Le parole della filosofia, III, 2000

Seminario di filosofia dell'immagine


La cornice teatrale

Considerazioni sulla cornice come strumento generativo dello spazio della rappresentazione scenica e suo indice di riconoscimento

- Chiara Cappelletto -

Residenz Theater di Monaco

La critica teatrale contemporanea intende il termine "cornice" secondo quattro diverse accezioni: come "cornice scenica" in quanto limite fisico della scena; come "cornice dell'azione", quando ambienta la vicenda da un punto di vista narrativo; come "inquadratura", che è il modo di determinare la distanza e la profondità rispetto alle quali va collocato lo spettatore; infine, come "sfondo culturale", che giunge a comprendere la recensione dello spettacolo.

Il significato che interessa qui è il primo. Esso appartiene a un modello descrittivo e regolativo che si è progressivamente delineato a partire dal XVI secolo nell'Europa Occidentale, per normalizzarsi nel secolo successivo. Questo modello raggiunse il proprio coronamento nella seconda metà del 1800, con la distribuzione degli spazi proposta dal Festspielhaus wagneriano di Bayreuth, ed è stato infine investito dalla critica condotta dal teatro di ricerca del Novecento che si è orientato a favore della funzione performativa della scena, in contrapposizione a quella rappresentativa.

Con l'espressione "cornice scenica", infatti, si sottintende l'assunzione dell'evento teatrale in quanto rappresentazione, e più specificamente in quanto rappresentazione scenica. Tale assunzione porta a ritenere che ciò che accade in scena goda dello statuto di immagine, come traduzione in immagine del testo drammatico o come riproduzione in immagine di una realtà da ri-presentare. Tra cornice e immagine sembra dunque darsi una corrispondenza diretta, che si realizza nella rappresentazione.

L'organizzazione dello spazio della finzione propria dell'arte figurativa - intesa nella sua accezione più vasta, comprensiva di arazzi, incisioni, tavole, affreschi e tele - ha avuto un ruolo rilevante nella configurazione di tale corrispondenza, venendone a sua volta condizionata. Questa influenza reciproca è testimoniata da un punto di vista sia estetico che storico.

L'affinità delle abitudini percettive proprie dell'arte figurativa e di quella teatrale è attestata dal noto giudizio di Diderot il quale, esprimendo una posizione condivisa dall'estetica settecentesca, poté affermare che "lo spettatore sta a teatro come davanti a una tela, dove quadri diversi si succedono per incanto" (Diderot, Teatro e scritti sul teatro, La Nuova Italia, Firenze, 1980, cap. XXI, p. 305, corsivi miei). L'autore del Paradosso sull'attore assume qui l'incanto come sfondo dal quale si stagliano immagini in forma di quadro, suscitando la meraviglia dello spettatore; tale dichiarazione di poetica tuttavia può essere enunciata solamente se viene fondata sulla base di una grammatica della percezione dell'accadimento scenico ben precisa, che condivide con il linguaggio pittorico la propria regola base, cioè il principio organizzativo che si esercita su uno spazio da circoscrivere e rendere artificiale e autonomo rispetto a quello dello spettatore.

Possiamo individuare la prima condizione da soddisfare per la realizzazione di tale principio nel criterio di delimitazione e demarcazione. Riferendosi alla pittura del Trecento toscano, Ludovico Zorzi scrive: "sono soprattutto gli invasi spaziali delle stanze, gli interni senza quarta parete, gli ambienti decorati e svelati da tende in funzione di sipari; [...] sono i particolari di scenotecnica e di addobbo [...] a far pensare a una costante osmosi tra la pittura e il palcoscenico" (L. Zorzi, "Figurazione pittorica e figurazione teatrale", in Storia dell'arte italiana, parte I, vol. I, Einaudi, Torino, 1979, p. 427, corsivi miei).

S. Martini, La maestą

Van der Weyden, Annunciazione

Tale osmosi è stata oggetto di un ampio dibattito tra storici dell'arte e storici del teatro, una volta che il patrimonio iconografico dell'arte figurativa è stato riconosciuto come una delle fonti principali per lo studio della grammatica della raffigurazione teatrale. Ricordiamo qui due posizioni paradigmatiche, espresse da Georg R. Kernodle e da Paul Francastel. Il primo, in From art to theater. Form and convention into the Renaissance (G. R. Kernodle, From Art to Theatre. Form and Convention in the Renaissance, 5° ed., Chicago-London, 1970), ha collocato le origini del teatro moderno nelle forme dell'arte medievale, accostando la messinscena rinascimentale delle cerimonie pubbliche - cortei, entrate e camere di retorica - ad alcuni elementi topici della pittura del Quattrocento - come la nave, il tempio, l'arco di trionfo, il baldacchino -, elementi che avrebbero fornito al teatro quelle soluzioni figurative che sono poi confluite nella sala barocca.

In Immagine plastica (P. Francastel, Immagine plastica, in "Guardare il teatro", Il Mulino, Bologna, 1987), Francastel, pur condividendo questo giudizio sul ruolo propulsivo che la pittura svolse nei confronti del teatro nel XV secolo, al quale fornì un "sistema di figurazione geometrica inedita" (P. Francastel, ibidem, 75), pone l'accento sugli scambi tra i materiali del repertorio delle due arti, e conclude che nel Seicento è stato piuttosto il teatro "ad avere il sopravvento e a realizzare, infine, il compromesso tra la figurazione nata dalle antiche tradizioni, le concezioni dello spazio unitario e astratto nate dallo spirito scientifico moderno e le tradizioni del meraviglioso dello spettacolo popolare" (P. Francastel, ivi).

Fronte di cassone, La storia di Giselda

La condivisione del medesimo schema rappresentativo da parte di teatro e arte figurativa è variamente documentata. Se nel Medioevo l'organizzazione narrativa dalle alzate rettangolari dei cassoni citava lo svolgimento paratattico delle vicende narrate per loci deputati, nel Settecento la similarità tra gli scorci dei quadri di Longhi e i resoconti delle messe in scena di Goldoni, che giudica Longhi come il proprio equivalente in pittura, testimonia il grado di analogia formale che si è progressivamente consolidato tra linguaggio pittorico e linguaggio scenico nella forma quadrata di tela e scena teatrale, e dunque tra quadro e scena - tale affinità è confermata anche nel Novecento dalle modalità di messa in crisi della logica rappresentativa moderna condotta dall'avanguardia figurativa e teatrale; si pensi da un lato a Les promenades d'Euclides di Magritte e dall'altro alle cornici vuote appese al sipario da Antonin Artaud in Victor ou Les Enfants au Pauvoir, dramma borghese di Roger Vitrac, ultimo dei quattro spettacoli del Théâtre Alfred Jarry di Artaud, messo in scena nel 1929 -.

P. Longhi, L'indovina

P. Longhi, Il mondo novo

 

Corrispondenze simili confermano come la traduzione in immagine di una narrazione, che abbia un valore non meramente iconico, chieda di essere delimitata, e d'altra parte esse inclinano a far valutare l'accadimento scenico come un tableau vivant, quasi l'inverso del modo figurativo del trompe l'oeil, mentre la natura dell'evento teatrale eccede di molto questo genere.

Con il termine "teatro" ci si riferisce comunemente a più oggetti. Esso denota tanto lo spazio interno di un edificio destinato a esecuzioni musicali e drammatiche, quanto i suoi singoli ambienti; indica poi l'intero edificio, lo spettacolo e l'istituzione. Infine, esso viene usato comunemente come sinonimo di drammaturgia, tanto che le biblioteche italiane raccolgono sotto l'argomento "teatro" quasi esclusivamente i testi drammaturgici. Tale confusione appartiene alle lingue neolatine, mentre le lingue germaniche distinguono tra drama e theater. La definizione di "teatro" che adotteremo qui corrisponde a questa seconda.

"Teatro" deriva dal latino theatru(m), trascrizione dal greco theatron, dal verbo thesthai che significa "guardare". Fino al IV secolo a.C. theatron "si riferiva non a un luogo ma semplicemente al gruppo convenuto degli spettatori. Non esisteva una parola per denotare al tempo stesso l'orchestra e l'auditorio" (A. Nicoll, Lo spazio scenico. Storia dell'arte teatrale, Bulzoni, Roma, 1971, (5°), p. 21): il teatro nasce dunque non come spazio deputato alla rappresentazione, ma come esercizio comune di visione.

Solo successivamente alla configurazione della messa in scena teatrale come rappresentazione e alla delimitazione di un suo spazio specifico, verificatesi nei secoli XV e XVI, "teatro" denoterà un luogo separato, da guardare e da cui guardare, senza per questo diventare mai un oggetto o un'opera. Da questo momento esso sarà uno spazio d'azione stabilmente alternativo a quello abituale, nel quale qualcuno si mostra e qualcuno guarda, confermandosi in tal modo come l'espressione di una relazione estetica tra un attore e un osservatore per i quali sono necessari strumenti che organizzino una pratica continuata e non ripetitiva di visione e di esibizione.

Perché si verifichi una visione eccentrica al campo di interesse abituale dell'osservatore, è necessario che il raggio d'azione in cui la sua attenzione si esercita venga interrotto dalla segnalazione di una zona d'interesse altra rispetto a quella in cui egli si sta muovendo. L'occhio dell'osservatore deve venire guidato da un segno che non è tale nello stesso modo in cui lo è la lettera, che si fa trasparente a favore del significato, bensì, heidegerianamente, per la sua capacità di orientamento (cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, § 17), grazie alla soluzione di continuità con la realtà abituale che viene riorganizzata come sfondo. Tale segno è la cornice, e la dicitura che adotteremo ora per definirla è quella di "frontespizio". Significativamente composto da frons, frontis - "fronte" - e dal tema di specer - "guardare" -, essa designa la cornice non come oggetto quanto piuttosto come forma di una funzione. Il frontespizio invita a leggere unitariamente le diverse figure e i luoghi che ci si presentano di fronte e in successione durante le narrazioni animate.

Scene dall'Andria di Terenzio

Una delle prime testimonianze dell'uso di considerare queste stazioni narrative non come unità singole ma come un tutto unico è fornita dalle illustrazioni dell'Andria di Terenzio. Nell'edizione pubblicata a Lione nel 1493, sono riprodotte "case incorniciate ai lati da colonne decorate con nicchie e statuette" (A. Nicoll, ibidem, p. 86. Con il termine case si indicano edifici che riproducono la forma del castello o della casa con le mura merlate), viste probabilmente durante le rappresentazioni promosse dall'Accademia romana di Pomponio Leto (1425-98) e in alcune rappresentazioni ferraresi. Tali case venivano percepite come "parti di un tutto rappresentante una generica strada di città, e conseguentemente erano viste nel loro insieme come una specie di "quadro" unitario che richiedeva una qualche sorta di cornice" (A. Nicoll, ibidem, p. 87, corsivi miei). Il tono prudente di Allardyce Nicoll, un riferimento obbligato nella storia novecentesca del teatro, avverte del fatto che le illustrazioni dell'Andria non mettono di fronte a una cornice scenica autonomamente disponibile ma a uno spazio visto come conchiuso, emarginato.

Se oltre la cornice si dà uno spazio che è qualitativamente alternativo - ragion per cui da un punto di vista interno allo spazio assoluto della scena oltre la cornice non c'è nulla -, mentre il margine è una pausa in uno spazio continuo, allora qui ci troviamo di fronte a margini e non a cornici, dal momento che nelle incisioni dell'edizione dell'Andria le case rappresentate, pur percepite come un complesso unitario, sono inserite in uno spazio maggiore condiviso.

Il dispositivo di delimitazione e demarcazione, che abbiamo individuato come momento logicamente originario del principio organizzativo dello spazio deputato all'artificio, è dunque fondante della funzione di incorniciamento, e tuttavia questa non si esaurisce nel semplice suggerimento di una differenza qualitativa dello spazio. Il frontespizio svolge piuttosto una funzione deittica, indicando una alternanza qualitativa tra spazio della raffigurazione e spazio della fruizione, che pone in una costante relazione di distinzione e inerenza. Essa è limite in senso kantiano, ed è riconoscibile in virtù di una forma data: la forma ad arco.

Dal momento che i primi dispositivi di delimitazione sono rettangolari, e che tuttavia la forma del frontespizio si precisa come arcuata relativamente presto, Nicoll inclina a considerare tanto l'arco scenico quanto l'arco dipinto, attraverso il quale si apriva la scena raffigurata, quasi come un "estremo residuo della scaenae frons romana" (A. Nicoll, ivi).

Teatro di Orange

Disegno di Neroni per l'Ortensio

Disegno di Antonio da Sangallo

Questa posizione è suggerita da uno dei primi schizzi teatrali rinascimentali di cui si è a conoscenza. Si tratta di un disegno di Antonio da San Gallo il Giovane (1485-1546) nel quale è progettata "una scena di piazza cittadina al di là di una apertura centrale rettangolare indicata come aula regia" (A. Nicoll, ibidem, p. 93), che mostra una chiara relazione con la centrale porta regia della scenae frons romana, come anche tra questa e gli archi dei pittori.

Un ulteriore elemento a sostegno di tale soluzione interpretativa è fornito da alcuni disegni di Inigo Jones (1573-1652), scenografo della corte inglese, formatosi sui lavori degli scenografi e degli architetti italiani, in particolar modo di Palladio - si sa infatti che aveva visitato il Teatro Olimpico di Vicenza, il cui prospetto dipende chiaramente dalla scaenae frons romana, mentre il peristilio al limite esterno della cavea a colonne corinzie richiama la columnatio del sostegno esterno dei teatri latini, ed è pervenuta una copia del trattato palladiano di architettura da lui chiosata.

Uno di questi schizzi rappresenta il teatro Cockpit-in-Court, la cui area scenica è chiusa sul lato anteriore da una facciata tridimensionale curva nella quale sono ricavate cinque porte.

Un secondo schizzo ritrae un palcoscenico la cui facciata ha l'arco della porta centrale fortemente allargato così che funge da frontespizio.

Teatro di Swan

La porta fornisce dunque una chiave di lettura per la configurazione del frontespizio, che invece l'assimilazione dello spazio scenico "semplice" da parte di quello prospettico del teatro barocco ha spesso portato a considerare a guisa di mero infisso per la finestra prospettica. Come dispositivi di incorniciamento, porta e finestra presentano alcune differenze rilevanti. La porta è sempre stata usata in pittura quale figura di passaggio verso un secondo interno, al contrario della finestra che apre verso un fuori alternativo. "La porta - scrive Victor Stoikita - si limita a costituire uno iato in seno al mondo della 'cultura'" (V.Stoikita, L'invenzione del quadro, il Saggiatore, Milano, 1998, p. 55), mentre la finestra si apre sulla Natura. Se la finestra chiede uno spettatore del possibile, la porta si concede a qualcuno che si sporga per un momento prestando attenzione. Quest'ultima può venire aperta, mentre la finestra è un riquadro già permanentemente aperto. Infine se la porta apre su un oggetto, la finestra pone di fronte alla sua rappresentazione; soprattutto, la porta aperta non ha bisogno di una coordinazione organizzata degli oggetti ma solo di una loro ragionevole prossimità. Il frontespizio controlla dunque la dispersione spaziale della narrazione, presentando la scena all'osservatore, ma non ne determina la prassi rappresentativa

Se per lo sguardo dell'osservatore la cornice esercita la propria funzione come frontespizio, resta da chiarire la funzione che essa svolge rispetto all'esibizione scenica. Perché l'esibizione di una personavenga distinta dalla sua semplice presenza, essa deve essere sciolta dalla condivisione dello spazio abituale e resa eventualmente disponibile per qualsiasi luogo. Tale "assoluzione" della sua immagine corrisponde a un mutamento nel comportamento del pubblico che da semplice osservatore si fa spettatore di una manifestazione fondata "sul riferimento a chi agisce, a chi spettacolo, piuttosto che all'esperienza di chi vi assiste" (C. Pavolini, voce "spettacolo", in Enciclopedia dello spettacolo, 1962). Questo comportamento si normalizza quando lo spazio scenico semplice viene organizzato come spazio prospettico.

Dando per nota la costruzione della prospettiva pittorica albertiana, consideriamo la prospettiva scenica, che ha per altro sollecitato le soluzioni della prima, applicandola a tre superfici intersecantesi: il palco, il fondale e le quinte, i piani in sfuggita. La teoria della prospettiva scenica - inaugurata dalla scena di città di Sebastiano Serlio (1475-1554), caratterizzata da forti strutture architettoniche laterali e da un vuoto centrale - verrà formulata da un amico di Galilei, Guidubaldo Santa Maria Bourbon del Monte (cfr. F. Marotti, Lo spazio scenico, Bulzoni, Roma, 1974, p. 37).

S. Serlio, Scena comica

La ricerca si rivolgerà poi alla prospettiva intesa come oggetto d'indagine autonomo e non solamente come scheletro dell'oggetto-scena (cfr. F. Marotti, ibidem, p. 69), fino all'inserimento consapevole del pubblico come parametro direttivo, cui corrisponde la sottomissione dello spazio scenico a quello dell'edificio teatrale (cfr. F. Marotti, ibidem, p. 75). Il Seicento sembra "percorso da un'unica direttiva di ricerca: stabilire ed esplicitare il carattere illusionistico dello spazio" (F. Marotti, ibidem, p. 43) prima rispetto allo spazio scenico e poi rispetto allo spazio teatrale totale.

A. Pozzo, Disegno

F. Bibbiena, Prospettiva

Sul finire del Barocco, la logica della verosimiglianza, propria dello spazio scenico prospettico, include nel suo gioco anche lo spazio dello spettatore. Con Andrea Pozzo "lo schema prospettico rivendica apertamente la propria autonomia ponendosi in funzione di uno "spettatore impossibile" [...]. Ponendo l'"occhio" in una zona inaccessibile, il Pozzo subordina la scena prospettica a un'osservazione individualizzata e sovrappone quindi, per così dire, all'assetto prospettico esistente (fisso) una prospettiva mutevole di visione. Il che equivale a postulare formalmente l'"obiettività" dello spazio simulato. La prospettiva perde il suo carattere "illusionistico" e si avvia a diventare lo strumento di identificazione tra spazio reale e spazio scenico" (F. Marotti, ibidem, pp. 84-85). Le proposte scenografiche di Bibbiena sanciranno la distinzione tra il centro ottico, presupposto dalla prospettiva, e la posizione che lo spettatore occupa in sala; egli progetta un luogo scenico le cui coordinate valicano, almeno in potenza, lo spazio delimitato da palco e quinte, in modo che lo spettatore, se si volesse spostare, ne vedrebbe sempre parti ulteriori: "alla prospettiva interna della figurazione si sovrappone la prospettiva esterna di colui che guarda. [...] La scena [...] non già come oggetto "visto" [...] ma come oggetto "reale" atto a essere guardato" (F. Ruffini, Biblioteca teatrale, 3, 1972, pp. 1-18, cit. in F. Marotti, ibidem, pp. 91-92).

L'organizzazione prospettica dello spazio scenico come condizione di possibilità per l'autonomia dell'accadimento scenico corrisponde al superamento della dimensione antropologica del teatrico che esclude l'immagine perché idolatrica - i clerici attori medievali non rappresentano Cristo e le Marie ma presentano la loro storia -, e che ha la propria giustificazione nella funzione catechetica della Biblia pauperum e della drammatizzazione della liturgia. Il fedele medievale partecipa alla drammatizzazione della liturgia, corrispondendo in modo empatico a ciò che vede, e che gli è con-temporaneo nella festa che intrama, e non incornicia, le manifestazioni cittadine e poi cortesi di un tempo comune.

Il punto di rottura di tale contemporaneità perfetta è costituito dalla rivoluzione umanistica: è il passato a presentarsi nella nuova forma dell'Antichità. Accanto alle opere in latino classico a soggetto religioso, vengono rappresentati i classici recuperati, come l'Andria terenziana messa in scena nel 1476 a Firenze: "rappresentare l'Andria [...] è anche disancorare lo spettacolo dal contesto mobile delle manifestazioni teatrali, siano esse cittadine o scolastiche, e inserirlo nell'universo immobile dei libri" (F. Cruciani e F. Taviani, "L'indice fiorentino", in AA. VV. Teatro e culture della rappresentazione. Lo spettacolo in Italia nel Quattrocento, Il Mulino, Bologna, 1988, p. 350). La valenza spettacolare del teatrico quattrocentesco scema dunque a favore della messa in scena dello scritto da tradurre in immagine. Il neonato spettatore non partecipa più allo svolgimento di un'azione, egli assiste invece alla rappresentazione di un testo che si dà in quanto da rappresentare per lui, ed è così chiamato a essere "testimone diretto e presente dell'azione drammatica" (C. Molinari, "Les rapports entre la scène et les spectateurs dans le théâtre italien du XVI siècle", in Le lieu théâtral à la Renaissance, Paris, CNRS, 1964, cit. in F. Cruciani e F. Taviani, ibidem, nota 26, p. 361, corsivo mio), testimone al quale guardano infatti i teorici del Cinquecento.

Si fondano qui la separatezza e l'alternanza di scena e sala, il cui medio è la soluzione logica e figurativa del "come se" che sta sulla soglia di un massimo di realismo e di un massimo di illusionismo: "[dare] la sensazione di ciò che lo spazio tridimensionale sarebbe qualora venisse raffigurato su di un'unica superficie [...] è il problema prospettico e spaziale tipico del teatro illusionistico che dal teatro barocco giunge fino al teatro borghese" (F. Marotti, ibidem, p. 10).

Tale "come se" si realizza nella cornice. Se la narrazione di una storia produce uno stacco nella Storia, la cornice protegge tale sospensione circoscrivendola e garantendone in tal modo l'alterità. Dal momento che ne è garantita l'alterità, lo spettatore può riconoscere la persona in scena come proprio analogo, senza timore di confondersi con essa ("The uniquennes of the perspective principle, and thus of Renaissance theory as a whole, lies in the claim that fiction, in fact, can simoultaneously claim and disclaim its own fictionality", A. Procaccini, "Alberti and the "Framing" of Perspective", in The Iournal of Art and Art Criticism, XXX/1, 1981, p. 35). Questo riconoscimento è reciproco: lo spettatore vede l'attore così come l'attore, da dietro la maschera del suo personaggio, vede lo spettatore. Tale reciprocità invalida l'eventuale pretesa di uno dei due antagonisti di porre definitivamente la cornice al di fuori del proprio spazio, e di attribuirla all'altro, qualificandolo come "finto"; in tal modo è sempre possibile sollevare il dubbio sullo statuto di realtà di ciascuna delle due presenze reciprocamente alternative. La cornice permette a ciascuna di loro di fingersi al di là e, da lì, di guardarsi al di qua. Solamente in questo senso è possibile la metafora della vita come teatro e viceversa. La cornice teatrale consente la riflessione reciproca di scena e sala, in un al di qua e al di là temporale e in un al di qua e al di là spaziale.

La funzione svolta dalla cornice dello spazio prospettico condivide dunque la valenza di limite propria del frontespizio, ma non si esaurisce in essa. Essa è diventata tangibile e visibile "in sé", è arco scenico e "occhio scenico" (cfr. Fabrizio Carini Motta, Trattato sopra la struttura de' teatri e scene, introduzione, note e piante di teatri dell'epoca di Edward A. Craig, Il Polifilo, Milano, 1972, p. 10 e passim, cit. in L. Zorzi, Il teatro e la città, Einaudi, Torino, 1977, p. 90), un occhio che, a differenza di quello wittgensteiniano, è sempre saputo da chi ne esercita la funzione. Esso funge da condizione di possibilità per la rappresentazione e la contemporanea visione della medesima realtà in una scena che non è più chiamata a rimemorare un fatto accaduto - come la scena medievale la cui modalità costruttiva e la cui ideologia sono di tipo iconico -.

Se il frontespizio doveva educare lo sguardo e dirigere l'attenzione, l'arco scenico deve "organizzare l'immagine e dilettare la vista: il successo dell'arco dipende dal rispetto di questa parità" (G. Banu, Il rosso e oro. Una poetica della sala all'italiana, Rizzoli, Milano, 1990, p. 100). Esso "rischia di tradire il suo ruolo nel momento in cui cerca di imporre la sua autonomia, rincarando la sua bellezza. È il difetto dell'arco borghese [che dalla seconda metà del XIX secolo] sacrifica la sua funzione a profitto della sua presenza" (G. Banu, ivi), neutralizzando la tensione dinamica che mantiene insieme sala e scena. Il suo disegno può essere allargato per far circolare meglio il suono dei cantanti o allungato per favorire l'immagine, ma deve comunque essere "nobile nella forma e semplice negli ornamenti" (Noverre, cit. in P. Patte, Essai sur l'architetture théâtral ou l'ordonnance la plus avantageuse à une salle de spectacle, relativament aux principes de l'optique et de l'acoustique, Paris, Moutard, 1782, pp. 152-153, cit. in G. Banu, ibidem, p. 98). Il frontespizio ad arco sancisce la stipulazione del patto di coabitazione tra il mondo e la sua rappresentazione.

Si può dire che la palpebra dell'occhio scenico sia il sipario. Il suo uso regolare all'inizio della rappresentazione si afferma con il teatro barocco secondo modalità precise: cade all'arrivo del monarca, la sua caduta viene salutata da un mormorio di sorpresa del pubblico e dopo qualche minuto di attesa ha inizio lo spettacolo. Durante i cambi di scena, che sono a vista, il pubblico viene intrattenuto e distratto dalla musica. La caduta del sipario annunciava dunque la meraviglia, la rappresentazione meravigliosa, che però non modificava la propria natura per tale gesto inaugurale.

Si pensa che il fatto che generalmente il sipario non si alzasse, o meglio calasse, durante la rappresentazione, fosse legato alla regola dell'unità di luogo, ma più probabilmente non era mai venuto in mente a nessuno di usarlo tra un atto e l'altro o nei cambi di scena. Nel 1830 cadrà dopo ogni atto del Guglielmo Tell di Rossini, e finalmente, il sipario romantico frazionerà d'abitudine lo svolgimento dell'opera, sebbene questa fosse una scelta prettamente poetica, come conferma il fatto che per tale uso venisse adoperato un secondo sipario, detto "comodino", molto più leggero di quello usato in apertura.

Teatro Smetana di Praga

Quando il sipario venne utilizzato in modo sistematico, l'arco di proscenio dovette sostenerne il peso, specialmente quando fu imposta per legge una pesante cortina metallica che doveva limitare il rischio d'incendi, e di cui bisognava occultare i meccanismi.

L'arco scenico vale ormai come elemento architettonico e decorativo, come ornamento che termina le decorazioni del soffitto, e cede la propria funzione di occhio e di limite, che viene assunta dalla nuova cornice protagonista del teatro ottocentesco: il buio del teatro a scatola ottica del Festspielhaus wagneriano, nel quale il sipario di velluto rosso frangiato d'oro prosegue il rosso dei sedili e delle pareti su cui si stagliano i borghesi vestiti di nero, permettendo "alla sala di costituirsi in un insieme coerente" (G. Banu, ibidem, p. 249) cui ora la scena si contrappone. Il buio wagneriano sancisce la fine di quella pratica abbastanza diffusa in Italia e in Europa fino a tutto il Settecento, per la quale parte del pubblico si sedeva sul palcoscenico, verso la ribalta, rammemorando la compresenza del momento compiutamente rappresentativo dell'accadimento scenico e del momento semplicemente presentativo che esercita una valenza ironica sulla pretesa credibilità della finzione teatrale. La scena che si apre al di là del golfo mistico, incorniciata dal buio bordato dall'arco è Rappresentazione.

Festspielhaus wagneriano

Ripercorrendo i momenti significativi che testimoniano come la cornice scenica si sia costituita quale condizione di possibilità della visione e della rappresentazione teatrale, dobbiamo rilevare come essa sia sempre stata immaginata sulla soglia tra sala e scena. Nel tentativo di rispondere alla questione cui ci siamo riferiti all'inizio, e cioè se la rappresentazione sia l'esito nel quale si realizza la corrispondenza diretta tra cornice e immagine, può essere utile spostare l'attenzione alla pragmatica di una cornice teatrale che non coincide con quella scenica: la cornice dei palchi.

I palchi italiani delle famiglie aristocratiche sono incorniciati da lesene dorate e sono chiusi da un sipario. Gerges Banu, il cui lavoro sul teatro barocco è imprescindibile per questo studio, afferma che il palco "serve da scena e da quadro; [...] Coloro che lo hanno occupato si sono esercitati nell'arte di dosare l'equilibrio tra vedere e mostrare [...].

Palchi della Scala di Milano

Sipario del Teatro Colón di Buenos Aires

Esso attirava la percezione di primo acchito, poiché veniva percepito nella sala come un'altra scena, [...] quella del teatro nel mondo" (G. Banu, op. cit., p. 127). La morfologia del palco infatti ripropone analogicamente quella della scena: esso è provvisto di prospetto, sipario, arredamento interno, luci, ritmo di entrata e uscita delle comparse (.JPG) - le visite nei palchi non potevano durare più di una ventina di minuti, pena il rischio di bloccarne il ritmo vitale e di costringere le dame all'immobilità, creando una noia imperdonabile per chi guardava la scena e per chi la animava -.

Da simili palchi si esibiscono le dame, vere protagoniste della scena della sala fino all'affermazione ottocentesca della coppia borghese - la centralità scenica delle donne nello spettacolo teatrale aristocratico deve essere presa molto seriamente. Per fare solo un esempio, nel 1750 l'abate Raynal deplora che il prevosto dei mercanti abbia ridipinto la sala dell'Opéra di verde perché è un colore che stona con l'incarnato delle dame. Le donne erano attese tanto, se non di più, degli attori, e il grido di "Posto alle donne!" era tanto comune quanto il successivo "sipario!" in occasione di cambi di scena troppo lunghi -: in prima fila, spalleggiate da ampi specchi sui quali verificare le proprie toilettes e dai quali vigilare, maneggiano una cospicua e sofisticata attrezzeria scenica composta da fazzoletti, guanti, fiori, come le camelie di Marguerite Goutier che informavano la sala sulla disponibilità della signora per la serata (cfr. A. Dumas, La signora delle camelie, Mondadori, Milano, 1981), ventagli - da giocare contro i binocoli che a loro volta avevano sostituito gli occhialetti -, e soprattutto dai gioielli e dai vestiti illuminati a giorno dalla luce del grande lampadario centrale ("La cosa più bella che ho sempre trovato in un teatro è IL LAMPADARIO [...]. Dopotutto il lampadario mi è sempre sembrato l'attore principale, visto attraverso l'estremità, piccola o grande essa sia, del binocolo", Baudelaire, cit. in G. Banu, op. cit., p. 235). L'assemblea aristocratica si mette in costume e avanza alla ribalta come gli attori in scena, mentre gli sfondi pastello delle sale sei e settecentesche accompagnano le varietà cromatiche dei vestiti e dialogano coi colori del sipario dipinto - che rappresentava spesso la committenza del teatro -, non diversamente da come la scenografia sostiene i costumi degli attori. Margherita Gautier si fa dame delle camelie.

Teatro Ariosto di Reggio Emilia

L'assimilazione di un modo di rappresentazione che appartiene al contesto della finzione e di un modo di rappresentazione nel quale viene declinato il "reale" non deve sembrare improprio.

La logica riflessiva tra sala e scena, di cui si è detto, corrisponde infatti alla dinamica che si svolge tra palco e palco e tra palco e scena.

Pur in assenza di una definizione di immagine adottata fin dall'inizio, possiamo dire che "ciò che viene visto" è leggibile come rappresentazione una volta che venga incorniciata: l'immagine si fa rappresentazione in quanto incorniciata.

Marcel Proust scrisse che nei teatri gli ospiti dei palchi erano "come in piccoli salotti sospesi, il cui tramezzo era stato levato" (M. Proust, Le Côté des Guermantes, Paris, Gallimard, coll. La Pléiade, 1954, p. 39, cit. in G. Banu, ibidem, p. 130). André Antoine, il primo grande riformatore teatrale del Novecento, descriverà nei medesimi termini la scena moderna di cui abbiamo ripercorso i principali momenti costitutivi.

Le parole della filosofia, III, 2000

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