosofica. Ora, appartenere ad una tradizione e cogliere nella tradizione ciò che determina un accomunamento significa di fatto plasmare la propria volontà accordandola alla volontà sedimentata nella tradizione: ci riconosciamo parte di una comunità quando accettiamo di condividerne le forme di vita, anche se l'accordarsi della nostra volontà al volere dei molti è un'ovvietà che, nella norma, passa inosservata. Nel caso della riflessione filosofica far parte della comunità dei filosofi significa riconoscersi almeno in parte nella tradizione filosofica e accettare di condividere una molteplicità di problemi, di domande, di argomentazioni, e forse anche di risposte. E tuttavia almeno in un punto la comunità ideale del filosofo si differenzia dalle molteplici comunità reali in cui si articola la nostra vita quotidiana: per il filosofo, appartenere alla comunità filosofica significa necessariamente disporsi in un atteggiamento di critica radicale della tradizione in quanto tale. Accettare i problemi della filosofia così come il suo presente stato non significa allora condividerne il destino, ma disporsi nell'atteggiamento dell'epoché per cogliere poi, a partire di qui, il dinamismo latente della riflessione filosofica, - quel dinamismo che si dispiega quando le mosse del nostro passato filosofico non vengono semplicemente accettate, ma indagate e colte nella loro provvisorietà, come tentativi di rispondere a quelle domande della filosofia il cui senso ci appare solo ora in tutta la sua chiarezza. Il presente si rivolge così al passato come un maestro che osserva i primi tentativi di un bambino di ragionare sulle figure e si trattiene dal correggere ogni sua mossa falsa, poiché vede nell'errore i primi passi di un ragionamento corretto - li vede, naturalmente, solo perché li coglie nella prospettiva di un risultato che egli ha già conseguito. Ciò che per il bambino è soltanto una mossa che dovrà imparare ad escludere dal repertorio della prassi geometrica appare invece agli occhi di chi lo guarda come un tentativo ricco di senso, che appartiene se non alla teoria almeno alla storia della geometria, poiché è espressione di una medesima intenzionalità. Per la filosofia le cose non stanno diversamente: anche per il filosofo che guarda al passato, la consapevolezza del presente offre il punto di vista che permette di comprendere nell'unità di un disegno ciò che sembrava soltanto un procedere cieco. Ma ciò significa che delle filosofie del passato si deve parlare alla luce della chiarezza del presente; visti in questa prospettiva, i filosofi ci appaiono in un'ideale comunità che non coincide necessariamente con il luogo che essi stessi si erano assegnati nella famiglia filosofica:

qualsiasi filosofo compie le sue considerazioni in relazione con i filosofi del passato e del presente. Egli si pronuncia su tutti i problemi che gli si presentano, fissa, mediante queste discussioni, la propria posizione, giunge così alla comprensione del suo proprio fare, comunque siano sorte in lui le teorie che egli ha reso pubbliche, cosciente di ciò a cui tendeva. Ma anche attraverso la ricerca storica noi veniamo a conoscenza, magari con estrema precisione, di queste "auto-interpretazioni" [...], non sappiamo ancora nulla attorno a ciò verso cui, nella nascosta unità dell'interiorità intenzionale, che sola costituisce l'unità della storia, tutte queste filosofie "tendevano". Ciò si rivela soltanto nella fondazione finale; solo in base ad essa si dischiude la tendenza di tutte le filosofie e di tutti i filosofi, solo in base ad essa si può riuscire a un chiarimento che permette di comprendere i passati pensatori, così come essi stessi non sarebbero mai riusciti a capirsi (ivi, p. 101).

Ma se il passato si illumina a partire dal presente, è importante osservare che quest'operazione non è - per Husserl - arbitraria. Anche in questo caso la filosofia mantiene la sua peculiarità: la filosofia è, per sua natura, un razionalismo privo di presupposti, e ciò significa in primo luogo che nei suoi intenti essa è fin da principio volta verso quella meta che solo in parte riesce a scorgere e che nel tempo si fa via via più manifesta. Ma significa anche, in secondo luogo, che la prospettiva del presente non è semplicemente ereditata come una meta cui il cammino del pensiero ha condotto, ma è a sua volta tema di una critica radicale. Solo se la prospettiva del presente è animata dalla stessa volontà del passato e solo se sorge dal gesto in cui quella volontà si esprime - il gesto dell'epoché - la prospettiva del presente può effettivamente dire la sua nel dialogo filosofico, poiché soltanto in questo caso la nostra voce entra a far parte della comunità filosofica.

Di qui la concezione husserliana della storia. Nella storia della riflessione filosofica vi è, per Husserl, una nascosta teleologia, ma ciò non significa che vi sia una dialettica che ne segna le tappe: vuol dire solo che se vi è davvero una ragione e se la ragione dialoga con il passato ritrovandosi nella volontà che lo animava, allora nel divenire del dialogo, nella razionalità delle sue argomentazioni e nel loro riconoscersi nell'identità dell'obiettivo che le accomuna si può scorgere il dinamismo latente che deve spingere la filosofia verso la sua meta ultima, garantendone il progresso.

Che cosa dire di questa concezione teleologica della filosofia che infine coincide con la convinzione che se si partecipa razionalmente al dialogo filosofico, allora si collabora necessariamente al progresso della filosofia stessa? Credo che una risposta a questa domanda che verte sulla legittimità della tesi secondo la quale il dialogo filosofico ha una sua meta che si delinea nel dialogo sia tutta già racchiusa in quel "se" che ci invita a riflettere sull'unicità della ragione e quindi anche sulla certezza che vi sia davvero un senso che si dispiega nelle pagine del passato, un'unica biografia del soggetto filosofico.

Su questa tesi, come in seguito vedremo, vi sono ragioni per dubitare. E tuttavia, per quanti sospetti sia lecito sollevare su questo "romanzo di storia della filosofia" (Husserl parlava proprio così della sua storia critica delle idee), e per quanti dubbi sorgano di fronte a un romanzo che termina proprio nel luogo in cui vuole l'autore, è forse opportuno non lasciarsi prendere dall'entusiasmo della critica e non lasciarsi troppo infastidire dalla relativa semplicità delle pagine che seguono e dalla brevità delle considerazioni che sono dedicate ad ogni singolo autore, poiché in queste pagine che non sembrano chiedere una conoscenza più approfondita di quella che può darci un qualsiasi manuale di liceo prende forma egualmente un pensiero sottile che vale la pena di seguire e da cui si può trarre molto di più di quanto non sia contenuto nelle pagine più dense e più complesse di altre indagini sulla storia del nostro passato filosofico.

 

 

 

 

 

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