Le parole della
filosofia, V, 2003
Seminario di filosofia
dell'immagine
Le
maschere allusive dello spazio pittorico: presentazione e rappresentazione in Magritte
- Marta
Perego -
Nel 1924 Andrè
Breton pubblica il primo Manifesto del
Surrealismo in cui definisce il movimento come un “ Automatismo psichico
puro mediante il quale ci si propone di esprimere sia verbalmente, sia per
scritto o in altri modi, il funzionamento reale del pensiero; è il dettato del
pensiero con assenza di ogni controllo esercitato dalla ragione, al di là di
ogni preoccupazione estetica e morale”. L’iniziativa di Breton e del
surrealismo ebbe una notevole importanza : essa portò a pieno sviluppo alcuni
degli esperimenti formali delle avanguardie storiche, come le parole in libertà
del futurismo e i giochi linguistici del dada; sfruttando le scoperte di Freud
e della psicoanalisi, estese le sue ricerche nei territori poco esplorati della
vita psichica e mentale ( in particolare in quelli del sogno e dell’inconscio,
delle tecniche dell’associazione e dell’analogia, della scrittura automatica e
dell’umorismo); cercò di gettare un ponte tra i valori e le esigenze dei gruppi
d’avanguardia e quelli delle classi sociali, fra esperienza estetica ed
espressione politica, superando così quella frattura storica che vedeva
contrapposte avanguardie artistiche e avanguardie politiche.
Renè Francois
Ghislain Magritte entrò in contatto con tutto questo innanzitutto nel 1925,
anno in cui venne a conoscenza dei dipinti di De Chirico, incontro rivelatorio
che determinò l’adesione, da parte dell’artista belga, al Surrealismo di cui lo
stesso André Breton riconosceva in De Chirico il precursore, e nel 1927, quando strinse amicizia con Breton
per poi, già nel 1930, lasciare il gruppo francese a causa di diverbi teorici
con l’ iniziatore del movimento. Potremmo allora forse accennare ancora al suo
successivo soggiorno belga, alla fuga a seguito dell’offensiva nazista iniziata
il 10 Maggio 1940, all’influenza che le sue vicende biografiche determinarono
sulla sua produzione artistica , ma non lo faremo. Renè Magritte non amava le
biografie: andava dicendo che l’opera di un artista deve smentire la sua vita,
deve farla mentire e che non vi sono ricordi migliori di quelli inventati.
Sebbene quanto
sinora esposto rappresenti senz’ombra di dubbio parte integrante e costitutiva
dell’opera magrittiana, non vestirà nel nostro approccio alcun ruolo primario
:non interessa, in questo luogo, sapere cosa traspaia dell’intimo del nostro
artista all’interno dei singoli dipinti, non interessa disquisire o speculare
su arbitrarie ipotesi psicologistiche. Dichiara Magritte in un’intervista
Nella
conferenza tenuta all’ Académie Picard l’11 dicembre 1959, Magritte afferma:
Noi vorremmo,
per così dire, raccogliere l’invito che l’artista sembra rivolgere tra queste
righe: se la sua arte si avvale innanzitutto di un approccio descrittivo (senza
però volersi adagiare su di esso), allo stesso modo il nostro studio imboccherà
il sentiero dell’approccio fenomenologico, tentando in tal modo di leggere la
produzione magrittiana entro i confini teoretici tracciati da Magritte stesso.
Potremmo ora
allontanarci da queste premesse di carattere metodologico per procedere un
passo oltre. Se volgessimo il nostro sguardo indagatore verso il percorso
artistico intrapreso da Magritte, ci accorgeremmo che è possibile classificare
le sue opere
|
R.Magritte,
Valori Personali, 1953 |
principalmente
in tre modi: quelle in cui vengono rappresentati diversi oggetti (1) de – contestualizzati, privi apparentemente di una qualsiasi inter -
relazione logica oppure deformati (è questo l’insieme chiamato anche Tradimento delle immagini, si pensi ad esempio
all’opera “Valori Personali” del 1953), quelle in cui la tela diventa una sorta
di pagina di quaderno su cui prende avvio una riflessione sulla quotidiana
esperienza di curiosi quanto inavvertibili equivoci dovuti alle convenzioni (ad
esempio, “L’Uso della Paorola I” del 1928/29) ): concettualmente si tratta di
un’amplificazione della problematica sottesa al primo gruppo di immagini, e
quelle in cui si possono scorgere finestre, porte, camini
e cornici in trompe l’oeil (si pensi all’ opera “La Condizione Umana” del 1933. Ne è
forse presente un quarto in cui le prime due possibilità confluiscono l’una
nell’altra ( vi sono quindi soprattutto
cornici affiancate ad oggetti imprevisti in contesti improbabili. “La Bella
Prigioniera” del 1947 ne è un esempio)
che comunque,
per ciò che richiede il nostro percorso, è possibile far sfumare entro la prima
parte della classificazione proposta.
Quanto sin qui
affermato sembra però smentire il nostro punto d’avvio: in altre parole
l’assunzione secondo cui l’immagine dipinta in Magritte si ponga come
descrizione del mondo visibile. Più che una riproposizione dell’empirico questo
sembra essere il mondo dell’enigmatico, della sorpresa! Ma di una
riproposizione, infatti, non si tratta; potremmo allora arricchire quanto
precedentemente detto aggiungendo che
l’immagine dipinta è una descrizione esatta nella misura in cui essa ha rapporti di similitudine con gli aspetti
del mondo visibile.
|
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R.Magritte, L’uso della parola I, 1928/29 |
R.Magritte, La bella prigioniera, 1947 |
Afferma
Magritte (2)
L’immagine dipinta è da un lato: la descrizione del mondo
visibile modificato da una maniera di pensare; ovvero, d’altra parte,
l’immagine dipinta è la descrizione del mondo visibile compreso in modo
spontaneo.
E’ breve la
strada che conduce da queste considerazioni ad un discorso più sistematico e
specifico sullo spazio pittorico. Possiamo allora forse ricondurre la nostra
precedente categorizzazione ad una più specificatamente legata al modo di darsi
della spazialità nella rappresentazione: la prima classe proposta diviene ora
l’ambito in cui lo spazio emerge come condizione di possibilità dell’
oggettivazione dei nessi relazionali che produce enigma e sorpresa, la seconda
classe invece diviene l’ambito in cui lo spazio si fa pagina, luogo di
annotazioni paradossali, mentre la terza classe diviene l’ambito in cui lo
spazio emerge come luogo di quasi – menzogna, di bugia consapevole ed ironica. Ci
soffermeremo nei paragrafi successivi in modo abbastanza diffuso su questo
schema approssimativo: per ora limitiamoci a rilevare come la pittura di
Magritte sia una pittura che fa dello spazio pittorico, in un modo o
nell’altro, il suo primo motore significante entro cui si diramano i sottili e
molteplici fili della possibilità riflessiva e interpretativa.
Riassumendo:
CLASSIFICAZIONE DI IMMAGINI |
CLASSIFICAZIONE
SPAZIALE |
1) Trahison Des Images ® Maschera
Relazionale
®
Maschera Didattica |
|
2) Trompe
L’œil ®
Maschera
Cripto - Illusoria |
NOTA: E’ abbastanza rischioso svolgere un discorso simile
a quello a cui ci stiamo approssimando poiché vi è sempre il pericolo di cadere
in assunzioni fuorvianti o arbitrarie. Le parole che Magritte ci ha lasciato
sono spesso poco esaustive e si pongono, al limite, come possibile terreno di
conferma, ma non di costruzione teorica: non resta quindi che lavorare su
quanto disponiamo, procedendo per esempi, recuperando le varie reti teoriche
fin’ora tracciate ed osservando più nel dettaglio le possibili considerazioni
ad esse sottese.
Le prime due
modalità di travestimento spaziale individuate caratterizzano, come indicato
nello schema riassuntivo, il gruppo di immagini che abbiamo chiamato Trahison des images: ma in quale senso
parlare qui di “tradimento”? Non sarebbe troppo azzardato rilevare come la significanza di questo gruppo
di rappresentazioni risieda in strategie concettuali molto particolari:
principalmente l’artista dipinge intendendo altro… ma c’è di più; l’istintuale
rimando denotativo, chiamato dall’assenza di un libero e spontaneo filo
narrativo, è la trappola in cui lo
spettatore deve cadere per poi constatarne l’insensatezza, ed è proprio questo senso
di smarrimento il punto d’avvio verso una riflessione volta a ricostruire la
mancanza concettuale.
Consideriamo ora in particolare la specificità di ogni
classificazione spaziale:
2.1.1 – La
maschera relazionale
Il mondo
rappresentazionale di Magritte è in larga parte abitato da figure ed oggetti di
cui si può sensatamente dire che diventino “contenuto” effettivo solo nelle
relazione specifica che viene a stabilirsi fra essi entro l’ambito di
significanza (lo spazio pittorico) a loro disposizione. La logica dominante è
quindi quella della semantica relazionale, posizione che pertanto esclude
semplicistiche operazioni di automatismo psicologico, nel senso usato da
Breton: la relazione deve essere sempre pensata e poi costruita. Si pone così
quello specifico atto di creazione dei contenuti – relazione, che è una scelta,
anziché di normali e superficiali rapporti naturali fra le cose, di rapporti
associativi inattesi e sconosciuti. La relazione, in quanto pensata, ha una
chiarezza logico – razionale, che viene tuttavia occultata per effetto
dell’eccezionalità del rapporto stesso e che
rivela nella frattura fra pensiero
(che ha prodotto la relazione) e il contrasto delle cose stesse (che si danno nella relazione) il mistero del visibile.
Scrive Magritte:
Ciò che si
viene a creare è, in tal modo, l’oggettualità della relazione: gli oggetti
dipinti trovano, in seguito allo scontro dei loro rispettivi sensi più o meno
palesati, una sintesi unitaria, enigmatica, sorprendente. Ma quanto appena
detto richiede una precisazione: gli oggetti in quanto tali narrano poco! Chiamano
a se ambiti di significanza nel momento in cui vi è un soggetto percipiente
esterno alla scena in grado di riconoscere ed interpretare (3). Importa ora rilevare come nelle opere magrittiane, i significati non
siano determinati nella fredda staticità del loro tratto, ma piuttosto si
modellino e prendano forma entro il gioco dialogico che si organizza di fronte
e grazie allo spettatore: è proprio questo sistema di relazioni a costituire il
vero materiale figurativo.
Non è
possibile quindi parlare di una dialogicità autonoma interna allo spazio
creativo: non vi è uno spettacolo che mi si dà, non vi è una finestra
spalancata su un mondo in cui già vi è un immediato percorso narrativo: l’unico percorso di senso di cui sembra
essere legittimo parlare è quello che io,spettatore coinvolto, posso costruire
e di cui il momento della sorpresa e dello spaesamento costituiscono il punto
d’avvio.
Lo spazio
pittorico in quest’occasione diviene, dunque, la condizione di possibilità della comprensione che sempre, in
Magritte, va di pari passo con un approccio riflessivo: più che di un’eco
spaziale vera e propria, il “posto” dello spettatore sembra essere pervaso da
quelle risonanze teoriche che lo spazio pittorico permette di strutturare e di
costruire. E’ chiaro che, in questo luogo, il significato di “risonanza dello
spazio pittorico” assume sensi diversi
rispetto al significato che il concetto poteva assumere in una qualsiasi
delle tante pitture prospettiche rinascimentali: l’organizzazione geometrica dello spazio (che nel Rinascimento si
poneva, tra l’altro, come piacevole invito ad “entrare” nella
rappresentazione) non si presenta,
almeno per il gruppo di immagini che stiamo considerando, come mezzo di
coinvolgimento, la compartecipazione materiale è, in un certo senso,
appositamente evitata, come a dire : “qui
c’è il quadro”, “li c’è lo
spettatore”, il cui compito non è quello di fondersi con la rappresentazione ma
rimanerne distaccato per poter meglio
comprendere. Scrive l’ Alberti
Qui solo, lassato l’altre cose, dirò quello fo io quando
dipingo. Principio, dove io debbo dipingere scrivo un quadrangolo di retti
angoli quanto grande io voglio, el quale reputo essere una finestra aperta sul
mondo per donde io miri quello che quivi sarà dipinto
Tutto ciò si
affianca ad un concreto essere nel
mondo del varco: come tale prevede intuitivamente il solo movimento che dal
“fuori” conduce al “dentro”, che appunto consente allo spettatore di entrare,
quasi materialmente, in una pagina di mondo. Non troviamo tutto questo in
Magritte, non vi è alcun supporto pittorico che indichi un simile percorso
intra-immaginativo; lo spazio si fa teoria, si fa riflessione, si fa percorso
concettuale che dal tratto porta al pensiero.
2.1.2 – La
maschera didattica
Nel 1960 lo
psicologo sperimentale americano J. Gibson
nell’opera “Immagini, Prospettiva e Percezione” avanza l’ipotesi che la
percezione di un’immagine non sia tanto una percezione particolare quanto
piuttosto la percezione di un oggetto particolare che restituisca, per la
strutturazione della sua configurazione piana, lo stesso assetto ottico che
riprodurrebbe l’oggetto rappresentato (4). Una rappresentazione deve contenere in se tutte le informazioni perché
l’occhio possa cogliere una certa configurazione: in altre parole ciò significa
che ogni cosa ci si rappresenta sotto
un aspetto particolare, ci si svela a
partire da un punto di vista particolare e se ciò venisse meno l’immagine, a
parere di Gibson, non sarebbe più definibile tale. Ma è vero che ogni immagine
è la riproposizione tendenzialmente prospettica di un aspetto? La risposta che
tenderemmo a dare è negativa e il lavoro di Magritte potrebbe esserne un
esempio. Sarebbe forse sensato sostenere che in realtà anche la gran parte dei
suoi dipinti venga proposta allo
spettatore sotto una particolare angolazione( in specifico, di profilo ) e che
quindi sempre di aspettualità si tratta? Forse no… non più di quanto lo si
potrebbe sostenere per il disegno di un bambino; entrambi i casi non sembrano
proporre un aspetto particolare ma piuttosto rispondere ad una logica
percettiva perfetta riconducibile più che ad una scelta figurativa, ad una visualizzazione esemplare attraverso cui
le cose non si mostrano secondo un determinato punto di vista ma piuttosto
parlano della loro oggettività. L’impostazione percettiva di un oggetto dipinto
accompagna un particolare ambito di significanza racchiuso all’interno del suo darsi in modo esemplare ed è proprio
questa la strategia pittorico / concettuale sottesa, in specifico, alla maschera didattica dello
spazio caratteristica della seconda classificazione individuata .
Alla domanda
“Che cos’è questo?” la mancanza di aspettualità rende insensate risposte come
“è una forma”, “ è un particolare colore”, e via dicendo poiché l’esemplarità
della figura non lascia spazio a incertezze: “è una pipa!”, conclusione che poi
si scontra con la didascalia posta ai piedi della tela e che conduce ad un vero
e proprio scacco teorico. Vediamo ora in cosa esso consista.
Partendo dalla
convinzione che il linguaggio abitualmente impiegato per descrivere la realtà,
non possa in effetti che dare luogo ad infiniti fraintendimenti ( poiché si
fonda su convenzioni sprovviste di un qualsiasi grado di verità), Magritte
decide di portare alla luce questo curioso quanto inavvertibile equivoco. Da
pittore,
|
“La chiave dei sogni”, R.Magritte,
1930 |
egli si
esprime attraverso immagini quanto più possibile esplicite: tanto più esse saranno
riconoscibili quanto più sarà evidente la loro intrinseca insufficienza
rappresentativa. Per sottolineare la
frattura profonda tra la figurazione del visibile e la sfera dell’oggettualità,
Magritte aggiunge didascalie esplicative, spesso in un corsivo molto
scolastico, ricollegandosi forse a quelle tavolette che spesso ci sono capitate
tra le mani da bambini agli inizi della nostra carriera scolastica quando, per
cominciare ad avere dimestichezza con le lettere dell’alfabeto, guardavamo
un’immagine nota il cui nome iniziava con la lettera da imparare a leggere e
scrivere. Ma la spiegazione di Magritte contrasta decisamente con tale
impostazione didattica e anzi, sfruttandone forme e metodo, afferma decisamente
il contrario di ciò che ognuno pensa guardando quella determinata immagine
dipinta. Vediamo quindi come, ancora una volta, la strategia
dell’organizzazione spaziale sia funzionale alla riflessione che l’opera in
questione suggerisce: l’ ordine e la
distinzione con cui “le cose” emergono dallo sfondo uniforme tendono a proporle
come oggettualità esemplari a cui la mente sembra essere spontaneamente e denotativamente ricondotta, se non fosse
per l’indicazione metodologica
appuntata ai piedi dell’immagine.
Cosa significa
tutto questo? Magritte pare qui voler proporre una riflessione sullo stesso
concetto di rappresentazione che contrasta profondamente con quella avanzata da
Nelson Goodman, contemporaneo di Magritte, in I Linguaggi dell’Arte; per
Goodman
Lo spazio pittorico si fa qui, più che
mai, spazio teorico che snoda e
costruisce la sua possibilità di risonanza nell’ organizzazione cromatica,
dimensionale e spaziale degli oggetti rappresentati, racchiudendo la sua
capacità di collaborazione con lo spettatore entro la riflessione che l’immagine
nel suo complesso induce.
Siamo giunti
ora all’ultima modalità di travestimento spaziale previsto: è bene precisare
che la pittura in trompe l’oeil,
all’interno della storia figurativa non solo occidentale, è stata investita da
molteplici significati d’ordine sacrale, religioso e via dicendo. Questo sfondo
di tradizioni è funzionale al nostro discorso solo in modo superficiale: non ci
addentreremo dunque in un’indagine genetica approfondita poiché ciò su cui è
utile si soffermi la nostra attenzione
è quanto sta alla base di ogni possibile percorso interpretativo, ovvero l’
inganno percettivo del fenomeno.
2.2.1 – La
maschera cripto - illusoria
E’ essenziale,
tuttavia, soffermarci un poco su una sfumatura di carattere storico:
originariamente la pittura
parietale
aveva una funzione prettamente sacrale,si pensi ad esempio alle decorazioni
egiziane che univano in se scopi estetici e mistici (5).Questa connotazione passò successivamente in secondo piano quando i
pittori murali greci e romani, ispirati dalla pittura egizia,
|
“La stanza del cielo” a Burghley
House, A. Verrio, 1695/96 |
Non che gli
stratagemmi prospettici rinascimentali sottendano a se unicamente motivi
estetici, tutt’altro, ma sicuramente in questo periodo l’illusione creata dalla
pittura in trompe l’oeil viene
ampiamente sfruttata in senso decorativo (cosa che avviene ancor oggi).
E Magritte?
Come leggere la lunga serie di
finestre dipinte, di quadri nei quadri, di camini, sporti e simili?
Il senso decorativo, per me non esiste. Non dipingo:
utilizzo oggetti che hanno l’apparenza di quadri, perché il caso ha fatto si
che questa forma espressiva convenisse meglio ai miei sensi.
E’ abbastanza
chiaro. Come può ben essere intuito, non è la dimensione estetica ad
interessare l’artista.
Il tono di
Magritte che pare essere così duro e radicale è ben giustificato se si prova a
cogliere la profonda differenza racchiusa entro le due diverse prospettive
(quella estetica e quella teorica): se Magritte si accontentasse di un
soddisfacimento sensibile tutti i percorsi di senso a cui la sua opera
naturalmente tende, collasserebbero nell’impossibilità dialogica imposta dalla
gabbia di imposizioni convenzionali, di rimandi denotativi, a cui
necessariamente la rappresentazione sarebbe costretta. Detto in altro modo: se
il significato dell’immagine illusoria riposasse sull’illusione stessa, allora
ciò che la raffigurazione propone sarebbe una parvenza di oggetto che ha
nell’oggetto reale il suo senso proprio. Tutto questo entra davvero in
contraddizione con ciò che abbiamo detto fino a questo punto ed anche con
quanto viene più volte sostenuto da Magritte
L’illusione
non è dunque la meta di un percorso,
quanto piuttosto il principio di
considerazioni concettuali: la strategia pittorica attraverso cui il pittore
chiama in causa lo spettatore ed il coinvolgimento pratico ad essa conseguente
sono l’occasione da cui prende vita il processo di costruzione narrativa che
poi si svolge nel silenzioso dialogo tra osservatore e dipinto.
Quanto abbiamo
qui sostenuto è sorretto dalla presenza di elementi ed accadimenti interni alla
scena pittorica che colgono di sorpresa le nostre attese percettive: le tele dipinte bucano le pareti
e le immagini in esse rappresentate perforano il supporto materiale della tela
per mettere in comunicazione due realtà assolutamente identiche, e come tali,
difficilmente distinguibili. Sui frammenti di vetro caduti a terra sono
ben visibili i pezzi che ricompongono il puzzle della
rappresentazione. Il quadro-finestra è affacciato su un mondo che si propone
come esatto duplicato della rappresentazione.
Questi indizi
inaspettati contribuiscono a condurre l’approccio di chi fruisce fuori dalla
staticità di una semplice assunzione
visiva verso i fertili campi della riflessione, dell’elaborazione, della
ricerca di un senso nascosto; come, del resto, non cogliere la forte ironia che
echeggia nel particolare uso che Magritte fa della pittura in trompe l’oeil! Un’
ironia che si coniuga con l’impostazione spaziale e risuona fra il coinvolgimento dato dalla costruzione
prospettica, che chiama in causa lo spettatore, e l’enigmatica distanza, che lo tiene lontano rendendolo in tal modo
un osservatore partecipe (6) .La traduzione ironica dell’identico, per meglio dire, l’ ironia
dell’enigma, è qui un concetto chiave che modella e modifica la concezione
rinascimentale
|
|
R. Magritte, In elogio alla dialettica, 1936 |
R. Magritte, Territorio di
Arnheim, 1949 |
Ma hanno
davvero senso tutte queste preoccupazioni? Nell’opera di Magritte c’è davvero
spazio per questa seconda coordinata ? sembrerebbe di no. Se osserviamo anche solo
i dipinti di cui sin’ora ci siamo occupati non troviamo spazio per ciò che
potremmo definire un tempo narrativo,
che si giochi in sostanza tra un prima
ed un poi; al limite è possibile
parlare di un tempo congelato, privo
in se di decorsi percettivi coglibili intuitivamente. Tutto è sospeso in un presente assente, in un istante esemplare.
E’ davvero
impossibile narrare un presente assente? Non esiste in Magritte una qualche
strategia pittorica attraverso cui dare il senso di decorso, creando in tal
modo un prima e un poi pur sempre entro l’esemplarità
dell’istante presentato?
Per quanto
riguarda la prima domanda, tenderei a dare una risposta negativa in parte già
argomentata trattando la maschera relazionale dello spazio; tuttavia una
qualche aggiunta potrebbe essere ragionevole. Se pensiamo ai titoli che
Magritte assegna alle sue opere, notiamo che tutti, dal primo all’ultimo,
rappresentano una sorta di segnaletica concettuale che permette di orientare il
nostro sguardo visivo e mentale entro il dipinto, in altre parole
contribuiscono ad argomentare, a
spiegare gli obbiettivi intrinseci
alla rappresentazione stessa. Questa possibilità dialogica meta - iconica
scosta l’asetticità narrativa altrimenti propria del dipinto, prendendo per
mano chi osserva e conducendolo dove non è più possibile perdersi,ovvero oltre
la staticità della scena : si fa qui strada una narrazione sui generis che si disegna attorno ad essa proprio come una cornice di senso.
Quanto in
merito alla seconda questione? Guardiamo queste immagini
|
|
“Golconde”,R.
Magritte, 1953 |
“Il
capolavoro del mistero dell’orizzonte”,R. Magritte, 1955 |
oppure queste
|
|
Parte di “Sonagli rosa, brandelli di nuvole”, R. Magritte, 1929/30 |
“Il telescopio” ,R. Magritte, 1963 |
Mentre nelle
due immagini di sinistra vi è una situazione di attesa incolmabile (nel caso di
“Golconde”) o di stasi (nel caso di “Sonagli rosa, Brandelli di nuvole”), nelle
due immagini poste a destra , a mio avviso, compaiono due diverse strategie
pittoriche in grado di sollecitare, in un caso attraverso una forma di distasia
temporale, nell’altro grazie ad una mancanza di continuità spaziale resa
prospetticamente, le nostre aspettative percettive, impedendo a chi osserva di
chiudere in una mera sintesi spaziale la situazione pittorica: spazio e tempo
si coniugano dunque in una sintesi unitaria, anche quando quest’ultima pare
essere davvero impossibile.
Riassumendo (Questa sorta di classificazione
che accompagna quella proposta precedentemente sullo spazio, lo ricordiamo, non
è il modo di lettura di questioni
sicuramente molto intricate, ma semplicemente un tentativo possibile: è bene
quindi sottolinearne tutta la discutibilità)
Tempo ( = Istante esemplare ) |
FORME DI
TEMPO |
STRATEGIE DI
RAPPRESENTAZIONE |
®
Narrativo (da un prima ad un poi) |
® Sollecitazione di attese percettive (distasia, percezione
di una mancanza) |
|
®
Congelato (ora) -Narrazione sui generis- |
®
Sollecitazione di un dialogo meta –
iconico (titolo) |
Siamo giunti dunque alla conclusione del nostro percorso
teorico e tuttavia qualcosa deve essere ancora detta: considerandone le tappe
appare chiaro come tutte le tre modalità di travestimento spaziale siano
essenzialmente l’occasione iniziale di una riflessione che cresce e si sviluppa
certamente sull’opera d’arte ma che conduce oltre; non vi è una risonanza continua, un continuo chiamare in causa lo
spettatore (come succedeva, abbiamo detto, nei dipinti rinascimentali) quanto
piuttosto il crearsi di una compenetrazione teorica che si snoda allontanandosi
sempre più dal supporto visivo. Ciò non significa istituire un profondo divario
tra le due dimensioni, ovvero tra ciò che è presentato o esibito (le cose) e
ciò che rappresentato o mediato (il
senso): la dimensione concettuale, la kantiana Vorstellung , vive e cresce sul concreto darsi dell’immagine,
l’altrimenti detta Darstellung ,
procedendo un passo oltre la venustas
parietum verso quella dimensione ecfrastica che in Magritte si identifica
con la narrazione esemplare di un senso.
La verità di Magritte è certo tutta nella presenza dei
suoi enigmi e del suo tratto, lo sfondo mistico è davvero poca cosa: ma la tematizzazione di questa verità risiede
nella riflessione, nella possibilità di andare un poco oltre ricordando che il
senso del mondo non si riduce alla sua contingenza.
Seminario di filosofia dell'immagine
Le parole della
filosofia, III, 2003
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