Le parole della filosofia, III, 2000

Seminario di filosofia dell'immagine


La cornice e il problema dei margini della rappresentazione

- Antonio Somaini -

Introduzione

In questo saggio cercherò di mostrare come da alcune considerazioni relative alle funzioni della cornice nei confronti di quel tipo peculiare di immagini che sono i quadri si possa arrivare a delle conclusioni più generali riguardanti lo statuto della rappresentazione pittorica e della rappresentazione in generale. La cornice, nelle sue diverse manifestazioni storiche, ha sempre esercitato nei confronti dell'immagine dipinta una serie di funzioni capaci di determinare profondamente la grammatica e la pragmatica dello sguardo che ad essa si rivolge: sottolineando la chiusura del confine che separa l'immagine dallo spazio circostante, la cornice focalizza lo sguardo dello spettatore e si propone come ornamento dell'immagine dipinta, legittimandola e conferendole autorità; rendendo l'immagine indipendente dal contesto, invita lo spettatore ad assumere una specifica modalità di visione. Le funzioni di delimitazione e decontestualizzazione, ornamento e legittimazione, invito e ingiunzione svolte dalla cornice costituiscono quindi un complesso che contribuisce a determinare profondamente lo statuto stesso della rappresentazione pittorica e dello sguardo che la contempla. Se poi, come vedremo nel corso di questo saggio, oltre alla rappresentazione pittorica prendiamo in considerazione altre forme di rappresentazione (come quella teatrale o musicale) e altre forme di fruizione (come la lettura o l'ascolto), scopriamo che anche in questi ambiti operano dei dispositivi di delimitazione, focalizzazione e decontestualizzazione analoghi a quelli messi in atto dalla cornice. Ecco dunque che il tema della cornice del quadro diviene la chiave d'accesso alle questioni più generali dei margini della rappresentazione e del significato di un atto di delimitazione che è al tempo stesso chiusura verso l'esterno e apertura alla fruizione: questioni che riguardano la natura del limite e della soglia intorno a cui ruota la relazione estetica, e luoghi filosofici in cui si incontra l'ambiguità delle distinzioni fra dentro e fuori, marginale e costitutivo, ornamento e complemento.

Facciamo allora un passo indietro e cominciamo con il prendere in considerazione la cornice nella sua accezione più letterale, intendendola cioè come cornice materiale del quadro. Essa protegge l'immagine dipinta sulla tela, la stabilizza, la rende facilmente trasportabile: l'immagine incorniciata è un'immagine mobile, che può essere spostata e inserita in luoghi e contesti diversi, nei quali, però, proprio a causa della cornice che la circonda, essa mantiene una certa autonomia. Tramite la cornice, l'immagine diviene così un oggetto trasportabile e capace di determinare almeno in parte, nei diversi contesti in cui verrà a trovarsi, le modalità del proprio esser-vista, letta, interpretata. In quanto risultato di un gesto intenzionale con cui l'immagine viene delimitata, separata dal contesto e rinchiusa in un contorno, la cornice sottolinea il confine che separa lo spazio della rappresentazione e della figurazione dallo spazio circostante, e costringe lo sguardo che transita uniformemente da una regione all'altra dello spazio a soffermarsi con attenzione di fronte a un'immagine che gli si propone come rappresentazione e messa in scena. In altre parole, la cornice impone allo sguardo 'ordinario' di trasformarsi in visione e contemplazione, e allo spettatore di porsi nei confronti dell'immagine in una relazione 'estetica', l'atteggiamento della fruizione, della valutazione, dell'interpretazione.

Nei confronti dello sguardo dello spettatore la cornice svolge dunque una funzione analoga a quella di un deittico, ossia di un segno la cui funzione è quella di mostrare, esibire, indicare. Essa concentra lo sguardo dello spettatore sull'immagine contenuta all'interno dei suoi confini, offrendola e mostrandola come oggetto degno di attenzione e sollecitando dallo spettatore stesso un abito di risposta adeguato. Queste funzioni deittiche e ostensive della cornice ci rinviano quindi a tutta la semantica dell'invito e dell'appello, dell'ingiunzione e dell'ammonimento: lo spettatore di fronte a un'immagine incorniciata è uno spettatore interpellato, chiamato a rispondere e a raccogliersi di fronte a un'immagine che gli si propone come isolata da tutti i fili che, in modo più o meno visibile, la legano all'ambiente circostante. Ecco dunque che quell'oggetto apparentemente marginale che è la cornice del quadro finisce per svolgere una funzione determinante nell'instaurazione dello spazio della rappresentazione pittorica e nella modalizzazione dello sguardo che ad essa si rivolge.

La cornice e l'autonomia dell'opera d'arte e dello spazio della finzione

In gran parte della letteratura sulla cornice che prenderò in considerazione in questo saggio non è difficile constatare come il tema della cornice diventi la chiave d'accesso a questioni fondamentali come quelle dello statuto dell'opera d'arte e dell'ornamento, o della relazione tra spazio ordinario e spazio della finzione. Questo vale in particolare per due importanti saggi di Georg Simmel e di José Ortega y Gasset: "La cornice del quadro. Un saggio estetico" [Simmel 1997] e "Meditazione sulla cornice" [Ortega y Gasset 1997]. Nel primo, a partire da una fondamentale distinzione fra totalità e parte, ossia tra "un'esistenza a sé bastante, in sé conchiusa [...] determinata solo dalla legge della propria essenza" e "un membro in connessione con una totalità, dalla quale soltanto le proviene forza e senso" [Simmel 1997, p.210], Simmel afferma che l'opera d'arte appartiene a quelle totalità autosufficienti, chiuse in sé e determinate solo dalla legge della propria essenza, quali sono l'anima, la personalità etica e l'opera d'arte:

[se] come esistenza naturale ciascuna cosa è un mero punto di transito di energie e sostanze che scorrono ininterrotte, punto che è comprensibile solo a partire da quanto lo precede e significativo solo come elemento del complessivo processo naturale [...] l'essenza dell'opera d'arte è quella di essere una totalità per se stessa, non bisognosa di alcuna relazione con l'esterno, e capace di tessere ciascuno dei suoi fili riportandolo al proprio centro [...] l'opera d'arte è ciò che altrimenti solo il mondo come intero o l'anima possono essere : una unità di singolarità - essa si isola, come un mondo per sé, da tutto ciò che le è esterno" [p. 210 sott. mia]

La cornice, proprio in quanto capace di sottolineare la "chiusura incondizionata" dei confini dell'opera d'arte, svolge un ruolo essenziale in quanto "esclude l'ambiente circostante, e dunque anche l'osservatore, dall'opera e contribuisce a porla a quella distanza in cui soltanto essa diventa esteticamente fruibile" [pp.210-211]. Essa colloca l'opera in una "posizione insulare" che sola ci consente di provare "quel sentimento di dono immeritato con cui l'opera ci rende felici [e che] sorge dall'orgoglio di questa compiutezza in sé soddisfatta, con cui essa tuttavia diventa nostra"[p.211]. Ecco dunque che secondo Simmel la cornice svolge un ruolo essenziale nei confronti dell'opera d'arte pittorica in quanto ne sottolinea quella condizione di chiusura e autosufficienza che, paradossalmente, è proprio la premessa che rende possibile un'istanza inaspettata di apertura, offerta e dono. La cornice chiude ed esclude, ma al tempo stesso invita: nel prosieguo del saggio, infatti, Simmel sostiene che essa andrebbe pensata come una finestra o come un ingresso, non tanto per rafforzare l'eventuale costruzione prospettica dell'immagine dipinta, quanto per convogliare lo sguardo all'interno del quadro, sottolineando la cesura che separa l'opera dal contesto ed esorcizzando ogni forma di "traviamento che nega l'esser per sé dell'opera d'arte" [p. 212, sott. mia] e il "pericolo di confondersi con l'ambiene circostante" [p. 213, sott. mia].

Nel saggio di Ortega y Gasset il tema della cornice come momento di chiusura e delimitazione è visto non tanto come espressione della necessità di proteggere l'autonomia e la radicale alterità dell'opera dalla contaminazione con l'esterno, quanto come luogo del problematico passaggio dalla realtà alla finzione, soglia attraverso la quale lo sguardo accede alla dimensione dell'immaginario e dell'inverosimile:

la cornice ha qualcosa della finestra, così come la finestra ha molto della cornice. Le tele dipinte sono buchi di idealità praticati nella muta realtà delle pareti : brecce di inverosimiglianza a cui ci affacciamo attraverso la finestra benefica della cornice [...] il quadro è un'apertura di irrealtà che avviene magicamente nel nostro ambito reale. Quando guardo questa grigia parete domestica, la mia attitudine è, per forza, di un utilitarismo vitale. Quando guardo il quadro, entro in un recinto immaginario e adotto un'attitudine di pura contemplazione. Sono, dunque, parete e quadro, due mondi antagonistici e senza comunicazione. Dal reale all'irreale, lo spirito fa un salto, come dalla veglia al sonno. L'opera d'arte è un'isola immaginaria che fluttua, circondata dalla realtà da ogni parte. [Ortega y Gasset 1997, p.225 sott. mia]

Alle stesse metafore impiegate da Simmel (la cornice come finestra e l'opera d'arte come un'isola) viene ora attribuito un ruolo diverso: non più quello sottolineare la necessità di una chiusura e di un ripiegamento su di sé dell'opera, quanto quello di sottolineare lo scarto e la cesura che separano lo spazio dell'idealità, dell'inverosimile, dell'irrealtà e della fantasia dallo spazio 'ordinario' circostante. La cornice è dunque confine e frontiera, ma anche soglia e "trampolino che lancia la nostra attenzione sulla dimensione leggendaria dell'isola estetica" [p. 225], e in questo senso essa è analoga al sipario che apre e chiude lo spazio della rappresentazione teatrale o al silenzio che precede un'esecuzione musicale.

La cornice come 'ornamento necessario'

Uno degli aspetti più interessanti del saggio di Ortega y Gasset riguarda lo statuto della cornice in rapporto a quello dell'ornamento. Innanzitutto, afferma Ortega y Gasset, il rapporto tra cornice e quadro non deve essere considerato analogo a quello dell'abito con il corpo, "perché l'abito copre il corpo, e, invece, la cornice ostenta il quadro". Inoltre, la cornice non è ornamento in quanto essa mostra l'immagine cui si riferisce senza attrarre su di sé l'attenzione, là dove l'ornamento invece esplica la propria funzione di ostentazione solo dopo aver attratto l'attenzione su di sé: "invece di attirare su di sé lo sguardo, la cornice si limita a condensarlo e a indirizzarlo sul quadro" [Ortega y Gasset 1997, p.224]. Confrontando la cornice con quel dispositivo profondamente ambiguo che è l'ornamento, la cui funzione di celebrazione e abbellimento è sempre attraversata dal sospetto di un ingannoe di un occultamento, Ortega y Gasset riprende un luogo classico della letteratura sulla cornice. Nel Dictionnaire des Arts di Watelet, ad esempio, leggiamo che "la bordure [la cornice] d'un tableau, ainsi que la parure d'une femme, ne doit point fixer les yeux en les détournant trop de l'objet qu'elle embellit; mais l'une et l'autre doivent faire valoir les beautés dont elles sont l'ornement" [I, p.261, citato da Lebensztejn 1999 p.187]. André Félibien, nello scritto Des principes de l'architecture, de la sculpture, de la peinture et des autres arts qui en dépendent [Paris, Coignard, 1676, p. 712, citato da Lebensztejn 1999 p.187], sottolinea gli aspetti più ingannevoli e, per così dire, 'disonesti' della funzione ornamentale della cornice, sostenendo che essa è, "come dicono gli Italiani [...], il Rufiano del quadro", tesi ripresa più di due secoli dopo da Degas che parla della cornice come "le maquerau de la peinture; il la met en valeur, mais il ne doit jamais briller à ses dépens" [citato da J.A. Keim, "Le tableau et son cadre", Diogène, 38, 1962, p. 111 e da Lebensztejn 1999 p.187].

In quanto dispositivo di abbellimento e ostentazione, finalizzato a convogliare l'attenzione dello spettatore sull'immagine senza troppo farsi notare, la cornice eredita dunque tutta la problematicità dello statuto dell'ornamento, sempre sospeso tra l'essenziale e l'accessorio, il necessario e l'accidentale. La cornice, infatti, conferisce completezza all'immagine, l'abbellisce e la legittima, la rende contemplabile e leggibile, pur rimanendo, per così dire, in secondo piano: la sua condizione è quella di qualcosa che esibisce e mostra ponendosi però come esterno rispetto all'oggetto esibito. Nel far questo, essa finisce per ricoprire un ruolo al tempo stesso accessorio e imprescindibile nei confronti della rappresentazione pittorica, un ruolo che la pone nella posizione vagamente ossimorica di una sorta di ornamento necessario. È un tema che ritroviamo in una lettera inviata da Poussin il 28 aprile 1639 a Paul Fréart de Chantelou, uno dei suoi maggiori collezionisti parigini, una lettera che mostra bene lo statuto problematico della cornice, tra ornamento e condizione imprescindibile della rappresentazione pittorica, capace di determinare profondamente le modalità della sua fruizione:

vi mando il vostro quadro della Manna [...] Quando lo avrete ricevuto, se lo troverete buono, vi supplico di ornarlo con un poco di cornice, ne ha bisogno, affinchè, nel considerarlo in tutte le sue parti, i raggi dell'occhio siano ritenuti e non persi al di fuori, nel ricevere le specie degli oggetti vicini che, se si mescolano con le cose dipinte, ne confondono la luce. Sarebbe molto opportuno che la detta cornice fosse dorata d'oro opaco molto semplicemente, poiché si accosta molto dolcemente con i colori senza offenderli. [Poussin, Lettere, p.8]

Nelle parole di Poussin, la cornice appare come ciò che autonomizza l'opera nello spazio visibile, dona una dimensione di esclusività alla rappresentazione e stabilisce le giuste condizioni della ricezione, trasformando lo sguardo in contemplazione e il quadro in oggetto prezioso da ammirare. Contenendo i raggi dell'occhio all'interno dei margini dell'immagine, e quindi impedendo ogni contaminazione con l'esterno e ogni dispersione della luce interna al quadro, essa fa sì che la visione dell'immagine dipinta non sia disturbata dalle "specie" sensibili emananti dagli oggetti vicini. La cornice consente dunque di distinguere nettamente tra la luce naturale e la luce interna al quadro, e svolge questa funzione al meglio se "dorata d'oro opaco", una sorta di meta-colore capace di conferire alla rappresentazione pittorica lo statuto di un'apparizione da contemplare.

In un'altra lettera, indirizzata nel 1642 a Sublet de Noyer, cugino di Chantelou e principale consulente artistico di Richelieu, Poussin sviluppa il tema della distinzione tra visione e contemplazione, usando i due termini francesi "aspect" e "prospect":

Bisogna sapere che ci sono due modi di vedere gli oggetti : uno è semplice visione, l'altro è attenta considerazione. Vedere semplicemente non è altro che ricevere naturalmente nell'occhio la forma e la sembianza delle cose viste. Ma vedere un oggetto considerandolo, vuol dire che oltre la semplice e naturale ricezione della forma nell'occhio, si cerchi con un'applicazione particolare il modo di ben conoscere questo stesso oggetto : così si può dire che il semplice aspetto [aspect] è un'operazione naturale, e quel che io chiamo il prospetto [prospect] è un'azione della ragione, che dipende da tre cose : dal sapere dell'occhio, dal raggio visuale, dalla distanza dell'occhio dall'oggetto. [Poussin, Lettere, pp.30-31]

Poussin distingue qui tra due modi di vedere: "semplice visione" e "attenta considerazione", aspect e prospect. Se il primo è lo sguardo naturale, la visione ordinaria, il secondo invece è una visione intesa come contemplazione, osservazione, un'operazione razionale dipendente dalla convergenza di tre istanze: il "sapere dell'occhio", la posizione del "raggio visuale", la "distanza dell'occhio dall'oggetto". Mettendo in relazione la prima lettera con la seconda, possiamo quindi arrivare alla conclusione che secondo Poussin la funzione di focalizzazione e contenimento svolta dalla cornice costituisce una parte integrante del passaggio dall'aspect al prospect, dalla visione alla contemplazione intesa come teoria, e quindi svolge un ruolo costitutivo nell'instaurazione dello spazio della rappresentazione e nella modalizzazione dello sguardo che ad essa si rivolge.

Il 'luogo' della cornice

Nella letteratura più recente sulla questione della cornice - dai saggi di Louis Marin alla prima parte di La vérité en peinture di Derrida, intitolata significativamente "Parergon", dai saggi di Jean-Claude Lebensztejn alla prima parte del volume di Victor Stoichita L'instauration du tableau - il tema della cornice come ornamento necessario si somma a quello della sua ambigua collocazione, in quanto essa appare al tempo stesso come esterna rispetto all'immagine eppure parte integrante del dispositivo della rappresentazione. Per Stoichita, "la cornice separa l'immagine da tutto ciò che non è immagine. Definisce quanto da essa inquadrato come mondo significante, rispetto al fuori-cornice, che è il mondo del semplice vissuto. Dobbiamo tuttavia porci la domanda: a quale dei due mondi appartiene la cornice?" [Stoichita 1998 p.41]. Marin, della cui concezione della cornice torneremo ad occuparci tra breve, parla del "lieu du cadre" come di una sorta di "no man's land, zone franche ou zone tampon, glacis, marche-frontière, lieu neutre où l'intérieur devient l'extérieur ou vice-versa, qui n'est l'un ni l'autre mais aussi l'un et l'autre [...] espace neutre entre l'espace du tableau et celui où il se trouve et d'où il est contemplé, limite entre deux limites, interne et externe" [Marin 1982 p.13]. L'aporeticità del luogo e dello statuto della cornice come ornamento vengono poi discusse da Derrida a proposito della nozione di parergon in un'indagine che prende avvio da un commento alla distinzione kantiana tra ornamento [Zierat] e decorazione [Schmuck], distinzione che si lega a tutta la tematica del carattere formale e disinteressato del giudizio di gusto, che deve prescindere dal riferimento alle attrattive [Reize] e alle emozioni [Rührungen]. La natura problematicamente interna ed esterna, accessoria e necessaria dell'ornamento-parergon, è, secondo Derrida, quella di qualcosa che "démonte les oppositions conceptuelles les plus rassurantes" in quanto non è né interno all'opera (ergon) né completamente esterno ad essa: " ni oeuvre (ergon), ni hors d'oeuvre, ni dedans ni dehors, ni dessus ni dessous, il déconcerte toute opposition mais ne reste pas indéterminé et donne lieu à l'oeuvre." [Derrida 1978, p.14]. Lo statuto parergonale, secondo Derrida, non riguarderebbe soltanto la cornice - secondo Kant sono parerga "le cornici dei dipinti, i panneggiamenti delle statue e i colonnati intorno agli edifici magnifici" [CG §14, p.209] - bensì tutto un insieme di parerga comprendente il titolo, la firma, lo spazio museale che circonda e ricontestualizza le opere, l'archivio che le documenta e ne determina la collocazione storica, il discorso teorico-critico che ne definisce la lettura: "bref, partout où on légifère en marquant la limite, d'un trait d'opposition qu'on veut indivisible" [p.15]. Il parergon, figura che sembra riassumere emblematicamente lo statuto della decostruzione, sarebbe dunque un " hors-d'oeuvre qui ne se tient pourtant pas simplement hors d'ouvre, agissant aussi à côté, tout contre l'oeuvre (ergon). [...] Un parergon vient contre, à côté et en plus de l'ergon, du travail fait, du fait, de l'oeuvre mais il ne tombe pas à côté, il touche et coopère, depuis un certain dehors, au-dedans de l'opération. Ni simplement dehors ni simplement dedans. Comme un accessoire qu'on est obligé d'accueillir au bord, à bord. Il est d'abord l'à-bord."[p.63]

Contemporaneamente indispensabile e accessoria, capace di sottolineare il confine che separa lo spazio della rappresentazione dallo spazio circostante rimanendo esterna all'immagine ma parte del dispositivo della rappresentazione, la cornice sembra dunque occupare un luogo difficile da determinare, un luogo in cui si incontrano tutte le aporie che portano con sé le nozioni di margine, limite e soglia. Essa è al tempo stesso gesto di chiusura e condizione dell'aprirsi della manifestazione, confine protettivo e luogo di accesso allo spazio della finzione: a seconda della sua forma materiale, essa sottolinea o occulta la cesura che separa l'immagine dallo spazio circostante, accentra o disperde lo sguardo che la contempla, rafforza o pregiudica il meccanismo di finzione e di mimesis messo in atto dall'eventuale costruzione prospettica dell'immagine.

La cornice e la struttura della rappresentazione pittorica: transitività e riflessività

In un saggio intitolato "Le cadre de la représentation et quelques-unes de ses figures" [Marin 1994], Louis Marin conduce una riflessione sul ruolo della cornice all'interno di un'indagine sulla struttura della rappresentazione pittorica, sulle sue condizioni di possibilità e sulle sue modalità di auto-presentazione. La tesi di Marin - che si sviluppa a partire da un'analisi di alcuni dei testi-chiave dell'âge classique francese, in primo luogo la Logique ou art de penser di Arnauld e Nicole, e che presenta diversi punti di convergenza con quanto sostiene Foucault in Les mots et les choses a proposito della concezione moderna, seicentesca, della rappresentazione - è che ogni rappresentazione, e in particolare la rappresentazione pittorica moderna, è caratterizzata da una duplice istanza di trasparenza e opacità, transitività e riflessività. Ogni rappresentazione, in altre parole, è trasparente e transitiva in quanto rappresenta qualcosa, e al tempo stesso opaca e riflessiva in quanto esibisce se stessa come rappresentazione: come scrive Marin, "représenter signifie se présenter représentant qualque chose" [Marin 1994 p.343]. Uno studio sullo statuto della rappresentazione dovrebbe quindi prendere in considerazione sia i dispositivi che regolano i rapporti di somiglianza o dissomiglianza tra rappresentazione e rappresentato, sia quelli tramite cui la rappresentazione si presenta come tale, mostrando la propria struttura, rendendo palesi e visibili le proprie condizioni di possibilità, tra le quali, come vedremo, figura la cornice.

Oggetto dello studio di Marin è dunque la rappresentazione pittorica moderna, un dispositivo costituitosi nel Quattrocento con Masaccio e Brunelleschi, teorizzato dall'Alberti nel De pictura e messo in discussione all'inizio del XX secolo dallle avanguardie storiche, in primo luogo dal cubismo. Come è noto, il De pictura di Alberti stabilisce alcuni punti fermi che diverranno loci ricorrenti nella letteratura successiva sulla pittura: l'imitazione del visibile come oggetto della pittura ("solo studia il pittore fingere quello che si vede" [De pictura, I, 2, p.11]), il piano della rappresentazione come intersecazione della piramide visiva e come finestra ("dove io debbo dipingere scrivo uno quadrangolo di retti angoli quanto grande io voglio, el quale reputo essere una finestra aperta per donde io miri quello che quivi sarà dipinto" [I, 19, p.36]), la "circonscrizione" come una delle "tre parti" costitutive dell'arte del dipingere, insieme alla "composizione" e alla "recezione dei lumi" [II, 30, p.52]. Rappresentando il visibile entro uno spazio costruito prospetticamente, la pittura acquisisce così una forza imitativa e manifestativa che, nella sua capacità di presentificare l'assente imitandolo secondo somiglianza, è pari solo a quella dell'amicizia: "Tiene in sé la pittura forza divina non solo quanto si dice dell'amicizia, quale fa gli uomini assenti essere presenti, ma più i morti dopo molti secoli essere quasi vivi, tale che con molta ammirazione dell'artefice e con molta voluttà si riconoscono" [II, 25, p.44].

Il dispositivo descritto dall'Alberti, e in seguito assurto per lungo tempo allo statuto di canone nella pittura e nella trattatistica occidentale, si fonda dunque sul primato dell'imitazione del visibile e sulla necessità che tale imitazione prenda avvio da un gesto di separazione e delimitazione, un gesto che instaura una cesura, quella della "circonscrizione": come sostiene Lebensztejn, "lorsqu'un espace mimétique, relativement stable et soi-disant naturel se met en place, au XVème siècle, quand la peinture se définit non plus comme la symbolisation iconique du divin, mais comme l'imitation plane du visible, elle doit commencer par un coup de force de taille dans ce visible" [Lebensztejn 1999, p. 191]. È sempre necessario sottolineare, però, che quest'importanza attribuita alla netta delimitazione del piano della rappresentazione è un dato che riguarda storicamente la concezione moderna della rappresentazione, che privilegia un supporto liscio, uniforme, dai contorni regolari. Meyer Schapiro, in un saggio intitolato "On Some Problems in the Semiotics of Visual Art. Field and Vehicle in Image-Signs" [Schapiro 1969], ricorda che, ad esempio, nelle pitture parietali preistoriche il campo dell'immagine, ossia il supporto, non era né liscio nè delimitato, e che in culture come quella cinese lo sfondo di un dipinto è stato a lungo considerato come un supporto su cui il proprietario o l'osservatore poteva liberamente aggiungere dei commenti o stampare il proprio sigillo. La natura del supporto della rappresentazione e dei suoi margini, la delimitazione di ciò che è esterno e ciò che è interno all'immagine, sono dunque elementi storicamente determinati, così come lo è, del resto, la stessa cornice: dalle cornici 'architettoniche' medievali e rinascimentali, all'avvento della cornice neoclassica e infine alla sparizione della cornice-finestra nel momento in cui l'immagine cessa di rappresentare prospetticamente uno spazio tridimensionale, assistiamo a una vasta trasformazione delle funzioni della cornice nei confronti dell'immagine rappresentata e dello sguardo di chi la contempla. Di volta in volta si chiede alla cornice di essere ben visibile per delimitare nettamente lo spazio della rappresentazione da quello circostante o di sparire per non disturbare la piena fruizione dell'immagine. Per fare qualche esempio, a Diderot, che nel Salon del 1763 raccomanda di guardare i quadri con l'aiuto di una lente che escluda la cornice, per esser meglio ingannato e osservare la scena rappresentata come se fosse vera, risponde sessant'anni dopo Quatremère de Quincy nel suo Essai sur la nature, le but et les moyens de l'imitation dans les beaux-arts: "Quand le peintre dans un étroit espace renferme une vaste étendue, quand il me fait parcourir les profondeurs de l'infini, sur une surface plate, et fait circuler l'air et la lumière autour d'apparences sans relief, j'aime à m'abandonner à ses illusions. Mais je veux que le cadre y soit; je veux savoir que ce que je vois n'est dans le fait qu'une toile, ou un fonds tout uni" [I, 14, Paris 1823, p.128]. Con il graduale abbandono del realismo e della figurazione da parte di alcune delle avanguardie storiche, assistiamo poi a un'ulteriore messa in discussione del ruolo della cornice come ampliamento della costruzione prospettica dello spazio rappresentato e come dispositivo per far convergere lo sguardo dello spettatore all'interno del quadro. Per Mondrian, l'avvento dell'astrazione comporta "la fine dell'arte come oggetto separato dal nostro ambiente" [Piet Mondrian, "Plastic Art and Pure Plastic Art", II, Circle, 1937, p.57, cit. in Lebensztejn 1999 p.213]. Conseguentemente, per Mondian la cornice smette di essere un dispositivo volto a confermare l'illusionismo prospettico del quadro e diviene semplicemente una struttura bidimensionale di supporto concepita come sezione di un piano in cui si rivela la struttura essenziale dell'universo visibile, come leggiamo in una lettera da lui scritta pochi mesi prima della sua morte: "Per quanto io sappia, sono stato il primo a portare il quadro in avanti rispetto alla cornice, piuttosto che collocarlo all'interno di essa. Avevo notato che un quadro senza cornice funziona meglio di un quadro incorniciato, e che l'incorniciamento determina una sensazione di tridimensionalità, un'illusione di profondità, e questo spiega perché ho scelto di prendere una semplice cornice di legno e di montarvi sopra il mio quadro. In questo modo conduco il quadro a un'esistenza più reale. Spostare il quadro nel nostro ambiente e conferirgli un'esistenza più reale è il mio ideale da quando sono arrivato alla pittura astratta." [Mondrian a James Johnson Sweeney, 1943, in "Eleven Europeans in America", The Museum of Modern Art Bulletin, XIII, 4-5, 1946, pp.35-36; cit. in Lebensztejn 1999 p.213]

Ma torniamo a Marin e alla discussione della sua concezione della cornice come parte integrante della condizioni di possibilità della rappresentazione pittorica moderna. Come abbiamo visto, secondo Marin quest'ultima avrebbe la proprietà di essere al tempo stesso trasparente e opaca, transitiva e riflessiva: da un lato una rappresentazione che è tale in quanto viene attraversata in direzione del rappresentato e quindi luogo della mimesis, della sostituzione, della finzione e dell'apertura verso uno spazio altro rispetto allo spazio ordinario; dall'altro, invece, una rappresentazione che esibisce la propria struttura e le proprie condizioni di possibilità, che Marin identifica nello sfondo (di volta in volta attraversato come fosse infinito o valorizzato nella sua bidimensionalità), nel piano della rappresentazione (supposto trasparente per consentire la visione all'interno dello spazio rappresentato), nella chiusura garantita dalla cornice, e infine nella capacità di produrre quello che Marin chiama un "effetto-di-soggetto". Lo spazio tridimensionale rappresentato nell'immagine può essere, in altre parole, considerato come delimitato dal piano frontale della rappresentazione - supposto trasparente in quanto intersecazione della piramide visiva e quarta parete frontale del cubo scenografico, ma a volte attraversato da oggetti che si propongono come trompe-l'oeil - e dallo sfondo, che di volta in volta viene attraversato indefinitamente tramite, per esempio, una prospettiva 'atmosferica', oppure chiuso e addirittura valorizzato nella sua bidimensionalità come luogo di una possibile iscrizione. Insieme allo sfondo e al piano della rappresentazione, il terzo elemento che contribuisce alla definizione dello spazio rappresentativo è proprio la cornice, che con la sua funzione al tempo stesso di chiusura e di focalizzazione costituisce una parte integrante del dispositivo della rappresentazione e della sua capacità di presentarsi come spazio della finzione, della mimesis, della figurazione di un altrove. Là dove, evidenziando in vario modo queste tre componenti - il piano della rappresentazione, lo sfondo e la cornice - la rappresentazione esibisce la propria struttura, essa avrebbe infine come conseguenza quella di produrre una sorta di 'effetto-di-soggetto", ossia finirebbe per determinare a priori le modalità del proprio esser-vista dando luogo a un 'io vedo' inteso come soggetto rappresentante, interprete e lettore che si pone di fronte alla rappresentazione stessa in una relazione estetico-conoscitiva. Caratteristica precipua della rappresentazione pittorica moderna, secondo Marin, sarebbe dunque quella di presentarsi come finzione e come mimesis somigliante, ma al tempo stesso di portare inscritta in sé, proprio in virtù delle condizioni che la rendono possibile, la costruzione di uno spettatore-lettore-interprete che ad essa si rivolge. Una rappresentazione, dunque, che propone e impone allo sguardo di chi la contempla un determinato atteggiamento estetico, condizionando profondamente la grammatica e la pragmatica del proprio esser-vista.

Le "figures pathétiques d'encadrement"

Insieme al ruolo deittico e ostentativo della cornice, Marin parla della funzione di quelle che chiama "figures pathétiques d'encadrement", figure rappresentate, facenti parte dell'immagine, che avrebbero la funzione di orientare lo sguardo dell'osservatore indicando ciò che deve essere visto e il modo in cui deve essere visto. Marin si riferisce alla figura albertiana dell'admonitor o advocator, di cui Alberti parla nel secondo libro del De pictura: "E piacemi sia nella storia chi ammonisca e insegni a noi quello che ivi si facci, o chiami con la mano a vedere, o con viso cruccioso e con gli occhi turbati minacci che niuno verso loro vada, o dimostri qualche pericolo o cosa ivi maravigliosa, o te inviti a piagnere con loro insieme o a ridere. E così qualunque cosa fra loro o teco facciano i dipinti, tutto apartenga a ornare o a insegnarti la storia" [II, 42, pp. 72-74 sott. mia]. Si tratta di figure dipinte, di cui si potrebbero fare innumerevoli esempi, che hanno la funzione, come sostiene l'Alberti, di ammonire, esibire, richiamare, minacciare, dimostrare, invitare, insegnare. Esse rafforzano e riecheggiano la funzione già svolta dalla cornice, trasformando, come scrive Marin, la deixis in epideixis, ossia l'indicazione in raccomandazione, il mostrare in dimostrazione, la narrazione in celebrazione ed elogio. Non più a partire dalla posizione marginale della cornice, bensì rivolgendosi allo spettatore dal cuore stesso della rappresentazione, le "figures pathétiques d'encadrement" inquadrano e indirizzano lo sguardo dello spettatore indicandogli le modalità patiche, affettive, con cui ci si deve porre di fronte alla rappresentazione. È un tema che ritroviamo in Poussin, pittore che - secondo quanto ci ricerisce Sandrart, un tedesco che lo conobbe da giovane intorno al 1630 - "quando stabiliva i criteri di una composizione [...] nella quale fosse coinvolta una narrazione, era solito disporre su una tavola di legno, divisa in riquadri, piccole figurine di cera raffiguranti soggetti nudi, in atteggiamenti che variavano a seconda della vicenda da rappresentare" [cit. in Claire Pace, Félibien's Life of Poussin (London, Zwemmer, 1981), p. 25]. In una lettera a Chantelou del 28 aprile 1639, mostrando di aver seguito le raccomandazioni albertiane, Poussin scrive:

Per il resto, se vi ricorderete della prima lettera che vi scrissi riguardo ai gesti delle figure che vi promettevo di fare, nel momento in cui considererete il quadro nell'insieme, credo che facilmente riconoscerete quali sono quelle che languono, quelle che ammirano, quelle che provano pietà, quelle che compiono azioni per carità, per grande necessità, per desiderio di nutrirsi, di consolarsi, ed altre ; infatti le prime sette figure a sinistra vi diranno tutto quello che è scritto qui, e tutto il resto è della stessa stoffa : leggete insieme la storia e il quadro, in modo da riconoscere se ogni cosa è appropriata al soggetto [Poussin, Lettere, pp.8-9, sott. mia]

Ecco quindi che la gestualità e la retorica degli affetti messe in scena dal pittore si mostrano al servizio di una rappresentazione che si offre come luogo della lettura e del riconoscimento ("leggete [...] in modo da riconoscere"). Amplificando la funzione di ostentazione e ingiunzione della cornice, Poussin ricorre dunque a quella che da secoli si era sviluppata come fisiognomica delle passioni, e che nel Seicento viene sistematizzata nel trattato Les passions de l'âme di Descartes e nelle tavole fisiognomiche di Le Brun.

La struttura moderna della rappresentazione: la Logique de Port-Royal e l'interpretazione di Foucault

La tesi di Marin riguardante la costitutiva compresenza di transitività e riflessività nella struttura moderna della rappresentazione - tesi che Marin sostiene con un notevole numero di riferimenti testuali e pittorici tra cui prevalgono quelli alla Logique de Port-Royal e alle lettere e ai quadri di Poussin - riprende in parte le tesi esposte da Foucault in Les mots et les choses, in cui la rappresentazione è considerata come la forma epistemica che succede all'episteme della somiglianza, forma di sapere dominante fino alla fine del Cinquecento e caratterizzata dalla centralità delle nozioni di convenientia, aemulatio, analogia e sympathia. Foucault sottolinea in diversi passi quelle che sono le due caratteristiche precipue della struttura della rappresentazione che si afferma a partire dall'inizio del Seicento: la trasparenza, ossia la forza mimetica fondata sull'elisione del soggetto che la istituisce, ma al tempo stesso la sua riflessività, attraverso la messa in scena della propria struttura e delle proprie condizioni di possibilità. Nel noto saggio "Le damigelle d'onore" che funge da introduzione a Les mots et les choses, leggiamo a proposito del quadro Las Meninas di Velazquez che Foucault elegge a emblema della struttura moderna della rappresentazione:

Vi è forse in questo quadro di Velazquez una sorta di rappresentazione della rappresentazione classica e la definizione dello spazio che essa apre. Essa tende infatti a rappresentare se stessa in tutti i suoi elementi, con le sue immagini, gli sguardi cui si offre, i volti che rende visibili, i gesti che la fanno nascere. Ma là, nella dispersione da essa raccolta e al tempo stesso dispiegata, un vuoto essenziale è imperiosamente indicato da ogni parte : la sparizione necessaria di ciò che la istituisce - di colui cui essa somiglia e di colui ai cui occhi essa non è che somiglianza. Lo stesso soggetto - che è il medesimo - è stato eliso. E sciolta infine da questo rapporto che la vincolava, la rappresentazione può offrirsi come pura rappresentazione [Foucault 1978, p.30]

La caratteristica saliente della rappresentazione moderna, evidenziata esemplarmente dal quadro Las Meninas, sarebbe dunque quella di essere al tempo stesso perfettamente trasparente e transitiva, ossia tale da rappresentare in piena trasparenza il proprio oggetto elidendo il soggetto che la costituisce e le tracce della propria genesi (nel caso del quadro di Velazquez e secondo l'interpretazione della costruzione prospettica del quadro avanzata - erroneamente - da Foucault, l'osservatore e il pittore, sostituiti nello specchio dalla coppia reale), ma anche profondamente opaca e riflessiva, ossia tale da mettersi in scena come rappresentazione nell'atto stesso del rappresentare, sottolineando le proprie condizioni di possibilità e la propria struttura. In un capitolo successivo di Les mots et les choses, intitolato "Rappresentare", Foucault sostiene che affinchè si affermi la struttura duale della rappresentazione - in cui il rapporto fra rappresentante e rappresentato non è più fondato nell'ordine stesso delle cose, ma è interno alla coscienza del rappresentante - il segno rappresentante deve presentarsi come tale: "Esso deve rappresentare, ma questa rappresentazione deve a sua volta essere rappresentata in esso. [...] Di fatto, il significante ha come contenuto, funzione e determinazione, solo ciò che rappresenta: gli è interamente ordinato e trasparente; ma tale contenuto non è indicato se non in una rappresentazione che si dà in quanto rappresentazione" [Foucault 1978, p.80]. In altre parole, l'âge classique nell'interpretazione datane da Foucault sarebbe caratterizzata dal potere che ha la rappresentazione di rappresentare se stessa, tratto che secondo sia Foucault che Marin sarebbe presente nei due esempi di rappresentazione proposti come paradigma dalla Logique: la carta geografica e il ritratto.

Come è noto, la teoria della rappresentazione rintracciabile nella Logique ou art de penser di Arnauld e Nicole nasce da un profondo intreccio di logica, semiologia, grammatica, teologia e morale: la questione dello statuto del segno rappresentativo e della legittimazione o delegittimazione del linguaggio metaforico (per esempio, nella frase liturgica ceci est mon corps) si colloca nel quadro del problema di chiarire il significato e la natura dei sacramenti, giustificando o condannando la concezione della presenza reale del corpo divino sotto le sembianze del pane e del vino, ossia la tesi secondo cui il corpo di Cristo sarebbe realmente, anche se non visivamente, presente nell'ostia consacrata. In questo quadro, in cui si fondono indagine gnoseologica e apologia dottrinale, si colloca la distinzione tra "idee di segni" e "idee di cose":

Quand on considère un objet en lui-même et dans son propre être, sans porter la vue de l'esprit à ce qu'il peut représenter, l'idée qu'on en a est une idée de chose, comme l'idée de la terre, du soleil. Mais quand on ne regarde un certain objet que comme en représentant un autre, l'idée qu'on en a est une idée de signe, et ce premier objet s'appelle signe. C'est ainsi qu'on regarde d'ordinaire les cartes et les tableaux. Ainsi le signe enferme deux idées : l'une de la chose qui représente, l'autre de la chose représentée, et sa nature consiste à exciter la seconde par la première [Logique, I,4, p.80 sott. mia]

Il passo prosegue suddividendo i segni in "certi" e "probabili", "uniti" o "separati" rispetto a ciò che designano, "naturali" e "convenzionali" ("d'institution et d'établissement"), e conclude con una serie di massime riguardanti la necessaria prudenza da osservare nei confronti dell'uso dei segni: a) non bisogna concludere mai, dalla presenza del segno, la presenza o l'assenza della cosa significata, in quanto vi sono segni di cose presenti e segni di cose assenti; b) una cosa può essere segno di sé, a patto che vi sia una distinzione di stato tra questa stessa cosa presa come segno e come designato ("une même chose peut être dans un certain état chose figurante, et dans un autre chose figurée" [I, 4, p.81]); c) una stessa cosa può al tempo stesso nascondere e rivelare ciò di cui è segno ("Ainsi les symboles Eucharistiques cachent le corps de Jésus-Christ comme chose, et le découvrent comme symbole" [ibid.]); d) un segno permane fino a quando permane il legame rappresentativo tra la cosa rappresentante e quella rappresentata, anche se una delle due cessa di esistere. Come esempi di segni in generale gli autori menzionano in primo luogo la carta geografica e il ritratto, mentre come esempio di segno naturale viene menzionata l'immagine speculare. Carte, ritratti e specchi ritornano nel capitolo XIV della seconda parte, intitolato "Des propositions où l'on donne aux signes le nom des choses" e riguardante la legittimità e l'utilità del linguaggio metaforico. Le conclusioni cui perviene questo capitolo sono che l'uso del linguaggio metaforico, ossia il parlare dei segni come se fossero le cose stesse, è possibile solo là dove ci sia, nell'ascoltatore, una predisposizione a considerare i segni come tali, ossia come qualcosa che intende rimandare al designato. In quest'ottica, il ritratto e la carta geografica vengono menzionati come esempi di segni che rimandano in modo evidente e assolutamente trasparente al proprio designato, tanto che, secondo gli autori, "on dira sans préparation et sans façon d'un portrait de César, que c'est César; et d'une carte d'Italie, que c'est l'Italie." Carta geografica e ritratto diventano dunque l'emblema di una rappresentazione assolutamente trasparente e capace di presentarsi onestamente come tale, ossia di rimandare direttamente al proprio rappresentato senza sostituirglisi surrettiziamente, senza inganni e senza esibire un vano piacere della finzione e dell'imitazione. Confermando la lettura proposta da Foucault e da Marin, la teoria della rappresentazione che emerge dalla Logique ci presenta dunque un modello di rappresentazione che è al tempo stesso trasparente nei confronti del rappresentato e auto-rivelantesi in quanto rappresentazione: l'utilizzo di segni rappresentativi nel linguaggio metaforico - per essere legittimo e non il frutto di un vano piacere della mimesis e della sostituzione come quello condannato da Pascal là dove condanna la "vanité [de] la peinture, qui attire l'admiration par la ressemblance des choses dont on n'admire pas les originaux" [Pensées, ed. Brunschvicg, n.134] - deve essere trasparente nel proprio rapporto con il referente e deve presentarsi inequivocabilmente come tale di fronte al destinatario.

La teoria della rappresentazione avanzata dalla Logique appare dunque finalizzata a discriminare nettamente tra un uso legittimo e uno illegittimo della sostituzione segnica e rappresentativa: di fronte al pericolo di un proliferare barocco dell'ambiguità fra realtà e rappresentazione, di fronte ai pericoli di un uso incontrollato del linguaggio metaforico che metta in pericolo l'interpretazione rigorosa del senso dei sacramenti, la Logique propone un ideale di rappresentazione fondato sulla trasparenza e sull'auto-esibizione. La rappresentazione deve auto-esibirsi, deve rivelarsi come tale inequivocabilmente ai destinatari proprio per essere il più possibile transitiva, e non per sedurre ulteriormente sottolineando l'ambiguità della finzione e della metafora. Si tratta di una netta risposta da un lato alla cultura barocca e dall'altro, forse, alla tendenza diffusa nella pittura del tempo di giocare riflessivamente sull'esibizione dei propri meccanismi rappresentativi. Nel saggio L'instauration du tableau di Stoichita troviamo infatti un'analisi delle diverse modalità in cui, tra '500 e '600, si sviluppa una riflessione meta-pittorica, ossia all'interno della stessa pittura, sulla natura della rappresentazione. La raffigurazione di cornici dipinte, nicchie, porte e finestre, costituisce, secondo la lettura di Stoichita, un modo per esibire pittoricamente il dispositivo della rappresentazione, con tutte le sue funzioni di delimitazione e inquadramento, rimando e sostituzione. L'inserimento nei quadri, per esempio di Vermeer, di carte geografiche, specchi e cornici, mostrerebbe una pittura intenta ad esibire il proprio statuto di rappresentazione, mentre il tema, ricorrente nella pittura seicentesca, della cornice dipinta sembrerebbe essere il veicolo di una mise en abîme in cui la rappresentazione si raddoppia diventando rappresentazione-di-rappresentazione, quadro nel quadro, finzione nella finzione.

Foucault e Marin ci presentano dunque una lettura della concezione moderna della rappresentazione, intesa sia come rappresentazione segnica in generale che come rappresentazione pittorica, fondata sulle due categorie di trasparenza e opacità, transitività e riflessività. In quest'ottica, la cornice del quadro svolgerebbe una funzione importante in una rappresentazione pittorica che rappresenta il proprio oggetto presentandosi come rappresentante, e dunque esibendo il proprio dispositivo, che include il gesto intenzionale con cui all'immagine viene assegnato un luogo e dei confini ben precisi. Prima di concludere, desidero però prolungare il mio percorso sul tema della cornice affrontando tre questioni: innanzitutto, cercando di comprendere se vi siano o meno delle analogie tra il ruolo della cornice nei confronti dell'immagine-quadro e quello di altri dispositivi di delimitazione e 'incorniciamento' presenti in altre forme di rappresentazione, come quella teatrale o musicale, e in altre forme di fruizione, come l'ascolto e la scrittura; in secondo luogo, vedendo se le funzioni che abbiamo individuato nella cornice dell'immagine-quadro possano valere anche per quell'istituzione delimitante e incorniciante per definizione che è il museo, istituzione che, sebbene ormai messa fortemente in discussione, mantiene intatte le sue funzioni di conservazione delle opere d'arte e al tempo stesso di presentazione, legittimazione, delimitazione e contestualizzazione; infine, cercando di capire se - in un'età, come la nostra, caratterizzata da un'enorme proliferazione delle immagini e da un aumento dell'importanza del visivo in generale - vi sia ancora la necessità di quella funzione di delimitazione svolta dalla cornice nei confronti dell'immagine-quadro, e se quindi la nuova grammatica e pragmatica del nostro vedere esigano ancora un gesto che sottolinei il confine tra ciò che è immagine e ciò che non lo è, o tra diversi tipi di immagine.

Dalla cornice alla bordure: i confini del quadro e del museo e la continuità del visivo

In un articolo pubblicato nel 1989 e intitolato "Sémiotique et rhétorique du cadre" [Groupe m 1989], il noto gruppo di semiologi che si presenta sotto la sigla di Groupe m avanza la proposta di estendere l'analisi dalla cornice alla questione dei margini della rappresentazione utilizzando la nozione di bordure. Attraverso questa nozione non si intende indicare soltanto la cornice del quadro, né il contorno che distingue un'immagine dallo spazio che la circonda o una figura dallo sfondo: la nozione di bordure indica, in generale, "ciò che, in uno spazio dato, conferisce unità organica a un enunciato di ordine iconico o plastico" [p.115]. La bordure, secondo gli autori del Groupe m , non si definisce affatto in base alla sua natura materiale, bensì per una specifica funzione semiotica: essa è un segno, un indice che conferisce uno statuto semiotico omogeneo a ciò che è da essa indicato, focalizzando così l'attenzione del fruitore. Nelle arti visive, la bordure può avere diverse manifestazioni, oltre a quella della cornice del quadro, quali lo zoccolo o il piedestallo su cui poggia una scultura, il titolo posto di fianco a un'opera d'arte, la delimitazione di uno spazio di fruizione, un testo critico introduttivo o esplicativo. Ogni forma d'arte, in altre parole, e ogni modalità di fruizione sarebbe caratterizzata dalle sue bordures: la copertina di un libro, l'introduzione a un saggio, il titolo di un'opera, l'applauso prima e dopo un concerto, l'aprirsi e il chiudersi del sipario in una rappresentazione teatrale. Ciò che accomuna tutte queste forme di bordure, di cui la cornice non è che un esempio, è il fatto di avere le stesse funzioni di indice, soglia, delimitazione, focalizzazione e ostensione. Di volta in volta, la bordure può essere considerata come interna o esterna allo spazio semantico e comunicativo da essa delimitato, come luogo di passaggio o come confine invalicabile, come istanza di mediazione o di cesura, con una pluralità di funzioni che, del resto, possiamo rintracciare anche nella storia particolare di quel tipo specifico di bordure che è la cornice del quadro: dalle cornici 'architettoniche' medievali e rinascimentali, alle cornici dorate neoclassiche, fino all'avvento delle 'minimali' cornici contemporanee, troviamo infatti una grande varietà di connotazioni e di funzioni che variano con il variare del contesto storico, sociale e culturale.

Estendere il concetto di cornice del quadro a quello di bordure intesa come margine della rappresentazione capace di ricontestualizzare e ri-presentare ciò che è da essa contenuto, ci consente inoltre di considerare le analogie tra la cornice del quadro e altre forme di incorniciamento e di delimitazione, considerando, ad esempio, la natura e le funzioni di quell'istituzione costitutivamente destinata alla conservazione e alla delimitazione che è il museo. Questo, con le sue riconosciute funzioni di conservazione e divulgazione, celebrazione e legittimazione, appare come reinterpretazione moderna di una storia secolare del raccogliere, del delimitare, del collezionare e dell'esporre. Una storia, che come mostra per esempio Marin in un articolo intitolato "Fragments d'histoires de musées" [Marin 1986], va dalle raccolte preistoriche di forme trovate, scolpite e impresse, alle raccolte di ex-voto nei santuari dei templi dell'antichità classica; dalla messa in scena di oggetti preziosi, mirabilia e trofei di guerra che seguiva alle vittorie dell'esercito romano in età imperiale al culto medievale delle reliquie; dall'auctoritas conferita alle antiquitates nel Rinascimento alla nascita delle Wunderkammern seicentesche, su su fino alla nascita, nel 1793 con l'apertura del Musée de la république nel palazzo del Louvre, del museo moderno con i suoi intenti ideologici, politici, archeologici e storiografici. storia del collezionare, del raccogliere e del delimitare, può essere letta come storia dell'incorniciare, una storia segnata da esigenze e ambiguità che si ripropongono nella recente messa discussione della natura del museo e delle sue finalità: discussione segnata ultimamente da un tentativo di rinnovare la funzione sociale e pedagogica del museo in un mondo e in una cultura in cui quest'ultimo è stato affiancato da una grande varietà di dispositivi di conservazione e archiviazione, imponendogli dunque di mantenere una propria chiara identità nei confronti di una cultura visiva sempre più in trasformazione. Del resto, la messa in discussione dello statuto privilegiato del museo nella sua funzione di delimitazione e canonizzazione della cultura è il prodotto di una più generale difficoltà di mantenere le antiche 'cornici' che delimitavano un tempo la cultura visiva. L'iconosfera in cui viviamo ci propone fianco a fianco immagini artistiche, pubblicitarie e televisive, nei cui confronti la funzione di delimitazione e 'incorniciamento' svolta da parte del museo appare inadeguata, anche se poi viene spesso delegato proprio al museo il compito di distinguere tra ciò che può essere considerato 'arte' e ciò che non può essere considerato tale. Ragionare oggi sulla natura e sulle finalità del museo, o di 'spazi' in parte analoghi come quelli della galleria, della rivista o del libro d'arte, significa spesso ragionare su quelle 'cornici' o bordures che delimitano ciò che all'interno di un determinato contesto teorico-critico viene considerato 'arte' e ciò che non lo è, all'interno di un flusso apparentemente indistinto di immagini di varia natura, oggetti d'uso quotidiano, citazioni, artefatti. Per molti aspetti, dunque, il tentativo di dare una risposta alla sempre ricorrente, e forse inutile, domanda "che cosa è arte?", deve essere sempre di più orientato verso un'indagine sul luogo dell'arte, come suggeriva già J.C. Lebensztejn nel 1970: "chercher à définir l'espace de l'art (et non plus son essence), le lieu de notre culture où la figure de l'art se dresse, pourrait bien nous aider à voir ce qui le constitute, dénouant ainsi une questione comme: qu'est-ce que l'art" [Lebensztejn 1970 p.321].

Ragionare sulla cornice, nel senso più ampio di bordure, e sui dispositivi di delimitazione e decontestualizzazione in atto nella cultura visiva contemporanea, può infine essere un modo di ragionare sui destini dell'immagine in una cultura sempre più caratterizzata da immagini proliferanti, svincolate dall'appartenenza a un luogo o a un supporto determinati: immagini che possiedono una diversa efficacia simbolica e che instaurano un diverso rapporto con la grammatica e la pragmatica della nostra visione; immagini che, per lo più, hanno perso quella che era una duplice caratteristica dell'immagine-rappresentazione, ossia quella di opporsi da un lato al soggetto rappresentante e osservante, e dall'altro a tutto ciò che rappresentazione non è, ossia lo spazio circostante, il fuori-scena, il fuori-quadro, il fuori-cornice. Immagini, quindi, che non si fondano su un'opposizione tra realtà e finzione e che invece - stando a quanto scrivono tre autori (Jean Baudrillard, Serge Daney e Régis Débray) cui dobbiamo alcune delle tesi più importanti riguardanti la natura di questa nuova generazione di immagini denominabile con il termine di visivo - danno luogo a una sempre crescente confusione tra realtà e immagine. Per Baudrillard, l'avvento dell'era della simulazione è segnato dal libero proliferare di simulacri sganciati dai loro referenti e dalla fine dell'immagine come rappresentazione opposta alla realtà. Fine dell'immagine come rappresentazione significa, per Baudrillard, fine del reale e avvento di un iperreale in cui tutto viene tradotto in immagine, tutto è esposto e duplicato: è l'avvento di una dimensione di oscenità in cui si perde completamente il ruolo delimitante delle cornici, una situazione in cui tutto il reale, indefinitamente inquadrato, ingrandito, reiterato e stereotipato, diventa osceno. Per Serge Daney con l'avvento del visivo si ha la fine dell'immagine come rappresentazione, un'immagine fondata su un rapporto di alterità rispetto alla realtà e posta in posizione frontale rispetto a uno spettatore che si trova ora, invece, in una situazione di immersione, più simile, come sostiene Débray, all'ascolto che alla contemplazione: il passaggio dall'epoca dell'immagine come rappresentazione - ossia dell'immagine come simulacro, copia, imitazione, ombra e proiezione - al proliferare indeterminato del visivo farebbe sì, secondo Débray, che la grammatica e la pragmatica della nostra visione si modifichino fino a trasformare lo sguardo in una "modalità dell'ascolto". Ma se queste sono le caratteristiche del nuovo spazio visivo in cui viviamo, appare sempre più necessaria un'indagine che chiarisca quali siano le nuove forme di delimitazione e incorniciamento che prendono in eredità il lascito della cornice.

 

TESTI CITATI

CG: Kant, Critica della capacità di giudizio, a c. di L. Amoroso, BUR, Milano, 1995.

De pictura: L.B. Alberti, De pictura, in Opere volgari, a c. di C. Grayson, Laterza, Bari 1973.

Groupe m 1989: Groupe m (F. Edeline, J.-M. Kinkenberg, Ph.Minguet), "Sémiotique et rhétorique du cadre", La part de l'oeil, 5 (1989), pp.115-131.

Foucault 1978: M. Foucault, Le parole e le cose. Un'archeologia delle scienze umane, BUR, Rizzoli, Milano 1978.

Foucault 1988: M. Foucault, Questo non è una pipa, SE, Milano 1988.

Lebensztejn 1970: J.-C. Lebensztejn, "L'espace de l'art", Critique 275 (1970), pp.321-343.

Lebensztejn 1999: J.-C. Lebensztejn, "A partir du cadre (vignettes)", in Annexes - de l'oeuvre d'art, La Part de l'Oeil, Paris 1999, pp.181-223.

Logique: A. Arnauld - P. Nicole, La logique ou l'art de penser, a c. di L. Marin, Flammarion, Paris 1970.

Marin 1982: L. Marin, "Les combles et les marges de la représentation", in Rivista di estetica, 1982, pp.11-33]

Marin 1986: L. Marin, "Fragments d'histoires de musées", Cahier du Musée national d'art moderne, nn.17-18, 1986, pp.8-17.

Marin 1994: L. Marin, De la représentation, Seuil/Gallimard, Paris, 1994.

Ortega y Gasset 1997: J. Ortega y Gasset, "Meditazioni sulla cornice", in I percorsi delle forme. I testi e le teorie, a c. di M. Mazzocut-Mis, Bruno Mondadori, Milano 1997.

Poussin, Lettere: N. Poussin, Lettere sull'arte, a c. di D. Carrier, Hestia, Cernusco L., 1995.

Schapiro 1969: M. Schapiro, "On Some Problems in the Semiotics of Visual Art: Field and Vehicle in Image-Signs", Semiotica (1), 1969, pp.223-segg.

Simmel 1997: G. Simmel, "La cornice del quadro. Un saggio estetico", in I percorsi delle forme. I testi e le teorie, a c. di M. Mazzocut-Mis, Bruno Mondadori, Milano 1997.

Stoichita 1998: V.I. Stoichita, L'invenzione del quadro. Arte, artefici e artifici nella pittura europea, Il Saggiatore, Milano 1998.


 

Le parole della filosofia, III, 2000

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