Le parole della
filosofia, V, 2003
Seminario di filosofia
dell'immagine
— Marta Perego —
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Salvador Dalì, “Dalì all’età di sei anni …”,
1950. Scrive Aristotele (Metafisica, I, 2,
982b) "Gli uomini, sia nel nostro tempo che da principio, hanno
cominciato a filosofare a causa della meraviglia, poiché dapprincipio essi si
meravigliavano delle stranezze che erano a portata di mano, e in un secondo
momento, a poco a poco, procedendo in questo stesso modo, affrontarono
maggiori difficoltà, quali le affezioni della luna e del sole e delle stelle
e l'origine dell'universo" |
... all’inizio era la
Favola. E vi sarà sempre. |
- Paul Valéry - |
Nella cultura occidentale
lo specchio è sempre stato un simbolo ricorrente dell’immaginario letterario ed
iconografico 1: è
interlocutore del folle e del saggio, una presenza attraente e
inquietante. Rinvia al fascino ambiguo del doppio, della riproduzione fedele ed
illusoria quale immagine perfettamente
congruente ma priva di spessore: consola, aiuta, atterrisce e distrugge.
Eppure gli specchi, a
meno che non siano deformanti, si limitano a riflettere con perfetta congruenza
ciò che hanno di fronte! Da dove deriva dunque questa tradizionale tendenza ad
attribuire particolari sfumature funzionali e simboliche ad un oggetto
altrimenti statico ed inanimato? Cosa, per meglio dire, determina il passaggio
dal suo “essere utilitario” al suo
“essere simbolico”?
Prima di entrare nel
merito del nostro discorso, prima quindi di occuparci del ruolo che lo specchio
assume nelle fiabe, sembra essere utile una riflessione (che può sembrare solo
apparentemente scontata e banale) sulle caratteristiche intrinseche di questo
oggetto; le sue potenzialità empiriche, vedremo, contribuiscono
considerevolmente a renderlo intersoggettivamente riconoscibile (all’interno di
contesti fantastici, fiabeschi e poetici) come “adiuvante magico” 2
, come prodotto di potenzialità concrete, intermediario tra due mondi e modi
d’essere: l’essere “adiuvante” (ovvero l’essere oggetto utilitario dotato di
certe qualità materiali) e l’essere “magico” (ovvero l’essere oggetto simbolico
dotato di qualità inconsuete, in ogni caso strettamente dipendenti dalle
qualità materiali). Ma vediamo meglio.
L’uomo inventa
continuamente nuovi modi di utilizzo degli oggetti, siano essi naturali oppure
artificiali: così lo specchio, accanto all’applicazione originaria, ha trovato
impiego in strumenti quali il periscopio, il telescopio catottrico e via
dicendo. Analogamente si creano nuovi usi segnici (simbolici) dell’oggetto che
possono essere impliciti nelle sue stesse qualità materiali. Vi sono poi
oggetti che si prestano particolarmente a questo tipo di modificazione in particolare quelli dotati , per così
dire, di “proprietà filosofiche”, straordinariamente adatte a sollecitare
riflessioni oscillanti tra il mondo e la sua immagine, tra consueto ed
inconsueto; lo specchio si inserisce in modo indubbio in questa categoria di
oggetti. Proviamo ora a vedere come possa svilupparsi un simile procedimento.
Per definizione lo
specchio è uno strumento che genera una riproduzione precisa dell’aspetto
visibile di un qualsiasi altro oggetto (originale) e del suo movimento, qualora
questo “originale” si trovi in determinati rapporti spaziali con lo specchio e
con il punto di vista dell’osservatore; la copia e il suo movimento sono
spazialmente separati e sincronici rispetto all’ “originale”.Curiosa è la
definizione per cui l’immagine speculare sarebbe “ribaltata”, ovvero a
simmetria inversa rispetto ciò che riflette (sarebbe quindi equivalente ad un
fenomeno tipo camera oscura [fig. 1]): qualcuno ha suggerito che gli specchi
abbiano la virtù di scambiare la destra con la sinistra ma non l’alto con il
basso.La catottrica non autorizzerebbe certo questa conclusione: se, invece di
essere abituati a specchi verticali, praticassimo molto specchi posti
orizzontalmente sul soffitto, come usano i libertini, ci convinceremmo che gli
specchi ribaltano anche l’altro con il basso, mostrandoci un mondo a testa in
giù. Ma il punto è che nemmeno gli specchi verticali ribaltano o invertono. Lo
specchio riflette la destra dove c’è la destra , la sinistra dove c’è la
sinistra [fig. 2].
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Fig.1 |
Fig. 2 |
E’ l’osservatore che, per
immedesimazione, si figura d’ essere l’uomo dentro allo specchio: chi invece
eviti di comportarsi come Alice e non penetri dentro lo specchio, non soffrirà
di questa illusione.Il nostro cervello ha avuto milioni di anni per abituarsi a
capovolgere l’immagine retinica (che si presenta davvero ribaltata), in modo
tale che la riflessione critica per millenni non ha sospettato nulla di questo
fenomeno, ma ne ha avute poche migliaia per abituarsi all’immagine speculare. Pertanto
sul piano percettivo o motorio viene interpretata correttamente, ma sul piano
della riflessione concettuale non si riesce ancora del tutto a separare il
fenomeno fisico dalle illusioni che esso incoraggia, in una sorta di divario
tra percezione e giudizio: ne consegue che usiamo l’immagine speculare in modo
giusto ma ne parliamo in modo sbagliato.
Gli specchi sono
indubitabilmente dotati di curiose caratteristiche. Sino a che li si osserva,
restituiscono i tratti del volto specchiato: ma se inviassimo per posta a
qualcuno uno specchio in cui ci siamo lungamente specchiati, perché si
ricordasse delle nostre parvenze, esso non potrebbe vederci (e vedrebbe se
stesso). U. Eco nel suo saggio Sugli Specchi scrive
“ Può accadermi di
trovare un messaggio in una bottiglia, con sopra scritto "io sono
naufragato nell’arcipelago Juan Fernandez" e saprei pur sempre che un
altro (qualcuno che non sono io) è naufragato. Ma se trovo uno specchio nella
bottiglia, una volta che abbia compiuto il considerevole sforzo di tirarlo
fuori, vedrò sempre me stesso, chiunque lo abbia inviato come messaggio. Se lo
specchio "nomina" (ma chiaramente si tratta di una metafora) esso
nomina un solo oggetto concreto, ne nomina uno per volta, e nomina sempre e
solo l’oggetto che gli sta di fronte. In altre parole, qualunque cosa una
immagine speculare sia, essa è determinata, nelle sue origini e nella sua
sussistenza fisica, da un oggetto, che chiameremo il referente dell’immagine.”
Queste connotazioni
rappresentano per la letteratura fantastica un’invitante scorta di riflessione.
Parafrasando il breve passo riportato, potremmo dire che il riflesso mostra
quanto non direttamente percepito dal nostro sguardo entro una precisa
prospettiva: violatone il vincolo lo specchio può divenire prototipo di diversi
strumenti magici , dalle sfere di cristallo agli specchi incantati. Esso
riflette, dunque, tutto ciò che rientra nel suo “campo visivo” in modo
spontaneo, involontario, passivo, impenetrabile, impalpabile e silenzioso,
correlando l’immagine speculare al sogno, alle visioni, a mondi ultraterreni. Scorgiamo
la rappresentazione ma non possiamo toccarla, come se fossimo innanzi ad una
visione ingannevole e menzognera: il riflesso è identico all’originale e allo
stesso tempo ne differisce ricordando in tal modo il paradosso dell’identità,
contraddizione tra apparenza ed essenza. Lo specchio dà inoltre la possibilità
all’uomo di vedersi, di vedere il proprio volto ed i propri occhi, fornendo il
pretesto per un dialogo con se stesso: da ciò emerge il tema del doppio, appare
l’opposizione “guardare se stessi/guardare in se stessi”. Il guardare se stessi
dall’esterno implica poi diversi atteggiamenti, dal narcisismo fino al rifiuto
della propria immagine: l’immagine riflessa infatti, chiusa in sé, non
processuale, completamente prevedibile, crea una sorta di impasse, si oppone al
modo in cui l’uomo di norma percepisce il proprio io.
Sebbene in generale il
materiale di cui lo specchio è costituito venga spesso considerato come aspetto
secondario, in alcuni contesti esso diviene rilevante, in quanto generatore di
“potenzialità semiotiche” particolari: si veda il caso dello specchio
metallico, assimilabile ad uno scudo 3, o dello specchio di vetro
(caratterizzato dalla fragilità: quando si rompe, svanisce anche l’immagine in
esso riflessa- con le evidenti implicazioni che ne
conseguono) oppure dello specchio d’acqua, particolarmente ricco di
possibilità: si “rompe” facilmente, ma, a differenza dello specchio di vetro,
riacquista le sue proprietà riflettenti; possiede “profondità” , dunque un suo
specifico “oltre lo specchio”; è orizzontale, riflette il cielo e orienta il
mondo in relazione all’opposizione alto/basso, contaminando i membri di tale
opposizione.
Le implicazioni simboliche
derivano, abbiamo visto, dalla violazione dei singoli assiomi necessari a
definire l’identità di una superficie riflettente : la trasgressione, ad
esempio, dell’assioma della sincronicità tra immagine e originale conduce all’idea di specchio
capace di svelare il futuro, o nel quale si può scorgere il passato; altro tipo
di “specchio magico” è quello in cui viene meno il principio della cospazialità
tra originale e specchio ( in cui viene cioè riflesso ciò che non rientra
direttamente nel “campo visivo” della superficie); la violazione dei principi
di impalpabilità e silenziosità dell’immagine , nonché
della dipendenza dell’immagine dall’originale, genera l’idea di un
“doppio” autonomo e, più in generale di
un “oltre specchio” autonomo rispetto al nostro mondo, una sorta di “mondo
alternativo”; il ribaltamento apparente dell’opposizione destra/sinistra
(alto/basso) può implicare, inoltre, il ribaltamento di altre opposizioni
basilari che strutturano l’universo fisico e morale. Infine, la trasgressione
della impenetrabilità si connette senz’altro alla capacità di penetrare altri “mondi possibili”, interdipendenti tra
loro e fortemente interagenti con la nostra realtà.
H.Holbein, Lo
specchio come allegoria, per
l’Elogio della Pazzia di Erasmo
Dopo questa premessa
possiamo finalmente entrare nel merito del discorso, con qualche cognizione di
causa in più. Abbiamo tentato di mostrare, nella sezione precedente, quanto
“simbolico” ed “utilitario” siano aspetti compenetranti ed interdipendenti,
naturalmente 4 radicati nella nostra tradizione: possiamo ora
provare a spostarci da un piano principalmente teorico, quale è stato finora il
discorso, ad un livello più concreto, tentando di calare le nostre posizioni in
contesti più particolari e specifici.
Tratterò, dunque, delle
fiabe quali luoghi simbolici per eccellenza , all’interno delle quali molto
spesso strumenti di ordinaria quotidianità subiscono magiche metamorfosi
funzionali; in particolare mi occuperò, come già anticipato, del ruolo dello
specchio in esse. Procederò analizzandone gli aspetti che mi paiono essere
maggiormente frequenti nelle fiabe più note, senza concentrarmi in modo diretto
su tutte le sfumature toccate nella sezione precedente. Una precisazione: di
ogni fiaba esistono innumerevoli versioni; considererò dunque le stesure
originali, menzionandone di volta in volta l’autore.
Paul Valéry 1871-1945, “Narciso” |
Scrive Valéry (nel
frammento intitolato “Pneuma”): “Questo fenomeno ottico è una relazione
reciproca. Niente di più. C'è qualcosa d'altro, oltre me, se ci sono io, e
inversamente. […] Questo fogliame così sottile, che intriga i miei sguardi,
che si aggroviglia, e si imita e si diversifica quasi all'infinito sfidando
il mio pensiero - visibile e non immaginabile - non è mio. Tu mi stupisci,
dunque sei. Il reale è il mio equivalente. Noi siamo voi e io, della stessa
potenza quali noi si sia, e quali siano gli effetti che noi ci produciamo. Tu
hai un bel sorprendermi, io ho un bel contenerti, noi abbiamo sempre soltanto
la medesima realtà, lo stesso bisogno l'uno dell'altro”. Il “Narciso”, l’
“Angelo”, di Valéry è l’ inizio dell’uomo contemporaneo |
Non vi è dubbio che le
funzioni ordinarie degli specchi, sottendano a se possibilità comunicative fortemente
intransitive: tra “copia” ed “ originale” non prende forma alcun dialogo
dinamico, poiché il riflesso esaurisce in se ogni tipo di apporto informativo,
restituendo alla sorgente una quantità di “argomenti” non passibile d’ulteriori
“interventi”. Il punto di partenza coincide dunque con il punto d’arrivo: il
corpo conduce all’immagine, l’immagine al corpo.
Da questa caratterizzazione
“utilitaria”, è possibile risalire a
due atteggiamenti simbolici radicalmente distinti: da una parte si è stati
indotti ad esasperarne le conseguenze(vincolando in modo estremo l’ “originale”
al suo riflesso), dall’altro a violarne i già citati assiomi dell’impalpabilità
e della silenziosità innanzitutto, rendendo lo specchio un vero e proprio luogo
“più che” comunicativo, in cui corpo ed immagine godono di un’esistenza
autonoma ed indipendente.
Nel mito già citato di
Eco e Narciso, la valenza intransitiva dello specchio trova una delle sue
massime espressioni, traducendosi in un vero e proprio dramma: il dramma,
ovvero, dell’impossibilità comunicativa ed affettiva, imprigionata, consegnata,
racchiusa all’interno del singolo personaggio che tenta, invano, di realizzare
il proprio desiderio.
S. Dalì,”La Metamorfosi
di Narciso”, 1937 |
Quest’ opera gioca
sulla stereoscopia di due forme: il corpo del mitico Narciso, piegato su di
sé, e a destra- con gli stessi tratti - una mano che tiene un bulbo di
narciso. Alla luce calda del primo corrisponde quella fredda del secondo, che
indica l'avvenuta pietrificazione. Narciso si curva sull'acqua (il tempo) e
sogna la forma perduta, ovvero
l'eterno ritorno. La vita di Narciso è una vita di bellezza e la sua
esistenza è contemplazione |
Narciso fissa il suo viso
in uno specchio d’acqua, dissolvendo nel riflesso, meta irraggiungibile, la
consapevolezza della propria identità. Si osserva, si contempla, cogliendo nel
conflitto identità/alterità, identico/diverso, un terribile senso di privazione
e sconforto: lo sguardo colpisce l’immagine, dall’immagine ritorna. Non vi è
scambio ed interazione dinamica poichè il personaggio si perde
nell’univocità del suo riflesso.
Come corrispondenza di
carattere simmetrico Eco, pura alterità, smarrisce il proprio sé
nell’eteronomia della sua espressione, nel suo non potersi esprimere
autonomamente ma solo come riflesso dell’espressione altrui. La differenza tra
i due mondi è solo apparente, le loro logiche interne non sono poi così
distanti. Narciso desidererebbe comunicare con il suo riflesso, Eco usa una
sorta di “riflesso” (vocale) per comunicare: il risultato comune è che entrambi
non possono esprimersi; il loro tentativo cozza contro l’ impasse, la non
processualità, l’intransitività delle loro immagini.
Ma perché Narciso non può
amarsi, al di là delle difficoltà materiali in cui incorre la sua passione? Perché egli non solo non
condivide, ma non può condividere i sentimenti di Eco? Per rispondere a questi
quesiti possiamo avvalerci dell’aiuto di Italo Calvino che, a mio parere,
fornisce un considerevole contributo alla formulazione di una possibile
risposta. Vediamo ora in quale modo. Nell’opera Le Città Invisibili l’autore
parla della città speculare di Valdrada, una tra le tante città fantastiche
inventate:
Gli
antichi costruirono Valdrada sulle rive di un lago con case, tutte verande una
sopra l'altra e vie alte che affacciano sull'acqua i parapetti a balaustra. Così
il viaggiatore vede arrivando due città: una diritta sopra il lago e una
riflessa capovolta. Non esiste o avviene cosa nell'una Valdrada che l'altra
Valdrada non ripeta, perché la città fu costruita in modo che ogni suo punto
fosse riflesso dal suo specchio, e la Valdrada giù nell'acqua contiene non solo
tutte le scanalature e gli sbalzi delle facciate che s'elevano sopra il lago ma
anche l'interno delle stanze con i soffitti e i pavimenti, la prospettiva dei
corridoi, gli specchi degli armadi... (I. Calvino, Le città invisibili, Mondatori,
Milano 1994)
Calvino, alla fine del
racconto, scrive
Le due Valdrada vivono l’una per l’altra
guardandosi negli occhi di continuo, ma non si amano
|
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C.Monet, “La chiesa di
Vétheuil”, 1880 |
J.W.Waterhouse, “Eco e
Narciso”, 1905 |
Il problema, a mio
parere, è allora lo stesso di quello formulato precedentemente: perché le due
città non si amano? Originale e riflesso sono due forme inter ed intra
dipendenti, tra cui necessariamente si determina una priorità: l’originale
emerge, sovrastando il riflesso poiché solo nel primo ambito è data la possibilità di compiere liberamente
delle scelte. Lo stesso discorso può essere applicato al nostro quesito
iniziale: tra Narciso e il suo riflesso vi è uno scarto causato dallo scontro
di due livelli ontologici, in un certo senso, estremamente distanti, poiché
l’uno è dominato dalla possibilità di scelta l’altro dalla determinazione
dipendente dall’orientamento che la possibilità prende nel primo livello. Dunque
il mondo di Narciso, potrà senz’altro non essere il migliore dei mondi
possibili, ma è l’unico che ha a sua disposizione, in cui può agire o
non agire; fuggendo dalla realtà, egli si perde nel mondo delle possibilità
negate.
Calvino illumina
ulteriormente la questione attraverso l’opera
“ Palomar”, in cui scrive:
Ma come si fa a guardare
qualche cosa lasciando da parte l’io?di chi sono gli occhi che guardano? Di
solito si pensa che l’io sia uno affacciato ai propri occhi come al davanzale
di una finestra e guarda il mondo che si distende in tutta la sua vastità lì
davanti a lui. Dunque: c’è una finestra che si affaccia sul mondo. Di là c’è il
mondo: e di qua? Sempre il mondo: cos’altro volete che ci sia? Con un piccolo
sforzo Palomar riesce a spostare il mondo da lì davanti e a sistemarlo
affacciato al davanzale. Allora, fuori dalla finestra che cosa rimane? Il mondo
anche lì, che per l’occasione si è sdoppiato in mondo che guarda e mondo che è
guardato. E lui, detto anche “io”, il signor Palomar? Non è anche lui un pezzo
di mondo che sta guardando un altro pezzo di mondo? Oppure dato che c’è mondo
di qua e mondo di là della finestra, forse l’io non è altro che la finestra
attraverso la quale il mondo guarda il mondo. Per guardare se stesso il mondo ha bisogno degli occhi ( o degli
occhiali) del signor Palomar.” (I. Calvino, Palomar,
Milano, Mondatori, 1994).
Rene Magritte, "In
elogio della dialettica", 1936 |
Il modello auto –
referenziale rappresenta uno sguardo possibile sul
mondo, destinato però ad esaurirsi in se stesso. |
Quanto, in merito al
secondo problema? Perché Narciso non può condividere i sentimenti di Eco? Sempre
da Palomar:
“ Contemplando gli astri
lui si è abituato a considerarsi un punto anonimo e incorporeo, quasi a
dimenticarsi di esistere; per trattare adesso con gli esseri umani non può fare
a meno di mettere in gioco se stesso, e il suo se stesso non sa più dove si
trova. […] Per tutto questo uno prima di mettersi ad osservare gli altri
dovrebbe sapere bene chi è lui. La
conoscenza del prossimo ha questo di speciale: passa necessariamente attraverso
la conoscenza di se stesso; ed è proprio questa che manca a Palomar.
[…] Palomar, non amandosi, ha sempre fatto in modo di non incontrarsi faccia a
faccia”
C.M. Mariani, “La mano
ubbidisce all’intelletto”,1983 |
Il riferimento alla
perfezione neoclassica si limita in questo dipinto solo ai due nudi: le
figure sopra cui i personaggi siedono contribuiscono a collocare la scena in
una dimensione estremamente astratta e atemporale. L’ironia dell’opera che
si dipinge specularmene, si ripercuote anche sul titolo. Esso, invece di
chiarire il soggetto, tende a renderlo ancora più criptico ed ambiguo, poiché
non è volutamente chiarito quale sia la mano che ubbidisce all’intelletto,
come a dire che tutto è mano (forma) e tutto è intelletto (cioè idea). |
Palomar è un personaggio
solitario, incapace di rapportarsi con gli altri esseri umani ; decide, un
giorno, di reagire a questa sua limitazione iniziando con lo studiare il cielo
e le teorie astronomiche, con la speranza di entrare in questo modo in più stretto
contatto con la culla dell’umanità intera, l’universo. Il risultato non è,
però, quello sperato poiché il mondo di cui man mano diventa parte è
caratterizzato da una logica propria, chiusa su se stessa . Palomar capisce
allora di aver sbagliato tutto: la sua indagine lo relega, infine, ancor più
entro l’armonica solitudine che aveva creduto di poter fuggire una volta
conosciute leggi e le costanti fisiche.
Verso tutt’altri obbiettivi gnoseologici deve concentrarsi : non riuscirà mai
ad evadere dalla sua prigione di cristallo “si se non noverit” (Ovidio, Metamorfosi,
III, 348). Ma, così facendo, ne potrà davvero ricavare qualcosa di utile? Ecco
l’enigmatica conclusione di Calvino:
“La strada che a
Palomar resta aperta è questa: si dedicherà d’ora in poi a se stesso, esplorerà
la propria geografia interiore, traccerà il diagramma dei moti del suo animo[…]
Non possiamo conoscere nulla d’esterno a noi scavalcando noi stessi, egli pensa
ora, l’universo è lo specchio in cui possiamo contemplare solo ciò che abbiamo
imparato a conoscere in noi stessi. […] Cosa vedrà ora? Cosa gli apparirà?gli
apparirà il suo mondo interiore come un calmo ed immenso ruotare d’una spirale
luminosa?[…]Contemplerà una sfera di circonferenza infinita che ha l’io per
centro e il centro in ogni punto?. Apre gli occhi: quel che appare al suo
sguardo gli sembra di averlo già visto tutti i giorni: vie piene di gente che
ha fretta e si fa largo a gomitate, senza guardarsi in faccia , tra alte mura
spigolose e scrostate. In fondo ,il cielo stellato sprizza bagliori
intermittenti come un meccanismo inceppato, che sussulta e cigola
in tutte le sue giunture non oliate,avamposti di un universo
pericolante,contorto, senza requie, come lui” (I. Calvino, Palomar, op.
cit., 1994)
Palomar non si ama;
Narciso non riuscendosi ad amare si trova nella stessa posizione di Palomar,
naturalmente sotto una diversa prospettiva: non può di conseguenza rispondere ai desideri di Eco innanzitutto perché
non può com-patire se stesso.
Si consideri ora la fiaba
di Andersen La Regina delle Nevi: il disorientamento, l’ impasse comunicativo
pare essere ancor più esasperato nel momento in cui lo specchio,come in questa
fiaba, si rompe, con conseguente frantumazione dell’io specchiato. Frammentazione,
ricordiamo, concernente non solo l’aspetto fisico del personaggio ma , a causa
delle implicazioni simboliche che un simile evento può comportare, anche quello
psicologico e morale (non a caso è il diavolo che crea lo specchio, destinato
poi a frantumarsi). Cosa accade dunque? Lo specchio si spezza, uno dei
frammenti finisce nell’occhio del malcapitato protagonista, capovolgendone in
tal modo le caratteristiche caratteriali: la bontà e l’innocenza si trasformano
in meschinità e sconsideratezze. A questo si aggiunga poi il suo rapimento da
parte della Regina delle Nevi: ci troviamo così innanzi ad un gioco di molteplici immagini simmetriche, interne
ed esterne, di ribaltamenti fisici e psichici. I frammenti di specchio , il
palazzo di ghiaccio della Regina, i fiocchi di neve: siamo in un grande
labirinto di riflessi che tuttavia, come tutti i labirinti, possiede una via
d’uscita. Il gioco di sguardi non è costretto entro due poli, non è quindi
completamente chiuso su se stesso. Qui non si giunge, come nel mito di Narciso,
alla morte del protagonista: la pazzia verrà domata dal confronto con l’
“altro” , dall’ affetto e dall’amore, quel sentimento verso cui Narciso non
poteva volgersi e che invece rappresenta l’unica possibile scappatoia dall’
intransitività comunicativa.
Accanto alla valenza
comunicativa intransitiva appena trattata, è possibile individuarne una seconda
transitiva, derivata come detto dalla violazione dei più comuni “assiomi” della
riflessione. Lo specchio ,quindi, contrariamente alla sua natura funzionale, si
trasforma in un luogo “più che comunicativo” in cui non solo l’originale può
dialogare con la sua (ma non necessariamente sua) immagine, ma può anche
relazionarsi con tutto ciò che non cade direttamente sotto il suo punto di
visione: il riflesso viene quindi ad essere uno sguardo impossibile,
orientabile secondo volontà.
In Biancaneve (nella
versione di Jacob e Wilhelm Grimm) la matrigna guardando nello specchio non
interroga il proprio riflesso, poiché non lo scorge. Interroga piuttosto
un’immagine autonoma, in grado, in quanto riflesso di specchio, di “rispondere”
alla vanitas di colei che lo interpella: non può certo sottrarsi dal rivelare
la verità, non sarebbe altrimenti più uno specchio. Se mentisse, verrebbe meno
la sua funzione originaria: ed è vero che ,facendo parte di una fiaba, il suo
ruolo potrebbe ben essere manipolato e modificato, ma non dimentichiamoci
l’originale radice utilitaria che ha appunto permesso di trasformare questo
oggetto quotidiano in un oggetto simbolico.
La verità rivelata, in
questo caso, non dipende semplicemente dall’ originale di cui l’immagine è copia, ma da una serie di
elementi esterni ed estranei alla scena riflessa: la superficie riflettente
diviene un occhio dalle potenzialità infinite, almeno in linea teorica, capace
di svelare più di quanto le sue potenzialità non lascerebbero sperare.
Vi è un altro elemento, a
mio parere, rilevante: lo specchio non si limita a mostrare un riflesso
impossibile, ma esprime a parole il significato di quello che riflette. Lo
scambio comunicativo è un vero e proprio dialogo tra la fonte delle
informazioni e chi lo interpella; non
rimane rinchiuso entro due poli statici come accadeva nel mito di Narciso,
piuttosto procede oltre senza esaurire il suo apporto informativo in uno
scambio di sguardi ipoteticamente infinito. Abbiamo ,in questo caso, tre
protagonisti diversi: lo specchio, un riflesso impossibile, la matrigna ed è
proprio questa varietà di partecipanti che impedisce alla comunicazione di
piegarsi su se stessa in un circolo vizioso. Vi è,quindi, un apporto
informativo che esula da chi si pone di fronte allo specchio e dallo specchio
stesso.
Anche nella fiaba La
Bella e La Bestia è possibile riscontrare un impiego dello specchio del
tutto analogo: in questo caso la proprietà comunicativa si estende oltre il
responso ad una singola domanda, mostrando in se tutto lo svelabile. Non vi è
più nessun vincolo, seppur accennato, tra originale ed immagine: il riflesso
mostra il mondo e ciò che in esso succede, come una magica finestra aperta
verso ogni dove.
Ciò che nel mito di
Narciso determinava lo smarrimento nel mondo delle possibilità mancate , ovvero
il legame inscindibile con il suo alter ego riflesso, viene decisamente a
mancare in queste due fiabe creando un “al di là” ed un “al di qua” dello
specchio autonomi ed indipendenti tra loro. Impossibile è quindi perdersi in
narrazioni circolari prive di vie d’uscita , impossibile è spegnere l’azione
nel vano tentativo di evadere dalla prigione di cristallo.
Abbiamo sin qui
analizzato fiabe in cui lo specchio, pur nelle sue straordinarie connotazioni
fantastiche, rappresentava una sorta di confine invalicabile, col quale un
qualsiasi personaggio fittizio poteva confrontarsi, dialogare, ma non valicare
quel “confine fenomenologico” rappresentato dalla materialità impenetrabile che
lo rende un oggetto tra tanti. E’ però assai breve lo spazio che conduce il
riflesso dall’essere un semplice “medium” dialogico a vero e proprio “oltre”
autonomo.
How would you like to live in Looking-glass
House, Kitty? I wonder if they'd give you milk in there? Perhaps Looking-glass
milk isn't good to drink – […] Oh, Kitty! how nice it would be if we could only
get through into Looking- glass House! I'm sure it's got, oh! such beautiful
things in it! Let's pretend there's a way of getting through into it, somehow,
Kitty. Let's pretend the glass has got all soft like gauze, so that we can get
through. Why, it's turning into a sort of mist now, I declare! It'll be easy
enough to get through -- ' She was up on the chimney-piece while she said this,
though she hardly knew how she had got there. And certainly the glass was
beginning to melt away, just like a bright silvery mist. In another moment
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Nel 1871 Charles Lutwidge
Dodgson( più noto come Lewis Carroll) pubblicò il romanzo Through the
Looking Glass ( qui considero per la traduzione dei passi citati l’edizione
Mondadori, 1978) opera in cui la già
conosciuta Alice (protagonista della precedente opera, Alice in Wonderland,
uscita nel 1862) compie “l’impossibile passo nel possibile”, oltre lo specchio
dunque, nel mondo dei contrari e dell’assurda coerenza linguistica.
Sebbene sia un gesto
estremamente invitante, non seguiremo Alice nel suo viaggio: o meglio,
entreremo silenziosamente nello specchio e poi ne usciremo, cercheremo di
analizzarne l’ “oltre” senza però rimanerci.
Dal punto di vista
contenutistico, l’accostamento alla lettura di Carroll, presenta due pericoli
di segno opposto: da una parte quello di banalizzare tutto, presentando i suoi
scritti come giochi fini a se stessi, privi di riferimenti alla realtà esterna;
dall’altro, quello di vedere l’intera sua opera come pura allegoria, composta
secondo un piano preciso. Ancora una volta la nostra indagine sarà parziale,
concernerà alcuni aspetti e non altri, continuerà il discorso fin qui esposto
cercando di non cadere in abbagli arbitrari e scontati.
Potremmo iniziare la
nostra riflessione osservando che in Through the Looking Glass,
le caratteristiche stra - ordinarie dello specchio si ripercuotano oltre il
semplice oggetto, estendendosi piuttosto entro il mondo di cui lo stesso è
porta; le determinazioni simboliche del riflesso si proiettano verso un “al di
là” possibile, creando in tal modo una realtà fantastica in cui ogni parola,
ogni gesto, ogni accadimento ripropone, nella sua struttura intrinseca, la sua
derivazione speculare fenomenologia e/o di significato.Tocchiamo così uno dei
punti principali che guidano l’opera: forse con maggior evidenza rispetto agli
altri romanzi di L. Carroll, qui si fa sentire il grande interesse per
l’indagine sulle forme strutturali del linguaggio, interesse che in Through
the Looking Glass si esplica, ad esempio attraverso la coniazione di
interessanti neologismi con quella tecnica che Carrol stesso definisce
“portmanteau”. Gli oggetti carrolliani portano su di se, proprio come fossero
attaccapanni, nomi estremamente legati al loro essere “così e così”, nomi che
li denotano, li definiscono, li raffigurano, dando così vita a episodi
sensatamente paradossali: L.Carroll sembra voler stimolare il lettore ad una
riflessione su temi consueti poco indagati, specchiando nel suo mondo possibile
l’ erronea credenza per cui un nome debba essenzialmente rappresentare ciò che
significa. Quale il rapporto, allora, tra specchi e parole? Forse, sembra voler
suggerire l’autore, non vi è alcuna somiglianza strutturale. U. Eco, nel già
citato Sugli Specchi, scrive :
Dunque c’è differenza tra una
immagine speculare e un nome proprio. Ovvero l’immagine speculare è nome proprio assoluto così come è
icona assoluta. In altri termini, il sogno semiotico di nomi propri che siano
immediatamente legati al loro referente (così come il sogno semiotico di una
immagine che abbia tutte le proprietà dell’oggetto a cui va riferita) nasce
proprio da una sorta di nostalgia catottrica. C’è infatti
una teoria dei nomi propri come designatori
rigidi per cui i nomi propri non potrebbero essere mediati da
descrizioni definite (del tipo "Giovanni è quel tale che...") né
sottomessi a esercizi controfattuali (del tipo: "Giovanni sarebbe ancora
Giovanni se non fosse quel tale che...?"): essi sono legati per una catena
di designazione continua, catena detta "causale", a un oggetto
originario a cui sono stati assegnati da una sorta di "battesimo"
iniziale.[…] Pertanto si scopre che tutta la semantica della designazione
rigida è una (pseudo) semantica delle immagini speculari, e che nessun termine
linguistico può essere designatore rigido assoluto (così come non esistono
icone assolute).
Se le immagini dello
specchio dovessero essere paragonate alle parole, esse sarebbero forse simili a
pronomi personali: come il pronome io che se lo pronuncio io vuole dire “me”, e
se lo pronuncia un altro significa quell’altro. Dunque Carroll gioca narrando,
sfruttando e creando situazioni linguistiche appositamente equivoche.
Il sesto capitolo della
fiaba, in cui si narra l’incontro tra Alice e Humpty Dumpty , mostra in modo
esemplare come Carroll esasperi la falsa credenza che vede nei nomi,
designatori rigidi e cristallizzati; alla fine del precedente capitolo la Pecora vende al Alice un uovo ( si noti: l’uovo è stato venduto
dalla Pecora: quindi Alice ha avuto l’ovino da un ovino) che, all’inizio del
sesto, si trasforma nell’orgoglioso Humpty Dumpty.
Ed ecco le presentazioni:
My name is
`must a name mean something?'
Non è azzardato, come già
osservato da Gardner, ritenere che Humpty Dumpty rappresenti l’orgoglio precedente
alla caduta, alla confusione linguistica della torre di Babele che,
nell’inversione speculare, diventa perfetta padronanza delle parole: Humpty Dumpty è
il padrone delle parole e le parole sono
suoi servitori, pagati settimanalmente, come dice lui stesso. Trovo
particolarmente felice l’immagine di fragilità che si accompagna a questo suo
orgoglio, mentre, seduto su un muro, può cadere da un momento all’altro
(“That's a great deal to make one word
mean,'
`When I make a word do a lot of work like that,' said Humpty Dumpty, `I always
pay it extra.' `Oh!' said
Onomatopeicamente il nome
Humpty Dumpty (“hum” vale “gobba”,
“dumpty” vale “tarchiato”) suggerisce l’idea di ciò che effettivamente questo
personaggio è: contrariamente al mondo reale nel suo regno i nomi propri hanno
un significato generico (Alice, Humpty Dumpty possono indicare tante cose…
tante forme.), mentre le parole ordinarie hanno il loro senso ristretto a
quello che viene deciso da Humpty Dumpty
`When I use a word,' Humpty Dumpty said in
rather a scornful tone, `it means just what I choose it to mean -- neither more
nor less.' ‘The question is,' said
`The question is,' said Humpty Dumpty, `which is to be master - - that's all.' Quando io uso una parola, - disse
OvoRondo in tono d'alterigia, - essa
significa ciò che appunto voglio che significhi: né più né meno. - Si tratta di sapere, - disse
Alice, - se voi potete dare alle parole tanti diversi significati. - Si tratta
di sapere, - disse OvoRondo, - chi ha da essere il padrone... Questo è tutto.
Con
queste ultime battute Humpty Dumpty svela non solo la sensatezza dei paradossi
e dei giochi linguistici intrinseci alla fiaba, ma abbozza quella che potrebbe
essere una vera e propria teoria
linguistica, sulla quale però non ci soffermeremo. Ma è forse ora di svegliare
il Re Rosso, dissolvendo insieme al suo sogno Alice ed il suo mondo.
Non vi è mai stata la
pretesa di esaurire in poche righe tutto ciò che si può dire circa gli
argomenti trattati. Abbiamo proposto un possibile percorso critico che in se
offre tanti spunti a mio parere interessanti ma il cui approfondimento avrebbe allontanato il discorso dal nostro
proposito iniziale: mostrare come le connotazioni magiche dello specchio,
oggetto di grande interesse in buona parte della letteratura fantastica, trovino
in realtà la loro origine nelle effettive caratteristiche fenomenologiche dello
stesso, come tra uso utilitario ed uso simbolico esista dunque una forte
interazione, non sempre palesata.
Le
fiabe, terreno concreto di una fantastica verifica, hanno condotto il nostro
discorso entro possibili impieghi simbolici dello specchio mostrando come esso
sia ricco di potenzialità semiotiche e comunicative.
A
conclusione del nostro percorso, lascio la parola a Paul Valéry:
“Mito è il nome di tutto
quel che esiste e sussiste avendo solo la parola per causa. Non vi è discorso
così oscuro, chiacchera così bizzarra, proposizione così incoerente cui non si
possa dare un senso. Esiste sempre una supposizione che dà senso al linguaggio
più strano. […] Il nostro linguaggio è composto da piccoli e brevi sogni; e il
bello è che da essi formiamo talvolta pensieri stranamente giusti e
meravigliosamente ragionevoli; […] la parola ci abita e abita ogni cosa al
punto che non sappiamo come fare per astenerci dalle immaginazioni da cui nulla
si esime. […]Per questo motivo giunsi a scrivere un giorno: all’inizio era la favola! . Questo
significa che ogni origine, ogni aurora delle cose è della sostanza stessa
delle canzoni e dei racconti che circondano le culle. “
Seminario di filosofia dell'immagine
Le parole della
filosofia, III, 2003
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