Paolo Spinicci


Il mondo della vita e il problema della certezza
Lezioni su Husserl e Wittgenstein

 

 

 

 

 

 

 

 Lezione sesta

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. L'empirismo come negazione dell'obiettività del reale: Berkeley

 

 

 

 

 

Le nostre riflessioni su Locke hanno messo in luce il paradosso che per Husserl è insito nelle pagine cartesiane: se non si cede alla tentazione di risolvere il dubbio metodico per via argomentativa, allora si deve riconoscere che non vi è a priori un cammino che ci riconduca dall'immanenza delle idee alla trascendenza del mondo esterno. Certo, per Locke ha senso distinguere le qualità primarie dalle qualità secondarie, e tuttavia questa distinzione e la pretesa ontologica che l'accompagna sembra fondarsi in Locke su un argomento empirico: vi sono proprietà - sembra argomentare Locke - che resistono al mutamento delle sensazioni e che possono quindi essere ragionevolmente intese come momenti cui corrisponde qualcosa anche sul terreno dell'essere. Ma ciò è quanto dire che le tesi del Saggio sono in linea di principio esposte ad un'obiezione di carattere scettico: il diavoletto di Cartesio potrebbe davvero ingannarci e se chiudiamo gli occhi sull'ipotesi del genio maligno è solo perché si tratta di una finzione filosofica cui la vita non sembra conferire sufficiente plausibilità. E ciò è quanto dire: a rigore, lo scetticismo è inconfutabile, ed è per questo che il filosofo deve innanzitutto pagare il proprio debito al pirronismo riconoscendo da un lato che vi sono limiti della conoscenza e indebolendo dall'altro le proprie pretese di attribuire alla realtà una forma piuttosto che un'altra.

Ora, mettere in luce la vena scettica implicita nella posizione di Locke è importante poiché ci permette di comprendere meglio lo sviluppo della posizione empiristica e, insieme ad esso, le ragioni che lo rendono così ricco di interesse per Husserl. In Locke, abbiamo detto, l'empirismo sorge come reazione all'impossibilità di ripercorrere la via cartesiana verso l'obiettività: poiché non vi è una via sicura verso la trascendenza degli oggetti, che pure deve essere mantenuta, allora è necessario riconoscere che la conoscenza vera non può che poggiare sulla constatazione della concordanza delle idee - sul piano quindi di una analisi immanente dei vissuti della soggettività. Ma ciò è quanto dire che la rinuncia all'argomento cartesiano che ci permette di uscire indenni dal dubbio dispone l'indagine filosofica su un terreno descrittivo che ha per oggetto la sfera immanente dell'esperienza, - per quanti problemi poi sorgano dal modo in cui l'immanenza è intesa. Di qui l'interesse di Husserl per l'empirismo: nella riflessione filosofica di Locke, Berkeley e Hume prende infatti forma un'indagine descrittiva della vita di coscienza che si prefigge di mostrare in quale modo si formi per noi l'immagine del mondo in cui viviamo.

Così, a dispetto del richiamo così frequente e insistito ai padri fondatori della filosofia razionalistica e idealistica - a Cartesio e a Kant - la fenomenologia può trovare solo nell'empirismo moderno l'inizio del lavoro filosofico che le è congeniale. Solo con Locke, e poi più chiaramente con Berkeley e Hume, la filosofia abbandona la sfera della scolastica concettuale per disporsi nella dimensione descrittiva che le compete; solo con l'empirismo nasce il disegno di una descrizione effettiva dei vissuti della soggettività:

l'empirista è indubbiamente rivolto a problemi concretamente afferrabili e alla loro soluzione effettiva mediante un metodo che deve essere effettivamente intrapreso. Egli ha inoltre realmente a che fare con qualcosa, il suo lavoro non è privo di frutti, qualcosa prende forma tra le sue mani; ed è per questo che si può sempre imparare qualcosa da Locke e dai suoi seguaci; si vede sempre ciò che essi vedono e che essi vedono qualcosa, che qualcosa si va delineando nello svolgimento del lavoro (Storia critica delle idee, a cura di G. Piana, Guerini, Milano 1993, p. 161).

Nella filosofia dell'empirismo, dunque, cominciamo a intravedere la forma e lo stile della riflessione fenomenologica, e questo ci permette di aggiungere un altro tassello all'idea di fenomenologia che Husserl intende delineare sullo sfondo di un'indagine storica e critica del nostro passato filosofico: possiamo dire ora che la fenomenologia non è soltanto filosofia trascendentale, ma è anche indagine descrittiva che ha per oggetto il campo della nostra esperienza. O più propriamente: possiamo dire che la filosofia si dispone autenticamente sul terreno trascendentale quando assume un atteggiamento puramente descrittivo, quando - in altri termini - riconosce che l'esperienza non è un fatto che debba essere spiegato, ma è il terreno cui ricondurre ogni nostra certezza.

E tuttavia il riconoscimento di un'affinità si deve ancora una volta legare alla critica, che diviene tanto più necessaria quanto più l'empirismo è giunto in prossimità della meta. Potremmo anzi esprimerci così: proprio perché i problemi dell'empirismo sono problemi reali e proprio perché ciò che i filosofi empiristi vedono può essere visto da chiunque risulta con tanta maggiore chiarezza il limite filosofico entro cui si muovono le loro analisi.

Sappiamo già qual è, per Husserl, l'errore che mina la filosofia empiristica e che rende in fondo incerta la vocazione descrittiva che la caratterizza: per l'empirismo, la dimensione percettiva ha la sua chiave di volta nel concetto di sensazione, nelle impressioni che restano nell'anima una volta che ci si sia dimenticati degli oggetti esterni, che della percezione sono - così si ritiene - soltanto le cause trascendenti. Almeno questo alla descrizione deve essere presupposto: che nella coscienza possono esservi soltanto gli effetti delle cose, non le cose stesse, e ciò è quanto dire che già prima di ogni concreta indagine descrittiva si è già deciso che l'esperienza deve essere intesa come un evento che accade nella res cogitans e che non è in linea di principio capace di proporsi in una forma diversa da quella delle immagini mentali. Da questo errore, che ha per Husserl la sua origine nel fraintendimento cartesiano dell'epoché, l'empirismo non sa liberarsi, ed il prezzo che le sue analisi pagano a questo falso punto di partenza è tutto racchiuso nella piega scettica che le sue indagini volontariamente o involontariamente assumono, da quella tendenza negatrice che accompagna la riflessione empiristica anche quando ci si sforza di metterla apertamente da parte.

Come stiano le cose nel caso di Locke ci è già noto. Lo scetticismo implicito in Locke è tutto qui - nel suo legare l'una all'altra una concezione realistica ed obiettivistica del mondo ad una concezione immanentistica della conoscenza. Ma ciò che in Locke è soltanto una conseguenza da cui si cerca di tenersi lontani, diviene ben presto un problema inquietante per cui si deve trovare una risposta, anche se ciò significa avventurarsi su un terreno tanto ardito quanto quello in cui Berkeley si inoltra. La minaccia dello scetticismo diviene così il dinamismo latente che dà alla storia dell'empirismo moderno un movimento necessario:

era dunque del tutto naturale purificare metodologicamente l'intuizionismo di Locke e, mettendo rigorosamente da parte i presupposti trascendenti, rielaborare conseguentemente la conoscenza del trascendente attenendosi all'unico presupposto delle datità immanenti [...]. A questo punto interviene Berkeley, uno dei filosofi più radicali e in realtà più geniali dell'età moderna (ivi, p. 164).

Per comprendere questo richiamo a Berkeley - un autore su cui nella Crisi ci si sofferma solo di sfuggita - è sufficiente richiamare alla mente la proposizione in cui solitamente si compendia la sua filosofia: Berkeley è il filosofo dello esse est percipi. Di questa tesi, che suona così paradossale a chi vi si imbatte per la prima volta, si può tuttavia intendere pienamente il senso solo se la si pone nel contesto che le appartiene: la proposizione che afferma la tesi dell'immaterialismo nasce come risposta al dubbio scettico ed esprime il desiderio di riaccostarsi alla dimensione del senso comune, dell'esperienza quotidiana.

Di questa piega del pensiero berkeleyano ci si rende facilmente conto se si riconosce il giusto peso alle molte osservazioni in cui Berkeley prende apertamente le distanze da una concezione della filosofia che pretenda di allontanarsi dal dettato dell'esperienza quotidiana per disegnare un'immagine del mondo che nega ciò che la percezione ci mostra. L'esperienza nella sua immediatezza è un dato primario che non può essere negato, ed in questa luce le difficoltà della filosofia debbono apparirci come il prodotto di (false) speculazioni filosofiche:

nel complesso, sono davvero incline a pensare che la maggior parte, se non tutte, le difficoltà che hanno sin qui divertito i filosofi, ma ostacolato la conoscenza, siano interamente dovute a noi stessi. Siamo noi che abbiamo sollevato un gran polverone per poi lamentarci che non riusciamo più a vedere (A Treatise concerning the Principles of Human Nature (1710) in G. Berkeley, Works, a cura di A.A Luce e T. Jessop, London - Edinburgh 1950, vol. I, : § 3, p. 26).

Di questa polvere che il filosofo solleva altrove si osserva che è una "learned dust": il filosofo, in altri termini, smette di vedere con chiarezza quando si lascia guidare dal linguaggio della filosofia e dimentica il senso genuino delle parole. Lo scetticismo ha origine di qui: dalla convinzione tutta filosofica che non sia lecito dire che sono reali le cose che vediamo e tocchiamo, dalla tesi secondo la quale la percezione si muove sul piano delle apparenze e non può in linea di principio accedere alla dimensione transfenomenica di ciò che davvero è. Di fronte ad una simile tesi il filosofo che voglia finalmente veder chiaro deve innanzitutto prendere le distanze dalla filosofia, o meglio - da una filosofia che non sa fermarsi a ciò che è immediatamente posto sotto i nostri occhi e si perde in inutili dubbi. La filosofia diviene così una dottrina che non soltanto sorge, come credeva Cartesio, da una riflessione solitaria, ma che ci condanna ad una solitudine colpevole - alla solitudine di chi non sa più discernere il significato delle parole:

Noi passiamo la nostra vita a dubitare di quelle cose di cui gli altri uomini sono certi, e crediamo fermamente in cose di cui gli altri uomini, disprezzandole, ridono (Three Dialogues between Hylas and Philonous, in: Works, op. cit., vol. i, p. 167).

Ed in questa prospettiva il dubbio cartesiano può divenire oggetto di un'ironia tanto feroce quanto sprezzante: quale cosa si legge nei Diari (Works, op. cit., osservazione 147) potrebbe essere più semplice che il decidere se stiamo dormendo o se siamo invece svegli? Tocca a Philonous (e cioè al personaggio che fa le veci di Berkeley nei Dialoghi del 1713) fare il punto della situazione; per chi, come lui, ha seguito da giovane gli "affected doubts" e le "sublim notions" della filosofia tradizionale il ritorno al senso comune deve essere festeggiato come la riconquista di un bene perduto e di una superiore saggezza:

da quando ho preso commiato dalle nozioni metafisiche per tornare ai semplici dettati della Natura e del senso comune, io ho sentito il mio intelletto farsi mirabilmente più chiaro, così che ora posso comprendere molte cose anche là, dove un tempo erano solo confusione e mistero (Three Dialogues between Hylas and Philonous, in: Works, op. cit., vol. I, p. 172).

Ora, per disporsi finalmente sul terreno dei "dettati di natura", il filosofo deve accomiatarsi dal vocabolario della metafisica con la chiara consapevolezza di abbandonare solo un coacervo di proposizioni e nomi insensati. Il vero filosofo deve accettare la grammatica del linguaggio ordinario ("I stay in every thing with the Mob"), e deve adeguare il suo modo di parlare allo stile del linguaggio quotidiano. Così, alla domanda se si debba rinunciare alla nozione di sostanza, Berkeley risponde:

se la parola sostanza è intesa nel suo significato ordinario e sta cioè per una combinazione di qualità sensibili come estensione, solidità e peso, allora non possiamo certo essere accusati di volerla eliminare. Ma se invece la si vuole intendere in un senso filosofico come supporto di qualità e di accidenti esterni alla mente, allora io riconosco senz'altro che voglio eliminarla, se davvero si può dire che qualcuno faccia a meno di qualcosa che non è mai esistita, nemmeno nell'immaginazione (A Treatise concerning the Principles of Human Nature, in: Works, op. cit., § 37, p. 56).

Il filosofo deve dunque parlare come il volgo, e questo sembra senz'altro riaccostarci alla dimensione del senso comune. Il filosofo - si legge nei Diari (osservazione 18) può dire che il muro è bianco, che il fuoco scotta, che ciò che vede è reale, e non deve accettare il linguaggio mistificante della filosofia meccanicistica, che insegna la sfiducia nei sensi e che prepara suo malgrado il terreno per lo scetticismo. Le ragioni della fisica non possono dunque costringerci, almeno per Berkeley, a rinunciare al vocabolario del senso comune.

Possiamo anzi spingerci un passo in avanti ed osservare che il filosofo immaterialista non può avanzare ipotesi, che il suo compito non è quello di suggerire cose nuove; tutt'altro: tessere l'apologia del senso comune significa abbandonare i dubbi filosofici e le astruse nozioni della metafisica, per tornare a ciò che da sempre sappiamo, quando non ci abbandoniamo alle fantasticherie dei filosofi. Il filosofo deve dunque lasciare le cose come stanno:

non pretendo di formulare una qualunque ipotesi. Io sono un uomo comune, semplice quel tanto che basta per credere ai miei sensi e da lasciar le cose così come le ho trovate. Per essere chiari: la mia opinione è che le cose reali siano proprio quelle cose che sento e che vedo, e che percepisco con i miei sensi. Questo è quanto io so, e trovando che esse fan fronte a tutte le necessità e a tutti gli scopi della vita, non ho alcuna ragione per andare in cerca di entità ignote. Un pezzo di pane sensibile, per esempio, quieta il mio stomaco mille volte di più di quel pane insensibile, inintelligibile e reale di cui tu parli (Three Dialogues between Hylas and Philonous, in: Works, op. cit., vol. I, p. 229).

Tutto questo è racchiuso nel detto esse est percipi, che si pone così da un lato come il fondamento teorico dell'immagine sensibile del mondo, dall'altro come il motto cui ricondurre il disegno di una filosofia di carattere descrittivo che si prefigga di far luce sulla natura del mondo e delle cose a partire dall'esperienza che ne abbiamo. Ora, non è difficile rinvenire nelle pagine berkeleyane il tentativo di mostrare per quale via si costituiscano per noi, nella nostra esperienza, le cose materiali, lo spazio profondo ed anche gli altri uomini e gli animali. Con Berkeley, scrive Husserl,

si attua il primo tentativo sistematico di rendere teoreticamente intelligibile la costituzione del mondo reale (il mondo fisico con quello animale) nella soggettività conoscitiva (Storia critica delle idee, op. cit., p 165),

e questo disegno è evidentemente coerente con la massima esse est percipi che non mira soltanto a definire la natura di ciò che è, ma è volta anche ad affermare che di ogni realtà si deve poter rendere conto nell'esperienza.

E tuttavia non è difficile rendersi conto che la filosofia berkeleyana, al di là delle sue stesse intenzioni, non è né può essere una filosofia del senso comune, e per accorgersene è sufficiente intendere il senso di una affermazione che Berkeley ripete più volte e che concerne appunto la forma linguistica che il filosofo deve dare alla sua dottrina. Per Berkeley "we ought to think with the learned, and speak with the vulgar" (A Treatise concerning the Principles of Human Nature, in: Works, op. cit., § 51, p. 62). Questa proposizione va presa alla lettera. Il filosofo deve parlare senza alterare formalmente la struttura del linguaggio quotidiano: deve appunto dire che vediamo ciò che davvero esiste, che vi sono colori e che il fuoco è caldo. Ma se vuole davvero essere filosofo deve pensare come un filosofo: deve sapere che ciò che percepiamo sono solo idee, e che le idee esistono solo nella nostra mente e finché le pensiamo (Three Dialogues between Hylas and Philonous, in: Works, op. cit., vol. I, p. 262). Nel vocabolario del linguaggio ordinario deve immettere una consapevolezza nuova: la consapevolezza di chi sa che "idea" e "cosa" sono sinonimi e che esse è eguale a percipi.

Non vi è dubbio che l'assioma berkeleyano abbia la sua ragion d'essere nella concezione cartesiana della soggettività: se pensiamo al soggetto come ad una realtà psicologica e se l'io assume i contorni dell'intelletto umano, allora è fin da principio ovvio che l'esperienza dovrà consistere di idee, di rappresentazioni che esistono solo quando ed in quanto sono percepite e pensate. Per quanto sia arduo riconoscerlo, dal senso comune dobbiamo dunque espungere, per Berkeley, la "strana convinzione" (e sono parole sue) che alberi, case e montagne esistano indipendentemente dalla soggettività che li esperisce (Treatise concerning the Principles of Human Nature, in: Works, op. cit., vol. I, p. 42): la tesi dell'esse est percipi ci invita esplicitamente a compiere questo sacrificio del mondo esterno. Ma non è tutto. Asserire che ogni stato mentale - ogni idea - è un'entità a sé significa anche riconoscere che non è pensabile percepire due volte una stessa cosa o anche soltanto avere un decorso percettivo che duri nel tempo e che abbia come tema un identico oggetto: la cosa della nostra quotidiana esperienza deve dissolversi così in una finzione, in una sintassi di idee che solo il cemento dell'abitudine sa tenere insieme. Il rumore che odo, il susseguirsi delle scene visive che annunciano l'avvicinarsi della carrozza e, infine, l'esperienza tattile e cinestetica che accompagna il mio salire su di essa sono solo molte e diverse idee che occupano la mia mente e che insieme si stringono per dare un referente fittizio ad una parola che sono solito pronunciare ma che non designa in realtà nulla - la parola "carrozza". Berkeley - scrive Husserl -

confonde sensisticamente la cosa percepita di volta in volta nell'evidenza che le è propria in quanto cosa percepita con il corrispondente complesso dei dati sensoriali, di dati visivi, tattili, acustici e di altro genere, senza rendersi conto del fatto che la cosa identica, data con evidenza nella continuità del percepire, appunto in quanto è evidentemente identica, non può essere una variazione costante di dati sensibili. A Berkeley come a tutti i sensisti, anzi come a tutti gli psicologisti della scuola naturalistica, sfugge la differenza evidente, che deve essere colta nell'immanenza pura, tra il variare dei modi di manifestazione, degli aspetti che si avvicendano di continuo, un variare che riguarda già ogni singolo attributo della cosa, e la cosa stessa e i suoi attributi nel loro manifestarsi e puramente in quanto si manifestano (Storia critica delle idee, op. cit., p 166).

Così, anche se Berkeley si oppone esplicitamente allo scetticismo implicito in Locke, il suo empirismo immaterialistico finisce con l'assumere una valenza scettica e negatrice, che non riguarda questa volta il rapporto tra la dimensione immanente dell'esperienza e la sfera trascendente degli oggetti, ma che si insinua nel nesso che lega l'immagine quotidiana del mondo al senso che esso sembra dover assumere una volta che lo intendiamo alla luce di ciò che la riflessione filosofica ci insegna.

Se dunque una valenza negatrice e scettica permane anche nell'empirismo di Berkeley, ciò accade perché la sua dottrina dell'esperienza riduce il mondo della vita e la realtà esperita nel suo complesso ad un gioco di rappresentazioni, ad un insieme di finzioni cui non è possibile attribuire una realtà effettiva. Così, per quanto Philonous ci rassicuri sulla volontà della filosofia di "lasciar tutto com'è" e di non alterare il senso delle parole, è difficile credere che non si stia davvero negando nulla quando si sostiene che gli unici oggetti in senso proprio sono le nostre private rappresentazioni.

Nelle pagine conclusive del Trattato sui principi della conoscenza umana, Berkeley ci invita a guardare il mondo come se fosse un grande dipinto in cui anche le ombre sono necessarie per dare il giusto spessore alla scena rappresentata. Come le ombre e i toni scuri in un quadro, anche il male può avere così una sua giustificazione - questo è quanto Berkeley vuole innanzitutto dirci. E tuttavia questa vecchia metafora, che compare più volte nelle pagine berkeleyane, ha in Berkeley un significato più impegnativo - un significato quasi letterale: l'immaterialismo berkeleyano ci invita davvero a guardare al mondo non come ad una stabile e corporea realtà, ma come uno spettacolo grandioso in cui traspare la bellezza del cosmo. La stabilità delle cose deve assumere così la forma eterea della rappresentazione e il mondo deve dissolversi nelle parole del linguaggio del suo Autore. E nello scarto tra la realtà del mondo e il suo farsi spettacolo si misura insieme la distanza tra la filosofia berkeleyana e quel senso comune cui pure vorrebbe aderire.

 

 

 

 

 

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