Le parole della filosofia, III, 2000

Seminario di filosofia dell'immagine


Esempi di cornice in Donatello e Mantegna

- Roberta Delmoro -

A. Mantegna, La Camera degli sposi, particolare

Mantegna è l'artista che, con forbici d'acciaio, taglia la stagione rifulgente di ori del tardogotico (si pensi a Pisanello, Stefano da Verona, i Vivarini) creando un nuovo linguaggio pittorico modellato sui rilievi, in pietra e bronzo, di Donatello a Padova. La presenza di Donatello in area veneta, tra il 1443 e il 1453, inizia un nuovo corso della pittura settentrionale: le grandi opere scultoree del maestro toscano (l'altare del Santo e il monumento equestre al Gattamelata) sono l'esempio maggiore, al nord, del nuovissimo concetto di spazio e di cornice, di materia plastica e di classicismo fiorentini. Artisti come Mantegna, Cosmè Tura, Cossa, Ercole dè Roberti, fin anche i lombardi Butinone e Foppa percorrono, sull'impronta di Donatello, questa via caratterizzata da soluzioni spaziali inedite e intrisa di memorie archeologiche, fantasie bizzare e forme arrovellate, dando così vita a una pittura di sostanza marmorea, di smalti e cristalli che vede la sua stagione più florida tra Padova, Ferrara e Bologna. In particolare Mantegna, formatosi a Padova "all'ombra dell'altare criso-cupro-elefantino", secondo una felice espressione di Roberto Longhi, fa tesoro della lezione spaziale donatelliana e in particolare del suo nuovo prototipo di cornice, giungendo quindi ad esiti personalissimi e preziosi.

Grandissimo interprete e prosecutore della classicità romana, nell'intenso modellato scultoreo, spesso drammatico, ma sempre sorretto da un preciso impianto prospettico, Donatello venne considerato già per tempo, da cronisti e letterati,"ingenio veterum laudibus respondente" (Flavio Biondo) "ad antiquorum gloriam proxime accedere" (Bartolomeo Facio). Egli fu il massimo esempio di classicismo per i giovani artisti veneti durante il soggiorno padovano; la sua presenza al Nord fu inoltre di fondamentale importanza per tutti i cicli decorativi che nacquero nelle corti settentrionali della seconda metà del Quattrocento.

La grandiosa opera di Donatello per la Basilica del Santo a Padova, anticamente smembrata ed erratamente ricomposta da Camillo Boito alla fine del XIX secolo, appariva in origine come una grande pala d'altare tridimensionale; una sacra conversazione a tuttotondo situata entro una profonda edicola in prossimità del coro; un'apparizione di toreutica, di bronzo e oro, incorniciata da una struttura architettonica a candelabri e lesene, sopra alto zoccolo, e da una cimasa a cuva grande, ossia a curva grande, come fosse il coperchio di un'arca.

Donatello,Altare del Santo

Questa novità decorativa adempiva alla funzione di diaframma tra lo spettatore e l'evento miracoloso: tra la realtà del luogo sacro (la navata della basilica) e del fedele che lo percorreva e la sacralità della scena, prospetticamente ambientata, ferma e sospesa in una divina conversazione.

Se consideriamo i bassorilievi, che decoravano originariamente la predella dell'altare, notiamo che quest'idea di continuità spaziale, tra il riguardante ed il tema raffigurato, è ivi ripetuta sulla falsariga dell'insieme. Anch'essi coinvolgono l'osservatore in quanto stabiliscono un'illusione prospettica; l'incorniciatura ambienta le scene entro una profondità spaziale classicamente scandita, ponendole in relazione con lo spazio dello spettatore.

Osserviamo due dei bassorilievi che raffigurano le rispettive storie della vita di Sant'Antonio: "La mula s'inginocchia innanzi all'ostia" e "Sant'Antonio dà la parola a un infante":

Il primo rilievo mostra il miracolo del Santo ambientato in una grandiosa struttura architettonica tripartita; un'aula classica suddivisa in tre ambienti, coperti da volte a botte e scanditi da paraste corinzie. Sullo sfondo lo spazio prosegue illusoriamente oltre i tre finestroni a lunetta in un ritmico gioco di riquadri. La copertura delle imbotti, fortemente chiaroscurale, crea una veloce fuga prospettica accentuando il pathos della scena.

Il secondo bassorilievo vede il miracolo svolgersi entro la navata centrale di una basilica classica, a ridosso del transetto.

Donatello,Il miracolo del neonato

L'incorniciatura, come nel primo rilievo, è costituita dalla sezione dell'ambiente architettonico: dal pavimento, dal soffitto a lacunari e dai pilastri che sorreggono le arcate. Donatello coinvolge intensamente l'attenzione del fedele ponendo in primo piano, sul limitare della cornice, gli spettatori dell'evento. Come presenza corale, come leitmotiv emozionale, la folla assiste e partecipa, nei rilievi, degli atti miracolosi attorniando il Santo, invadendo gli ambienti e gli stessi elementi architettonici; salendo sugli zoccoli delle lesene, fuoriuscendo dal limite della cornice incontrando, quasi ad alto rilievo, lo spazio reale dello spettatore. E' la realtà caotica ed emotiva della folla che incontra idealmente la realtà della popolazione di Padova, che percorre la Basilica del Santo. Questa presenza corale verrà adottata anche da Mantegna nella decorazione della cappella Ovetari. Spettatrice e fautrice del dramma, Mantegna la evocherà con notevoli echi all'esempio di Donatello.

Nella "Pietà" (rilievo che costituiva il centro della predella, nella facciata anteriore) Donatello ricrea un impianto tradizionale che deriva dall'iconografia nordica: Cristo appare in piedi, a mezzo busto, sorretto, innanzi a un baldacchino, da due angeli piangenti sopra il sepolcro. Drammaticamente gli angioletti oltrepassano, con le dita dei piedi e le ali, i bordi della cornice, indicandoci che il dramma coinvolge chiunque. L'intenso chiaroscuro che li modella ne accentua la nota patetica, mentre al centro il busto del Cristo, luminoso e disteso, crea una pausa di intensa meditazione. E così anche i rilievi con gli amorini musicanti, che ornavano la predella, superano le cornici: chi con l'arpa, chi con il flauto, chi con le alette. La soave musicalità dei putti è un momento di lirismo che accompagna lo sguardo del fedele attraverso i rilievi istoriati. Grazie a questi accorgimenti prospettici e illusionistici l'osservatore viene coinvolto in un intimo e umanissimo dialogo con il divino. Sarà su questi esempi di composizione spaziale e di preziosa modellazione che si forgerà lo stile dei giovani artisti di Padova; da qui Mantegna prenderà le mosse per spiccare quel volo, nelle alte sfere dell'arte, degno di un'aquila imperiale rediviva.

L'ispirazione artistica dei giovani allievi dello Squarcione, già intrisa di "romanticismo archeologico", resa folle dal boato delle fonderie di Donatello, prese forma all'ombra dell'altare del Santo: esempio di prospettiva e di modellato scultoreo, teso e arrovellato, che venne traducendosi, in scultura e pittura, nelle grandi imprese decorative di area padana.

La cornice intesa come architettura prospettica, come momento di dialogo tra ciò che è nel quadro e ciò che è fuori del quadro, soglia tra due piani di realtà, venne elaborata da Niccolò Pizzolo e Andrea Mantegna che, freschi della bizzarra bottega squarcionesca e rapiti dall'entusiasmo "lapimetallico" di Donatello, si apprestavano alla decorazione della cappella Ovetari.

Niccolò Pizzolo era il più anziano allievo dello Squarcione; gli era stato affidato il compito di lavorare con Donatello all'altare della Basilica e, avendo avuto modo di osservare da vicino la tecnica del grande maestro, potè creare la pala d'altare per la cappella Ovetari sull'esempio dell'illustre scultore. Realizzò, dunque, una pala a rilievo, una sacra conversazione incorniciata da una struttura a lesene corinzie e cimasa a cuva grande che avesse funzione di introduzione alla rappresentazione sacra, diaframma prospettico tra l'evento terreno (lo spazio entro il quale si muove il fedele, ossia la cappella Ovetari) e l'evento divino (la scena raffigurata).

E' interessante notare come la pala di San Zeno di Mantegna, successiva, fosse una trasposizione in chiave pittorica dell'altare del Pizzolo, nonché di quello del Santo: queste tre opere presentano una struttura architettonica che inquadra la scena partendo dalla cornice e proseguendo prospetticamente entro l'immagine raffigurata. Ma mentre nella pala di San Zeno, come anche nell'altare di Donatello, le semicolonne della cornice scandiscono a tuttotondo la scena dividendo i personaggi raffigurati e creando, così, un'ideale separazione tra l'immagine ed il fedele (il colonnato classico ritmicamente scandito crea un senso di aulico distacco, basti pensare alle colonne del Partenone), nell'altare del Pizzolo esse proseguono illusionisticamente in bassorilievo dietro le figure dei Santi, ponendo queste a ridosso del margine in un dialogo diretto con il riguardante.

Niccolò Pizzolo,Padre della Chiesa

Ma torniamo alla decorazione della cappella Ovetari: interessantissimi esempi di virtuosistici sfondati prospettici, incorniciati ad oculo da finte decorazioni marmoree, erano i Dottori della Chiesa affrescati da Niccolò Pizzolo (purtroppo andati perduti coi bombardamenti dell'ultima guerra).

Si trattava di un impianto di grande novità che metteva a frutto la precisa teoria della prospettiva toscana: un'ardita raffigurazione di "sottoinsù", indagata obliquamente, che non tralasciava particolari naturalistici. I Dottori della Chiesa erano dipinti entro cellette di struttura complessa che, coperte da volte a botte a lacunari e dotate di scrittoio e oggetti, venivano a formare nature morte di altissimo valore pittorico. Gli oculi marmorei che le incorniciavano fungevano quindi da finestre aperte su veri e propri studioli umanistici, permettendo agli occhi "indiscreti" dello spettatore di penetrare timidamente gli ambienti monacali.

Questa straordinaria novità compositiva venne adottata anche da Vincenzo Foppa nella decorazione della cappella di Sant'Eustorgio a Milano, commissionatagli da Pigello Portinari, direttore della filiale milanese del Banco Mediceo. Un gioiello toscano in Lombardia, dunque (se consideriamo che l'impianto architettonico della cappella, forse opera di Guiniforte Solari affiancato dal Filarete, rispecchia quello della sagrestia vecchia di San Lorenzo, opera del Brunelleschi), affrescato dal pittore bresciano secondo i canoni della più rigorosa ricerca prospettica toscana. Ivi il Foppa decorò i pennacchi sopra l'alto tamburo, che segnano il passaggio dalla pianta quadrata alla circonferenza della cupola, con i Dottori della Chiesa ritratti nei loro studioli.

Vincenzo Foppa,Sant'Ambrogio

 L'esempio del Pizzolo nella cappella Ovetari costituì un fondamentale precedente (oltre naturalmente all'ambientazione classica per gli studia humanitatis ) per lo scorcio impeccabile e la prospettiva razionalistica. Mentre però i Dottori del Pizzolo si rifacevano, nel modellato impetuoso e tormentato, all'esempio della scultura donatelliana, quelli del Foppa vennero risolti in una visione più luminosa e distesa. Ma leggiamo cosa disse in proposito Roberto Longhi, nei suoi fondamentali "Quesiti Caravaggeschi": "Verso il 1465 il Foppa s'impegna a decorare d'affreschi una fabbrica prettamente toscana, la cappella di San Pietro Martire in Sant'Eustorgio; e la lezione degli Eremitani, come impianto scenografico, pare recitata discretamente. Sfondano, per esempio, e pendono in prospettiva le imbotti dove sono ingabbiati i Dottori della Chiesa: sta bene, questo è un dato di natura, un precedente necessario dell'esattezza; ma l'arte del Foppa si rivela per quell'illusionismo luministico che involge la giustezza della veduta di sottinsù; comincia insomma solo quando il lume sbava e rade sotto quei voltoni; quando, contro la guancia del San Giorgio (adugiata con uno sbattimento che cerchereste invano nei Dottori degli Eremitani), si posa, come per prodigio, una colomba argentea, tanto è luminosa."

Vincenzo Foppa,Apostolo

Non dimentichiamo inoltre i Santi dipinti entro gli spicchi policromi della cupola, alcuni dei quali si sporgono umanissimi a osservare il riguardante da tonde finestrelle a marmi bicromi prospetticamente resi.

Sono pur'esse cornici: rese illusionisticamente come frammenti di realtà adempiono a una funzione di dialogo con il fedele. Foppa tratta questi motivi con una naturalezza accostante, "a passo d'uomo". I santi del Pizzolo e del Mantegna, che nella cappella Ovetari parevano scalpellinati da un garzone di Donatello, discesi ora dal piedistallo della romanità, vivono naturalissimi nel capolavoro del pittore bresciano; questa è la sua grande lezione pittorica, la verità umanissima di Lombardia.

Tornando alla cappella Ovetari consideriamo tre degli affreschi superstiti: "Il martirio di San Cristoforo", "Il martirio di San Giacomo" e "L'Assunzione della Vergine", opere di Andrea Mantegna.

La scena del martirio di San Cristoforo è stata raffigurata dall'artista giovanissimo entro un' ambientazione architettonica albertiana densa di suggestioni archeologiche, sebbene sullo sfondo campeggi la descrizione di un borgo medievale.

Andrea Mantegna,Cappella Ovetari,Martirio di San Cristoforo

Una colonna scanalata, dal capitello pseudo ionico (questi richiami all'antico trasposti in chiave fantastica caratterizzano tutta l'opera di Mantegna, tanto che Roberto Longhi è giunto a parlare di "misticismo archeologico"), fuoriesce idealmente dalla cornice, incontrando lo spettatore (come se il riguardante stesse osservando la scena da un colonnato classico) e divide l'ambientazione non tanto figurativamente (la colonna è si al centro del riquadro, ma la piazza che si estende pittoricamente oltre ad essa mantiene una propria unità spaziale) quanto temporalmente, essendo sulla parte sinistra della piazza raffigurato il miracolo del martire e sulla parte destra la traslazione del corpo di San Cristoforo. Elemento di unità prospettica, dunque, e di divisione temporale, la colonna sta a indicarci che l'ambiente è percorribile nelle sue precise strutture architettoniche, limpide e ritmicamente scandite, così com'è percorribile l'atrio di un palazzo o il colonnato di una piazza, ma l'evento si svolge su un altro piano di realtà: è un'apparizione miracolosa ed implica un tempo di azione diverso. Il cielo sopra la scena del martirio è cupo, come a preannunciare un livido tramonto e sinistri presagi; sta però anche a indicare un diverso tempo d'azione nei due episodi raffigurati. Il corpo del martire, ormai illeggibile, posto in primissimo piano, giganteggiava sulla scena come figura di quinta prospettica sulla sinistra; e, poggiandosi all'incorniciatura marmorea, anch'esso fuoriusciva dallo spazio raffigurato incontrando, così, lo spazio dello spettatore e indicando che l'evento miracoloso può coinvolgere, idealmente, chiunque lo osservi. Si ricordino a questo proposito i personaggi dei bassorilievi di Donatello; e in particolare quell'individuo (quasi un antico oratore) in piedi sulla base del pilastro sinistro nel "Miracolo del Neonato" che, con la medesima ponderatio del San Cristoforo, esce dal limite della cornice sfondandola col gomito a tuttotondo. Non dimentichiamo un ulteriore particolare, anch'esso non più leggibile, che caratterizzava la scena sulla parte destra dell'affresco, ponendola in immediato dialogo con il fedele: l'enorme testa del martire decapitato era stata dipinta da Mantegna sul limitare dello zoccolo della pavimentazione della piazza (che fungeva da cornice al riquadro) in forte e drammatico scorcio prospettico. Questa soluzione compositiva, di grande impressione, la si può osservare anche nell'affresco con il martirio di San Giacomo.

La scena del martirio di San Giacomo si trovava originariamente all'altezza dell'occhio dell'osservatore; Mantegna dipinse drammaticamente la testa del martire che sta per essere decapitato in primissimo piano, proprio sul bordo dell'affresco. La composizione fu risolta con un'invenzione violenta: a inquadrare l'avvenimento terribile venne dipinta una balaustra lignea, confine tra il truce evento che vede il boia vibrare il colpo mortale sul martire, obliquamente prono, e chi l'osserva dall'esterno. Il volto del carnefice, contratto in una smorfia brutale fa il baio con il volto, "da filosofo rassegnato"(Fiocco), del Santo. Un soldato, colto da morbosa curiosità e appoggiatosi alla balaustra, si piega verso lo spettatore a guardare la scena, sfondando idealmente il dipinto: questi entra, così, coralmente tra i fedeli come crudele osservatore, rammentando quanto nella vita terrena si possa essere indotti all'errore e alla scelta del male.

L'Assunzione della Vergine, infine, è incorniciata da un arco a tutto sesto in marmo rosa, finemente decorato da rilievi classicheggianti.

Andrea Mantegna,Cappella Ovetari,Assunzione della Vergine

In primo piano sono gli Apostoli, "di qua dell'arco" spettatori dell'evento, presi di schiena e di scorcio, stupefatti del trionfo dell'Assunta; uno di loro addirittura "abbraccia" il pilastro sinistro quasi a sorreggersi per l'impressione suscitata dalla visione celestiale. "Di là dell'arco" è l'apoteosi della Vergine, entro un'azzurra mandorla sorretta da cherubini e serafini; "certo sono trattati secondo il sentimento di Niccolò quelli angioletti donatelliani che le sciamano attorno dando fiato alle trombe..."(Giuseppe Fiocco). Si noti lo scrupolo di Mantegna nel sottolineare la profondità spaziale, che divide l'Assunzione di Maria dagli Apostoli, attraverso lo scorcio ardito delle aureole e l'attenta composizione prospettica dei piedi dei Santi che oltrepassano, fuori del quadro (chi con il tallone chi con le dita), l'ingresso dell'arco. L'arco dell'Assunta, dunque, come la colonna del martirio di San Cristoforo e la balaustra lignea del martirio di San Giacomo, è ingresso all'evento miracoloso; divide, ma allo stesso modo pone in dialogo, la realtà terrena con la realtà celeste, permettendo allo spettatore di varcare idealmente la soglia divina. Vedremo che questo motivo, ricorrente negli affreschi della cappella Ovetari, chiaramente ispirato ai giochi prospettici ed alle decorazioni dell'altare del Santo a Padova, verrà adottato da Mantegna nella pala per la chiesa di San Zeno a Verona in un modo più approfondito e suggestivo.

 La pala di San Zeno, dipinta da Mantegna tra il 1456 e il 1459, è, secondo un'ipotesi accreditata da numerosi critici, profondamente ispirata all'altare del Santo di Donatello. La grande novità di quest'opera sta nel rivoluzionare il concetto di polittico proponendo un insieme unitario, sebbene suddiviso da colonne classiche scanalate facenti parte della cornice.

La profonda unità d'insieme che caratterizza quest'opera (che miracolosamente appartiene ancora al preciso luogo ove la pose Mantegna) è data dall'unità prospettica e atmosferica. La cornice, anch'essa a cuva grande, funge da inquadramento tridimensionale alla scena sacra, evento miracoloso ambientato entro un'architettura marmorea aperta su un fiorito hortus conclusus. Il genio pittorico di Mantegna si diletta nel trasporre su tavola le colonne della cornice che proseguono, così, prospetticamente, a inquadrare la divina ambientazione. Viene proposta qui, dunque, la medesima funzione della cornice indagata innanzi per l'altare del Santo. Le colonne scolpite sono una soglia per il fedele all'evento miracoloso. Addirittura penetrano nel quadro assumendo esse stesse la medesima sostanza dell'ambiente raffigurato. Avevamo innanzi osservato come la soluzione a tuttotondo delle colonne, oltre chiaramente all'architettura della cornice, accomunasse quest'opera all'altare di Donatello in un ideale ed aulico distacco.

In origine, i Santi della pala scultorea occupavano diverse posizioni in profondità entro l'edicola e attorno alla Vergine, divisi dalla scansione ritmica delle colonne. Così ci appaiono ancora i Santi raffigurati da Mantegna: disposti in profondità entro l'aula anticheggiante e separati, a destra e sinistra della Vergine, dalle colonne della cornice.

Andrea Mantegna,Pala di San Zeno

San Pietro compare come il San Cristoforo dell'Ovetari: in piedi contro il pilastro di sinistra (drappeggiato e con un contegno da antico filosofo) sporge monumentale con il gomito destro "sfondando" lo spazio della tela e incontrando così lo spazio della navata (abbiamo innanzi fatto il paragone del San Cristoforo con il personaggio donatelliano che fuoriusciva a tuttotondo con il gomito, incontrando lo spazio dell'osservatore).

Sulla destra lo sfondato illusionistico del San Giovanni è ancora più evidente: questi oltrepassa addirittura coi piedi, in modo accentuatissimo, lo zoccolo marmoreo presentandosi interamente "sul limitare dell'ingresso alla tela".

Non tralasciamo inoltre il preziosissimo particolare delle vesti dei putti canori che ricadono coprendo il gradino della pavimentazione.

Andrea Mantegna,Pala di San Zeno,particolare

Questa corrispondenza di esterno-interno alla tela (l'illusione delle colonne che penetrano e dei particolari che fuoriescono) è un invito al dialogo con il fedele; ma l'impostazione rigorosamente classica e la separazione dei pilastri dettano al contempo un aulico distacco e una sacra contemplazione. L'unità atmosferica è conferita dalla luce limpida e intatta che illumina la profondità della scena: indaga le pieghe delle vesti dei santi, rigide come marmi; i particolari decorativi in rilievo dei pilastri; il fregio di putti donatelliani e il finissimo schienale, anch'esso marmoreo, della Vergine. E' interessante notare come Mantegna avesse dipinto i precisi giochi di luce secondo una reale fonte luminosa presente nella chiesa: una finestrella un tempo esistente ora murata. Certamente l'idea non è una novità; basti pensare alla cosiddetta "Madonna delle ombre", affrescata da Beato Angelico nel convento di San Marco a Firenze, e dipinta con le ombre portate dovute alla luce del tramonto che bagna realmente l'affresco. Rimane ugualmente suggestiva l'impressione che la luce che illumina la scena sacra sia la medesima che inonda l'ambiente circostante l'osservatore.

L'impianto rigorosamente prospettico, il modellato scultoreo delle figure (come fossero esse stesse colonne) e l'abilità d'indagine materica che caratterizza le diversità dei marmi screziati (grigi, rosa, venati), la resa dei bronzi, degli avori, dei cristalli e dei coralli sono eredità scultoree di Donatello trasposte in pittura. Le raffinatezze pittoriche e la padronanza della prospettiva non verranno mai meno lungo tutta la carriera di Mantegna. E' sulla base di questa ricchezza artistica ch'egli compirà un ciclo decorativo unico nel suo genere, la camera picta nel castello ducale di Mantova; e grazie a questa padronanza giungerà a capovolgere, sulla base del concetto spaziale finora indagato, ancora erede dell'esempio toscano, l'originario rapporto tra spettatore ed evocazione in un nuovo e più suggestivo dialogo tra protagonista e finzione.

La camera degli Sposi, adibita, all'epoca di Ludovico II Gonzaga, a sala d'udienza e interamente decorata da Mantegna, comprende uno dei cicli pittorici più vasti, meglio conservati e più suggestivi del XV secolo. Ivi Mantegna, sorretto da un'abilissima tecnica pittorica e grazie alla conquista di una grande originalità di linguaggio e di pensiero, supera l'eredità artistica del maestro toscano realizzando un'opera assolutamente unica. Il concetto spaziale donatelliano viene quivi rovesciato in quanto lo spettatore, non più all'esterno di un locus amoenus in sé conchiuso, bensì situato all'interno dello stesso, giunge a prendervi parte come protagonista. Non più timido astante innanzi a un evento evocato il riguardante è posto dall'artista al centro dell'ambiente: fisicamente entro la stanza, è simbolicamente al cospetto dei Gonzaga e partecipe del silenzioso e quasi sacrale rituale di corte. Osservatore, è allo stesso tempo osservato e irretito in un gioco fittissimo di seduzioni illusionistiche, in un fine inganno di bizzarrie prospettiche, in un fascino di raffinatezze pittoriche.

Alle pareti, sopra un alto zoccolo dipinto a cerchi inanellati di porfido e serpentino, sono delle classiche arcate, sorrette da pilastri decorati a candelabri a foglia d'oro. Queste, stagliandosi su cieli tersissimi, abbellite da festoni di frutta anticheggianti, inquadrano precisi momenti alla corte dei Gonzaga. L'aspetto più suggestivo è dato dalle scene della vita dei duchi, raffigurate alle pareti, e in parte celate allo sguardo. Ove i tendaggi di cuoio dipinti, che l'artista finge appesi lungo le arcate, sono scostati si svelano gli ambienti ducali e i due episodi della vita di Ludovico; ove le pesanti cortine di corame dorato coprono i muri, non è dato vedere. Questa soluzione introduce lo spettatore entro il clima di fascino e inganno che intende creare l'ambiente. Lo spettacolo della corte, inteso in senso evidentemente teatrale, è concesso solo agli invitati (non dimentichiamo che la camera era una piccola sala d'udienza, riservata dunque a pochi); e agli invitati è concessa l'ammirazione di pochi momenti della vita dei duchi.

Sulla parete nord è raffigurata la corte: è un'evocazione storica precisa: un messaggero reca una lettera di Bianca Maria Visconti al Duca, la quale annuncia di un repentino malore di Francesco Sforza. Ludovico dà notizia della sua partenza alla volta di Milano. Sulla destra vari cortigiani apprestano i preparativi del Gonzaga scostando tendaggi, salendo e scendendo gradini, "abitando" le strutture architettoniche dipinte, invadendole, occultandole alla vista e rendendo gli spettatori partecipi della gravità del momento.

Andrea Mantegna,Camera degli Sposi,particolare della corte

Andrea Mantegna,Camera degli Sposi,particolare della corte

 

Il personaggio in piedi, innanzi alla colonna, è un'eredità padovana: nel suo "sfondare" col gomito e con la punta dei piedi la superficie del muro rievoca il San Cristoforo della cappella Ovetari e certi "oratori" dell'altare del Santo a Padova, nonché il San Pietro della pala di Verona. Dal piano sopraelevato, ove siedono Ludovico Gonzaga e la sposa, pendono illusionisticamente tappeti anatolici. Sul fondo è una parete decorata ad anelli marmorei, come l'alto zoccolo, e oltre ad essa è un giardino. Tra il primo piano e questa è disposta la corte: familiari, cortigiani e personaggi di rilievo storico. Colti dall'artista nelle loro individualità fisionomiche, nelle particolarità finissime dei costumi e delle acconciature, questi vengono a creare un quadro raffinato, silenzioso e come sacrale.

Ludovico, luogotenete degli Sforza, saputa la grave notizia da Bianca Maria Visconti, si mette dunque in cammino, senza indugio, alla volta del ducato di Milano. Sulla parete ovest è raffigurato l'incontro a Bozzolo con il figlio cardinale Alessandro.

Andrea Mantegna,Camera degli Sposi,incontro a Bozzolo

Andrea Mantegna,Camera degli Sposi,incontro a Bozzolo

Questi, fresco di porpora cardinalizia e in viaggio da Milano verso Mantova ignora l'accaduto.

Sono raffigurati, dunque, eventi reali... ma è pur sempre finzione. La presenza nel dipinto di familiari all'epoca non ancora nati dà un saggio di quanto l'interpretazione di Mantegna voglia superare il dato cronachistico. La parata di cortigiani, di cavalli magnificamente bardati e di levrieri

 (le cui zampe invadono le cornici come a voler compiere un balzo nella stanza da un istante all'altro) non sembra sposarsi con un momento carico di così gravi incombenze. La campagna dipinta sullo sfondo non è quella di Bozzolo: è una Roma immaginaria? Di sogno? Il paesaggio, incastonato in un cielo di lapislazzulo, è denso di riferimenti all'antico. Pervaso di quel "romanticismo archeologico" talmente idillico e suggestivo (si pensi alla Milano ideale del Filarete o al viaggio poetico di Francesco Colonna) tanto caro all'epoca; costellato di preziose fantasie geologiche (le cave stalattitiche di Mantegna...) e di minuti personaggi bucolici (et in Arcadia ego?) traspone gli eventi su un piano irreale.

E' un momento nella storia e oltre la storia: gli aranci in frutto, che indicano il mese di gennaio, e la data dell'incontro, mal si sposano con la quercia verdeggiante; è inganno sublime, evento evocato, a noi rammentato dai deliziosi puttini con ali di farfalla che reggono la targa dedicatoria con la data al termine della decorazione: 1474.

Andrea Mantegna,Camera degli Sposi,particolare dei Putti

 Che l'intera decorazione della camera picta sia pervasa da un desiderio di finzione, come fosse un'illusione teatrale, è suggerito dall'artificio dei tendaggi innanzi rammentati, aperti e chiusi, come sipari, sulla vita di corte.

Ma vi è ancora un elemento decorativo da indagare e a mio parere stupefacente: la finestra dipinta sul soffitto la quale, incorniciata ad oculo con la medesima decorazione anulare in marmi dello zoccolo, apre, con virtuosistico e quasi vertiginoso sottoinsù, un occhio di cielo agli occhi del riguardante (abbiamo visto, innanzi, come il tema della finestra esistesse già nell'opera del Pizzolo e come fosse stato rielaborato dalla sensibilità umanissima del Foppa in un colloquio "di amorosi sensi" nella cappella Portinari).

Dalla finestra, quivi, si affacciano misteriosi personaggi, quasi a spiare, sorridenti e maliziosi, lo spettatore; tra questi giocano finissimi amorini colti dall'artista con sorprendente scorcio prospettico.

Andrea Mantegna,Camera degli Sposi,Oculo

Il significato allegorico di queste figure non è certo; un'ipotesi suggestiva, ma poco accreditata, dovuta al Signorini, vorrebbe leggere in questa immagine un'ispirazione di Mantegna al dialogo lucianeo Della sala e vedere, nella fanciulla che sorride col nastro tra i capelli, una personificazione della camera che guarda sé stessa e allude, dunque, alle virtù morali di coloro a cui è concessa l'udienza. Seppur la lettura allegorica, chiaramente esistente, sia andata perduta ciò non toglie che l'illusione dell'oculo si sposi all'illusionistica realtà dell'intera sala. Aprendo lo sguardo a un cielo luminoso e a un'aria tersissima (e si noti bene: si tratta dell'atmosfera che pervade le pareti istoriate) pone il riguardante nella condizione di essere parte egli stesso dell'ambiente; di respirare la medesima aria e di godere della medesima luce; di essere osservato e ingannato con un sorriso. Spettatore e spettacolo, l'osservatore e la camera si corrispondono così, vicendevolmente, in un sottile ed eterno gioco di sguardi.

Il rapporto dell'opera d'arte con l'osservatore era inteso da Donatello, a Padova, come locus conclusus, come evento rappresentato, sacro e sospeso, ma al contempo aperto a un dialogo che in certi momenti toccava note liriche e patetiche, grazie a un'apertura spaziale, a un'illusione prospettica che idealmente accomunava il piano della realtà del fedele con quella raffigurata, giungendo a momenti di intenso lirismo. Come abbiamo visto ciò è stato ereditato e, in modo personalissimo, rielaborato da Pizzolo e Mantegna, tanto che quest'ultimo è giunto a ricreare un'anticheggiante umanità, statuaria e solenne fautrice del dramma ma al contempo protesa allo spettatore. D'altra parte Foppa ha infuso nella sua pittura una nota accostante e umanissima, proseguendo nel solco mai abbandonato del naturalismo lombardo. Tutto questo compie però una trasformazione e se vogliamo un capovolgimento nella decorazione di Mantegna a Mantova: il riguardante assume ivi un ruolo diverso innanzi all'opera, viene cioè chiamato a interpretare un ruolo simbolico di partecipe allo spettacolo di corte; la cornice, da elemento esterno al dipinto, penetra nel quadro invitando ad essere protagonisti, oltre che spettatori, di una finzione che eternamente si rinnova.

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