Le parole della filosofia, V, 2003

Seminario di filosofia dell'immagine


 

 

« Le Basilisque, & le miroir ».

Riflessioni attorno ad alcuni emblemi della Délie, object de plus haute vertu di Maurice Scève (1544)

– Silvia Riva –

Maurice Scève è il rappresentante tipico di un'altissima cultura quale fu la lionese del Cinquecento. L'Umanesimo lionese (…) si lanciava sulla traccia dei grandi mistici speculativi del Trecento e del Quattrocento, meditava i misteri dello gnosticismo medievale, eccelleva nella ricerca delle divagazioni ermetiche, si compiaceva nel collezionare allegorie venerabili, e cercava di restituir loro una dignità precaria di emblemi o di simboli. (…) La scuola dei « rhétoriqueurs » non fu affatto lettera morta per molti ingegni poetici del Cinquecento (…): e Scève raccolse il loro insegnamento per sperimentare e rielaborare le risorse del linguaggio, per gustare fino all'ingenuità il fascino che si sprigiona da un'opera perfetta grazie al prodigio della tecnica, un'opera esatta come la scienza. Ed egli combinava Jean Lemaire des Belges con gli italiani, e più che col Petrarca, con i petrarchisti «flamboyants », come Serafino Aquilano. E approfondiva i teorici neoplatonici dell'amore, e si occupava di musica e di matematica. È di ogni grande poeta il far rientrare le più lontane e distaccate cognizioni nel cerchio vivo delle proprie esperienze umane. Così fu del Petrarca e di Dante. Ma l'avventura umana di Scève attraversò zone assai oscure prima di diventare poesia: ed è davvero singolare che quell'avventura abbia conservato la sua intensità lirica entro il lento, cupo, incessante avvicendarsi di simboli e di formule, e che quel sentimento angoscioso d'amore, così concretamente ricco di eventi e di ansie le più quotidiane, abbia continuato a svolgersi e a durare chiuso in un involucro inflessibile e gelido, e abbia finito anzi col fondersi con esso e divenire forma e movimento poetico.

Così Giovanni Macchia a proposito di Maurice Scève. Nel capitolo dedicato a Petrarchismo ed ermetismo nella letteratura francese del XVI secolo (La Letteratura francese. Dal tramonto del Medioevo al Rinascimento, p. 162), paragona il capolavoro del poeta lionese, Délie, object de plus haute vertu, ad un “involucro inflessibile e gelido” in cui si fissano, in compresenza, tanto la forma quanto il movimento poetico nel loro reciproco rimandarsi. 

L’opera esce per la prima volta a Lione, presso Sulpice Sabon, nel 1544. Vent’anni dopo segue una seconda edizione parigina, sostanzialmente identica alla prima. Poi l’oblio per più di due secoli. Finalmente, sempre a Lione, nel 1862 Brunetière ne segnala una terza. Ma quella che costituirà un riferimento per i primi studi novecenteschi, che recuperano e celebrano Scève come poeta di assoluta modernità, è curata da Eugène Parturier ed esce nel 1916 per essere molte volte ristampata da Droz. Nel 1927 Albert Guégan cura le Opere complete di Scève; nel 1953 Albert-Marie Schmidt inserisce la Délie nell’Anthologie des poètes du XVIème siècle. Gli anni Settanta conosceranno ben tre edizioni: quella di Hans Staub (1971), quella di Pascal Quignard (1974) e, dedicata all’altra grande opera di Scève, Le Microcosme, quella di Enzo Giudici (1976). Infine nel 1984, a sancire l’ingresso della Délie nei circuiti esterni agli addetti ai lavori, Françoise Charpentier ne cura un’edizione tascabile.

Délie, object de plus haute vertu, sorta di canzoniere petrarchesco, è composto da 449 dizains (ossia dieci versi di decasillabi) e da 50 emblemi che tornano regolarmente ogni nove dizains (a questa regolarità ne fanno eccezione due: il 1° emblema si trova infatti dopo il 5° dizain e l’ultimo è posto prima degli ultimi tre).

Nel 1419 circa, il fiorentino Cristoforo Buondelmonti ritrova in Grecia un manoscritto, risalente al 4° secolo d.C., attribuito a Orapollo Niloo.

I cosiddetti Hieroglyphica di Orapollo propongono un repertorio antologico di circa duecento “geroglifici” o emblemi metaforici, che erroneamente si riteneva fossero stati usati antichissimamente dagli scribi dei Faraoni per descrivere aspetti naturali, morali e religiosi. Frances A. Yeats osserva che “rispetto al talismano, il geroglifico non ha carattere magico: è soltanto un metodo profondo per esprimere recondite verità. Esso conobbe un’immensa popolarità tra gli umanisti” (Giordano Bruno e la tradizione ermetica rinascimentale, p. 185). Nell’argumentum preposto al Pimander, Marsilio Ficino attribuisce ad Ermete l’invenzione del geroglifico (cfr. infra). Di fatto, così come per altri testi cui, nel Rinascimento, si attribuivano remotissime origini, il testo di Orapollo è assai più recente e risale probabilmente all’epoca ellenistica. In ogni caso Orapollo conobbe immensa popolarità fra gli Umanisti e il suo repertorio divenne l’autorità per quei filosofi e sapienti rinascimentali che intendevano recuperare l’antica e misteriosa saggezza egiziana. Tradotto in greco a Venezia nel 1505, Hieroglyphica fu tra i primi libri ad essere stampati da Manunzio. Esso ha costituito per tutto il XVI secolo e oltre il repertorio iconografico di riferimento.

Nel 1531 esce ad Amburgo l’Emblematum liber di Andrea Alciati che, tradotto in Francia nel 1536, conoscerà enorme fortuna (150 edizioni) per tutto il secolo e nel successivo (cfr., fra gli altri, Emanuele Tesauro, Idea delle perfette imprese, 1622-29). 

Tra coloro che in Francia scrissero libri di emblemi, Gilles Corrozet (1510-1568) che nel 1540 dà alle stampe l’Hécatomgraphie dal quale si trarrà un esempio per illustrare come sia fatto un emblema nel XVI secolo.

Originariamente l’emblema comprendeva un titolo (in cui è racchiusa la nozione, il concetto da illustrare), un’immagine (il più delle volte allegorica) e un breve commento. Come ha osservato uno fra i più noti studiosi dell’opera scèviana, Marcel Tetel, con la moda degli emblemi s’inaugura un nuovo genere di struttura bifocale che si presta ad un’apertura semantica (Autour des emblèmes de Délie, pp. 67-81). La critica ha spesso sottolineato che questa multidimensionalità semantica risponde ad una strategia ludica, di sviamento, di rottura (ad esempio grazie alla giustapposizione di sublime e parodico), non solo all’interno dell’emblema stesso, ma anche fra dizain-glose (il dizain di commento che segue immediatamente l’emblema) e l’emblema stesso.

Questa osmosi tra messaggio figurativo e messaggio verbale, tra rappresentazione e significato è produttrice di senso, offre cioè una chiave di lettura supplementare per accedere al testo. Tra emblema, immagine e testo significante, non c’è, in altre parole, opposizione o contraddizione: l’emblema, in rapporto al testo, mette in gioco un movimento di rimando tra l’uno e l’altro, di interazione e interdipendenza, che costringe il lettore ad avventurarsi nell’impresa, che, di volta in volta, conduce a coprire/scoprire, possedere/perdere, ridurre/amplificare, dire/tacere il senso.

E’ possibile tentare di esemplificare questo movimento, questa impresa, appunto, con l’esame di un emblema tratto, come si è detto, da Corrozet (Autour des emblèmes de Délie, pp. 69-71).

L’immagine mostra un uomo che reca in mano un grosso ventaglio (“esventoire”) mentre sta cercando di “esventer une pensée”. La devise/dictum è una sentenza molto precisa: “Le secret n’est à révéler”, mentre il quatrain-glose, che riflette l’immagine, sembra contraddire il dictum

Voiez ici en cette histoire

Comment je tiens une esventoire

De quoy j’esvente une pensée

Qui s’est devanz moy avancée.

Se letteralmente la parola esventoire designa un grosso ventaglio che serve ad attizzare il fuoco, può anche significare, nel francese d’epoca rinascimentale, regard, ossia apertura di aerazione; il che non impedisce di far giocare questa parola, da un punto di vista soltanto fonetico, con il significato di “sguardo oculare”: così “le regard éventerait une pensée”. Quanto a esventer significava découvrir, révéler, flairer, diffuser, divulguer: lo si ritrova nell’espressione “éventer un secret”. Ebbene, qui il je – l'io lirico e/o il lettore – scopre o è ritenuto in grado di scoprire un pensiero. Ma è anche con lo sguardo-esventoire che lo si può scoprire o alimentare/attizzare.  

 

Nell’immagine il “je” évente un fiore, il che conferisce al pensiero una dimensione di fragilità e una durata effimera. Il quatrain-glose successivo (che qui non è riportato) sembra confermare il dictum: “C’est grande folie d’esventer/ Et sa pensée à chacun dire”; questo testo, dunque, reitera la portata semantica dell’immagine e del dictum.

Alla luce dell’analisi suffragata dagli studi di Tetel, mi pare venga meno la contraddizione che avevamo colto ad una lettura iniziale dell’emblema, quando lo avevamo scomposto nei suoi elementi costitutivi. La lettura globale dell’emblema, invece, ci dice, proprio grazie alla sua potenzialità polisemica, che il segreto non è da rivelarsi perché esso è già contenuto nell’emblema stesso: sta al lettore scoprirlo.

Segue a questo emblema un lungo poema – qui trascritto solo in parte – in cui è ripresa l’idea contenuta nell’emblema, quasi si trattasse di un’amplificatio; si legge infatti:

 

                                                                        
Dire ne faut tout ce qu’on sait
Ne chanter tout ce que l’on pense
Soit de plain chant ou de faulcet
Soit de gain ou soit de despense.

 

Abbiamo pertanto un esempio di un poema che glossa, ossia riprende e commenta approfondendolo, un concetto contenuto nell’emblema, secondo un modello che sarà della Délie, dove sono i 9 dizains seguenti ad ogni emblema a dialogare con questo e fra loro.

Infatti, nel canzoniere di Scève tra emblema e devise è presente, allo stesso modo che in Corrozet ma ad un livello non esemplificativo ma poetico, un lavoro semantico e di riflessività, un dialogo, quasi, e talvolta una simbiosi. In questo dialogo il je e il tu , oggetto e soggetto del discorso amoroso, si scambiano le parti diventando l’uno la proiezione dell’altro, l’una l’immagine dell’altro riflessa come in uno specchio. 

Secondo la dottrina neoplatonica illustrata da Marsilio Ficino nel suo commento al Simposio di Platone e il cui IV capitolo espone la fisiologia della nascita dell’amore, si ribadisce che tutto prende inizio dallo sguardo poiché nello sguardo, innanzitutto, si gioca la reciprocità dinamica dell’amore.

Il canzoniere di Scève riprende la teoria neoplatonica che pone al centro la riflessività come modello della percezione. La prima parola del primo dizain della Délie è infatti “oeil”.

Un’analisi delle ricorrenze ci informa che questo sintagma è ripetuto nel canzoniere di Scève ben 91 volte, ossia un dizain su cinque. L’analisi statistica ci dice, inoltre, che c’è assoluta parità tra la ricorrenza dei pronomi personali Je e tu (26 volte ciascuno) (cfr. sull’importanza dell’occhio e del fenomeno della riflessività nella Délie, il saggio di Paul Ardouin  La Délie de Maurice Scève et ses cinquante emblèmes ou les noces secrètes de la poésie et du signe, che è stato fondamentale per la redazione di questo intervento).

Tuttavia, dallo studio della Délie, emerge che questo occhio non è unicamente quello del discorso amoroso che ci illumina sul primo incontro degli amanti; è innanzitutto l’occhio dell’io lirico, che percorrerà tanto le sinuosità e le pieghe del suo paesaggio interiore, quanto la realtà visibile all’esterno, spaziando dalla presenza multiforme, immaginata e astratta di Délie, al mondo concreto (il paesaggio lionese, ad esempio, con i suoi fiumi e i monti) che serve da miniera simbolica e metaforica per la scrittura. Inoltre, il segno oculare di Scève figura l’occhio del lettore attratto verso gli emblemi, realtà visibili, che imitano e/o riflettono il testo nel quale sono inseriti.

Délie ha certo più di un volto: sul piano concreto è con tutta probabilità Pernette du Guillet, anch’essa poeta e autrice di una raccolta di rime (Rymes de gentile et vertueuse dame D. Pernette du Guillet, lyonnoise, Jean de Tournes, 1545); ma Délie è soprattutto la proiezione di un ideale femminile spiritualizzato, che possiede, oltre alle più somme virtù, quella di virtualizzare la scrittura: in altre parole, Délie è, lungo tutto il canzoniere, lo specchio mobile dei fantasmi, delle ossessioni, delle angosce esistenziali e dei desideri erotici di Scève, uomo e poeta. Insomma, Délie è  il mezzo attraverso il quale egli può assumere diverse maschere e identità. In questo senso è lecito affermare che Scève elabori nell’opera un progetto assai narcisistico.

Questo genere di riflessività e di soggettivismo non esclude la possibilità che il poeta conferisca a Délie diverse identità metaforiche (tra le tante, Pandora e Artemide-Diana), le cui eco si ritrovano talvolta negli emblemi (Atteone o la caccia mistica all’Unicorno). Fra queste, quella della Luna – Baltrušaitis ricorda  che “specchio e luna erano in quest’epoca direttamente associati, suscitando dotte controversie sulla natura dei loro rapporti” (Lo specchio, rivelazioni, inganni e science-fiction, p. 45) – la quale riveste particolare importanza tornando tanto nei testi quanto nelle immagini (cfr. l'emblema La Lune a deux croiscentz e il dizain XXII).

 

Se ci rivolgiamo ora agli emblemi, è possibile osservare che il je - dominante qui più che nei dizains - se spesso è al femminile e altrettanto spesso al maschile, talvolta rimane indecidibile, intercambiabile. Prendiamo, ad esempio, l’emblema dell’unicorno - in francese la licorne (sostantivo di genere femminile) - che è particolarmente rappresentativo di questa ambiguità e al quale Ardouin ha dedicato un’attenta analisi.

L’immagine rappresenta una donna, seduta e appoggiata ad un albero, che tiene fra le braccia una licorne (simbolo nel contempo dell’amore sacro e dell’amor profano). Ciò che pone problema è la devise, il dictum che recita:

Pour le veoir je pers la vie

Verrebbe spontaneo correggere il “le” con “la”, immaginando che il soggetto dell’enunciazione sia l’io lirico e l’oggetto Délie. Nell’immagine sono la licorne (o la dama) che giacciono: qual è dunque il referente soggettivo? In altre parole, nell’immagine chi può costituire il soggetto parlante e, appunto, vedente?

Nell’ultimo verso del dizain-glose, che, secondo la tradizione inaugurata da Alciati, riprende quasi invariabilmente la devise, si afferma:

En sa beaulté gist ma mort et ma vie

Qui sono la morte e la vita del poeta che giacciono nella bellezza della dama. Il verso non ci aiuta dunque a capire. Non possiamo pensare che si tratti di un refuso, perché sarebbe stato corretto nella seconda edizione (il che non è accaduto).

Il soggetto che parla nella devise è piuttosto l’immagine della donna che guarda l’unicorno, rappresentazione del poeta-amante, e così si spiega il le. Questa donna, immagine dell’amore, non è che lo specchio e la reiterazione dell’unicorno/amante (cfr. qui sotto un particolare di un arazzo della serie delle Saisons conservato al Museo di Cluny, Parigi).

In qualche modo con questo gioco equivoco tra femminile e maschile Scève instaura una simbiosi fra i due protagonisti, prodotti entrambi dell’immaginazione. In questo emblema è sollecitato l’ingenio del lettore, che cercando di scoprire (sventare) il carattere enigmatico del rimando tra immagine, dictum e dizain-glose, scopre quanto la Délie sia sottoposta al fenomeno della riflessività.

Come Petrarca, Scève, lo si è detto, riprende nel suo canzoniere la fisiologia della nascita dell’amore ficiniana in cui si ribadisce che tutto ha inizio dallo sguardo. Nella Délie, Scève ripercorre sì le tappe dell’ascesi di stampo neo-platonico, in cui l’amante muore a se stesso per rivivere nell’essere amato e in tal modo trascende la sua natura. Tale concetto è espresso da Scève attraverso il tema della presenza in assenza (CXXXVI). L’amore deve attraversare più fasi per potersi affrancare dalla molteplicità delle apparenze (CCCVI), giungere all’immortalità (CCCLXXVIII) e condurre l’amante al sommo bene e alla virtù (CCCCXIII) avendo come guida la Dama, nuova Diotima, e accedere finalmente, nell'ultimo dizain del canzoniere, il CCCCXLIX, al “mortale letargo” (“mortel Letharge”).

 

CCCCXLIX.

 

Flamme si saincte en son cler durera,

Tousjours luysante en publicque apparence,

Tant que ce Monde en soy demeurera,

Et qu'on aura Amour en reverence.

Aussi je voy bien peu de difference

Entre l'ardeur, qui noz cœurs poursuyvra,

Et la vertu, qui vive nous suyvra

Oultre le Ciel amplement long, et large.

         Nostre Genevre ainsi doncques vivra

Non offensé d'aulcun mortel Letharge.

SOUFFRIR NON SOUFFRIR

CCCCXLlX.

  Fiamma sí sacra in luce durerà,

Fulgida sempre in pubblica apparenza,

Fino a che il Mondo in sé dimorerà,

E per Amore si avrà reverenza.

Vedo allora ben poca differenza

Fra l'ardore, che i cuori premerà,

E virtù viva, che ci seguirà

Di là dal cielo vasto, lungo, largo.

        Il nostro Ginepro adunque vivrà

Illeso sempre da mortaI Letargo.

SOFFRIRE NON SOFFRIRE

 

Ma questo amore puro, “sainctement phrénétique”, riconcilia ragione e natura solo provvisoriamente: oltre la tomba, lacrime e fuoco continueranno a straziare l’io lirico in una tensione che sembra non trovar mai pace: “Après la mort la guerre ancore me suit” recita il dictum dell’ultimo emblema.

La Délie non sembra quindi essere una raccolta di antitesi petrarchesche, quanto piuttosto il luogo di una dialettica che cerca, senza successo, di riconciliare diversi aspetti dell’essere. Il tema dell’assenza, spesso associato all’immagine delle tenebre che si alternano alla luce, rappresenta, di fatto, il dramma della vita interiore e la nostalgia di un uomo che cerca, invano.

L’oscurità di Scève e il senso di chiusura che è stato evocato all’inizio non risiede allora tanto negli effetti retorici (la ripetizione raffinata di parole, l’inversione ardita, la caduta dei nessi logici), né nell’uso frequentissimo dell’infinito sostantivato e degli aggettivi sostantivati che talvolta assurgono a neologismi; né nelle allusioni velate ad episodi dell’amore vissuto; né nelle tante allusioni erudite (di storia antica, mitologia, tradizione scientifica, riferimenti ai plantari e bestiari medievali o alla storia biblica).

L’oscurità risiede piuttosto, o anche, nella densità di una frase che si muove contemporaneamente su più livelli (operando una traduzione semiotica testo/immagine/testo), che confonde il “je” e il “tu” unendo in continuazione concreto e astratto, cercando di rappresentare il chiaro-scuro della coscienza senza mai illuminare completamente i suoi oggetti, preso in quel gioco narcisistico di riflessività che l’emblema centrale della raccolta illustra in modo così univoco e il cui dictum recita: “De moy je m’espouvante”.

    

Lo specchio, al quale Scève dedica espressamente cinque dizains (CCXXIX, CCXXX, CCLVII, CCCIII, CCCVII) e l’emblema CLXXXVI (Le Basilisque, & le miroir con il dictum: Mon regard par toy me tue”),

secondo le parole di Guy Michaud, è ciò che consente a Scève “il passaggio da un mondo a un altro, e in ognuno di questi, da un piano all’altro. E’ la rivelazione delle corrispondenze e, a questo titolo, è lo strumento per eccellenza del poeta” (L’œuvre et ses techniques, p. 108).

Leggiamo un piccolo stralcio, tratto da Plotino, sulla definizione dell’immagine. Plotino nelle Enneadi (V, 8, 6) – tradotte da Marsilio Ficino a metà del ‘400 - offrì una definizione neoplatonca del “geroglifico”: i geroglifici sono in grado di rivelare il mondo ideale dell’anima. L’immagine, secondo Plotino, appare come un principio dinamico che dà accesso alla realtà che essa riproduce. Ma la rottura originale dell’immagine, lo scarto tra rappresentante e rappresentato, si ridurrà a poco a poco attraverso l’oblio di sé e la conservazione del solo oggetto contemplato nell’atto della contemplazione. L’immagine rappresentativa e lo sguardo che la osserva divengono una cosa sola: è l’anima che costituisce e unisce simbioticamente queste due realtà.

Perché però l’anima acceda alla vera contemplazione, occorre che la luce intelligibile spezzi il cerchio della riflessività e che l’immagine diventi pienamente immagine, ossia apertura a un’alterità trascendente (cfr. su questo punto il commento di Laurent Lavaud in L’image, pp. 115-116).

Mi pare che la clausola della Délie – ossia, gli ultimi versi dell'ultimo dizain del canzoniere di Scève, l’ultimo emblema e la devise a specchio, scelta per sé da Scève, che apre e chiude il canzoniere (SOUFFRIR NON SOUFFRIR) - neghi questo accesso, come fosse impossibile distogliere l’attenzione dai moti dell’anima, o, se si preferisce, dall’immagine di sé contemplata nello specchio, inseguita nella scrittura e illustrata dagli emblemi.

L’esperienza della Délie – in cui, come ho tentato di mostrare, il fenomeno della riflessività è centrale – si può dire sia quella dell’irriducibilità dell’alterità; irriducibilità dell’experior di un “tu” come altro e di un loquor verso “te” come altro rispetto a questo experior (cfr. Pascal Quignard, La parole de la Délie, p. 38). Ecco perché l’interpellazione non può aver mai fine. L’immagine di Scève affacciato ad un specchio si rimanda all’infinito.

E’ questo il tratto peculiarissimo dell’opera di Scève, che ci dice anche quanto sia distante il clima dell’Umanesimo italiano del Petrarca dal contesto lionese in cui il nostro poeta è immerso. L’inclinazione umanista – è stato osservato – è in direzione della letteratura e della storia; vi si attribuisce un immenso valore alla retorica e al buon stile letterario. La tradizione scèviana si muove, invece, nel senso della filosofia, della teologia e della scienza (alchemica). Se Scève si rivolge alla retorica, lo fa per dimostrare che quella che lui utilizza non è più sottomessa alla logica classica dell’antitesi, ma obbedisce semmai alla struttura dell’eterogeneità: l’ossimoro è infatti l’essenza della Délie ed è sfida al principio tradizionale dell’Uno identico a se stesso. Non più concordanza discordante che sottende eguaglianza fra due forze avverse all’interno di un sistema armonico – nel senso greco del termine – ma un tentativo, sempre approssimativo e destinato al fallimento – di perseguire e definire ciò che sfugge alla conoscenza, ciò che si sottrae e che si tenta ogni volta – in ogni dizain – di colmare con la parola.

Molti studiosi hanno fatto di Scève un cabalista: la parola “Délie” sarebbe l’anagramma di “l’Idée”; i 50 emblemi corrisponderebbero alle 50 porte descritte nel Zoar (o Libro dello Splendore), nel quale si dice che per aver accesso alla vita celeste l’iniziato dovesse attraversare le 50 porte della saggezza, l’ultima delle quali avrebbe condotto alla Rivelazione); alcuni commentatori hanno ridotto il numero dei dizains a 441 (tolti quelli del preludio e della conclusione) e 441 è il prodotto del quadrato di 7 per il quadrato di 3… La Délie è soprattutto riflessione e celebrazione: celebrazione di una perdita, di una separazione, è la riflessione di/su un posto vuoto. 

Si è parlato di variazioni sul tema dell’assenza; filando questa metafora musicale ho già potuto assimilare la Délie ad una partitura, nel duplice senso di composizione (compiutissima e, al tempo stesso, mai compiuta) e di separazione (mai revocabile) (cfr. Scève, Quignard e la musica in “l’Ephémère”, p. 83-98); partitura che postulerebbe l’intervento di un interprete, il lettore, sollecitato – come si suggerisce nella Délie – a tendere l’orecchio e a cercare di captare un rumore di fondo confuso, “tout esperdu aux tenèbres d’Egypte” (Egitto, simbolo dell’idolatria, del buio – ma anche dell’antica sapienza ermetica, patria d’origine degli emblemi - dai quali sono partita - perfetto esempio di possibilità, ormai perduta, di compenetrazione fra parola e cosa).

L’atmosfera di estrema raffinatezza, la rarità dell’espressione, la musicalità del verbo fanno di Scève una delle personalità più inquiete della poesia francese. Délie è la continua variazione di una lenta esplorazione al buio, con l’ansia, costantemente frustrata, di raggiungere la luce e di scalfire la lucida opacità dell’essere.

Forse per questo oggi Scève è accostato da molti critici all'altro poeta che celebrò gli specchi, Mallarmé: la clarté di Scève, l’algida Luna, la “beaulté esmerueillable idée” sarebbero prefigurazioni di quel septuor di stelle splendenti che s'incide nell'oblio che lo specchio della cornice serra, o di quell’“assente da tutti i bouquet” che è, per Mallarmé, la rosa. Entrambi, a loro modo, sono impegnati nell’immenso sforzo di stabilire i fondamenti ontologici del linguaggio e di determinare ciò che la scrittura, nella sua apparente leggibilità e trasparenza, può opporre al nulla delle cose e di se stessa.

 

 

Breve nota biografica su Maurice Scève

Le notizie sulla vita e la morte di Maurice Scève sono poche ed incerte. Nacque a Lione verso il 1501 e probabilmente compì i suoi studi in Italia. Nel 1533, ad Avignone, ritenne di aver trovato la tomba di Laura, la Musa di Petrarca. Alla corte di Ferrara, nel 1536, Renata di Francia lo proclama vincitore del concorso dei Blasons (blasoni anatomici, la cui tradizione risale all’Antologia greca), per il componimento dedicato al Sourcil. Nel 1536 pubblica La Larme e nel 1539 Le Front, La Gorge e Le Soupir. Oratore ufficiale e organizzatore dei festeggiamenti in occasione dei soggiorni della corte a Lione, tra il 1536 e il 1544 compone la Délie, object de plus haute vertu. Nel 1545, alla morte della poetessa lionese Pernette du Guillet, si ritira dalla vita pubblica e nel 1547 scrive l’egloga di ispirazione virgiliana La Saulsaye. Nel 1548 riprende la sua attività di organizzatore di festeggiamenti in occasione della visita a Lione di Enrico II. Nel 1549 pubblica la traduzione di due salmi (XXVI e LXXXIII). Scève è al culmine della sua gloria di poeta. Gli ultimi anni della sua vita, così come le circostanze della sua morte, sono avvolti nell'oscurità. Morì probabilmente nel 1560. Nel 1562 esce anonimo, presso Jean de Tournes, Le Microcosme, 3003 versi dedicati alla storia epica della creazione del mondo fino alla morte di Abele, in cui si afferma la necessità del trionfo dello sforzo umano. A quest’opera, nella quale non sono esenti principi della ricerca alchemica, è probabile si sia ispirato Guillaume de Salluste Du Bartas, in La Semaine (1581).

Testi citati

Paul Ardouin, La Délie de Maurice Scève et ses cinquante emblèmes ou les noces secrètes de la poésie et du signe, Parigi, Nizet, 1982.

Jurgis Baltrušaitis, Lo specchio, rivelazioni, inganni e science-fiction, Milano, Adelphi, 1981.

Laurent Lavaud, L’image, Parigi, Flammarion, 1999.

Giovanni Macchia, La Letteratura francese. Dal tramonto del Medioevo al Rinascimento, Milano, Edizioni Accademia, “Le letterature del mondo”, (1970) 1989.

Guy Michaud, L’œuvre et ses techniques, Parigi, Nizet, 1957.

Pascal Quignard, La parole de la Délie, Paris, Mercure de France, 1974.

Silvia Riva, Scève, Quignard e la musica in “l’Ephémère”, in Francesca Melzi d’Eril (a cura di), “L’Ephémère”. Pagine d’arte e di poesia 1967-1972, Firenze, Alinea, 2001.

Marcel Tetel, Autour des emblèmes de Délie, in Gisèle Mathieu-Castellani (a cura di), La Pensée de l’image. Signification et figuration dans le texte et dans la peinture, Vincennes, Presses Universitaires de Vincennes, 1994.

Frances A. Yeats, Giordano Bruno and the Hermetic Tradition, London, Routledge and Kegan Paul Ltd, 1964; trad. it.: Giordano Bruno e la tradizione ermetica rinascimentale, Roma-Bari, Laterza, 1989.

NOTA: Le traduzioni italiane dei dizains citati sono tratte da Maurice Scève, Délie. Oggetto d’altissima virtù, Introduzione di Jacqueline Risset, Traduzione di Diana Grange Fiori, Torino, Einaudi, 1975.

 

marzo 2003

Silvia Riva

 

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