Paolo Spinicci


Il mondo della vita e il problema della certezza
Lezioni su Husserl e Wittgenstein

 

 

 

 

 

 

 

 Lezione quinta

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2. Il razionalismo deluso e l'origine dell'empirismo: John Locke

 

 

 

 

 

Delle riflessioni che ci hanno sin qui guidato possiamo dare ora una formulazione più concisa. Per Husserl il pensiero moderno ha origine con Cartesio, ed in particolar modo con le sue Meditazioni filosofiche, ed in questa origine Husserl crede di scorgere in nuce il destino del pensiero moderno, il suo contraddittorio tentativo di fondare la nostra conoscenza obiettiva del mondo a partire da una concezione obiettivistica della soggettività. Lo sguardo filosofico del presente può scorgere così nelle Meditazioni i tratti essenziali di un cammino che l'età moderna avrebbe percorso ora seguendo le orme dei filosofi razionalisti, ora ponendosi sulle tracce dell'empirismo inglese: nel dubbio cartesiano e nel suo tentativo di risolverlo deve apparire allora in trasparenza da un lato la grande occasione teorica dal pensiero moderno, ma anche - dall'altro - il passo falso che doveva condurlo alla crisi del presente. Su questi due momenti impliciti nelle pagine cartesiane Husserl ci invita più volte a riflettere e di fatto edifica la sua storia del pensiero moderno. Vale dunque la pena ripeterli brevemente.

1. Nelle Meditazioni vi è un'occasione mancata: l'epoché che inaugura la Prima meditazione sembra infatti dischiudere le porte della fenomenologia trascendentale - di una filosofia che descriva l'esperienza non come un fatto psicologico che accade nella nostra mente, ma come il terreno originario in cui si costituisce tutto ciò di cui possiamo discorrere e quindi anche il mondo e, nel mondo, gli altri e me stesso - come persona innanzitutto, ma poi anche come un corpo che può essere sollecitato a determinate reazioni di ordine psichico.

2. Ma appunto Cartesio non segue questo cammino, e l'ego che nella Seconda meditazione ci presenta è in realtà una soggettività psicologica, una parte del mondo che ci sembra così vicina da sfuggire per questo all'ombra del dubbio. L'esperienza diviene così un evento che accade in un luogo circoscritto del mondo - nella mente dell'uomo. E se ogni nostra immagine delle cose è sita nello spazio chiuso della soggettività psicologica, allora è fin da principio ovvio che ogni nostra esperienza, proprio perché è racchiusa nella nostra mente, non può pretendere di avere un significato obiettivo - a meno che dall'alto qualcuno benedica le nostre facoltà e ci rassicuri sul fatto che ciò che ci sembra vero lo è al di là di ogni ragionevole dubbio.

È in questa luce che la filosofia di Locke diviene, per Husserl, una tappa obbligata. Di Locke dobbiamo rammentarci proprio perché il suo Saggio sull'intelletto umano (1690) ci mostra la via che il pensiero moderno doveva seguire, dopo che Cartesio aveva posto con tanta forza, ma su un falso terreno, il problema di una fondazione soggettiva della validità obiettiva del conoscere. Abbiamo già osservato come Cartesio sia innanzitutto il filosofo razionalista che cerca di fondare l'obiettività del conoscere e la realtà razionale dell'essere in sé del mondo, e Locke è, almeno in parte, un filosofo che si è formato nella cultura del razionalismo seicentesco. Ma se di razionalismo per Locke si può parlare occorre tuttavia rammentare che Locke è un razionalista deluso che non può dimenticarsi dei temi cari alle grandi metafisiche seicentesche proprio nel momento in cui addita alla riflessione filosofica un cammino profondamente diverso. Così, nelle pagine del Saggio sull'intelletto umano Locke ci invita ad armarci del metodo introspettivo per descrivere le idee che animano la nostra coscienza, ma non rinuncia per questo a sostenere che vi sia una realtà trascendente e non riesce ad impedirsi di pensarla secondo i dettami classici del razionalismo: la realtà trascendente, così si legge nelle pagine lockeane, deve articolarsi in nuclei sostanziali e le sostanze debbono racchiudere in se stesse la ragione della necessaria inerenza dei predicati che le caratterizzano. E tuttavia, di tutto questo mirabile edificio della realtà si deve dichiarare già nella Introduzione all'opera, l'inaccessibilità conoscitiva. La realtà trascendente vi è ed è razionale - ma è di fatto inconoscibile. Il mondo come un cosmo scritto nel linguaggio esattissimo della matematica deve esistere, ma la fisica non può essere una disciplina razionale, non può liberarsi dallo scoglio della probabilità: la conoscenza non può spiccare il balzo e liberarsi una volta per tutte dalla dimensione antropologica e soggettiva dell'esperienza, che deve essere invece accettata esplicitamente e che compare prepotentemente sin nel titolo dell'opera - le meditazioni metafisiche sono diventate un saggio sull'intelletto umano. Per dirla in breve: il mondo di cui Cartesio scriveva c'è - ma non è cosa per noi. Scrive Husserl:

è interessante osservare che la scepsi di Locke di fronte all'ideale razionale della scienza e la sua limitazione della portata delle nuove scienze (che tuttavia debbono mantenere la loro legittimità) conducono di fatto ad una nuova forma di agnosticismo. Locke non nega, come l'antico scetticismo, la possibilità della scienza in generale, per quanto ammetta cose in sé completamente sconosciute. La nostra scienza umana si fonda esclusivamente sulle nostre rappresentazioni e sulle nostre formazioni concettuali, mediante le quali noi possiamo sì trarre conclusioni riguardanti il trascendente, ma non possiamo, di principio, attingere vere e proprie rappresentazioni delle cose in sé, rappresentazioni che ne esprimano adeguatamente l'essenza. Soltanto della nostra sfera psichica abbiamo rappresentazioni e conoscenze adeguate (ivi, p. 114).

Da questo razionalismo che ha perso la fiducia nei propri mezzi doveva sorgere, per Husserl, la filosofia empiristica. Ed è in questo senso che la filosofia di Locke diviene esemplare, per Husserl. Infatti, se l'orizzonte filosofico in cui Locke inscrive il suo pensiero ci riconduce alla matrice culturale del razionalismo seicentesco, le sue indagini concrete anticipano invece le pagine dell'empirismo del xviii secolo: nelle pagine della Crisi, Locke figura così non come un filosofo empirista tout court, ma come un pensatore costretto all'empirismo dall'impossibilità di seguire Cartesio nel suo tentativo di aprirsi un varco dalle idee soggettive alla realtà obiettiva.

Ancora una volta le pagine introduttive del Saggio hanno per noi un'importanza centrale: qui Locke ci invita a distogliere lo sguardo dalla struttura obiettiva e metafisica del reale per rivolgere la nostra attenzione alla mente umana, poiché solo un'analisi che abbia per oggetto la genesi psicologica dei nostri concetti e dei nostri giudizi può effettivamente far luce sui limiti e sulla natura della conoscenza umana. Ora, invitandoci a questo compito, Locke ci chiede insieme di assumere un peculiare stile di ricerca: la riflessione sulla soggettività chiede un metodo storico e piano di analisi. Un metodo storico, appunto, e qui "storia" va intesa proprio nel senso in cui si parla di storia naturale: dobbiamo cioè ricordarci dei musei in cui si raccolgono le molteplici forme della natura, senza altro ordine se non quello che è dettato da una classificazione evidente dei reperti, che vengono appunto raccolti seguendo ovunque l'intreccio delle somiglianze. Allo stesso modo, il filosofo che pazientemente si accinge a far luce sulla natura dell'intelletto umano dovrà cercare di raccogliere e classificare le nostre esperienze, dovrà - in una parola - descriverle. Al bisogno argomentativo del filosofo cartesiano si deve così contrapporre un'esigenza di carattere descrittivo che si fa tanto più viva, quanto meno si confida nella possibilità di risalire deduttivamente dal vissuto soggettivo alla realtà da cui è stato causato. All'argomentazione come reazione della ragione alle inquietudini dello scetticismo fa così da controcanto la descrizione, come parziale riconoscimento dell'ineliminabilità del dubbio scettico.

Quale sia poi il fondamento su cui Locke ritiene possibile edificare la sua indagine dell'intelletto umano può essere detto in breve. Il metodo della filosofia è di fatto il metodo introspettivo che ci permette di cogliere la totalità delle idee che animano la nostra mente, abbiano esse origine dal senso esterno e quindi dal contatto del nostro corpo con la realtà trascendente, o siano invece attinte dal senso interno - o come Locke si esprime: dalla riflessione - e quindi ci mostrino le operazioni della soggettività. Nell'uno e nell'altro caso un'indagine sui contenuti della nostra vita di esperienza dovrà fondarsi sulla nostra capacità di distogliere lo sguardo dalle cose per volgerlo al nostro intelletto, e in Locke - secondo una forma stilistica che accomuna i filosofi dell'empirismo inglese - le principali distinzioni concettuali sono accompagnate da un invito rivolto al lettore cui si chiede di guardare ciò che dentro di sé accade, poiché ci si deve convincere di ciò che si legge non seguendo le parole di un ragionamento ma cogliendo l'evidenza di un esperimento che ciascuno di noi può compiere immediatamente su se stesso.

E tuttavia, basta addentrarsi nel Saggio per rendersi conto che l'introspezione è fin da principio vincolata ad una tesi di carattere generale: ogni idea deve essere infine ricondotta ad un'immagine mentale, ad una raffigurazione che si imprime nella coscienza e che trova il suo senso nella sua valenza figurativa. Ma ciò è quanto dire che la mente deve essere pensata come un grande teatro in cui il mondo esterno si raffigura. O più precisamente: come una galleria di dipinti in cui vi è un quadro per ogni parola significante del nostro linguaggio.

Non è difficile scorgere il nesso che lega quest'immagine della coscienza al fraintendimento psicologico dell'ego che caratterizza la svolta cartesiana. Per Cartesio come per Locke l'esperienza è il processo di acquisizione di una molteplicità di immagini e la mente è il luogo in cui queste innumerevoli raffigurazioni vengono di volta in volta ospitate. Ma se ciò accade la ragione è ben chiara: se si riconduce l'esperienza alla dimensione psicologica della mente e se si pensa poi la mente come una cosa, sia pure pensante, allora è anche necessario credere che ogni sfumatura di senso debba essere reinterpretata come una distinzione che concerne la dimensione contenutistica del vissuto, la sua dimensione figurativa. Così, se è lecito distinguere tra un triangolo individuale e il concetto universale di triangolo dovrà anche avere un senso parlare di un'idea individuale di triangolo e dell'idea astratta di una figura geometrica che abbia tre lati, ma che non sia né regolare, né isoscele, né scalena - di una figura impossibile, insomma. Ed un analogo discorso vale anche per le forme intenzionali dell'esperienza che debbono essere ricondotte a differenze interne alle idee, alla loro dimensione presentativa: un ricordo sarà allora un'idea sbiadita, l'immaginazione una raffigurazione incerta. Un'altra via non vi è: se la mente è concepita come una cosa, sia pure pensante, anche le differenze tra esperienze dovranno essere concepite come se fossero differenze tra cose - tra immagini più o meno vivide, più o meno ricche di dettagli. E che per Locke l'anima sia costruita sul modello delle cose materiali è difficile negarlo - almeno per Husserl:

la psiche è un reale chiuso in sé come il corpo. Nella prospettiva di un ingenuo naturalismo l'anima viene intesa come uno spazio per sé. Per usare la celebre similitudine di Locke: l'anima diventa una tavoletta di cera sulla quale i dati psichici vanno e vengono (ivi, p. 113).

Di qui l'approdo della filosofia di Locke. Locke è un filosofo cresciuto ala scuola del razionalismo: egli è certo che vi sia una realtà trascendente e non rinuncia a cercare di contrassegnarla con il linguaggio delle metafisiche del razionalismo. E tuttavia il mondo in sé è inconoscibile, e al filosofo non resta che indagare la soggettività psicologica - ciò che resta dopo aver pronunciato la rinuncia scettica alla realtà trascendente del mondo. Si apre così, come crisi del razionalismo, una concezione empiristica della filosofia, uno stile filosofico che è innanzitutto caratterizzato da un atteggiamento descrittivo e che individua con chiarezza un suo territorio di indagine ma che non può tuttavia liberarsi dalla vena scettica che ne caratterizza l'origine - il suo essere sorto dalla negazione della domanda cartesiana circa la possibilità di scorgere un significato trascendente nei vissuti psicologici della res cogitans.

 

 

 

 

 

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