Le parole della filosofia, V, 2003

Seminario di filosofia dell'immagine


Le maschere allusive dello spazio pittorico: presentazione e rappresentazione in Magritte

 

- Marta Perego -


1 –  Approccio metodologico

 

Nel 1924 Andrè Breton pubblica il primo Manifesto del Surrealismo in cui definisce il movimento come un “ Automatismo psichico puro mediante il quale ci si propone di esprimere sia verbalmente, sia per scritto o in altri modi, il funzionamento reale del pensiero; è il dettato del pensiero con assenza di ogni controllo esercitato dalla ragione, al di là di ogni preoccupazione estetica e morale”. L’iniziativa di Breton e del surrealismo ebbe una notevole importanza : essa portò a pieno sviluppo alcuni degli esperimenti formali delle avanguardie storiche, come le parole in libertà del futurismo e i giochi linguistici del dada; sfruttando le scoperte di Freud e della psicoanalisi, estese le sue ricerche nei territori poco esplorati della vita psichica e mentale ( in particolare in quelli del sogno e dell’inconscio, delle tecniche dell’associazione e dell’analogia, della scrittura automatica e dell’umorismo); cercò di gettare un ponte tra i valori e le esigenze dei gruppi d’avanguardia e quelli delle classi sociali, fra esperienza estetica ed espressione politica, superando così quella frattura storica che vedeva contrapposte avanguardie artistiche e avanguardie politiche.

Renè Francois Ghislain Magritte entrò in contatto con tutto questo innanzitutto nel 1925, anno in cui venne a conoscenza dei dipinti di De Chirico, incontro rivelatorio che determinò l’adesione, da parte dell’artista belga, al Surrealismo di cui lo stesso André Breton riconosceva in De Chirico il precursore, e  nel 1927, quando strinse amicizia con Breton per poi, già nel 1930, lasciare il gruppo francese a causa di diverbi teorici con l’ iniziatore del movimento. Potremmo allora forse accennare ancora al suo successivo soggiorno belga, alla fuga a seguito dell’offensiva nazista iniziata il 10 Maggio 1940, all’influenza che le sue vicende biografiche determinarono sulla sua produzione artistica , ma non lo faremo. Renè Magritte non amava le biografie: andava dicendo che l’opera di un artista deve smentire la sua vita, deve farla mentire e che non vi sono ricordi migliori di quelli inventati.

Sebbene quanto sinora esposto rappresenti senz’ombra di dubbio parte integrante e costitutiva dell’opera magrittiana, non vestirà nel nostro approccio alcun ruolo primario :non interessa, in questo luogo, sapere cosa traspaia dell’intimo del nostro artista all’interno dei singoli dipinti, non interessa disquisire o speculare su arbitrarie ipotesi psicologistiche. Dichiara Magritte in un’intervista:

Certo, ci sono cose che non si dimenticano, cose che segnano la vita ma non nel senso che lei crede.Io  non credo né alla psicologia, né alla volontà, che è una facoltà immaginaria […]. La psicologia si occupa di falsi misteri. Non si può dire se la morte di mia madre abbia avuto un’influenza o meno

 Quella di Magritte è un’arte di pensare che riscatta il ruolo conoscitivo della visione mettendo nel contempo in discussione il mondo che osserva; la pittura diviene in tal modo un mezzo indispensabile per far sì che l’intelligenza non sia messa in scacco dalle convenzioni, che essa dunque non riposi su qualche cosa di già stabilito, per trasformarsi invece in uno strumento capace di sollecitare la nostra libertà riflessiva: il travestimento dello spazio creativo è senza dubbio uno degli stratagemmi artistici attraverso cui questa posizione teorica viene proposta allo spettatore dell’opera magrittiana.

Nella conferenza tenuta all’ Académie Picard l’11 dicembre 1959, Magritte afferma:

La pittura viene correttamente chiamata: un’arte della somiglianza. Il linguaggio corrente parla di “immagine dipinta” per denotare la somiglianza. Per vederci un po’ più chiaro, conviene distinguere fra somiglianza e similitudine. Da un lato: la somiglianza appartiene solo al pensiero; e dall’altra parte: un’immagine dipinta ha similitudini possibili solo con aspetti del mondo visibile. […]. L’arte di dipingere consiste nello stendere su una superficie dei colori, in modo che l’aspetto dei colori coincida con le figure riunite nella spazialità del mondo. Questa coincidenza, che risulta dalla descrizione del mondo visibile, si chiama immagine dipinta!

Noi vorremmo, per così dire, raccogliere l’invito che l’artista sembra rivolgere tra queste righe: se la sua arte si avvale innanzitutto di un approccio descrittivo (senza però volersi adagiare su di esso), allo stesso modo il nostro studio imboccherà il sentiero dell’approccio fenomenologico, tentando in tal modo di leggere la produzione magrittiana entro i confini teoretici tracciati da Magritte stesso.

 

2 – Un’ indagine morfologica dello spazio pittorico  

 

Potremmo ora allontanarci da queste premesse di carattere metodologico per procedere un passo oltre. Se volgessimo il nostro sguardo indagatore verso il percorso artistico intrapreso da Magritte, ci accorgeremmo che è possibile classificare le sue opere

R.Magritte, Valori Personali, 1953

 principalmente in tre modi: quelle in cui vengono rappresentati diversi oggetti (1) de – contestualizzati, privi apparentemente di una qualsiasi inter - relazione logica oppure deformati (è questo l’insieme chiamato anche Tradimento delle immagini, si pensi ad esempio all’opera “Valori Personali” del 1953), quelle in cui la tela diventa una sorta di pagina di quaderno su cui prende avvio una riflessione sulla quotidiana esperienza di curiosi quanto inavvertibili equivoci dovuti alle convenzioni (ad esempio, “L’Uso della Paorola I” del 1928/29) ): concettualmente si tratta di un’amplificazione della problematica sottesa al primo gruppo di immagini, e quelle in cui si possono scorgere finestre, porte, camini

e cornici in trompe l’oeil  (si pensi all’ opera “La Condizione Umana” del 1933. Ne è forse presente un quarto in cui le prime due possibilità confluiscono l’una nell’altra ( vi  sono quindi soprattutto cornici affiancate ad oggetti imprevisti in contesti improbabili. “La Bella Prigioniera” del 1947 ne è un esempio)

che comunque, per ciò che richiede il nostro percorso, è possibile far sfumare entro la prima parte della classificazione proposta.

Quanto sin qui affermato sembra però smentire il nostro punto d’avvio: in altre parole l’assunzione secondo cui l’immagine dipinta in Magritte si ponga come descrizione del mondo visibile. Più che una riproposizione dell’empirico questo sembra essere il mondo dell’enigmatico, della sorpresa! Ma di una riproposizione, infatti, non si tratta; potremmo allora arricchire quanto precedentemente detto aggiungendo che  l’immagine dipinta è una descrizione esatta nella misura in cui essa ha rapporti di similitudine con gli aspetti del mondo visibile.

R.Magritte, L’uso della parola I, 1928/29

R.Magritte, La bella prigioniera, 1947

 

Afferma Magritte (2)

L’immagine dipinta è da un lato: la descrizione del mondo visibile modificato da una maniera di pensare; ovvero, d’altra parte, l’immagine dipinta è la descrizione del mondo visibile compreso in modo spontaneo.In nessun caso si deve confondere l’immagine dipinta con la cosa rappresentata: l’immagine pittorica di una fetta di pane imburrata non è sicuramente una fetta di pane imburrata, né una fetta finta.

Il pericolo è sfatato ed il nostro presupposto fatto salvo: l’esperienza è senza dubbio la radice di una riflessione pittorica che si stende oltre,facendo trasparire nel suo darsi l’originarietà esperienziale ma più che di riproponimento, sembra essere lecito parlare di elaborazione metamorfica (teorica e formale) dell’empirico di cui il pensiero si propone davvero come primo artefice.

E’ breve la strada che conduce da queste considerazioni ad un discorso più sistematico e specifico sullo spazio pittorico. Possiamo allora forse ricondurre la nostra precedente categorizzazione ad una più specificatamente legata al modo di darsi della spazialità nella rappresentazione: la prima classe proposta diviene ora l’ambito in cui lo spazio emerge come condizione di possibilità dell’ oggettivazione dei nessi relazionali che produce enigma e sorpresa, la seconda classe invece diviene l’ambito in cui lo spazio si fa pagina, luogo di annotazioni paradossali, mentre la terza classe diviene l’ambito in cui lo spazio emerge come luogo di quasi – menzogna, di bugia consapevole ed ironica. Ci soffermeremo nei paragrafi successivi in modo abbastanza diffuso su questo schema approssimativo: per ora limitiamoci a rilevare come la pittura di Magritte sia una pittura che fa dello spazio pittorico, in un modo o nell’altro, il suo primo motore significante entro cui si diramano i sottili e molteplici fili della possibilità riflessiva e interpretativa.

Riassumendo:     

 

 

CLASSIFICAZIONE

DI IMMAGINI

 

CLASSIFICAZIONE

SPAZIALE

 

 

1)  Trahison Des Images            ®          Maschera Relazionale

                                                  ®          Maschera Didattica

 

 

 

2)  Trompe L’œil                        ®           Maschera

                                                                Cripto - Illusoria

 

 

NOTA: E’ abbastanza rischioso svolgere un discorso simile a quello a cui ci stiamo approssimando poiché vi è sempre il pericolo di cadere in assunzioni fuorvianti o arbitrarie. Le parole che Magritte ci ha lasciato sono spesso poco esaustive e si pongono, al limite, come possibile terreno di conferma, ma non di costruzione teorica: non resta quindi che lavorare su quanto disponiamo, procedendo per esempi, recuperando le varie reti teoriche fin’ora tracciate ed osservando più nel dettaglio le possibili considerazioni ad esse sottese.

 

2.1 – Trahison des images

 

Le prime due modalità di travestimento spaziale individuate caratterizzano, come indicato nello schema riassuntivo, il gruppo di immagini che abbiamo chiamato Trahison des images: ma in quale senso parlare qui di “tradimento”? Non sarebbe troppo azzardato rilevare come la significanza di questo gruppo di rappresentazioni risieda in strategie concettuali molto particolari: principalmente l’artista dipinge intendendo altro… ma c’è di più; l’istintuale rimando denotativo, chiamato dall’assenza di un libero e spontaneo filo narrativo, è la trappola  in cui lo spettatore deve cadere per poi constatarne l’insensatezza, ed è proprio questo senso di smarrimento il punto d’avvio verso una riflessione volta a ricostruire la mancanza concettuale.

Consideriamo ora in particolare la specificità di ogni classificazione spaziale:

 

2.1.1 – La maschera relazionale

 

Il mondo rappresentazionale di Magritte è in larga parte abitato da figure ed oggetti di cui si può sensatamente dire che diventino “contenuto” effettivo solo nelle relazione specifica che viene a stabilirsi fra essi entro l’ambito di significanza (lo spazio pittorico) a loro disposizione. La logica dominante è quindi quella della semantica relazionale, posizione che pertanto esclude semplicistiche operazioni di automatismo psicologico, nel senso usato da Breton: la relazione deve essere sempre pensata e poi costruita. Si pone così quello specifico atto di creazione dei contenuti – relazione, che è una scelta, anziché di normali e superficiali rapporti naturali fra le cose, di rapporti associativi inattesi e sconosciuti. La relazione, in quanto pensata, ha una chiarezza logico – razionale, che viene tuttavia occultata per effetto dell’eccezionalità del rapporto stesso e che  rivela nella frattura fra pensiero (che ha prodotto la relazione) e il contrasto delle cose stesse (che si danno nella relazione) il mistero del visibile. Scrive Magritte:

L’ordine in cui stanno riunite le figure rappresentate può essere un ordine fortuito o ragionato, determinato da una maniera di pensare. Per esempio: il corpo umano e un cavallo vengono riuniti in un ordine familiare (un uomo sopra un cavallo); in un ordine straniante o suscettibile di diventare familiare: il centauro; oppure, nell’ordine parodistico che consente ogni bizzarria: un centauro in mutande da bagno

Ciò che si viene a creare è, in tal modo, l’oggettualità della relazione: gli oggetti dipinti trovano, in seguito allo scontro dei loro rispettivi sensi più o meno palesati, una sintesi unitaria, enigmatica, sorprendente. Ma quanto appena detto richiede una precisazione: gli oggetti in quanto tali narrano poco! Chiamano a se ambiti di significanza nel momento in cui vi è un soggetto percipiente esterno alla scena in grado di riconoscere ed interpretare (3). Importa ora rilevare come nelle opere magrittiane, i significati non siano determinati nella fredda staticità del loro tratto, ma piuttosto si modellino e prendano forma entro il gioco dialogico che si organizza di fronte e grazie allo spettatore: è proprio questo sistema di relazioni a costituire il vero materiale figurativo.

Non è possibile quindi parlare di una dialogicità autonoma interna allo spazio creativo: non vi è uno spettacolo che mi si dà, non vi è una finestra spalancata su un mondo in cui già vi è un immediato  percorso narrativo: l’unico percorso di senso di cui sembra essere legittimo parlare è quello che io,spettatore coinvolto, posso costruire e di cui il momento della sorpresa e dello spaesamento costituiscono il punto d’avvio.

Lo spazio pittorico in quest’occasione diviene, dunque, la condizione di possibilità della comprensione che sempre, in Magritte, va di pari passo con un approccio riflessivo: più che di un’eco spaziale vera e propria, il “posto” dello spettatore sembra essere pervaso da quelle risonanze teoriche che lo spazio pittorico permette di strutturare e di costruire. E’ chiaro che, in questo luogo, il significato di “risonanza dello spazio pittorico” assume sensi diversi  rispetto al significato che il concetto poteva assumere in una qualsiasi delle tante pitture prospettiche rinascimentali:  l’organizzazione geometrica dello spazio (che nel Rinascimento si poneva, tra l’altro, come piacevole invito ad “entrare” nella rappresentazione)  non si presenta, almeno per il gruppo di immagini che stiamo considerando, come mezzo di coinvolgimento, la compartecipazione materiale è, in un certo senso, appositamente evitata, come a dire : “qui c’è il quadro”, “li c’è lo spettatore”, il cui compito non è quello di fondersi con la rappresentazione ma rimanerne distaccato per poter meglio comprendere. Scrive l’ Alberti

Qui solo, lassato l’altre cose, dirò quello fo io quando dipingo. Principio, dove io debbo dipingere scrivo un quadrangolo di retti angoli quanto grande io voglio, el quale reputo essere una finestra aperta sul mondo per donde io miri quello che quivi sarà dipinto

Tutto ciò si affianca ad un concreto essere nel mondo del varco: come tale prevede intuitivamente il solo movimento che dal “fuori” conduce al “dentro”, che appunto consente allo spettatore di entrare, quasi materialmente, in una pagina di mondo. Non troviamo tutto questo in Magritte, non vi è alcun supporto pittorico che indichi un simile percorso intra-immaginativo; lo spazio si fa teoria, si fa riflessione, si fa percorso concettuale che dal tratto porta al pensiero.

 

2.1.2 – La maschera didattica

 

Nel 1960 lo psicologo sperimentale americano J. Gibson  nell’opera “Immagini, Prospettiva e Percezione” avanza l’ipotesi che la percezione di un’immagine non sia tanto una percezione particolare quanto piuttosto la percezione di un oggetto particolare che restituisca, per la strutturazione della sua configurazione piana, lo stesso assetto ottico che riprodurrebbe l’oggetto rappresentato (4). Una rappresentazione deve contenere in se tutte le informazioni perché l’occhio possa cogliere una certa configurazione: in altre parole ciò significa che ogni cosa ci si rappresenta sotto un aspetto particolare, ci si svela a partire da un punto di vista particolare e se ciò venisse meno l’immagine, a parere di Gibson, non sarebbe più definibile tale. Ma è vero che ogni immagine è la riproposizione tendenzialmente prospettica di un aspetto? La risposta che tenderemmo a dare è negativa e il lavoro di Magritte potrebbe esserne un esempio. Sarebbe forse sensato sostenere che in realtà anche la gran parte dei suoi dipinti  venga proposta allo spettatore sotto una particolare angolazione( in specifico, di profilo ) e che quindi sempre di aspettualità si tratta? Forse no… non più di quanto lo si potrebbe sostenere per il disegno di un bambino; entrambi i casi non sembrano proporre un aspetto particolare ma piuttosto rispondere ad una logica percettiva perfetta riconducibile più che ad una scelta  figurativa, ad una visualizzazione esemplare attraverso cui le cose non si mostrano secondo un determinato punto di vista ma piuttosto parlano della loro oggettività. L’impostazione percettiva di un oggetto dipinto accompagna un particolare ambito di significanza racchiuso all’interno del suo darsi in modo esemplare ed è proprio questa la strategia pittorico / concettuale sottesa, in  specifico, alla maschera didattica dello spazio caratteristica della seconda classificazione individuata .

Alla domanda “Che cos’è questo?” la mancanza di aspettualità rende insensate risposte come “è una forma”, “ è un particolare colore”, e via dicendo poiché l’esemplarità della figura non lascia spazio a incertezze: “è una pipa!”, conclusione che poi si scontra con la didascalia posta ai piedi della tela e che conduce ad un vero e proprio scacco teorico. Vediamo ora in cosa esso consista.    

Partendo dalla convinzione che il linguaggio abitualmente impiegato per descrivere la realtà, non possa in effetti che dare luogo ad infiniti fraintendimenti ( poiché si fonda su convenzioni sprovviste di un qualsiasi grado di verità), Magritte decide di portare alla luce questo curioso quanto inavvertibile equivoco. Da pittore,

Rene Magritte: Key to Dreams (1935)

“La chiave dei sogni”, R.Magritte, 1930

egli si esprime attraverso immagini quanto più possibile esplicite: tanto più esse saranno riconoscibili quanto più sarà evidente la loro intrinseca insufficienza rappresentativa.  Per sottolineare la frattura profonda tra la figurazione del visibile e la sfera dell’oggettualità, Magritte aggiunge didascalie esplicative, spesso in un corsivo molto scolastico, ricollegandosi forse a quelle tavolette che spesso ci sono capitate tra le mani da bambini agli inizi della nostra carriera scolastica quando, per cominciare ad avere dimestichezza con le lettere dell’alfabeto, guardavamo un’immagine nota il cui nome iniziava con la lettera da imparare a leggere e scrivere. Ma la spiegazione di Magritte contrasta decisamente con tale impostazione didattica e anzi, sfruttandone forme e metodo, afferma decisamente il contrario di ciò che ognuno pensa guardando quella determinata immagine dipinta. Vediamo quindi come, ancora una volta, la strategia dell’organizzazione spaziale sia funzionale alla riflessione che l’opera in questione suggerisce:  l’ ordine e la distinzione con cui “le cose” emergono dallo sfondo uniforme tendono a proporle come oggettualità esemplari a cui la mente sembra essere spontaneamente e denotativamente ricondotta, se non fosse per l’indicazione metodologica appuntata ai piedi dell’immagine.

Cosa significa tutto questo? Magritte pare qui voler proporre una riflessione sullo stesso concetto di rappresentazione che contrasta profondamente con quella avanzata da Nelson Goodman, contemporaneo di Magritte, in I Linguaggi dell’Arte; per Goodman, la denotazione è il nocciolo della rappresentazione. Non potremmo essere più lontani: il senso di ciò che è dipinto risiede nello scambio tra immagine e osservatore, più precisamente, nella riflessione che dal supporto visivo si allontana, seguendone le direttive teoriche ed allusive; ma il possibile percorso dialogico e le sue argomentazioni, va sottolineato, sono già tutti compresi nella raffigurazione stessa e non richiedono ulteriori supporti semantici. Un’immagine, in breve, basta a se stessa.  

Lo spazio pittorico si fa qui, più che mai, spazio teorico che  snoda e costruisce la sua possibilità di risonanza nell’ organizzazione cromatica, dimensionale e spaziale degli oggetti rappresentati, racchiudendo la sua capacità di collaborazione con lo spettatore entro la riflessione che l’immagine nel suo complesso induce.  

2.2 – Trompe l’oeil

   

Siamo giunti ora all’ultima modalità di travestimento spaziale previsto: è bene precisare che la pittura in trompe l’oeil, all’interno della storia figurativa non solo occidentale, è stata investita da molteplici significati d’ordine sacrale, religioso e via dicendo. Questo sfondo di tradizioni è funzionale al nostro discorso solo in modo superficiale: non ci addentreremo dunque in un’indagine genetica approfondita poiché ciò su cui è utile  si soffermi la nostra attenzione è quanto sta alla base di ogni possibile percorso interpretativo, ovvero l’ inganno percettivo del fenomeno.

   

2.2.1 – La maschera cripto - illusoria

 

E’ essenziale, tuttavia, soffermarci un poco su una sfumatura di carattere storico: originariamente la pittura

parietale aveva una funzione prettamente sacrale,si pensi ad esempio alle decorazioni egiziane che univano in se scopi estetici e mistici (5).Questa connotazione passò successivamente in secondo piano quando i pittori murali greci e romani, ispirati dalla pittura egizia, iniziarono ad esprimere il loro talento in schemi decorativi finalizzati piuttosto a stimolare e a divertire. Di conseguenza gli aspetti tecnici ignorati dagli egiziani furono esplorati sistematicamente e nel Rinascimento, quattordici secoli dopo, raggiunsero uno standard di sofisticatezza ineguagliato grazie a cui la prospettiva si fece strumento di sistematizzazione del mondo, quasi un tentativo di ordinare la natura visibile: assistiamo dunque ad uno spostamento di significato considerevole che conduce dal sacro al decorativo.

“La stanza del cielo” a Burghley House, A. Verrio, 1695/96

Non che gli stratagemmi prospettici rinascimentali sottendano a se unicamente motivi estetici, tutt’altro, ma sicuramente in questo periodo l’illusione creata dalla pittura in trompe l’oeil  viene ampiamente sfruttata in senso decorativo (cosa che avviene ancor oggi).

E Magritte? Come leggere la lunga serie di finestre dipinte, di quadri nei quadri, di camini, sporti e simili?

Il senso decorativo, per me non esiste. Non dipingo: utilizzo oggetti che hanno l’apparenza di quadri, perché il caso ha fatto si che questa forma espressiva convenisse meglio ai miei sensi.

E’ abbastanza chiaro. Come può ben essere intuito, non è la dimensione estetica ad interessare l’artista.

Il tono di Magritte che pare essere così duro e radicale è ben giustificato se si prova a cogliere la profonda differenza racchiusa entro le due diverse prospettive (quella estetica e quella teorica): se Magritte si accontentasse di un soddisfacimento sensibile tutti i percorsi di senso a cui la sua opera naturalmente tende, collasserebbero nell’impossibilità dialogica imposta dalla gabbia di imposizioni convenzionali, di rimandi denotativi, a cui necessariamente la rappresentazione sarebbe costretta. Detto in altro modo: se il significato dell’immagine illusoria riposasse sull’illusione stessa, allora ciò che la raffigurazione propone sarebbe una parvenza di oggetto che ha nell’oggetto reale il suo senso proprio. Tutto questo entra davvero in contraddizione con ciò che abbiamo detto fino a questo punto ed anche con quanto viene più volte sostenuto da Magritte

Quanto alla similitudine dell’immagine dipinta in trompe l’oeil essa può risultare solo da una scienza della pittura messa al servizio di una maniera di pensare .

L’illusione non è dunque la meta di un percorso, quanto piuttosto il principio di considerazioni concettuali: la strategia pittorica attraverso cui il pittore chiama in causa lo spettatore ed il coinvolgimento pratico ad essa conseguente sono l’occasione da cui prende vita il processo di costruzione narrativa che poi si svolge nel silenzioso dialogo tra osservatore e dipinto.

Quanto abbiamo qui sostenuto è sorretto dalla presenza di elementi ed accadimenti interni alla scena pittorica che colgono di sorpresa le nostre attese percettive: le tele dipinte bucano le pareti e le immagini in esse rappresentate perforano il supporto materiale della tela per mettere in comunicazione due realtà assolutamente identiche, e come tali, difficilmente distinguibili. Sui frammenti di vetro caduti a terra sono

ben visibili i pezzi che ricompongono il puzzle della rappresentazione. Il quadro-finestra è affacciato su un mondo che si propone come esatto duplicato della rappresentazione.

Questi indizi inaspettati contribuiscono a condurre l’approccio di chi fruisce fuori dalla staticità di una semplice assunzione visiva verso i fertili campi della riflessione, dell’elaborazione, della ricerca di un senso nascosto; come, del resto, non cogliere la forte ironia che echeggia nel particolare uso che Magritte fa della pittura in trompe l’oeil! Un’ ironia che si coniuga con l’impostazione spaziale e risuona fra il coinvolgimento dato dalla costruzione prospettica, che chiama in causa lo spettatore, e l’enigmatica distanza, che lo tiene lontano rendendolo in tal modo un osservatore partecipe (6) .La traduzione ironica dell’identico, per meglio dire, l’ ironia dell’enigma, è qui un concetto chiave che modella e modifica la concezione rinascimentale dell’Alberti per cui il quadro sarebbe una porta aperta sul mondo : la finestra albertiana si affaccia sull'esterno, quella magrittiana sull' interno facendo in tal modo di questo vago ossimoro figurativo (una finestra interna) l’emblema del rapporto interno/esterno, realtà/ rappresentazione, tema centrale nella riflessione pittorica di Magritte. La finestra dunque non ha più la funzione di porsi come catalizzatore nella definizione del genere pittorico del paesaggio, bensì diventa quella soglia ambigua attraverso cui il gioco della rappresentazione viene svelato come l'unico abitante di diritto del mondo delle immagini.

 

R. Magritte, In elogio alla dialettica, 1936

R. Magritte, Territorio di Arnheim, 1949

3 - Considerazioni critiche: la narrazione di un “pensiero in immagini”

 

Il discorso che abbiamo sin qui condotto si è per così dire concentrato su un aspetto particolare, ovvero il ruolo che lo spazio gioca entro la prospettiva pittorico – teorica di Magritte. Abbiamo tuttavia appositamente evitato di parlare in modo approfondito di “narrazione”, poiché ciò richiederebbe necessariamente l’analisi di un secondo orizzonte di senso, quello concernente il tempo e le strategie pittoriche connesse alla sua espressione figurativa. Sebbene non sia nostra intenzione svilupparne ora tutte le possibili sfumature di significato, qualcosa, per completezza, deve pur essere detta:  non è infatti possibile costruire un discorso sullo spazio senza parlare del tempo poiché ogni cosa è sempre esperienzialmente data e in uno e nell’altro. Va da se che ciò vale anche per le rappresentazioni pittoriche, in cui spazio e tempo divengono predicati intenzionali, vale a dire, caratteristiche fenomeniche (e non assolute) legate al mio percepire una certa cosa in un certo modo.

Ma hanno davvero senso tutte queste preoccupazioni? Nell’opera di Magritte c’è davvero spazio per questa seconda coordinata ? sembrerebbe di no. Se osserviamo anche solo i dipinti di cui sin’ora ci siamo occupati non troviamo spazio per ciò che potremmo definire un tempo narrativo, che si giochi in sostanza tra un prima ed un poi; al limite è possibile parlare di un tempo congelato, privo in se di decorsi percettivi coglibili intuitivamente. Tutto è sospeso in un presente assente, in un istante esemplare.

E’ davvero impossibile narrare un presente assente? Non esiste in Magritte una qualche strategia pittorica attraverso cui dare il senso di decorso, creando in tal modo un prima e un poi pur sempre entro l’esemplarità dell’istante presentato?

Per quanto riguarda la prima domanda, tenderei a dare una risposta negativa in parte già argomentata trattando la maschera relazionale dello spazio; tuttavia una qualche aggiunta potrebbe essere ragionevole. Se pensiamo ai titoli che Magritte assegna alle sue opere, notiamo che tutti, dal primo all’ultimo, rappresentano una sorta di segnaletica concettuale che permette di orientare il nostro sguardo visivo e mentale entro il dipinto, in altre parole contribuiscono ad argomentare, a spiegare gli obbiettivi intrinseci alla rappresentazione stessa. Questa possibilità dialogica meta - iconica scosta l’asetticità narrativa altrimenti propria del dipinto, prendendo per mano chi osserva e conducendolo dove non è più possibile perdersi,ovvero oltre la staticità della scena : si fa qui strada una narrazione sui generis che si disegna attorno ad essa proprio come una cornice di senso.

Quanto in merito alla seconda questione? Guardiamo queste immagini

 

“Golconde”,R. Magritte, 1953

“Il capolavoro del mistero dell’orizzonte”,R. Magritte, 1955

 

oppure queste

 

Parte di “Sonagli rosa, brandelli di nuvole”, R. Magritte, 1929/30

“Il telescopio” ,R. Magritte, 1963

 

 

Mentre nelle due immagini di sinistra vi è una situazione di attesa incolmabile (nel caso di “Golconde”) o di stasi (nel caso di “Sonagli rosa, Brandelli di nuvole”), nelle due immagini poste a destra , a mio avviso, compaiono due diverse strategie pittoriche in grado di sollecitare, in un caso attraverso una forma di distasia temporale, nell’altro grazie ad una mancanza di continuità spaziale resa prospetticamente, le nostre aspettative percettive, impedendo a chi osserva di chiudere in una mera sintesi spaziale la situazione pittorica: spazio e tempo si coniugano dunque in una sintesi unitaria, anche quando quest’ultima pare essere davvero impossibile.

Riassumendo (Questa sorta di classificazione che accompagna quella proposta precedentemente sullo spazio, lo ricordiamo, non è il modo di lettura di questioni sicuramente molto intricate, ma semplicemente un tentativo possibile: è bene quindi sottolinearne tutta la discutibilità)

 

 

 

 

 

 

 

Tempo  ( = Istante esemplare )

 

 

 

 

FORME DI TEMPO

 

STRATEGIE DI RAPPRESENTAZIONE

 

® Narrativo (da un prima ad un poi)

     

 

 

® Sollecitazione di attese            percettive (distasia, percezione di una mancanza)

 

® Congelato (ora)

    -Narrazione sui generis-

 

 

® Sollecitazione di un dialogo    meta – iconico (titolo)

 

4 – Conclusioni

 

Siamo giunti dunque alla conclusione del nostro percorso teorico e tuttavia qualcosa deve essere ancora detta: considerandone le tappe appare chiaro come tutte le tre modalità di travestimento spaziale siano essenzialmente l’occasione iniziale di una riflessione che cresce e si sviluppa certamente sull’opera d’arte ma che conduce oltre;  non vi è una risonanza continua, un continuo chiamare in causa lo spettatore (come succedeva, abbiamo detto, nei dipinti rinascimentali) quanto piuttosto il crearsi di una compenetrazione teorica che si snoda allontanandosi sempre più dal supporto visivo. Ciò non significa istituire un profondo divario tra le due dimensioni, ovvero tra ciò che è presentato o esibito (le cose) e ciò che  rappresentato o mediato (il senso): la dimensione concettuale, la kantiana Vorstellung , vive e cresce sul concreto darsi dell’immagine, l’altrimenti detta Darstellung , procedendo un passo oltre la venustas parietum verso quella dimensione ecfrastica che in Magritte si identifica con la narrazione esemplare di un senso.

La verità di Magritte è certo tutta nella presenza dei suoi enigmi e del suo tratto, lo sfondo mistico è davvero poca cosa: ma la tematizzazione di questa verità risiede nella riflessione, nella possibilità di andare un poco oltre ricordando che il senso del mondo non si riduce alla sua contingenza. E quando R. Debray scrive che al filosofo, di fronte ad un’immagine, è proibita qualsiasi morale e che il suo compito è piuttosto quello di continuare a perorare la causa dell’invisibile, non è impossibile cogliere nel nostro pensiero una vaga eco magrittiana.

 

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Le parole della filosofia, III, 2003


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