Le parole della
filosofia, V, 2003
Seminario di filosofia
dell'immagine
Antonio
Somaini
Prospettivismo e metafora dello specchio nella concezione leibniziana della rappresentazione
Lo scopo di questo testo
è quello di analizzare il significato della presenza, all’interno del pensiero
leibniziano, di continui riferimenti alla struttura della rappresentazione
prospettica e alla metafora dello specchio. Il motivo per cui la
filosofia leibniziana viene spesso considerata come una forma di
‘prospettivismo’ – sebbene di una natura radicalmente diversa da quello che
sarà più tardi il prospettivismo di Nietzsche – è che in essa il discorso
teorico sviluppato all’inizio del Quattrocento come presentazione di un
linguaggio figurativo che ambisce a fondarsi sulla geometria naturale della
visione e che a inizio Seicento, con l’opera di Desargues, si evolve in una
forma iniziale di geometria proiettiva, assume il ruolo di una grande metafora
in base alla quale vengono elaborati e spiegati diversi temi centrali
dell’ontologia, della teoria della conoscenza e della filosofia morale. Al fine
di chiarire le diverse implicazioni dei riferimenti alla struttura della
rappresentazione prospettica e alla metafora dello specchio sarà necessario
cominciare con l’esposizione dei tratti principali della teoria leibniziana
della sostanza, quella che a partire da
un certo punto della sua produzione filosofica viene presentata da Leibniz con
il nome di ‘monade’.
Nei §§ 8-9 del Discorso di metafisica Leibniz spiega la propria
concezione della sostanza attraverso una serie di passaggi tra loro
concatenati. La sostanza viene presentata innanzitutto come un soggetto
logico capace di entrare in relazione con tutta una serie di predicati, e
ad ogni sostanza individuale viene poi fatto corrispondere un concetto
completo comprendente tutti i predicati che le possono essere
attribuiti. Tale concetto completo è come una sorta di ‘voce enciclopedica’
contenente l’intera storia della sostanza – il suo passato, presente e
futuro – così come l’insieme delle relazioni che tale sostanza intrattiene con
tutte le altre sostanze componenti il mondo creato. Solo Dio, dotato di una
conoscenza perfetta e di uno sguardo sommamente perspicace sul quale
ritorneremo in seguito, può conoscere a priori l’infinita complessità di
ogni sostanza individuale, esplicitando l’insieme di predicati contenuti nel
concetto completo e svolgendo le infinite ‘pieghe’ – come scrive Leibniz
– che caratterizzano ogni sostanza.
La natura della sostanza non viene però chiarita soltanto attraverso
l’analogia con il soggetto logico. Leibniz, sempre nello stesso testo, sostiene
che ogni sostanza ha come proprietà essenziale quella di riflettere e
rappresentare prospetticamente l’intero mondo creato a cui appartiene e lo
stesso Dio a cui deve la propria esistenza. In un passo particolarmente
interessante del Discorso di metafisica, leggiamo che
ogni sostanza è come un mondo
intero e come uno specchio di Dio, oppure di tutto l’universo, che
ciascuna esprime a suo modo, pressapoco come una stessa città è rappresentata diversamente
a seconda delle differenti collocazioni di chi la guardi. Così l’universo, in
certo modo, è moltiplicato tante volte quante sono le sostanze, e la gloria di
Dio è parimenti raddoppiata da ciascuna delle rappresentazioni della sua opera,
tutte differenti. Si può anche dire che ogni sostanza porta in qualche maniera
il carattere della saggezza infinita e dell’onnipotenza di Dio e, nella misura
in cui ne è suscettibile, lo imita. Ciò perché essa esprime, benché
confusamente, tutto ciò che accade nell’universo, passato, presente o futuro,
il che ha una certa somiglianza con una percezione o conoscenza infinita; e
siccome tutte le altre sostanze esprimono a loro volta quella, e le si
adattano, si può dire che essa estende la propria potenza su tutte le altre, a
imitazione dell’onnipotenza del Creatore.[1]
In questo passo assai denso, Leibniz afferma che il rapportarsi della
sostanza a Dio e al mondo creato nella sua totalità – che prima era spiegato
facendo riferimento al rapporto soggetto-predicato e all’idea di concetto
completo – può essere chiarito ricorrendo ad altri termini e ad altri paragoni
o metafore: alla diade microcosmo-macrocosmo, che pone la sostanza come
“mondo intero” nel quale si trova concentrato il tutto, con un esplicito
richiamo alla coppia di concetti elaborati da Nicola Cusano di complicatio
ed explicatio; alla metafora dell’immagine speculare, in base
alla quale la sostanza è “specchio di Dio e di tutto l’universo” – uno
specchio, come scrive Leibniz in vari testi, “vivente”, nel senso che non si
limita a ripresentare passivamente ciò che riflette, ma che opera come una vera
e propria forza unificante, sintetizzando una molteplicità di dati
nell’unità di una rappresentazione; al concetto di espressione e,
infine, al modello di una rappresentazione prospettica condotta a
partire da un punto di vista determinato, diverso per ogni sostanza.
Quest’ultimo tema si trova ribadito in un celebre passo della Monadologia,
spesso citato:
E come una stessa città,
osservata da lati differenti, sembra del tutto diversa ed è come moltiplicata prospetticamente,
allo stesso modo, per l'infinita moltitudine delle sostanze semplici, accade
che vi siano come altrettanti universi differenti, i quali tuttavia non sono
che le prospettive di uno solo, secondo i diversi punti di vista di ogni
monade. E questo è il mezzo per ottenere quanta varietà è possibile, ma insieme
con il maggior ordine che si possa: vale a dire il mezzo per ottenere tanta
perfezione quanto si può.[2]
Il termine con il quale Leibniz riassume il rapporto rappresentativo e
analogico che lega ogni sostanza individuale al mondo e a Dio, come abbiamo
visto dal passo del Discorso di metafisica, è quello di espressione.
Che cosa intende Leibniz con questo termine, che egli considera come un vero e
proprio termine tecnico avente un ruolo centrale nel proprio lessico
filosofico?
I riferimenti al concetto di espressione attraversano gli scritti di
Leibniz dagli scritti giovanili sino agli scritti più tardi: che si tratti di
riflettere sul tipo di segni da adottare per quella characteristica
universalis che avrebbe reso possibile l’edificazione di una lingua
perfetta e di una scienza universale, o di spiegare la natura rappresentativa
delle idee e della sostanza in generale, nel suo rapporto con Dio e con
l’infinita molteplicità delle altre sostanze, il concetto di espressione viene
costantemente presentato come indicante una relazione capace di unire in un
rapporto di analogia termini diversi.
A differenza di Spinoza – che lo impiega ampiamente nell’Etica per
parlare del rapporto tra sostanza, attributi e modi ma senza mai definirlo –
Leibniz fornisce effettivamente alcune esplicite definizioni del concetto di
espressione in scritti appartenenti a periodi diversi, di cui le più esplicite
si trovano nello scritto intitolato Che cos’è l’idea del 1678, nel
carteggio con Arnauld del 1687, e in uno scritto tardo sul principio di ragione
del 1715. In tutte e tre queste definizioni la relazione espressiva viene
definita come analogia di rapporti tra elementi o proprietà dei termini
messi in relazione in modo tale che dalla conoscenza di tali rapporti
nell'esprimente sia possibile giungere ad una conoscenza analogica
dell'espresso, anche là dove non vi è somiglianza visibile tra i due
termini della relazione. La relazione espressiva non è, infatti, una
relazione di somiglianza, bensì una generica corrispondenza di struttura,
capace di instaurare analogie fra termini che possono essere più o meno
eterogenei gli uni in rapporto agli altri, come, per stare agli esempi forniti
dal Che cos’è l’idea, il modello di una macchina e la macchina stessa,
una regione e la sua carta geografica, un discorso e i concetti e le cose da
esso significati, un’equazione algebrica e una figura geometrica, un disegno
prospettico [scenographica delineatio] di un solido nel piano e il
solido tridimensionale, due o più figure geometriche poste in una relazione
proiettiva le une con le altre.
A partire dal Discorso di
metafisica – riprendendo un’intuizione contenuta nello scritto Che cos’è
l’idea nel quale si legge che “ogni effetto intero rappresenta la causa
piena” in quanto è sempre possibile risalire dalla conoscenza di un effetto
alla conoscenza della sua causa – Leibniz conferisce un significato più ampio alla
relazione espressiva, che viene ora invocata per spiegare la natura delle
sostanze create e il rapporto tra queste e Dio. La sostanza appare ora come
dotata di una natura essenzialmente espressivo-rappresentativa: è uno
"specchio vivente" del creato e al tempo stesso una rappresentazione
prospettica – completa anche se confusa e parziale in quanto
"situata" in un determinato punto di vista – di Dio e dell'universo
di cui è "parte totale". La conoscenza, a sua volta, si
sviluppa gradualmente sulla base di un'attività percettiva che si dispiega
secondo infiniti gradi di chiarezza e confusione e in cui la percezione stessa
consiste in un'espressione o rappresentazione intesa come unificazione del
molteplice.
In tutti i domini in cui viene invocata, la relazione espressiva si
presenta come una sorta di principio di intelligibilità
che viene di fatto a ribadire l'estensione del principio di ragion sufficiente.
Il principio fondamentale del nihil est sine ratione, in altre parole,
trova il proprio prolungamento nell'affermazione dell'onnipresenza della
relazione espressiva, che porta con sè una continua promessa di esplicabilità e
di intelligibilità fondata sull'esistenza dei rapporti di analogia, continuità
e proporzionalità che attraversano il reale. E questi rapporti di analogia,
continuità e proporzionalità fra domini apparentemente del tutto eterogenei –
Dio e la pluralità delle sostanze create, le idee nell’anima umana e le idee
nella mente di Dio, la molteplicità delle rappresentazioni sostanziali del mondo
condotte ognuna a partire da un punto di vista diverso – vengono ripetutamente
illustrati da Leibniz facendo appello a una serie di metafore e di modelli fra
cui campeggiano il riferimento alla metafora dell’immagine speculare e quello
alla struttura della rappresentazione prospettica:
a) nel parlare della sostanza come una pars totalis o come un monde
entier Leibniz rinvia, come abbiamo visto, alla diade microcosmo-macrocosmo
e alla coppia complicatio-explicatio introdotta da Nicola Cusano
b) nel qualificarla come uno ‘specchio vivente’, miroir vivant,
viene ripresa tutta una lunga tradizione che vede nel creato una
rappresentazione speculare e un’immagine somigliante, analogica, del Creatore
c) nel sostenere che la sostanza contiene tracce e segni [marques]
che rinviano al resto del creato e all’insieme del tempo passato, presente e
futuro, Leibniz rimanda alla tesi di una fondamentale leggibilità del mondo,
le cui iscrizioni possono essere decifrate solo da uno sguardo sommamente
perspicace come quello di Dio
d) nel sostenere, infine, che ogni monade rappresenta la totalità nel mondo
a partire da uno specifico punto di vista, ponendosi come un centro
espressivo nel quale si proietta e si concentra la totalità del mondo
esterno, Leibniz rinvia al rapporto tra punto di vista e rappresentazione
prospettica e, come vedremo, al tema della generazione proiettiva delle
sezioni coniche.
La metafora dello specchio
Sia nel caso del riferimento all’immagine speculare che in quello del
riferimento alla struttura della rappresentazione prospettica, Leibniz
conferisce un preciso significato alle specifiche proprietà di tali
rappresentazioni. Se prendiamo in considerazione per prima l’immagine
speculare, possiamo osservare che le proprietà che la caratterizzano sono innanzitutto
l’inseparabilità dell’immagine speculare dall’oggetto che essa riflette,
che fa sì che essa possa essere considerata come una sorta di indice legato
da un rapporto di dipendenza causale a ciò che rappresenta. L’immagine
speculare nasce infatti simultaneamente e, per così dire,
‘passivamente’, in relazione alla presenza di qualcosa davanti allo
specchio. Altre due caratteristiche importanti dell’immagine speculare sono il
suo alto grado di mimeticità, che può renderla fonte di inganno e
illusione, e la sua variabilità a seconda dell’orientamento dello
specchio e della collocazione spaziale dell’osservatore.
Tenendo ben presente tutte queste proprietà dell’immagine speculare,
Leibniz ricorre alla metafora dello specchio in diversi luoghi tematici della
propria produzione filosofica, attribuendole tutta una serie di significati.
Innanzitutto possiamo osservare come la duplicazione speculare dell’universo
prodotta dalle sostanze non costituisce per Leibniz un sintomo di evanescenza e
di indebolimento della consistenza ontologica della realtà, quanto una
manifestazione della perfezione del creato e della gloria divina, in quanto
tali duplicazioni speculari sono tra loro armonicamente coordinate. Il
carattere prospetticamente situato dell'immagine speculare corrisponde inoltre
alla natura finita e imperfetta delle monadi, ognuna delle quali riflette il
mondo nella sua totalità ma a partire da un punto di vista determinato.
L'immagine speculare è poi l’emblema di una rappresentazione capace di unificare
e concentrare il proprio rappresentato, concetto che Leibniz precisa
facendo ricorso all'espressione “specchio vivente” [speculum vitale,
lebendige Spiegel, miroir vivant], in cui l’aggettivo “vivente”
sta a indicare forza unificante del soggetto che produce la rappresentazione[3].
Tutti questi temi possono essere chiariti ed esplicitati attraverso specifici
riferimenti a passi leibniziani, ed è quello che faremo nelle prossime pagine,
precedute da alcune considerazioni sull'uso da parte di Leibniz del linguaggio
figurato[4].
È chiaro infatti che parlando delle sostanze come
“specchi viventi” Leibniz sta usando una metafora a cui attribuisce diverse
funzioni. La prima, come chiarisce in una lettera a Masson scritta nel 1716,
uno dei suoi ultimissimi scritti, consiste nell'esplicito riferimento a tutta
una tradizione ben consolidata nel platonismo cristiano. Riflettendo su come
alcuni interlocutori avessero mostrato una certa ostilità e persino sarcasmo
nei confronti di espressioni come "armonia prestabilita", "entelechia"
o "specchio vivente", Leibniz scrive: "Questo specchio fornisce
un’espressione figurata, ma assai appropriata e già utilizzata da una grande
quantità di Filosofi e di Teologi, i quali hanno parlato di uno specchio
infinitamente più perfetto, lo specchio della Divinità, che sarebbe oggetto
della visione beatifica"[5].
Poco più avanti, mostra come quegli autori che si erano presi gioco
dell'analogia tra sostanze e specchi, riferendosi a questi ultimi come a degli
"Specchi Magici", si fossero dimostrati incapaci di cogliere il vero
senso di questo paragone, che era quello di chiarire la natura
espressivo-rappresentativa della sostanza, natura che Leibniz spiega anche con
il riferimento ad altre espressioni analogiche, come quelle di "centri o
concentrazioni delle cose esterne". Espressioni analogiche che devono
essere intese come tali e non fraintese, mantenendo ben ferma la distinzione
tra le monadi immateriali e i punti: "I punti, a parlare con esattezza,
sono le estremità dell’estensione, e assolutamente non le parti costitutive
delle cose".[6]
Con il richiamo alla metafora dello specchio per
chiarire la natura espressiva della sostanza, Leibniz si rifa’ a tutta una
tradizione, sviluppatasi sin dall'Antichità, che aveva accostato conoscenza
intellettuale e immagine speculare[7].
In questa tradizione, l'immagine speculare assume tutta una serie di
connotazioni variabili: la sua capacità di restituire mimeticamente l'aspetto e
la struttura del rappresentato, sebbene in forma bidimensionale e a partire da
un punto di vista determinato, viene vista di volta in volta come sinonimo di
perfezione o di imperfezione. Lo specchio può poi essere luogo di una mediazione
capace di rendere tollerabile la vista di ciò che sarebbe insostenibile se
visto direttamente, oppure fonte di una moltiplicazione ingannevole e
fuorviante.
Ereditando i principali temi della specularis
philosophia che attraversa la tradizione del platonismo cristiano, Leibniz
attinge dunque alla metafora dello specchio per chiarire la natura
espressivo-rappresentativa delle sostanze, natura che fa sì che ogni loro stato
contenga una rappresentazione infinita ma intrinsecamente confusa del tutto,
parziale in quanto prospetticamente situata ma al tempo stesso capace di
contenere in sè un analogon della perfezione e dell'onniscienza divina.
In testi come il Systema Theologicum[8],
la ripresa di temi di derivazione agostiniana è poi ancora più chiara, come nei
passi in cui scrive che gli angeli e i santi vedono tutto "nello specchio
della visione divina" o che la mente umana "è sempre uno specchio di
Dio e dell’universo”, ed è dotata di una "conoscenza confusa e di
un’intuizione offuscata".
Ciò che costituisce il tratto che distingue
nettamente l'uso fatto da Leibniz del riferimento all'immagine speculare dalla
tradizione che abbiamo appena menzionato, è il fatto che in Leibniz la metafora
dello specchio viene reinterpretata alla luce della definizione della relazione
espressiva come analogia di rapporti fra termini che possono essere anche visivamente
dissimili. In un testo sul principio di ragione contenuto negli Opuscules
et fragments inédits raccolti da Couturat – uno dei tre testi contenenti
esplicite definizioni del concetto di espressione di cui abbiamo parlato prima
– troviamo un'importante precisazione da parte di Leibniz circa l’effettiva
pertinenza del riferimento metaforico all’immagine speculare per parlare della
natura delle rappresentazioni sostanziali: Leibniz sostiene infatti che “non
bisogna pensare, quando parlo di specchio, che le cose esterne si dipingano
negli organi di senso e nell’anima. Perché vi sia espressione di una cosa in
un’altra, è infatti sufficiente che vi sia una relazione costante, secondo la
quale i singoli elementi dell’espressione possano essere messi in
corrispondenza con i singoli elementi dell’espresso”[9].
L'immagine speculare dell’universo prodotta dalle sostanze non deve essere
dunque intesa come un'immagine che riflette figurativamente e mimeticamente
il proprio rappresentato, bensì come una rappresentazione espressiva, e quindi
analogica, che fa sì che i singoli elementi dell'espresso si ritrovino in
corrispondenti singoli elementi dell'espressione, ma senza che vi sia
necessariamente una vera e propria somiglianza visibile. Per chiarire
questo punto, Leibniz introduce un altro esempio che ricorre spesso nei suoi
scritti e sul quale ritorneremo in seguito: quello del cerchio e dell’ellisse,
due figure dissimili ma unite da un preciso rapporto proiettivo in quanto
possono essere considerate entrambe come sezioni di un cono e come
rappresentazione prospettica l’una dell’altra se osservate a partire da un
punto di vista collocato nel vertice del cono.
Lo stesso accostamento di immagine speculare,
rappresentazione prospettica della città e
rapporto di corrispondenza proiettiva tra figure apparentemente
dissimili si ritrova in diversi altri testi, sempre con l'intento di mostrare
come la relazione espressiva tra la sostanza e l'universo spiegata a partire
dal riferimento all'immagine speculare non sia da intendersi come rappresentazione
caratterizzata da una vera e propria somiglianza. La presenza di una
dissomiglianza non è considerata da Leibniz come sinonimo di arbitrarietà,
bensì come invito a cogliere e svelare la relazione espressiva che lega due
termini eterogenei; la dissomiglianza, in altre parole, anzichè essere sintomo
di dispersione e di lontananza, nasconde una promessa di intelligibilità, in
quanto invita a individuare la legge di corrispondenza capace di riportare a
unità i due termini distinti.
In altri testi l'immagine speculare viene
menzionata come emblema del carattere unificante delle rappresentazioni
sostanziali. È questo, il più delle volte, il senso del riferimento leibniziano
al tema dello "specchio vivente". Come ha sottolineato
giustamente Nieraad[10],
la metafora dello specchio vivente è finalizzata a sottolineare in particolare
la forza unificante insita nel soggetto e che si manifesta nell'attività
espressivo-rappresentativa della sostanza: specchio vivente, in questo senso, è
quello capace non solo di riflettere staticamente ciò che sta di fronte, ma di
unificarlo in una sintesi rappresentativa, manifestando esemplarmente
l'intrinseca unità che è caratteristica di ogni ente. Come scrive
Leibniz in una lettera a Des Bosses riprendendo una tesi consolidata elaborata
dalla filosofia scolastica, "l’ente e l’uno coincidono"[11]:
l'ente è intrinsecamente uno, e l'attività essenziale della sostanza è quella
percezione che sempre nelle lettere a Des Bosses Leibniz definisce come
"espressione del molteplice nell’uno".
Il tema della rappresentazione come unificazione
ritorna poi chiaramente in un passo dello Specimen inventorum in cui
Leibniz, analogamente a quanto abbiamo letto nello scritto sul principio di
ragione, invita a non prendere troppo alla lettera l'analogia tra sostanza e
specchio. In questo caso l'intento però non è tanto quello di sottolineare il
carattere non necessariamente somigliante dell'immagine speculare, quanto la
natura propriamente unificante della percezione: "È dunque chiaro che cosa
sia la percezione che compete a tutte le forme, vale a dire un’espressione del
molteplice nell’uno, che è nettamente diversa dall’espressione che ha luogo in
uno specchio o in un organo corporeo, in quanto queste non sono una forma di
vera unificazione”[12].
La mente è specchio vivente in quanto dotata di un'attività percettiva,
rappresentativa ed espressiva che si esplica come unificazione del
rappresentato, un'attività spontanea ed autonoma da parte di una sostanza
semplice che non deve indurre a prendere troppo alla lettera l'analogia con lo
specchio, fino al punto da dimenticare la natura estesa e limitata di
quest'ultimo, come ricorderà più tardi Bülfinger: "Le monadi sono diverse
da uno specchio in quanto in quest’ultimo la rappresentazione avviene
nell’esteso, mentre nelle prime essa ha luogo nel semplice; nello specchio,
inoltre, la rappresentazione dipende da un’azione esterna, mentre nelle monadi
ha luogo in base a un principio interno".[13]
Il tema della rappresentazione sostanziale come concentrazione
di una totalità nell'unità semplice della sostanza, che richiama la tesi
delle menti come partes totales affermata da Leibniz nel De rerum
originatione radicali, ritorna anch'esso in diversi scritti in relazione al
riferimento all'immagine speculare. Sempre in una lettera non datata a Bayle,
Leibniz scrive che Dio contiene l'universo eminentemente, mentre
l'anima, che è un “mondo a parte" e "un’unità", "lo
contiene virtualmente, in quanto è uno specchio centrale ma attivo e,
per così dire, vitale"[14].
In una lettera a de Volder del 20 giugno 1703, le anime vengono presentate come
"specchi viventi delle cose, o Mondi concentrati"[15].
Lo specchio si presenta dunque in questi casi come capacità di concentrazione,
unificazione, riproduzione del tutto nella parte, con una chiara ripresa del
tema della complicatio/explicatio presente nel pensiero di Nicola
Cusano[16]:
in Leibniz è nell'unità rappresentativa della monade che il mondo è racchiuso complicative
e al tempo stesso è nei suoi stati rappresentativi che esso viene esplicato
ed espresso. Come scrive Leibniz alla principessa Sophie, "tutto
ciò che vi è nel mondo si racchiude in un piccolo spazio come quello di un
occhio o di uno specchio, sebbene soltanto come rappresentazione"[17],
mentre prerogativa di Dio è la capacità di rappresentare l'universo "de
source", vale a dire a partire da una sorta di punto-origine, punto
accessibile solo all'Autore supremo del mondo, sua causa prima e fondamento:
"Dio è il centro universale, e vede il mondo così come si potrebbe vedere
una città dall’alto di una torre collocata al suo centro. Noi invece non siamo
che dei centri particolari, e non vediamo attualmente il mondo se non
attraverso i due buchi che si trovano nella nostra testa, così come si potrebbe
vedere una città di scorcio”[18].
Ritorneremo in seguito sulla distinzione ontologica che separa la molteplicità dei punti di vista sostanziali, prospetticamente situati, dall'unicità del punto di vista di Dio. Ciò che conta sottolineare ora è che lo specchio viene invocato per affermare lo statuto della rappresentazione come concentrazione espressiva in rapporto analogico con il tutto, come unificazione di una molteplicità, come unità capace di racchiudere in sè una pluralità. Da un lato, dunque, la metafora dello specchio è finalizzata a sottolineare il carattere unitario, concentrato e conchiuso della rappresentazione sostanziale, dall'altro essa rinvia al tema del raddoppiamento e della moltiplicazione visti, come abbiamo detto in precedenza, non tanto come sintomo di dispersione ma come arricchimento e celebrazione della gloria di Dio. In una lettera a Jacquelot del 9 febbraio 1704, Leibniz scrive che "il miracolo o piuttosto il meraviglioso consiste nel fatto che ogni sostanza è come una rappresentazione dell’universo condotta a partire dal suo punto di vista. È la più grande ricchezza o perfezione che possa essere attribuita alle creature e all’operazione del Creatore, ed è come un raddoppicamento di mondi in questi innumerevoli specchi delle sostanze, grazie ai quali l’universo possiede un’infinita varietà"[19].
Ne La natura in se stessa, il tema della variazione e della dissomiglianza proliferante come segno della sua perfezione ritorna in modo emblematico: la natura è "artificio di Dio"[20], il quale ha lasciato "un qualche suo espresso vestigio nelle cose"[21]. La traccia della divinità nella natura deve essere rinvenuta proprio nell'assenza di perfetta somiglianza tra gli enti creati: assenza di perfetta somiglianza ribadita dal principio dell'indiscernibilità degli identici che si traduce in un elogio della variazione tenuta insieme dall'analogia. Il tema dell'analogia, poi, viene esposto ripetutamente in una serie di lettere a Lady Masham e alla regina Sofia Carlotta del maggio 1704: analogia significa qui principio-guida capace di assicurare dell'esistenza di rapporti proporzionali esistenti tra ciò che è visibile e ciò che è invisibile: "Siccome sono pienamente a favore del principio di uniformità, che credo che la natura osservi nel fondo delle cose, mentre varia per maniere, gradi e pefezioni, tutta la mia ipotesi mette capo a riconoscere, nelle sostanze lontane dal nostro sguardo e dalla nostra osservazione, qualcosa di proporzionale a ciò che si rileva in quelle che sono alla nostra portata. [...] Dappertutto e sempre, tutto è come da noi e al presente (a parte il soprannaturale), eccetto i gradi di perfezione, che variano"[22].
Nelle rappresentazioni sostanziali pensate come
immagini speculari, l'unità nella varietà e la perfezione del mondo creato si
riflettono testimoniando la loro coappartenenza a questi. Così come l'immagine
speculare esiste fintantoché si ha la presenza dell'oggetto che in essa si
riflette, allo stesso modo le sostanze-specchi sono "altrettanto durevoli
quanto il mondo stesso"[23].
L'immagine speculare riflessa nelle sostanze testimonia quindi dell'esistenza
del mondo e di quella pluralità delle sostanze che Leibniz vedeva come una
delle tesi più forti da opporre allo spinozismo, sin dal periodo delle note
all'Etica. In uno scritto tardo, una lettera a Bourguet del dicembre
1714, la pluralità delle monadi come specchi viventi viene affermata proprio in
funzione di antitesi allo spinozismo:
è proprio grazie alla pluralità delle Monadi che viene distrutto lo Spinozismo, in quanto nella realtà vi sono tante sostanze, e, per così dire, tanti specchi viventi dell’Universo o Universi concentrati, quante sono le Monadi, mentre per Spinoza non vi è che una sola sostanza. Avrebbe ragione, se non vi fossero le monadi; in quel caso tutte le cose, eccetto Dio, sarebbero effimere e si ridurrebbero ad essere semplici accidenti o modificazioni evanescenti dell’unica sostanza, mentre l’esistenza delle Monadi fornisce una base sostanziale alle cose stesse.[24]
La molteplicità di
significati che assume l'analogia tra natura espressivo-rappresentativa della
sostanza ed immagine speculare mostra dunque chiaramente che se da un lato
Leibniz attinge a un apparato metaforico che si è ben consolidato nella
tradizione del platonismo cristiano e poi nella filosofia rinascimentale –
basti pensare a Nicola Cusano e Bruno, che fanno entrambi ampio uso della
metafora dello specchio – dall'altra questo apparato metaforico viene
reinterpretato e portato a significare tutta una serie di temi centrali
dell'ontologia e della gnoseologia leibniziana: la rappresentazione sostanziale
come rappresentazione non necessariamente somigliante ma analogica e come
concentrazione e unificazione, il raddoppiamento provocato dallo specchio come
moltiplicazione della gloria di Dio e indice della molteplicità delle sostanze
in funzione anti-spinoziana.
Se dalla trattazione della metafora dello specchio ci spostiamo e prendiamo
in considerazione il ruolo svolto nel pensiero leibniziano dai riferimenti al
modello prospettico, possiamo osservare che tali riferimenti sono molto
numerosi e consistono sia in brevi menzioni che in paragoni illustrati più
estesamente. Nel parlare genericamente di ‘modello prospettico’ riassumiamo
quella che è in realtà un’ampia serie di riferimenti a temi come il concetto di
punto di vista, la differenza tra rappresentazione prospettica di
scorcio e rappresentazione planimetrica – ossia tra quelle che Leibniz nomina,
riprendendo due termini provenienti dal De architectura di Vitruvio, scenographia
e ichnographia –, la dottrina della rappresentazione delle ombre, le perspectives
curieuses o anamorfosi, e infine il procedimento della generazione
proiettivo-prospettica delle sezioni coniche elaborato da Desargues nel Brouillon
Project (1639) e da Pascal nell'Essai pour les coniques (1640) e
nella Generatio conisectionum, autori che vengono menzionati
esplicitamente in più passi degli scritti leibniziani e i cui testi Leibniz
aveva conosciuto durante il suo soggiorno a Parigi tra il 1672 e il 1676.
In particolare, attraverso il riferimento alla generazione proiettiva delle sezioni coniche, in cui queste – vale a dire punto, retta, cerchio, ellisse, parabola, iperbole – pur nella loro diversità, vengono considerate come proiezioni le une delle altre a partire da un unico punto di vista collocato nel vertice del cono, Leibniz mostra la possibilità di ricondurre a unità e ad armonia una molteplicità di elementi a prima vista altamente dissimili, individuando rapporti espressivi e analogici anche là dove sembrerebbero regnare dissomiglianza e arbitrarietà. Con la contrapposizione tra la molteplicità di vedute prospettiche (o scenografiche, di scorcio) di un'unica città, e l'unicità della rappresentazione ortografica e planimetrica della città stessa (ichnographia) Leibniz illustra invece la distinzione tra una conoscenza intrinsecamente finita e limitata e una conoscenza perfetta come quella che solo Dio può avere.
In questo secondo caso, ciò che è in gioco è un mutamento di punto di
vista, ossia il passaggio da un punto di vista situato a distanza finita ad uno
situato a distanza infinita e collocato perpendicolarmente rispetto al piano
della rappresentazione. Il problema della pluralità e della variabilità
dei punti di vista, dell’eventuale gerarchia tra di essi e della difficoltà
insita nel tentativo di individuare il ‘giusto’ punto di vista dal quale sia
possibile avere una corretta visione delle cose, non è un problema che, come
vedremo fra poco, occupa soltanto Leibniz. Anche in Pascal tale concetto viene
caricato di tutta una serie di significati che potremmo chiamare meta-geometrici
e che rinviano al dominio della teologia e della morale, come dimostrato
chiaramente da due passi tratti dai Pensieri
Se si è troppo giovani non si
giudica bene, troppo vecchi lo stesso. Se non si pensa abbastanza, se ci si
pensa troppo, ci si ostina e ci si intestardisce. Se si considera la propria
opera immediatamente dopo averla fatta se ne è ancora tutti imbevuti, se troppo
tempo dopo non ci si immedesima più. Così i quadri visti da troppo lontano e da
troppo vicino. E vi è solo un punto indivisibile che sia il vero luogo.
Gli altri sono troppo vicini, troppo lontani, troppo alti o troppo bassi. La
prospettiva lo determina nell’arte della pittura, ma nella verità e nella
morale chi lo determinerà? (Brunschvicg 381)
L'instabilità delle vicende umane e gli ondeggiamenti della ragione rendono
imprescindibile, secondo Pascal, la ricerca affannosa di un giusto punto di
vista da cui considerare le cose:
Coloro che sono nella
sregolatezza dicono a coloro che sono nell’ordine che sono loro che si
allontanano dalla natura, mentre essi credono di seguirla: come coloro che sono
su di una nave, credono che coloro che sono sulla riva fuggano. Il linguaggio è
uguale da tutti i lati. Bisogna avere un punto fisso come il porto per
giudicarne. Il porto giudica coloro che sono su di una nave, ma dove troveremo
noi un porto per la morale? (Brunschvicg 383)
Se però in Pascal il giusto punto di vista, centro attorno a cui tutto lo
svolgersi storico e tutte le incertezze morali trovano la loro messa in
prospettiva, viene chiaramente indicato nella figura del Cristo, “lo scopo di
tutto e il centro ove tutto tende”, la ricerca del giusto punto di vista
in Leibniz, come vedremo, assume il ruolo di un'idea regolativa che
agisce a diversi livelli della conoscenza e dell'interpretazione del reale. Ma
come intendere esattamente il significato concetto di punto di vista di cui
parla Leibniz in relazione alla teoria della sostanza? Come è possibile che una
sostanza concepita come unità semplice, indivisibile, assolutamente immateriale
e inestesa, abiti un punto di vista sul mondo che, come sembra suggerire
l’espressione stessa, non può che essere spazialmente localizzato?
Ricordiamo i tratti essenziali della concezione leibniziana dello spazio,
così come essa emerge, per esempio, nel carteggio con Clarke, esponente delle
tesi di Newton. Leibniz si esprime contro la concezione newtoniana dello spazio
come ente reale assoluto e sostiene che lo spazio deve essere considerato come
qualcosa di puramente relativo: lo spazio è un ordine delle
coesistenze, così come il tempo è un ordine delle successioni. In
quest’ottica, come scrive Leibniz, “per avere l’idea di un posto [situs]
determinato e di quell’insieme di tutti i posti che è lo spazio, basta
considerare i rapporti e le regole dei loro mutamenti, senza che vi sia bisogno
di figurarsi alcuna realtà assoluta fuori delle cose di cui si considera la
situazione”[25]. Come
conciliare, allora, la tesi della natura immateriale e inestesa delle sostanze
e della natura ideale e relazionale dello spazio, con l’uso del concetto di
punto di vista?
Una spiegazione potrebbe essere rinvenuta, come propone Russell,
nell’evoluzione stessa del pensiero leibniziano, che, partito da una forma di materialismo
secondo cui le anime occupano punti fisici nello spazio, sarebbe in
seguito approdato alla concezione relazionale dello spazio portandosi dietro
tutto l’apparato metaforico sviluppato nella prima fase senza rendersi conto
delle contraddizioni che tale apparato metaforico suscitava nei confronti della
nuova teoria. Secondo Russell, in altre parole, Leibniz avrebbe sviluppato la
propria concezione della sostanza a partire dalle tesi giovanili sulle anime
come punti fisici e sulla localizzazione di tali anime in uno
spazio oggettivo, dimenticando poi in seguito di rivedere la propria concezione
della sostanza una volta che viene meno l’oggettività e la realtà dello spazio.
Se gli scritti giovanili sono infatti permeati da un velato materialismo che
sostiene che le anime si trovano localizzate in uno spazio reale e oggettivo
come punti fisico-matematici, negli scritti successivi, quando Leibniz
radicalizza la tesi della loro pura spiritualità e immaterialità, la nozione di
punto rimane ma viene qualificata come punto metafisico.
Nel Nuovo sistema sulla comunicazione delle sostanze, del 1695,
Leibniz chiarisce la natura della sostanza facendo riferimento a una sorta di
triplice natura del punto:
a) le sostanze sono punti metafisici, in quanto assolutamente
indivisibili ed inestese e dotate di forza rappresentativa
b) nonostante la loro natura di punti metafisici sono però abbinate a dei punti
matematici che costituiscono i loro punti di vista da cui
esprimono-rappresentano l’universo
c) infine, quando sono unite a un corpo, trovano una localizzazione
spaziale in un punto fisico
Dopo il 1695, però, Leibniz decide di rompere nettamente con ogni residuo
di realtà e oggettività dello spazio, e fa sparire anche l’espressione
‘punto metafisico’ e la tesi secondo cui i punti matematici sono i punti di
vista delle sostanze. L’espressione ‘punto di vista’ rimane ma viene trattata
come un’espressione che sembrerebbe di natura puramente metaforica e analogica,
un semplice espediente atto a illustrare a fini divulgativi la
diversità delle rappresentazioni prodotte dalle singole sostanze. E questo è,
del resto, quanto ripetono diversi interpreti che sposano in tutto o in parte
l’interpretazione logicista del pensiero leibniziano, insistendo
sull’analogia tra sostanza e soggetto logico e sul fatto che l’espressione
‘punto di vista’ deve essere intesa unicamente in senso metaforico. Dietro
l’apparente spazialità del punto di vista corrispondente ad ogni monade si
troverebbe in realtà lo specifico nesso di relazioni soggetto-predicato sotto
il quale si presenta ad ogni monade la realtà.
Cosa significa però parlare di “natura puramente metaforica” dei
riferimenti leibniziani al tema del punto di vista e più in generale alla
struttura della rappresentazione prospettica? Sono riferimenti che hanno un
valore puramente illustrativo, o possono essere considerati come modelli
esplicativi che hanno forse giocato un ruolo più propriamente costitutivo
nei confronti di punti essenziali della metafisica leibniziana?
Abbiamo visto che quella leibniziana è un'ontologia che identifica
essere e rappresentazione, in quanto riconduce l'essere delle sostanze a
un'infinità di rappresentazioni prospettiche individuali anche se
espressivamente (proiettivamente, proporzionalmente, analogicamente) correlate.
La paradossalità, se vogliamo, di questa ontologia sta nel fatto che da un lato
essa asserisce la radicale inesperibilità e invisibilità delle sostanze
immateriali che costituiscono il fondamento delle apparenze fenomeniche, mentre
dall’altro sostiene che tali sostanze hanno come proprietà essenziale quella di
rappresentare il mondo e spiega la natura di tali rappresentazioni proprio a
partire da una metafora legata al funzionamento della visione e alla geometria
di una rappresentazione – la prospettiva – che proprio sulla naturalità della
visione intende fondarsi. In altre parole, se da un lato tutto ciò che cogliamo
attraverso la visione appartiene a una dimensione fenomenica che necessita di
essere oltrepassata in direzione del proprio fondamento intelligibile (le
sostanze), dall’altro è proprio l’analogia con la stessa visione empirica che
ci consente di pensare la natura di questo fondamento.
Nonostante tutte queste aporie, vi sono diversi motivi per considerare il
riferimento al paradigma prospettico come particolarmente pertinente per
illustrare tutta una serie di temi dell’ontologia e della gnoseologia
leibniziane. Il rapporto espressivo-analogico tra la molteplicità delle
rappresentazioni sostanziali e l'identità del mondo rappresentato, la
corrispondenza proiettiva e proporzionale tra le diverse rappresentazioni
sostanziali, la conciliazione tra l'assoluta semplicità della sostanza e
l'infinita complessità e completezza, anche se confusa, delle sue
rappresentazioni, la diversità delle forme conoscitive come variazione del
punto di vista – sono tutte tesi che trovano un adeguato modello esplicativo
nella struttura della rappresentazione prospettica.
Per verificare ulteriormente la pertinenza del modello prospettico possiamo
prendere in considerazione il modo in cui Leibniz descrive la differenza tra
due forme conoscitive: quella propria dell’uomo – caratterizzata da
un’ineliminabile alone di oscurità e confusione e quindi intrinsecamente
limitata e imperfetta – e quella divina
Punto di vista
umano e punto di vista divino: la distinzione tra scenographia e ichnographia
Come abbiamo detto in precedenza, Leibniz
chiarisce questa differenza facendo riferimento alla distinzione tra scenographia
e ichnographia, ossia tra una rappresentazione prospettica di scorcio,
che può variare a seconda della collocazione del punto di vista, e una rappresentazione
planimetrica, il cui punto di vista può essere pensato come posto a distanza
infinita. In una lettera a Des Bosses
che tratta il tema della natura dei corpi, Leibniz distingue tra il modo
variabile e fenomenico in cui questi appaiono a noi e il modo in cui essi
vengono conosciuti da Dio, e paragona la conoscenza umana dei corpi con quella
divina in base all'opposizione tra pluralità delle scenographiae e
unicità dell'ichnographia: la natura dei corpi è puramente fenomenica,
in quanto ciò che esiste realmente sono soltanto le sostanze immateriali, e il
fatto che i corpi ci appaiano come estesi e mutevoli è dovuto al carattere
imperfetto della nostra conoscenza, che si fonda spesso su dati provenienti dai
sensi e dall’immaginazione. La distinzione tra i diversi modi in cui ci
appaiono fenomenicamente i corpi e la conoscenza perfetta che Dio ha di essi,
inoltre, equivale alla distinzione tra la molteplicità di rappresentazioni scenografiche
(prospettiche) di un solido, diverse con il variare della collocazione dello
spettatore e quindi soggettive, e l’unicità e oggettività della
rappresentazione planimetrica, icnografica. Al variare delle scenografie
in base alla collocazione del punto di vista, ossia del situs dello
spettatore, corrisponde l'unicità della rappresentazione icnografica,
rappresentazione ortogonale in cui le cose appaiono "quales sunt secundum
Geometricam veritatem".
Ma che cosa caratterizza esattamente la conoscenza che Dio ha del mondo creato? Tale conoscenza, come sappiamo, è al tempo stesso chiara e distinta, intuitiva (simultanea, non-temporale, non-simbolica) e adeguata (perfetta, completa). Nei Principi della natura e della grazia la visione divina delle cose è resa da Leibniz attraverso un’immagine familiare alla tradizione filosofica e teologica: “Ogni anima conosce l’infinito, conosce tutto, ma confusamente [...] Dio solo ha una conoscenza distinta di tutto, essendone la fonte. È stato detto bene che egli è dovunque, quanto al centro, mentre la sua circonferenza non è in nessun luogo: dato che tutto gli è presente immediatamente, senza lontananza alcuna dal centro”[26]. Nel carteggio con Clarke, Leibniz si oppone alla tesi di Clarke (e Newton) secondo cui Dio, “essendo onnipresente, percepisce tutte le cose essendo immediatamente presente a loro”. A questa tesi Leibniz risponde che “occorre tutt’altro che la sola presenza, perché una cosa si rappresenti ciò che avviene in un’altra; occorre a tal fine una comunicazione spiegabile, qualche sorta di influsso, o delle cose tra loro o di una causa comune.” Nel caso del rapporto tra l’anima e il corpo o tra un’anima e le altre anime, la rappresentazione avviene in virtù dell’armonia prestabilita e del principio di espressione. Nel caso di Dio, invece, la conoscenza divina del mondo è tale che in essa conoscere e operare sono fusi in un'unità inscindibile: "la ragione per la quale Dio appercepisce tutto non è semplicemente la sua presenza, ma altresì la sua operazione: è perchè conserva le cose, con un'azione che produce continuamente ciò che di bontà e di perfezione vi è in loro"[27].
Un’altra interessante affermazione sul tipo di
conoscenza e di visione che Dio ha delle cose si trova nel Discorso
di metafisica, §14:
È assai evidente che le
sostanze create dipendono da Dio, il quale le conserva e, anzi, le produce
continuamente per una sorta di emanazione, come noi produciamo i nostri
pensieri. Dato che infatti Dio rigira, per così dire, da tutti i lati e in
tutti i modi il sistema generale dei fenomeni che trova confacente produrre per
manifestare la propria gloria, e osserva tutte le facce del mondo in tutte le
maniere possibili, dal momento che non c’è rapporto che sfugga alla sua
onniscienza, il risultato di ogni veduta dell’universo, come guardato da un
certo luogo, è una sostanza che esprime l’universo conformemente a questa
veduta, se Dio trova confacente rendere effettivo il suo pensiero e
produrre quella sostanza. E siccome la visione di Dio è sempre veritiera, le
nostre percezioni lo sono altresì, mentre sono i nostri giudizi a provenire da
noi ed ingannarci. [...] Le percezioni o espressioni di tutte le sostanze
si corrispondono vicendevolmente, in modo che ciascuno, seguendo con cura certe
ragioni o leggi che ha osservato, si armonizza con l’altro che fa altrettanto,
come diverse persone, essendosi accordate di incontrarsi in un certo luogo a
una certa data prefissata, se vogliono possono farlo effettivamente. Ora,
benché tutti esprimano i medesimi fenomeni, non è che per questo le loro
espressioni si somiglino perfettamente, ma basta che siano proporzionali: come
diversi spettatori credono di vedere la stessa cosa e si intendono in effetti a
vicenda, benché ciascuno veda e parli solo secondo la misura della propria
visuale. Ebbene, non v’è che Dio (dal quale emanano tutti gli individui
continuamente e che vede l’universo non solo come essi lo vedono, ma anche in
modo del tutto differente da loro) a esser causa di questa corrispondenza
dei loro fenomeni e a far sì che quanto è particolare di uno sia pubblico per
tutti; altrimenti non vi sarebbe alcun legame[28]
L'universale armonia tra gli stati rappresentativi delle singole sostanze
trova dunque il suo fondamento in un Dio concepito al tempo stesso come
"fonte", "origine" e "germe" da cui proviene il
mondo stesso, come chiarisce Leibniz in una lettera alla principessa Sophie:
"la divinità rappresenta l’universo dalla fonte, in modo tale che
l’universo è così come essa lo crea, e s’accorda con essa in quanto essa ne è
il germe e l’origine”.[29] Ma la conoscenza che Dio ha del mondo
creato, quella scientia visionis che ha per oggetto le verità attuali e
contingenti, trae origine da un punto di vista? Le affermazioni di Leibniz su questo punto sono diverse. In
alcuni testi afferma che Dio, conoscendo distintamente ogni cosa, non ha
punto di vista; per lui non c’è né “qui” né “là” e perciò Leibniz lo
raffigura come un centro che è dappertutto: come si legge nel passo dei Principi
della Natura e della Grazia, §13, che leggevamo poco fa, “egli è dovunque,
quanto al centro, mentre la sua circonferenza non è in nessun luogo, dato che
tutto gli è presente immediatamente, senza lontananza alcuna dal centro”. In
altri testi, invece, a Dio sembra essere attribuito un punto di vista
sovraordinato rispetto a quelli propri delle sostanze finite, un
punto di vista a partire dal quale il caos, il disordine e il male che
pervadono il mondo creato si rivelano nella loro vera natura di dissonanze che
contribuiscono alla suprema perfezione del tutto.
Come esempio di questa seconda tesi possiamo far riferimento a un passo
della Teodicea e a un breve scritto in tedesco intolato “Von dem
Verhängnisse” sul tema del ‘destino’. Nel §147 della Teodicea, Leibniz
sostiene che
vi è una ragione particolare
dell’apparente disordine in ciò che concerne l’uomo: Dio, dandogli l’intelligenza,
gli ha fatto dono di un’immagine della divinità. Egli lo lascia fare, in
qualche modo, nella sua piccola sfera, e non vi entra che in maniera occulta,
poiché fornisce essere, forza, vita, ragione, senza farsi vedere. È qui che il libero
arbitrio gioca la sua partita; e Dio si prende gioco (per così dire) di
questi piccoli dei che ha ritenuto fosse bene produrre, allo stesso modo che
noi ci prendiamo gioco dei bambini che si applicano a occupazioni che noi, di
nascosto, favoriamo o ostacoliamo a nostro piacimento. L’uomo è dunque come un
piccolo dio nel proprio mondo, o microcosmo, che governa a modo suo:
talvolta compiendovi meraviglie, e la sua arte imita sovente la natura. [...]
Egli fa però anche grandi errori, poiché si abbandona alle passioni e poiché
Dio l’abbandona al suo senso; e di ciò lo punisce anche, ora come un padre o un
precettore che eserciti o castighi i fanciulli, ora come un giudice giusto che
punisce coloro che lo abbandonano. E il male si verifica, il più delle volte,
quando queste intelligenze o i loro piccoli mondi si urtano tra loro. All’uomo
ne vien male, nella misura in cui ha torno; ma Dio, mediante un’arte mirabile,
volge tutti i difetti di questi piccoli mondi nel massimo ornamento del suo
mondo più grande. È come in quelle invenzioni prospettiche, nelle quali
certi bei disegni non sembrano altro che confusione, finché non vengano
esaminati dal punto di vista corretto o siano oservati mediante una certa lente
o uno specchio. È soltanto sistemandole e servendosene nel modo opportuno, che
diventano l’ornamento di una stanza. Così, le apparenti deformità dei nostri
piccoli mondi si raccolgono, generando bellezza in quello grande e non hanno in
sè nulla che si opponga all’unità di un principio universale infinitamente perfetto:
al contrario, accrescono l’ammirazione per la sua saggezza, che fa servire il
male a un bene più grande.[30]
È dunque solo individuando il corretto punto di vista per osservare un
mondo creato che si presenta come un’anamorfosi, che si può dimostrare la
relatività del male e la sublime perfezione del tutto.
Nello scritto intitolato “Von dem Verhängnisse”, Leibniz parla invece del
"destino" come di un universale concatenamento delle cose, un
concatenamento di cui la matematica può rendere conto, almeno in parte,
scientificamente, individuando alcune delle sequenze di rapporti causali che
compongono il mondo. Nella sua finitezza, l'intelletto umano non riesce però a
comprendere la totale connessione delle cose, ma può comunque derivare un
effetto di tranquillità e pacificazione dalla consapevolezza del destino [Verhängniss]
che regge il mondo, destino che consiste “nel fatto che tutto si trova
concatenato come in una serie, nella quale gli eventi si succedono
infallibilmente”. Per cogliere l'universale ordine delle cose, è necessario
cercare di collocarsi nel 'giusto' punto di vista, là dove questo ordine può
essere individuato, e per agire rettamente è necessario comportarci come se
ci trovassimo già in tale ‘giusto’ punto di vista. Anche qui ritorna il paragone
con l’immagine prospettica e con l’eccentricità del punto di vista nel caso
delle anamorfosi.
Così come un'immagine prospettica è costruita in modo da poter essere vista
correttamente da un unico e preciso punto di vista – solo in quel
caso, infatti, la scena rappresentata appare come vera e propria intersecazione
della piramide visiva, e i punti dell'oggetto nella rappresentazione
corrispondono proiettivamente all'oggetto tridimensionale esterno ad essa –
allo stesso modo l'universale ordine delle cose può essere colto soltanto
collocandosi nel giusto punto di vista. Un giusto punto di vista che Leibniz
descrive come Auge des Verstandes contrapposto all'Auge des Leibes,
ossia come occhio che è sede di una visione capace di attingere alla dimensione
intelligibile delle cose e non soltanto alla sua dimensione sensibile. E così
come per comprendere l'ordine dei movimenti dei pianeti è necessario collocarsi
nel punto di vista del sole, "centro" rispetto al quale la
complessità di quei movimenti assume un senso evidente, allo stesso modo l'idea
regolativa della conoscenza – e della morale – deve essere quella di
cercare di collocarsi in quel ‘giusto’ punto di vista a partire dal quale il
passato può essere considerato come manifestazione di ordine e di bellezza, e
il futuro, ciò che non è ancora accaduto, deve essere atteso come giusto e
inevitabile, il che non può che essere fonte di piacere, gioia e appagamento.
Come abbiamo visto, l’individuazione del ‘giusto’ punto di vista viene
presentata da Leibniz come un passaggio dall’occhio del corpo all’occhio
dell’intelletto, ossia come un allontanamento dalla conoscenza sensibile.
Questo tema concorda con quanto Leibniz sostiene in altri scritti, in cui
leggiamo che il radicamento della conoscenza umana in un punto di vista
parziale, capace di dar vita a una conoscenza limitata e confusa, è dovuto
principalmente al corpo.
È attraverso il corpo, infatti, che l’anima, nella conoscenza fenomenica,
fondata sui sensi e sull’immaginazione, esprime l’universo. In una lettera a De
Volder del 1703, leggiamo che “ogni anima esprime il suo corpo, e attraverso
di esso ogni altra cosa” (GP II 253). Il punto di vista dell’anima
individuale, il situs da essa occupato, sembra quindi essere determinato
dal carattere almeno in parte oscuro e confuso della sua conoscenza. Ma
la conoscenza sensibile e immaginativa dei fenomeni non è l’unica modalità di
conoscenza accessibile all’uomo. Se questa è intrinsecamente condizionata dalla
presenza di piccole percezioni inconscie, oscure e confuse, vi sono altre
modalità conoscitive che traggono origine da punti di vista qualitativamente
e gnoseologicamente diversi, capaci di generare rappresentazioni più o meno
‘oggettive’ del mondo, come la conoscenza scientifica e la speculazione
metafisica.
Vi sono quindi punti di vista diversi, corrispondenti a modi diversi di
rappresentare il mondo: all’esperienza sensibile può sostituirsi la
rappresentazione del mondo attraverso concetti ricavati oltre che
dall’esperienza anche dall’intelletto, ovvero la conoscenza scientifica,
e, infine, la spiegazione metafisica della realtà, fondata nel
rinvenimento di unità prime immateriali e solamente intelligibili, le sostanze.
Il grado di distinzione delle percezioni di un’anima caratterizza tanto la sua
individualità quanto il tipo di conoscenza da essa prodotta. La possibilità
stessa della conoscenza scientifica e della speculazione metafisica mostra però
che la mente finita, pur condizionata dal corpo, può partecipare di quella
divina, cioè del punto di vista assoluto sulle cose. Com’è noto, Leibniz
riconosce alle anime razionali il possesso di verità innate, indipendenti
dall’esperienza, grazie alle quali esse possono intuire l’esistenza di quelle vere
realtà a fondamento delle apparenze che sono le sostanze, le monadi.
L’ascesa dalla conoscenza sensibile a quella scientifica su su fino alla
considerazione metafisica dei fondamenti della realtà può dunque essere
interpretata come un progressivo allontanamento dal punto di vista
scenografico-prospettico condizionato dal corpo, in direzione di quel punto
di vista sovraordinato, collocato a distanza infinita, che conferisce una
natura oggettiva alla rappresentazione icnografica (planimetrica) di Dio. A
questi passaggi conoscitivi sembra corrispondere uno allontanamento sempre
più pronunciato della mente dal punto di vista condizionato dal corpo in
direzione di una visione oggettiva delle cose, idealmente regolata su quella
divina.
In questo cammino di progressivo distanziamento dal punto di vista della
conoscenza sensibile, l’anima deve perseguire l’idea regolativa
dell’individuazione del giusto punto di vista a partire dal quale il
disordine può essere ricondotto a unità e armonia. Per cogliere la bontà e la bellezza del mondo creato è necessario
che esso sia considerato come una totalità che deve essere contemplata
secondo una giusta prospettiva. È per questo che Leibniz si richiama
continuamente all’effetto di svelamento che l’individuazione del giusto
punto di vista provoca nel caso delle anamorfosi o alla necessità di
contemplare un’immagine pittorica alla giusta distanza e nella sua totalità:
“Rimiriamo una pittura bellissima coprendola tutta e lasciandone libera solo
una minima parte: anche guardando intensamente, anzi, quanto più la si guardi
da presso, che altro apparirà in quella parte, se non una congerie confusa di
colori senza gusto, senza arte? E tuttavia, levata la copertura e contemplato
il quadro in una collocazione conveniente, comprenderai come ciò che
sembrava butatto a caso sulla tela fosse stato eseguito dall’autore dell’opera
con artificio sommo. Ciò che gli occhi trovano in una pittura, le orecchie lo
sperimentano nella musica”[31].
Come un dipinto prospettico richiede l’assunzione un unico punto di vista e un
brano musicale una precisa estensione temporale dell’ascolto, non limitata a
singole parti, allo stesso modo il mondo deve essere considerato
nell’estensione temporale a esso propria[32]
e dal punto di vista non di quel “frammento” dell’opera divina, quale è il
genere umano, bensì del “centro originale e universale”[33],
dal quale tutti i particolari risultano collocati in quell’unica prospettiva
capace di rivelare l’ordine e la sublime perfezione del tutto, cioè dal punto
di vista divino.
Il modo in cui l’immagine prospettica richiede di essere fruita sembra dunque imporsi come forma esemplare dell’atteggiamento da adottare nella considerazione di un mondo che è anch’esso opera, non di un artefice umano, ma di un divino architetto che costruisce il proprio edificio rispondendo al criterio della varietas identitate compensata, di quella sintesi armonica di varietà e ordine che è sinonimo di perfezione.
Seminario di filosofia dell'immagine
Le parole della
filosofia, III, 2003
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[1] DM, §9.
[2] M§§57-58, p.461
[3] Sulla storia della metafora dello specchio e sul significato che tale metafora ha nel pensiero leibniziano, cfr. i seguenti testi: Courtes-Jalabert 1978, Gambazzi 1997, Ghio 1979, Kaulbach 1966, Konersmann 1988 e 1991, Melchior-Bonnet 1994, Minazzoli 190, Nieraad 1970, Tagliapietra 1991.Per quanto riguarda la presenza della metafora dello specchio negli scritti degli anni 1677-1690 raccolti in A VI 4 A-C, cfr.: B n.261 p.1374; n.262 p.1378 (sulla visione di Dio "per speculum"); C n.312 p.1625; n.361 p.1974; n.365 p.1989; n.420 p.2402 (sulla mente umana come "speculum Dei et universi"); n.504 p.2849.
[4] Sul tema del linguaggio figurato in
Leibniz, cfr. C.Marras, "Analogische und metaphorische Verfahren bei
G.W.Leibniz", in Sprachdiskussion und Beschreibung von Sprachen im 17.
und 18. Jahrhundert, hrsg. von G. Hassler und P. Schmitter, Nodus-Publ.,
Münster 1999, pp.69-83.
[5] GP VI p.626.
[6] Ivi, p.627.
[7] Cfr. in particolare Courtes-Jalabert 1978, Konersmann 1988 e 1991, Minazzoli 1990.
[8] FC I pp.586-587.
[9] Ibid.
[10] Cfr. Nieraad 1970.
[11] GP III, p.431.
[12] GP VII, p.317.
[13] G.B.Bilfinger (sic), De harmonia animi et corporis humani maxime praestabilita ex mente illustris Leibnitii, 2.a ed., Frankfurt Leipzig 1735, pp.108-109, cit. in Courtes-Jalabert 1978 n. 48 p.760.
[14] GP III, p.72.
[15] GP II, p.52.
[16] Per il tema della complicatio/explicatio in Nicola Cusano cfr. soprattutto De docta ignorantia, II, 3. Sul rapporto tra Cusano e Leibniz, cfr. Courtes-Jalabert 1978., pp.162-segg., secondo cui temi cusaniani sarebbero entrati nel pensiero di Leibniz attraverso la mediazione di Giordano Bruno.
[17] GP VII, p.556.
[18] Ibid.
[19] GP III, pp.464-465.
[20] MP I p.508.
[21] Ivi, p.511.
[22] MP I pp.560, 562.
Il tema dell'analogia viene spesso menzionato da Leibniz insieme al riferimento
al tema del viaggio di Arlecchino sulla Luna, in cui Arlecchino scoprirerebbe
che "tutto è anche qui come da noi". Su questo tema, cfr.
Serres 1968, che per il per il tema dl Arlecchino rimanda a GP III pp. 339,
343, 356-357, 497-500, 635; GP V pp. 454, 473; GP VI pp.546, 548; NE, I,
1.. Serres sottolinea come i viaggi
interplanetari fossero un tema ricorrente dell'immaginario scientifico del
tempo, dal Cosmotheoros di Huyghens, al Somnius Kepleri e all'Iter
Extaticum di A.Kircher, ai Dialoghi di Fontenelle. Leibniz si
riferisce a questi temi in GP III p.147, GP V p.204; GP V pp.293-294
[23] Leibniz alla regina Sofia Carlotta, 8 maggio 1704, GP III, p.347.
[24] GP III p.575.
[25] (Carteggio Leibniz Clarke, MP I p.535)
[26] (PNG §13, GP VI 604)
[27] MP III pp.493-494.
[28] MP I pp.274-275.
[29] GP VII p.556.
[30] MP III pp.215-216.
[31] GP VII 306.
[32] GP VII 308.
[33] GP VII 566.