Paolo Spinicci


Il mondo della vita e il problema della certezza
Lezioni su Husserl e Wittgenstein

 

 

 

 

 

 

 

 Lezione quarta

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2. Cartesio

 

 

 

 

 

Ci accingiamo ora ad affrontare brevemente un autore cui Husserl si sente, per certi aspetti, molto vicino: Cartesio, o più propriamente: il Cartesio delle Meditazioni filosofiche. Che nella storia delle idee che la Crisi ci propone Cartesio occupi un ruolo centrale, Husserl lo riconosce senza mezzi termini: il § 16 si apre infatti con l'affermazione secondo la quale Descartes è "l'originario genio fondatore della filosofia moderna nella sua interezza". Scrive Husserl:

Se poco prima Galileo era giunto alla fondazione originaria della nuova scienza, fu Cartesio a concepire ed avviare una realizzazione sistematica della nuova idea della filosofia universale nel senso di un razionalismo matematico, o meglio fisicalistico, di una filosofia come "matematica universale". Questa filosofia esercitò ben presto un influsso poderoso (ivi, p. 102).

È difficile, questa volta, contestare anche solo in parte il senso di queste affermazioni. Chi prenda tra le mani un'opera che Cartesio scrive tra il 1629 e il 1633 e che si intitola Il mondo non può non accorgersene: nelle pagine di questo scritto, che Cartesio non pubblica dopo aver saputo che cosa era accaduto a Galilei, si fa avanti con estrema chiarezza il proposito di costruire l'immagine scientifica del mondo nella sua interezza, di costruirla ancor prima che si sia fatta luce sulle molteplici oscurità che un progetto tanto ambizioso comporta. Così, la finzione che apre queste pagine cartesiane - che, in un luogo lontano dalla nostra Terra, un dio crei un nuovo mondo che dobbiamo immaginarci fin da principio racchiuso nei termini della razionalità scientifica - non ha soltanto lo scopo di rendere più accettabili agli occhi della censura l'immagine meccanicistica del mondo, ma ha anche un significato metaforico che non può essere taciuto: nell'arditezza di quella finzione si esprime la certezza che la scienza scoprirà infine il sistema del mondo, quale dio l'ha creato e non rimarrà impanata nel mondo come a noi sensibilmente appare. La grandezza di questo scritto, la cui fortuna scientifica doveva essere nel complesso piuttosto breve, è dunque tutta qui: nella chiarezza del progetto che lo anima e nella radicalità con cui esso viene delineato ed esemplarmente proposto.

E tuttavia la grandezza di Cartesio e il suo significato per l'età moderna non sono soltanto racchiusi nella lucidità con la quale nelle sue pagine si manifesta l'ideale del razionalismo obiettivistico, ma si manifestano anche nell'opera che avrebbe dovuto mostrare il fondamento ultimo dell'obiettivismo scientifico e che invece racchiude un pensiero che era destinato a travolgerlo - le Meditazioni metafisiche sulla filosofia prima che Cartesio pubblica nel 1642.in francese e in latino.

Ora, in queste Meditazioni metafisiche Husserl coglie uno dei momenti più alti della riflessione filosofica moderna, ed anche qui è difficile dargli torto. Tutto in queste pagine è ricco di senso. È ricca di senso la finzione che le apre - non un dialogo e quindi non una concezione che lega il sorgere della domanda filosofica ad una questione particolare su cui si vuole trovare effettivamente un accordo, ma una meditazione solitaria che sorge da se stessa e che si lascia unicamente guidare dall'esigenza di liberarsi da ogni falsa opinione per potersi appropriare di un sapere certissimo, di una conoscenza priva di ogni incertezza. L'ironia socratica mostra la precarietà di un accordo che troppo spesso riposa su convinzioni malcerte ed affida al dialogo il compito di rinsaldare la comunanza delle opinioni. Non è questo il cammino che Cartesio ci invita a percorrere. La sfiducia nel sapere tramandato e comunemente condiviso si è irrigidita nel gesto filosofico del dubbio metodico ed il filosofo deve abbandonare il terreno del dialogo per cercare da solo il cammino che da un mondo che sembra avere la consistenza dei sogni e la loro ineliminabile privatità lo riconduca al terreno comune della ragione. Libero da ogni cura il filosofo deve esercitarsi nell'arte difficile di un dubbio che tutto abbracci:

Ora, dunque, che il mio spirito è libero da ogni cura, e che mi sono procurato un riposo sicuro in una pacifica solitudine, mi applicherò seriamente e con libertà a una distruzione generale di tutte le mie antiche opinioni (Meditazioni filosofiche, a cura di E. Garin, Laterza, Bari 1975, p. 71).

Dobbiamo davvero fare così, per Cartesio; dobbiamo liberarci dalle nostre antiche opinioni, e per farlo dobbiamo mettere a distanza la vita, che delle opinioni ha bisogno e che necessariamente tacita il dubbio scettico con l'urgenza delle esigenze pratiche, appesantendo di una greve miscela terrestre la libertà dello spirito. E tuttavia, per applicarsi seriamente alla distruzione delle opinioni antiche, e cioè di quelle opinioni che sono tanto vecchie per noi da non poter essere nemmeno accompagnate dal ricordo del giorno in cui le abbiamo apprese, è necessario rammentarsi dello scetticismo antico e del suo ossessivo ripeterci che non vi sono criteri certi del conoscere e che non vi è proposizione che sfugga alla presa del dubbio. E se di una proposizione possiamo dubitare, allora è ragionevole sospendere il giudizio - conclude Cartesio. Così, nelle pagine della Prima e della Seconda Meditazione ci imbattiamo in una serie di argomenti che possono giustificare il dubbio e che sono tratti di peso dall'armamentario teorico dei pirroniani. Sarebbe tuttavia un errore sottolineare troppo questo nesso - almeno per Husserl. L'esito dello scetticismo antico, così come soprattutto si configura nelle pagine di Sesto Empirico, è racchiuso nella convinzione che l'istanza scettica sia il necessario correlato di un pregiudizio realistico che costringe la filosofia ad avanzare pretese che non è poi in grado di mantenere. Il filosofo scettico diviene così da un lato la coscienza critica di una filosofia che ha compreso l'interna contraddittorietà del realismo metafisico, dall'altro si fa invece sostenitore dei diritti della doxa di contro all'episteme:

occorre qui ricordare [...] che lo scetticismo antico [...] contesta e nega l'episteme, cioè la conoscenza scientifica dell'essente in sé, ma non riesce ad andare al di là dell'agnosticismo, del rifiuto delle sustruzioni razionali, operate da una "filosofia" la quale, con le sue presunte verità in sé, ammette e crede di raggiungere un in sé razionale. "Il" mondo è in sé inconoscibile razionalmente, la conoscenza umana non può andare al di là delle apparizioni soggettive relative (Crisi, op. cit., p. 105).

Ora, anche se forse è possibile sollevare qualche dubbio su quest'immagine dello scetticismo antico che è disegnata esclusivamente su Sesto Empirico, è tuttavia certo che in Cartesio le cose stanno diversamente. Cartesio non intende mostrare l'impossibilità di una conoscenza obiettiva, ma - al contrario - si costringe a dubitare di tutto ciò che non è certo, proprio perché intende ricostruire il sapere su un fondamento indiscutibile. Di qui la radicalità dell'epoché cartesiana che non si accontenta di rendere problematica l'episteme, ma intende anche sollevare un dubbio sull'esperienza sensibile, sulla doxa:

Quest'epoché cartesiana è in realtà di un radicalismo inaudito, poiché investe espressamente non soltanto la validità di tutte le precedenti scienze e della stessa matematica che pretende ad un'evidenza apodittica, ma anche la validità del mondo della vita pre- ed extra scientifico, e cioè di tutto il mondo, dato in un'ovvietà inindagata, dell'esperienza sensibile, di tutta la vita concettuale che di esso si nutre, della vita non scientifica e infine anche di quella scientifica. Si può dire che per la prima il grado inferiore di qualsiasi conoscenza obiettiva, il terreno di tutte le scienze tradizionali, di tutte le scienze "del" mondo, viene posto in discussione dal punto di vista della critica della conoscenza: viene messa cioè in discussione l'esperienza nel senso usuale, l'esperienza sensibile - e correlativamente il mondo stesso, quel mondo che in questa esperienza e in virtù di questa esperienza ha per noi un senso e un essere, quel mondo che vale costantemente per noi , in quanto direttamente alla mano, in una indiscutibile certezza [...] e che soltanto nei dettagli, occasionalmente, può ridursi a mera apparenza e a dubbio (ivi, p. 104).

Di qui la radicalità del dubbio cartesiano, il suo ripercorrere rapidamente gli argomenti scettici sull'inganno dei sensi e sulla possibilità di confondere il sonno con la veglia per giungere infine ad un argomento che dà al dubbio il nutrimento di un'inquietudine metafisica: forse la nostra mente potrebbe essere il frutto del caso, e potrebbe quindi essere costituzionalmente inadeguata a cogliere la verità. O forse - scrive Cartesio - dio ci ha creato proprio così, come soggetti votati all'errore:

Tuttavia è da lungo tempo che ho nel mio spirito una certa opinione secondo la quale vi è un Dio che può tutto, e da cui io sono stato creato e prodotto così come sono. Ora, chi può assicurarmi che questo Dio non abbia fatto in modo che non vi sia nessuna terra, nessun cielo, nessun corpo esteso, nessuna figura, nessuna grandezza, nessun luogo e che io tuttavia senta tutte queste e tutto ciò mi sembri esistere non diversamente da come lo vedo? Ed inoltre, come io giudico qualche volta che gli altri si ingannano anche nelle cose che credono di sapere con la maggiore certezza, può essere che Egli abbia voluto che mi inganni tutte le volte che faccio l'addizione di due e di tre, o che enumero i lati di un quadrato, o che giudico di qualche altra cosa ancora più facile (Meditazioni filosofiche, op. cit., p. 74)

Ma forse, si dirà, che dio non può farci queste cose, che non può volerci ingannare, e Cartesio si dichiara di fatto disposto a chinare la test di fronte ad un simile argomento. Per rialzarla tuttavia poco dopo invitandoci ad una nuova finzione: non dio, ma un genius aliquis malignus, non meno potente ed astuto che ingannatore, potrebbe aver impiegato tutta la sua industria per distoglierci dal vero. La solitudine del filosofo nella stanza è divenuta, inavvertitamente, una solitudine metafisica e così, ciascuno di noi per suo conto, può scoprirsi in balia di un genio incantatore, di un demone che dà corpo alla possibilità scettica che non vi sia una necessaria proporzione tra la certezza soggettiva del pensiero e l'esistenza effettiva e la verità del pensato.

Alla radicalità del dubbio fa tuttavia eco l'istanza razionale che lo sostiene: dall'epoché si debbono prendere le mosse solo perché il filosofo non può costruire il suo sapere sul terreno instabile del pregiudizio e della tradizione. L'epoché è un gesto distruttivo, ma è insieme anche l'espressione di una libertà e che prelude ad una costruzione nuova e definitivamente fondata. Quale sia la via che dalle secche del dubbio conduce verso il nuovo sapere è presto detto. Cartesio ci rammenta un antico argomento di Agostino e osserva così che l'ombra del dubbio non può proiettarsi sulla consapevolezza che accompagna il gesto del mio dubitare, sul cogito che lo esprime. Posso dubitare di ciò che penso ed esperisco, ma non di pensare ed esperire: i pensieri e l'io che li pensa sono al di là di ogni possibile dubbio e acquistano quindi una certezza apodittica. Il dubbio ci conduce così ad una verità indubitabile, per cui è già pronta una concisa affermazione latina: Hic invenio: cogitatio est; haec sola a me divelli nequit.

Ma anche se la sfera dell'esperienza di cui sono consapevole è certa, per Cartesio si pone ancora il problema di dimostrarne la validità conoscitiva e quindi l'adeguatezza dell'esperire rispetto alla realtà di cui pretende di parlarci. Così, dopo aver pronunciato il detto famoso che chiude la Seconda meditazione - cogito, ergo sum res cogitans - Cartesio si mette subito alla ricerca di una ragione che garantisca la legittimità del passaggio dalla sfera delle immagini soggettive (delle ideae) alla realtà obiettiva, e nella Terza meditazione si convince di averla trovata nel nostro essere stati creati da un dio che non può averci ingannato e che deve aver quindi commisurato al reale le nostre facoltà conoscitive - un dio, la cui esistenza Cartesio ritiene di poter dimostrare apoditticamente muovendo dall'assioma, ovvio per un lume naturale su il dubbio non getta la sua ombra, secondo cui l'idea di dio non può essere creata dall'uomo poiché non è possibile che l'effetto superi per perfezione la causa:

ora, è una cosa manifesta per lume naturale, che deve esserci perlomeno tanto di realtà nella causa efficiente e totale, quanto nel suo effetto: perché donde l'effetto può trarre la sua realtà, se non dalla propria causa? E come questa causa potrebbe comunicargliela se non l'avesse in se stessa? E da ciò segue che il niente non potrebbe produrre nessuna cosa, ma anche che ciò che è più perfetto, cioè che contiene in sé maggiore realtà, non può essere una conseguenza ed una dipendenza del meno perfetto. E questa verità non è solamente chiara ed evidente negli effetti che hanno quella realtà che i filosofi chiamano attuale o formale, ma anche nelle idee, dove si considera solamente la realtà che essi chiamano oggettiva (ivi, 92-93).

Il dubbio può essere così composto e la solitudine metafisica può apparici un ricordo lontano, ora che l'io del cogito può riconoscere la presenza di dio e trovare in essa la garanzia del fatto che la sua ragione è insieme la nostra.. Il filosofo può così nuovamente accedere al terreno della conoscenza obiettiva, che appare ora garantita dalla bontà divina: se non siamo il frutto del caso, se le nostre facoltà non sono un prodotto casuale ma il frutto della mano di dio, allora è impensabile che ciò che ci appare chiaro ed evidente non sia l'immagine fedele di ciò che necessariamente è.

Ora, Husserl non è certo disposto a seguire Cartesio nel cammino che la Terza meditazione ci addita, ed anzi da un lato chiede al lettore di soffermarsi soltanto sulle prime due Meditazioni cartesiane e, dall'altro, lo invita a non lasciarci influenzare dal fatto che "Cartesio svaluta le sue scoperte a prove paradossali e contraddittorie dell'esistenza di dio, né dalle altre ambiguità e oscurità di significato" (ivi, p. 103). Della Terza meditazione possiamo allora disinteressarci, per rivolgere lo sguardo a ciò che si spalanca di fronte allo sguardo di Cartesio, e che Cartesio - lamenta Husserl - non vede perché, come Colombo, approdato ad un nuovo continente, si convince di aver trovato una nuova via per giungere a terre già da tempo esplorate.

Quale sia per Husserl il continente nuovo che il dubbio cartesiano spalanca di fronte agli occhi di chi esercita l'epoché è presto detto: il dubbio cartesiano sospende la nostra credenza nell'esserci del mondo, ma spalanca lo sguardo sulla nostra esperienza, in cui quella credenza di fatto si costituisce. Il mondo è fatto di cose, e di queste cose le scienze indagano la natura, determinandone l'essere in sé. Se tuttavia ci interroghiamo sul fondamento su cui poggia la nostra conoscenza del mondo e delle cose ci accorgiamo che siamo mediatamente o immediatamente ricondotti alla nostra esperienza, alle percezioni in virtù delle quali si costituisce per noi il mondo della vita, un mondo di cose e di persone che è presupposto dalla prassi scientifica in quanto tale. E ciò è quanto dire che la Seconda meditazione cartesiana è, per Husserl, un'introduzione alla filosofia trascendentale, poiché il dubbio metodico altro non è se non l'invito a considerare gli oggetti ed il mondo come entità che si costituiscono nell'esperienza, che si pone così come quel terreno

che precede in linea di principio ogni possibile essente e le sue sfere d'essere, in quanto è la loro premessa assolutamente apodittica (Crisi, op. cit., p. 106).

Di qui la necessità di indugiare un poco su ciò che, per Cartesio, propriamente sfugge al dubbio. Nelle Meditazioni, proprio come nelle pagine di Agostino, il dubbio universale si ferma solo sulle soglie della soggettività; per Cartesio, lo sguardo deve essere rivolto al cogito, poiché è nel cogito che vive la soggettività, l'io senza corpo che esce indenne dalla prova del dubbio. E tuttavia, basta riflettere bene su queste pagine cartesiane, per rendersi conto che non sono solo l'io e il suo esperire che si salvano dal dubbio, ma anche ciò che in quelle esperienze è in quanto tale esperito. Posso dubitare del fatto che vi siano davvero le montagne che vedo, ma non posso dubitare del fatto che vedo e che vedo appunto delle montagne. Su questo fatto si deve richiamare l'attenzione, e ciò significa che anche Husserl deve necessariamente inscriversi nella tradizione di chi non ha saputo resistere alla tentazione di riprendere in mano la formuletta latina delle Meditazioni, per cambiarla almeno un poco. Così, nelle sue mani il sum cogitans cartesiano deve rinunciare a fungere come una premessa e deve invece ampliarsi, per tenere conto del fatto che la mia consapevolezza non è solo consapevolezza del mio esperire, ma anche del mio esperire così, del mio avere esperito e pensato proprio queste cose: dobbiamo dunque scrivere ego cogito - cogitata qua cogitata. Io penso e penso le cose pensate in quanto sono pensate, e ciò significa che anche se per il momento mi disinteresso dell'esistenza effettiva di ciò di cui ho esperienza, questo è certo: che io esperisco, e che esperisco proprio ciò che esperisco. Solo così la nuova terra cui Cartesio è approdato si mostra nella sua reale grandezza, solo così la Seconda meditazione può assumere il significato di una riflessione filosofica orientata trascendentalmente:

durante l'epoché universale, l'"io sono" mi è offerto in un'evidenza assolutamente apodittica. Ma in questa stessa evidenza è incluso qualcosa di estremamente articolato. Sum cogitans: più concretamente, questo enunciato evidente suona: ego cogito - cogitata qua cogitata. Ciò include tutte le cogitationes, sia le cogitationes particolari sia la loro sintesi fluente nell'unità universale di una cogitatio;ma anche il mondo in quanto cogitatum, e tutto ciò che io volta per volta gli attribuisco, ha in esse per me una validità d'essere; senonché ora io, in quanto filosofo, non posso più porre naturalmente e direttamente queste validità, né posso utilizzarle conoscitivamente [...]. Mi rimane dunque tutta la vita dei miei atti, la vita d'esperienza, del pensiero, della valutazione, ecc.; anzi, questa vita continua a procedere, ma ciò che in essa mi stava davanti agli occhi come "il" mondo, il mondo che era e che valeva per me, è diventato per me un mero "fenomeno" in tutte le determinazioni che gli ineriscono. Tute queste determinazioni, come il mondo stesso, si sono trasformate in mie "ideae", sono elementi costitutivi delle mie cogitationes, appunto in quanto sono i loro cogitata - nell'epoché. Avremmo dunque qui una sfera d'essere assolutamente apodittica, inclusa nel titolo ego, e non una proposizione assiomatica come "ego cogito" oppure "sum cogitans" (ivi, pp. 105-6).

Di qui il problema che Husserl si pone - un problema in cui si legge con chiarezza la distanza che separa queste pagine da un'indagine storica in senso proprio. Per Husserl, non è innanzitutto importante soffermarsi su ciò che Cartesio vede e dice, ma su ciò che avrebbe dovuto vedere, poiché gli stava davanti agli occhi in virtù dell'epoché fenomenologica. Così, piuttosto che chiedersi quale sia il significato di ciò che Cartesio di fatto afferma, dobbiamo - per Husserl - che cosa gli abbia impedito di vedere quel terreno apodittico per cui pure aveva trovato la via d'accesso.

Che qui il terreno dell'indagine storica sia stato abbandonato è un fatto su cui è difficile dubitare. E tuttavia, prima di storcere la bocca di fronte ad una domanda così poco presentabile filologicamente, è forse opportuno chiedersi se in un simile procedimento non vi sia un margine di verità anche se ci poniamo in una prospettiva di carattere storico ed ermeneutico: in fondo, solo se ci rendiamo conto di quali altre vie avrebbero potuto aprirsi come risposta al dubbio metodico, diviene poi concretamente possibile intendere quell'unico cammino che Cartesio percorre come frutto di una decisione, di una scelta che le forme di vita e gli stili di pensiero di un'epoca hanno insensibilmente preso per lui.

 

 

 

 

 

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