Le parole della filosofia, II, 1999

Seminario di filosofia dell'immagine


 

Forma e colore.

Il linguaggio figurativo di W. Kandinsky

- Francesca Molteni -

I. Introduzione

La complessità della figura di Kandinsky è dovuta principalmente all'impossibilità di definire in maniera univoca la sua attività artistica, esercitata nei campi più diversi e attraversata da apparenti contraddizioni. Mistico e insieme scienziato, Kandinsky è un orientale saldamente radicato in Occidente, è "uno dei più grandi rivoluzionari della visione", secondo la definizione di André Breton, ma anche un "Grande Principe dello Spirito" (Joan Mirò). E tuttavia, a dispetto di queste dualità, vi è una profonda coerenza tra la sua opera e la sua riflessione teorica.

Le opinioni di alcuni artisti e critici lo confermano: Kandinsky è "il primo pittore che si è messo coscientemente sulla via della scoperta di un'arte libera da ogni servitù a forme prese a prestito dalla natura che si offre ai nostri occhi, rendendo così visibile l'invisibile. É il primo pittore astratto" (R. Soupault-Niemeyer, Centenaire de Kandinsky. Du cheval au cercle, "XX siècle", n. 27, dicembre 1966, p. 34). Per Piero Dorazio: "egli diviene pittore per imporre forme e colori alla visione del futuro, che è grigia e priva di immagini. È il primo artista nella storia che porta a termine l'integrazione di due mondi lontani: l'Europa e l'Oriente. Egli tenta la sintesi di culture e caratteri inconciliabili. Voilà, il sogno di Alessandro Magno che cambia direzione; ritorna a noi in tenuta di pittore cosmonauta, passando per Irkoutsk, Samarcanda, Bisanzio, Mosca, Monaco e Weimar. Quante lingue parlate, signor Kandinsky? Quante lingue possono convergere verso il medesimo significato, in un'immagine dipinta?" (P. Dorazio, Le créateur du XX siècle, "XX siècle", cit., p. 103).

Kandinsky, Il porto di Odessa, 1896-98

Al di là dell'accento agiografico di queste rievocazioni - in occasione del centenario della sua nascita - si possono rilevare alcuni elementi interessanti ai fini della nostra analisi.

Che cosa significa infatti definire Kandinsky un "rivoluzionario della visione"? Se la sua rivoluzione pittorica consiste nel tentativo di rendere visibile l'invisibile, quale connessione vi è con la definizione di inventore dell'astrattismo? Perché Kandinsky ha parlato di un suo percorso dall'arte figurativa all'arte concreta? Infine, se egli ha saputo unire in una grande sintesi il mistero della sua patria, l'Oriente, all'Occidente, quale ruolo ha avuto nella genesi dell'astrattismo la tradizione figurativa della pittura di icone?

L'ultimo interrogativo è particolarmente interessante, perché consente di gettare nuova luce sui precedenti. Si tratterà allora di comprendere se è legittimo, e a quali conclusioni conduce, ritenere che una determinata tipologia di immagini, le icone bizantino-slave, possa costituire una delle chiavi di lettura del passaggio di Kandinsky dalla pittura figurativa all'arte astratta.

Storicamente - ne abbiamo una conferma dai testi teorici - il nucleo centrale dello sviluppo verso l'astrattismo si può collocare in una fase ben determinata della vicenda pittorica di Kandinsky, alla quale mi limiterò nella presente analisi.

La complessità dell'evoluzione di Kandinsky ha infatti portato a una periodizzazione, piuttosto convenzionale ma non del tutto arbitraria, della sua opera in tre fasi: la cosiddetta epoca geniale, che corrisponde all'esperienza del Blaue Reiter a Monaco; il periodo costruttivo-geometrico, coincidente con il suo insegnamento al Bauhaus; l'ultima fase parigina, caratterizzata dalle opere più sconcertanti per il loro esotismo, generalmente sottovalutate dalla critica.

Kandinsky, Primo acquerello astratto, 1911

Non essendo possibile soffermarsi sulle tre epoche, si è fatto riferimento soltanto alla prima, per due ragioni.

In primo luogo, Kandinsky dipinge in questo periodo la sua prima opera astratta, un acquerello del 1910.

Inoltre egli termina la stesura del suo testo più noto, Lo Spirituale nell'arte, pubblicato con grande successo dall'editore Piper nel 1912, testo che esercita una profonda influenza sull'intera epoca. Kandinsky vi pone le basi teoriche per l'elaborazione di un nuovo linguaggio figurativo - i "mezzi pittorici puri", cioè forma e colore - che troverà compiuta espressione nelle opere dell'epoca geniale.

Un dialogo tra teoria e pratica pittorica sempre perseguito con grande consapevolezza critica, sviluppato durante gli anni di insegnamento fino ad auspicare la futura fondazione di una vera e propria "scienza dell'arte".

 

II. Lo Spirituale nell'arte

Kandinsky ha già trent'anni e sembra avviato a tutt'altra carriera quando, nel 1896, abbandona la Russia e si trasferisce a Monaco. I suoi ricordi tuttavia, testimoniati nello scritto "Sguardo al passato", torneranno sempre all'amata Mosca. Parlando di uno dei primi quadri dipinti, La città vecchia, afferma: "Mosca si fonde in questo sole in una macchia che mette in vibrazione il nostro intimo, l'anima intera, come una tuba impazzita" (W. Kandinsky, "Sguardo al passato", in Tutti gli scritti, a cura di P. Sers, vol. II, IV edizione, Feltrinelli, Milano 1989, p. 156). I primi tentativi di rendere pittoricamente il tramonto sulla città lo sconfortano; avverte la debolezza dei mezzi dell'arte rispetto alla natura. In seguito si renderà conto che i fini e i mezzi dei due regni sono "essenzialmente, organicamente e storicamente diversi, e ugualmente grandi. [...] Tutto ciò che era morto vibrava. [...] Così per me ogni punto immobile e ogni punto in movimento (linea) diventavano vivi e mi manifestavano la loro anima" (ibidem).

Queste considerazioni furono sufficienti a indicargli la possibilità di un'arte astratta e lo condussero alla fondazione di un linguaggio radicalmente nuovo. Prezioso fu l'incontro avvenuto tra il 1908 e il 1914 con artisti come Marc, Macke, Schönberg, Jawlenskij, che furono all'origine del movimento del Blaue Reiter. Il loro manifesto è un Almanacco che Kandinsky immagina come una grande sintesi di tutte le arti, che liberi dalle vecchie concezioni e faccia crollare le barriere divisorie, dimostrando che il problema dell'arte non è un problema di forma ma di contenuto artistico. Composto da articoli e recensioni di pittori, musicisti e critici, grazie all'estrema libertà intellettuale dimostrata dai suoi animatori, presenta come parte integrante illustrazioni dei grandi maestri del passato, accanto a opere dell'arte popolare e infantile, egiziana e orientale, affiancate agli innovatori del XX secolo, da Cézanne a Picasso.

È in questo contesto che prende forma Lo spirituale nell'arte (1912). Se "l'espressionismo nasce soprattutto dalla previsione terrificante di apocalissi cosmiche debolmente illuminate da vaghi sogni di una mistica rigenerazione", come sostiene L. Mittner, Lo Spirituale nell'arte, risente fortemente di quest'atmosfera. È una dichiarazione di poetica e un manuale di tecnica pittorica, una riflessione sullo stato delle arti e una profezia sull'arte del futuro. Pubblicato negli anni cruciali dell'evoluzione personale e pittorica di Kandinsky, è il risultato di osservazioni ed esperienze "nel campo della sensibilità" accumulate nel corso di diversi anni. La struttura è indicativa: suddiviso in una prima parte di Considerazioni di carattere generale e in una seconda dedicata alla pittura, si chiude con una breve Conclusione, le cui tesi sono esemplificate da illustrazioni di opere del passato e dello stesso Kandinsky. Un procedimento adottato anche nell'Almanacco del Cavaliere Azzurro per integrare costantemente la teoria con la pratica pittorica.

Nella prima parte Kandinsky si rivela figlio del suo tempo e protagonista dell'avanguardia, per l'ardore rivoluzionario, il desiderio di rottura con la tradizione, il tono misticheggiante. Egli crede nel progresso e nella crescita spirituale dell'umanità, sente che l'epoca dello spirito è alle porte; si sta sviluppando anche una nuova arte, che ha il compito profetico di annunciare la nuova era. Il tema centrale di queste Considerazioni è la vita dello spirito, il cui incessante movimento in avanti e verso l'alto è rappresentato da un triangolo acuto. Il progresso per Kandinsky si attua perciò in due direzioni: sul piano orizzontale, mondano e su quello verticale, nel movimento ascensionale. Il triangolo è suddiviso in sezioni e la base è occupata da tutti coloro che hanno fatto proprio il credo materialistico: atei, positivisti e naturalisti. Salendo nelle sezioni troviamo la città spirituale in trasformazione, scossa nelle sue fondamenta da forze incontrollabili. Al vertice, infine, vi è il dominio della certezza, rappresentato da quegli scienziati che non credono più nella solidità della materia e accettano le nuove teorie, come quella degli elettroni, e dai nuovi movimenti spirituali, in primo luogo la società teosofica.

La svolta spirituale è avvertita dapprima dalla letteratura, dalla musica e dall'arte. Alcuni rappresentanti della nuova ricerca dell'interiorità nell'esteriorità sono Maeterlinck per la poesia, Wagner, Debussy e Schönberg per la musica. In pittura il ricercatore della nuova legge della forma attraverso mezzi puri è Cézanne, cui seguono Matisse per il colore e Picasso per la forma. Ciò che li accomuna è la tensione verso il non naturale, l'astratto. Ciò significa che, non potendo più imitare il linguaggio della natura, gli artisti si confrontano con il materiale stesso della loro creazione: essi "pongono sulla bilancia spirituale il valore interiore degli elementi" (W. Kandinsky, Lo Spirituale nell'arte, in Tutti gli scritti, op. cit., vol. II, p. 89).

Questa scoperta conduce a un confronto tra i mezzi artistici delle varie discipline e si rivela fondamentale per l'artista che vuole esprimere il suo mondo interiore. La musica, la più immateriale fra le arti, ha già raggiunto lo scopo e alla pittura spetta ora l'analogo compito di indagare il ritmo e la costruzione astratta, tentando di applicarli in modo puramente pittorico alla creazione.

Nella seconda parte del saggio Kandinsky si propone l'analisi specifica degli elementi della pittura. Egli tenta di delineare l'orizzonte di possibilità di un nuovo linguaggio della visione, il cui vocabolario è costituito dal suono interiore dei due elementi pittorici puri, le forme e i colori, e il cui funzionamento è regolato dalle leggi psichiche della necessità interiore. Quest'ultimo principio è l'unica legge immutabile dell'arte ed è in grado di stabilire un contatto efficace con l'anima umana. La necessità interiore deve comunicare con l'interiorità che deve essere a sua volta portata ad espressione, agendo - attraverso l'artista - sullo spettatore. Essa è il prodotto di tre fattori: la personalità del singolo artista, lo stile della propria epoca e, infine, l'elemento dell'artisticità pura ed eterna, l'essenza dell'arte che non conosce spazio né tempo. Occorre penetrare con gli occhi dello spirito i primi due elementi, di natura soggettiva, per far emergere l'elemento oggettivo, quella forza che accomuna tutte le forme di espressione nel loro contenuto mistico.

Secondo Kandinsky vi è dunque una conoscenza della realtà in sé, che si manifesta attraverso la pratica artistica. L'arte può portare alla liberazione dalle catene del mondo delle apparenze, a favore dell'interiorità: è una liberazione dalle limitazioni spazio-temporali e dell'individualità, verso il luogo dello spirito. Soltanto rivolgendosi alla sua vita interiore, l'artista riesce a portare a espressione questa necessità. Egli ha perciò un compito specificamente etico: deve avere un contenuto da esprimere ed essere in grado di adattarlo a una forma sensibile.

Il nuovo problema dell'artista è costituito perciò dalla composizione. Con il tentativo di individuare le leggi della grammatica pittorica - secondo la teoria di Goethe di un basso continuo in pittura - Kandinsky muove i primi passi verso l'elaborazione teorica del linguaggio non figurativo. Il modello d'indagine gli è fornito dal suono musicale che ha un accesso diretto all'anima. Egli ritiene che una simile corrispondenza vi sia anche tra le forme e i colori da un lato, in quanto esseri spirituali che hanno un suono interiore, e l'anima umana dall'altro. Il nesso tra i due elementi instaura una relazione di tipo costitutivo: il colore non può esistere indipendentemente dalla forma che lo circoscrive, dando un involucro oggettivo a una sostanza soggettiva. La composizione è allora "una combinazione di forme grafiche e cromatiche che esistono autonomamente, sono tratte dalla necessità interiore e formano quel tutto che si chiama quadro" (ivi; p. 118).

Cominciamo dall'analisi della forma, che troverà la sua piena esplicitazione soltanto con la pubblicazione di Punto, linea, superficie nel 1926. Kandinsky definisce la forma secondo due punti di vista, che caratterizzano ogni elemento in generale: esteriormente, essa è la delimitazione di una superficie da parte di un'altra; inoltre, poiché ciò che è esteriore cela sempre un'interiorità, essa è l'esteriorizzazione di un contenuto interiore. Compito dell'artista è, toccando questo o quel tasto - questa o quella forma - mettere opportunamente in vibrazione l'anima umana. La varietà delle forme è infinita e si situa fra i due poli del figurativo e dell'astratto. Una rappresentazione interamente materiale, cioè un'arte mimetica, è però impensabile: l'artista è in ogni modo soggetto al suo occhio e alla sua mano, quand'anche egli cercasse soltanto una registrazione fotografica del dato. Egli deve perciò allontanarsi dalla colorazione "letteraria" dell'oggetto, ricercando fini puramente artistici: è la via verso la composizione. Questa comprende due aspetti: la composizione dell'intero quadro e quella delle singole forme, tra loro combinate e subordinate al tutto. Come esempio è citato il quadro di Cézanne Le bagnanti, dove la forma geometrica, il triangolo mistico, è il fine artistico espresso. Quanto alla creazione di forme isolate, bisogna tenere conto del variare della loro sonorità, in ragione del loro associarsi le une alle altre o del cambiamento di orientamento della forma stessa. La possibilità di un contrappunto grafico è data dalla flessibilità della singola forma, dalla sua variabilità nella direzione, dalle infinite combinazioni tra forme e gruppi di forme, dai principi di dissonanza e consonanza. In combinazione con il colore, avremo il grande contrappunto pittorico o composizione, che "in quanto arte veramente pura, si porrà al servizio del divino" (ivi; p. 103).

Il secondo elemento puramente pittorico, il colore, è una sorta di filo d'Arianna che permette a Kandinsky di penetrare nel labirinto dell'astrazione, almeno a livello intuitivo.

Kandinsky, Schizzo I per Composizione VII, 1913

Tra i suoi primi ricordi vi sono soprattutto le impressioni cromatiche, come l'emozione provata davanti ai colori che, quando escono dal tubetto, sembrano esseri viventi, "viventi sostanze" - non a caso il sottotitolo del saggio doveva essere Il linguaggio dei colori. L'esperienza cui si richiama per determinarne il valore interiore è facilmente ripetibile. Si tratta di far scorrere lo sguardo su una tavolozza colorata per osservarne gli effetti. Questi sono di due tipi: si può avere un'impressione meramente fisica e superficiale, di breve durata, che scompare quando lo stimolo viene meno; oppure un effetto psichico, un'azione più profonda che provoca una vibrazione spirituale: è la via che conduce il colore all'anima. "Il colore è il tasto, l'occhio il martelletto, l'anima è il pianoforte dalle molte corde" (ivi; p. 96), l'artista è la mano che toccando questo o quel tasto mette in vibrazione l'anima umana. Il colore possiede una forte carica emotiva e pertanto va considerato dapprima isolatamente. L'analisi è condotta su un duplice piano, la teoria e la sua esemplificazione attraverso tre tavole grafiche. Viene messa in luce una vera e propria dinamica cromatica - che corrisponde all'ipotesi di un itinerario di conoscenza insito nella dimensione artistica - basata su quattro contrasti di otto colori.

Ogni colore viene colto attraverso la sua risonanza interna, la funzione psichica di base, la posizione occupata nella genesi dell'ordine dei colori e il suo significato spirituale; ma anche in assonanza con stati d'animo, oggetti, suono di strumenti musicali. Così, per esempio, del giallo leggiamo che è il tipico colore terreno ed è rappresentazione cromatica della follia, mentre il blu ci appare come il colore del cielo, che rimanda alla profondità, che richiama l'uomo verso l'infinito e che assomiglia al suono del violoncello.

Queste considerazioni si legano del resto ad un tentativo di esposizione del sistema cromatico fondato su una serie di interne polarità che si esprimono in coppie di colori contrapposti. Le prime due forme di contrasto hanno luogo tra le polarità caldo-freddo e chiaro-scuro; a ogni colore corrisponderanno dunque quattro differenti sonorità. La polarità cromatica caldo-freddo si esprime in un'inclinazione verso il giallo o il blu, e quindi, dal punto di vista espressivo, verso la materialità o l'immaterialità. Vi è un duplice movimento: vi è - sul piano orizzontale - un approssimarsi allo spettatore per i colori caldi e un allontanarsi da lui per i colori freddi, ma vi è anche un movimento eccentrico o concentrico - un cerchio giallo, a differenza di uno blu, ha infatti la proprietà di irraggiarsi verso lo spettatore.

Bianco e nero costituiscono il secondo contrasto, l'inclinazione del colore verso il chiaro o lo scuro. Il movimento verso lo spettatore permane, anche se ridotto a una mera potenzialità. Il contrasto in questione rappresenta così i poli o limiti del movimento stesso: il bianco è simbolo di un mondo in cui tutti i colori sono scomparsi, dove regna un gran silenzio, e tuttavia vi è la possibilità della rinascita; il nero invece è un nulla privo di possibilità, silenzio eterno.

Nella terza tavola vengono infine riassunti tutti i colori in un cerchio formato da coppie bipolari, come un grande serpente che si morde la coda, che rappresenta la vita dei colori tra la nascita (bianco) e la morte (nero). Osservando l'illustrazione di copertina del saggio, vediamo un'allusione alla città spirituale descritta nel capitolo sul triangolo, quando Kandinsky si chiede: "se il sole presenta macchie e si oscura, dove trovare qualcosa che lo sostituisca nella lotta contro le tenebre?" (ivi; p. 81). La risposta a questo interrogativo può trovarsi in questo nuovo sole costituito dalla gamma dei colori, la cui genesi è simile al movimento di vita e morte dell'astro. La teoria dei colori propone allora un itinerario dell'anima che, partendo dalla natura fisica, ci conduce per tappe successive alla partecipazione con il divino. Blu e giallo indicano lo spazio della progressione, dalla terra al cielo, mentre il bianco e il nero alludono al tempo in cui quel cammino si scandisce. L'armonia cromatica, nell'attuale epoca tormentata, non può che nascere dal principio del contrasto, dalla lotta dei toni, dalle contraddizioni - così nelle Madonne dell'arte sacra il contrasto tra rosso della tunica e manto blu esprime la grazia celeste inviata agli uomini, l'umano ricoperto dal divino.

Nella Conclusione Kandinsky commenta le otto riproduzioni allegate, dividendole in due gruppi: le composizioni melodiche, subordinate a una forma semplice, e quelle sinfoniche, dove forme complesse sono subordinate a una principale. Poi vi sono forme di transizione, come nella musica. Alla base delle prime si trovano forme geometriche elementari o linee semplici orientate verso un movimento generale, come i mosaici di Ravenna. Le icone russe sono invece esempi di composizioni ritmiche complesse con un accenno al principio sinfonico. Esempi di nuove composizioni sinfoniche sono infine tre quadri di Kandinsky: Impressione V, Improvvisazione 18 e Composizione II.

 III. Dall'arte figurativa all'arte astratta. Kandinsky e l'icona

Si possono a questo punto ripercorrere le tracce del percorso che ha condotto Kandinsky dalla pittura figurativa all'astrattismo, tenendo presente che in questa evoluzione non è vi stata una frattura, ma un progressivo e coerente venire in luce di una necessità espressiva.

Kandinsky, Cavaliere russo, 1902

Nel 1910 avviene in Kandinsky una vera e propria svolta spirituale e pittorica. Egli è convinto della possibilità di creare un nuovo linguaggio attraverso i mezzi plastici, per rendere percepibile allo sguardo la presenza dello spirito che abita ogni forma e ogni colore. Alcuni temi ricorrenti nelle sue opere, quali il cavaliere e la montagna, si liberano progressivamente da ogni valenza aneddotica o naturalistica, per divenire simboli, la cui efficacia risiede nel rifiuto di ogni relazione plastica diretta con l'immagine ispiratrice.

Kandinsky, Lirico, 1911

La nuova forma non ha più altro referente che se stessa, è un in sé, ma nello stesso tempo ripete e conferma ogni volta il principio della necessità interiore. L'accesso della forma materiale allo spirituale si compie in una successione di illuminazioni che hanno il valore di una Rivelazione. La prima è quella del colore, vero principio ordinatore della svolta verso l'astrattismo, il cui ruolo è di aprire un varco fino all'anima, suscitando la contemplazione attiva dello spettatore. Nell'esposizione della sua poetica, Kandinsky ribadisce più volte di essersi ben presto reso conto che l'oggetto nuoce in pittura, perché esso è dotato di un suono interiore che non si può sopprimere. Un limite geometrico lascia invece al colore una maggiore libertà di provocare una vibrazione pura, meno precisa e più flessibile, in una parola astratta. "Come un musicista può comunicare le sue impressioni del sorgere del sole senza ricorrere al canto del gallo, così il pittore dispone di mezzi puramente pittorici per 'rivestire' le sue impressioni del mattino senza bisogno di dipingere un gallo. [...] La sorgente unica di ogni arte è comunque la natura, il mondo intero che circonda l'artista e la vita della sua anima. La differenza si rivela soltanto nei mezzi espressivi (vita interiore) del 'racconto', con o senza gallo" (W. Kandinsky, "L'arte d'oggi è più viva che mai", in Tutti gli scritti, op. cit., vol. I, pp. 187-188). Perciò la denominazione migliore è "arte concreta" o "reale", perché essa pone, accanto al mondo esterno, un nuovo mondo artistico di natura spirituale, che può nascere esclusivamente a opera dell'arte.

Kandinsky, Inverno on montagna, 1908

Tuttavia Kandinsky non è ancora pronto ad abbandonare definitivamente il legame con la natura. Comincia così dissolvendo gli oggetti nel quadro, di modo che non vengano subito riconosciuti dallo spettatore, ma lo costringano a percepirne gradualmente il suono psichico. Anche i titoli delle sue opere subiscono una modificazione: mentre le prime composizioni sono designate con la formula aggettivo (colore) + sostantivo (cosa/persona), come Composizione con nuvole rosse, dal '12 il binomio diventa colore + forma - Macchia nera, Quadro con linee bianche, Quadro con arco nero. L'oggetto naturale è diventato un soggetto puramente pittorico. Dato che l'armonia scaturisce dal contrasto, egli cerca di contrapporre la tragicità dei colori alla grandiosità delle forme grafiche.

Kandinsky, Improvvisazione 21 a, 1911

Attraverso la differenziazione delle superfici interne, ottenuta dando pesi diversi ai colori, riesce a dare profondità evitando la costruzione prospettica. Disperde le masse, colloca gli elementi pesanti in alto e quelli leggeri in basso, lascia debole il centro e rafforza i lati. Si accorge che il suono principale del colore può essere variato indefinitamente, combinandolo con l'infinità delle forme.

Si rivelano così le due principali matrici dell'astrattismo di Kandinsky: da una parte una considerazione della natura intesa in senso goethiano, dove centrale diventa l'idea di metamorfosi come possibilità di osservare il mutamento delle forme, per ritrovarvi gli elementi strutturali essenziali per la loro riconoscibilità. Quel susseguirsi di figure che, secondo un ritmo simile a quello del respiro, si dilatano e si contraggono in un gioco astratto di volumi che si richiamano a vicenda, si traduce in Kandinsky nella percezione dei colori quali materiali vivi, "sostanze" animate o quasi-soggetti. Dall'altra parte vi è il tentativo che guida il suo autonomo percorso verso l'astrattismo: ricercare il medesimo fluire di figure nell'interiorità, in quanto la forma, mezzo pittorico puro che interagisce con il colore, si fa cifra dello spirito, e non mera espressione di uno stato d'animo.

Ora, per ritrovare l'invariante nella molteplicità, organizzando le forme secondo una regola, è necessaria una valutazione interna degli elementi artistici, un nuovo vocabolario e una nuova grammatica.

Chiediamoci allora quale contributo possa darci l'icona come chiave di lettura del nuovo linguaggio della visione elaborato dall'astrattismo. Bisogna il primo luogo distinguere due livelli del problema. Il primo si può definire storico. Vi sono testimonianze di un legame diretto tra le avanguardie russe e la tradizione della pittura di icone. In Italia, e in generale in Occidente, si può parlare di due fortune che si intrecciano. Inoltre alcuni protagonisti dell'avanguardia, Filonov, Malijavin e Tatlin, per esempio, iniziano la loro attività artistica come pittori di icone - mentre si è scoperto di recente che anche El Greco, pittore amato dai protagonisti del Blaue Reiter, da principio dipingeva icone. Mossi dalla volontà di rottura con la tradizione, i giovani artisti delle avanguardie trovano un nuovo referente nell'arte primitiva e popolare. Matisse studia le icone in occasione del suo viaggio a Mosca del 1911 e commenta: "L'icona è un tipo di arte primitiva. Non ho mai visto una tale forza di colore, una tale purezza, un'espressione così immediata". Malevitch si entusiasma per questi pittori, che creano il colore e la forma "in base alla percezione puramente emotiva del tema".

Kandinsky, Ognissanti I, 1911

Kandinsky stesso ritorna più volte a parlare di icone, testimoniando la profonda conoscenza e l'amore per questa tradizione. Per esempio afferma di aver guardato con occhi diversi le icone dopo aver assistito a una mostra degli Impressionisti a Mosca: "imparai a guardare l'astratto presente in questa pittura" (W. Kandinsky, "Intervista a Nierendorf", in Tutti gli scritti, op. cit., vol. II, p. 200). Nella sua pittura vi è un passaggio, intorno ai cruciali anni '10, da temi profani a temi sacri, con opere quali Ognissanti, Diluvio, Il Giudizio Universale. D'altra parte questa era l'atmosfera spirituale. "Alcuni artisti fin-de-siècle, come Kandinsky, ricorsero a una stilizzazione estrema, nel desiderio di andare oltre le apparenze. La loro ribellione implicava il rifiuto del realismo, e dei suoi presupposti, nell'arte. [...] Tutte le tendenze parevano allora convergere nell'assunto fondamentale dei simbolisti, per cui al servizio del divino, e solo al servizio del divino, il sistema delle arti trova il suo equilibrio naturale" (J. E. Bowlt, "Il dono segreto della visione. W. Kandinsky e la Russia fin-de-siècle", in Kandinsky tra Oriente e Occidente. Capolavori dai musei russi, Artificio Edizioni, Firenze 1993, pp. 23-6).

Un secondo livello della questione è significativo per chi si interroga sullo statuto delle immagini. L'icona è un'immagine con caratteristiche peculiari, ha una forma specifica correlata alla sua funzione e descrivibile nelle sue manifestazioni percettive. Entreremo nel merito dell'intricata questione legata a questa tradizione figurativa, correndo il rischio di un'indebita semplificazione, soltanto per metterne in luce gli aspetti utili all'analisi del nostro problema.

In primo luogo vi è un tratto comune alla raffigurazione di icone e alla pittura di Kandinsky: la ricorrenza di una formula paradigmatica, vedere l'invisibile. Al di là della fortuna editoriale dell'espressione - è il titolo dato alla raccolta degli Atti del Concilio di Nicea e del saggio di M. Henry su Kandinsky - si tratta di stabilire in entrambi i casi la legittimità del paradigma, vale a dire, che cosa si intenda per vedere, quali siano le condizioni di possibilità di questa visione e a quale invisibile trascendenza essa alluda.

Immagine acheropita, Scuola di Novgorod, XII secolo

Nel caso dell'icona, che ha un'origine e una funzione cultuale, non è difficile individuare il nesso con il trascendente: essa è riflesso della realtà di Dio e ha il suo fondamento nel dogma dell'Incarnazione. Soltanto se Dio, l'Invisibile, si è fatto uomo nel Cristo, rendendosi visibile, è possibile raffigurarlo senza trasgredire il Secondo Comandamento e cadere nell'idolatria. "Se tu vedi che l'Incorporeo si è fatto uomo per te, allora puoi esprimere la sua immagine umana. Poiché l'Invisibile, incarnandosi, si è mostrato visibile", ci ricorda Giovanni Damasceno. Questioni molto complesse, inerenti alla teologia dell'icona elaborata dalla Chiesa ortodossa, con le sue derivazioni dalle dottrine neoplatoniche, sono qui in gioco. Vi è però un problema di fondo, legato alla questione della rappresentazione e origine della feroce lotta iconoclasta. Come si può infatti dare forma sensibile a un intellegibile, attribuendo valori trascendenti a un ente finito, nel nostro caso, una semplice tavola di legno dipinta? Quale relazione si instaura tra il prototipo e la sua raffigurazione? La prima icona, ci ricorda la tradizione, non è fatta dalla mano dell'uomo che, in quanto creatura sensibile, non può contemplare direttamente il divino, ma è stata creata da Gesù stesso, ponendo sul suo volto un velo. La traccia del volto sensibile è il modello di tutta la pittura di icone, immagine stilizzata che allude senza restituirci fedelmente l'originale. Perciò sarà impossibile affidarsi a una raffigurazione di stampo naturalistico: l'icona non instaura una relazione di identità con l'invisibile. Essa inaugura un percorso verso un al di là della figurazione. "Nell'immagine si deve cogliere allora il suo essere segno e traccia, e ciò è possibile soltanto in virtù di un processo di stilizzazione che ostacoli, per così dire, il movimento figurativo che va dal segno al raffigurato. La tenuità dell'immagine iconica e la sua stilizzata valenza figurativa [...] si pongono così come una spia della funzione metafisica dell'immagine, che altro non è se non un tramite visibile dell'invisibile" (P. Spinicci).

Le icone sono allora una forma di mediazione simbolica del trascendente, manifestazioni della tensione verso un'impossibile riunificazione con il divino. Da qui le caratteristiche di questo stile figurativo: si tratta per lo più di rappresentazioni di volti sacri, colti nella loro ieraticità, fissati in un frammento di spazio, atemporali, veri e propri topoi che si ripetono quasi identici nel corso dei secoli. Non sono individui, ma concentrano in pochi tratti l'essenza dell'umano. Non ci raccontano un evento, sono lì a testimoniarlo con la loro presenza. Ci ricordano l'Evento della Salvezza, inserendo il frammento di spazio che le ospita in un'ideale continuità temporale con tutta la storia precedente e futura: sono le porte del regno della Grazia. "L'icona non è un ritratto ma un prototipo della futura umanità trasfigurata, di cui può unicamente costituire la raffigurazione simbolica" (E. Trubeckoj, Contemplazione nel colore, La Casa di Matriona, Milano 1989, p. 13). Quale visione chiama in causa questo stile espressivo? Che tipo di dialogo si instaura tra lo spettatore e l'icona?

In primo luogo le icone non ci devono illudere di essere ciò cui alludono. Con questo gioco di parole si vuole sottolineare che esse sono immagini bidimensionali, che negano la profondità dello spazio prospettico e il movimento, mentre sono animate da una luce soprannaturale che irradia dal fondo oro e da una complessa simbologia del colore. Lo scarto rispetto alla nostra dimensione percettiva è molto forte: lo spazio reale e quello figurativo risultano nettamente distinti, nessun gioco illusionistico richiede la presenza di un osservatore. Tuttavia il ruolo dello spettatore rimane fondamentale. L'immagine chiama in causa non tanto la sua dimensione emotiva, quanto la disponibilità a vedere con gli occhi della mente, a pensare per immagini. L'icona è muta, per chi la contempla cercandovi il diletto dei sensi: essa è "una speculazione per mezzo di immagini visive, inscindibile dalla parola del Vangelo, espressione di un'unica e identica realtà spirituale" (P. Florenskij, Le porte regali, Adelphi, Milano 1993, p. 174). Perciò essa deve essere venerata ma non può essere adorata, perché "evoca un archetipo, cioè desta nella coscienza una visione spirituale" (ivi; p. 69), dà il primo impulso a un movimento che non si esaurisce in essa - quasi un'ascesi mistica. Ecco il paradosso: l'icona sembra denunciare l'insufficienza della sensibilità rispetto all'invisibile che ha il compito di manifestare. Il suo fragile statuto ontologico di velo o diaframma, che l'ancoramento alla materialità del legno su cui è incisa ribadisce, la pone su un discrimine tra l'essere protesa su un al di là e il ricadere nel sensibile.

In che senso allora è legittimo l'uso del medesimo paradigma, vedere l'invisibile, in relazione all'opera di Kandinsky? Che cosa può dirci rispetto al suo abbandono dell'arte figurativa?

Kandinsky dichiara in tono profetico che "l'uomo parla all'uomo del trascendente" e che questo è il vero linguaggio dell'arte. Tuttavia, quale invisibile rende visibile la sua pittura, a quale trascendenza si allude? Non alla divinità trascendente in senso cristiano, anche se il forte radicamento nella tradizione ortodossa accompagnerà il suo cammino in Occidente. Egli cerca piuttosto di aprirsi un varco verso un altrove e inaugura così un nuovo corso della pittura: l'invisibile è il regno dell'arte, o meglio, il linguaggio delle forme e dei colori. Al di là delle apparenze sensibili che la natura ci offre - un regno che per Kandinsky la scoperta della disintegrazione dell'atomo ha messo in crisi - si rivela un livello profondo dell'Essere, un'anima segreta delle cose: il coro dei colori con il loro suono interiore e la fantasmagoria delle forme nella loro duttilità.

Rinunciando alla rappresentazione mimetica della natura, si ha un accesso diretto alla realtà. Ecco perché Kandinsky preferisce usare il termine concreto per indicare questo processo di "purificazione" o astrazione. Forme e colori, il materiale con cui opera il pittore, sono veri e propri esseri spirituali che hanno una loro sonorità e che agiscono sulla nostra anima mettendola in vibrazione. "Il mondo risuona. Esso è un cosmo di esseri che esercitano un'azione spirituale. Così la materia morta è spirito vivo". Guidato dal principio della necessità interiore, l'artista si affida alla sua sensibilità per organizzare questo materiale vivo, incandescente, perché diventi il tramite con altri soggetti, vibrazione interiore di altre anime. "La sensibilità è dunque un ponte tra l'immateriale e il materiale (artista) e tra il materiale e l'immateriale (spettatore)" (W. Kandinsky, "La pittura come arte pura", in Tutti gli scritti, op. cit., vol. I, p. 137). Il contenuto astratto deve però tornare a incarnarsi in una forma materiale per esprimersi. Attraverso la costruzione si giunge così alla composizione, che a sua volta è un nuovo organismo spirituale. Ogni opera d'arte può inaugurare la nascita di un mondo che, per obiettivarsi, ha bisogno di questa strutturazione profonda. Vi è forse un altro luogo, oltre alla musica, per la manifestazione di quest'interiorità, se non la tela bianca? La nascita di un'arte non figurativa "apre uno spazio pittorico vergine, adatto ad accogliere una metamorfosi: la fusione originaria, in un luogo aperto e attivo, della tradizione occidentale con l'Oriente. Il conflitto si risolve così in una conflagrazione lirica, capace di generare nuovi segni, nuovi ritmi e nuove leggi" (J. Dupin, L'universo plastico di Kandinsky, "XX siècle", cit., p. 69).

Ritorniamo, con questo richiamo all'Oriente, all'universo trasfigurato delle icone. Il mondo sensibile, attraverso il velo dell'immagine, è anche per Kandinsky ostacolo e insieme condizione del suo superamento: che cosa sono infatti forme e colori se non elementi "stilizzati" astratti dalla sensibilità, materia purificata nella sua essenza? Non segni ma simboli in sé significanti, necessitano di un loro vocabolario e di una nuova grammatica, così come l'icona ha ricevuto dalla tradizione una precisa codificazione stilistica. "Niente realtà esterna, ma la 'realtà' materiale dei mezzi pittorici, degli attrezzi, cosa che richiede il mutamento completo di tutti i mezzi di espressione e della tecnica stessa. Un quadro è l'unità sintetica di tutte le parti" (W. Kandinsky, "La tela vuota", in Tutti gli scritti, op. cit., vol. I, p. 193).

Il pericolo che minaccia lo statuto ambiguo dell'icona è ancora in agguato, sotto la forma di un mero grafismo e colorismo, semplice effusione di una soggettività sfrenata, assoluta, perché sciolta da qualunque legame con il mondo. L'accusa che Henry Maldiney a Kandinsky muove è questa: "Da qui questo catalogo di forme della coscienza assoluta che propongono tanti quadri di Kandinsky. Da qui questo ritiro dall'esistenza sotto la forma di un mondo interiore autonomo, questa ipostasi di una soggettività separata che non è più una presenza" (H. Maldiney, Regard, Parole, Espace, L'Age d'Homme, Lausanne 1994, p. 109). Tuttavia, come è possibile che un artista così attento al ruolo dello spettatore e alla dinamica intersoggettiva, che affida all'arte una missione profetica - se non salvifica - e un potere cosmogenetico, possa cadere in una simile ingenuità?

Kandinsky è consapevole che, avendo proposto una composizione strutturata secondo forme e colori puri, ne risultino belle decorazioni geometriche, un'arte puramente ornamentale. Perciò nel saggio del '12 è convinto che sia ancora necessario il ricorso a forme esteriori della natura. L'arte del futuro è però quella che riuscirà a esprimere in forma matematica le relazioni che intercorrono tra le forme. "Come ultima espressione astratta rimane in ogni arte il numero" (Lo Spirituale nell'arte, in Tutti gli scritti, op. cit., vol. II, p. 129).

Un confronto con le sue opere può essere significativo, in quanto esse richiedono un diverso atteggiamento ricettivo rispetto all'arte figurativa. Davanti ai quadri di Kandinsky, non comprendiamo più il linguaggio cui ci hanno abituato le immagini prospettiche, dobbiamo abbandonare l'idea che di fronte a noi si apra una scena teatrale e uno spettacolo abbia inizio. Kandinsky ci chiede di annullare la distanza che ci separa dall'opera, per immergerci nella sua realtà. Lo spettatore è così chiamato a una sorta di percorso di superamento delle limitazioni spazio-temporali, come accade davanti a un'icona. Per chiarire questa nuova disposizione possiamo servirci di un'immagine suggestiva: immaginiamo di osservare un pittore che ritrae un paesaggio e un viandante che si trova a passeggiare per quei luoghi. Il pittore sceglie il punto di vista che gli sembra migliore e lì colloca il suo cavalletto, assume una postura fissa e una visione prospettica. Ci dà la rappresentazione di un istante, visto da un luogo preciso, e costringe lo spettatore a fare altrettanto. Diversa dal pittore "da cavalletto" è invece l'attitudine del passante. Davanti ai suoi occhi il paesaggio si dispiega in tempi successivi e assume diverse conformazioni, che egli può organizzare in una sequenza inedita. Il punto di vista sarà di volta in volta una tappa del percorso, fissata nello svolgimento di un tempo continuo.

Queste figure rappresentano due differenti modalità della visione. Il pittore paesaggista si serve del disegno prospettico al fine di restituirci un'immagine fedele, mimetica, della realtà, racchiudendo in una cornice una scena che possiede una forte unità interna, grazie all'assunzione di un unico punto di vista, che a sua volta lo spettatore dovrà assumere. La prospettiva è prima di tutto costruzione di uno spazio in cui soltanto in un secondo tempo gli oggetti raffigurati trovano la loro collocazione, secondo una regola costante che determina sia il ritmo del loro sprofondare nella lontananza sia le relazioni spaziali che vi intercorrono - la cosiddetta gabbia prospettica. Per essere coinvolto nell'illusione, lo spettatore deve partecipare allo svolgimento lineare di un percorso di narrazione. Come si trovasse a uno spettacolo teatrale, non si può permettere distrazioni, perché è a lui che gli attori si rivolgono.

Diversamente stanno le cose se si ignora la costruzione prospettica, in nome di una volontà creatrice del reale e non meramente riproduttiva. Se, come sostiene Kandinsky, l'opera d'arte abita un regno autonomo rispetto alla natura e ciò che si crea è un mondo nuovo, la libertà sarà pressoché totale. Come il viandante può scegliere il suo cammino, così non vi è un unico percorso possibile nello spazio figurativo. Lo spettatore deve entrare nel quadro, muoversi, vivere in esso, quasi dimentico di sé, deve farsi sguardo che vaga senza meta, distratto. "Lo sguardo si colloca nello spazio del quadro e riunisce le forme lì disperse. Se ci perdiamo nelle anamorfosi di una prospettiva irrazionale, non è che per ritrovarci in un reale spogliato da tutti i suoi accidenti, ridotto alle più semplici, sottili e intense strutture della sensibilità" (P. Volboudt, Philosophie de Kandinsky, "XX siècle", cit., p. 62). Certo, esiste il pericolo che questa fusione nell'opera implichi la perdita della dimensione dialogica che la prospettiva garantisce, mettendo alla debita distanza lo spettatore.

Kandinsky attenua allora la pretesa autonomia del regno dell'arte e sembra orientare la sua prassi pittorica in funzione dello spettatore. Il pittore può infatti guidarlo in questo labirinto, come fa il musicista: "se vuole può infatti forzarlo a cominciare di qui, a seguire un percorso esatto nella sua opera pittorica e a 'uscire' di là" (W. Kandinsky, "Arte concreta", in Tutti gli scritti, op. cit., vol. I, p. 196). Vuole costringere lo spettatore a sprofondarsi nell'opera per scoprirne gradualmente la complessità, utilizzando oltre allo spazio, anche il tempo. Si è reso conto infatti che i quadri di Rembrandt "durano a lungo" perché, attraverso i contrasti chiaroscurali, l'immagine si scompone in tante parti che vanno dapprima osservate isolatamente e poi ricomposte sinteticamente. Egli applica nei suoi quadri ciò che chiama il principio di Rembrandt, inserendo una gamma infinita di toni cromatici dapprima celati. Va dunque ricreata, in altro modo rispetto alla costruzione prospettica, la dimensione della profondità. Ora saranno le forme, lo spessore di una linea, le intersezioni tra le figure, e i colori a suggerire l'espansione pittorica dello spazio.

Venerazione del mantello della Madre di DIo, Novgorod XVI secolo

Si scoprono così nuovi poteri dell'immagine, analogamente a quelli che l'icona mette in gioco (cfr. P. Sers, "Le sens philosophique du dépassement des limites humaines dans l'icône byzantino-slave: perspective non-euclidienne e temporalité prophétique", in Il mondo e il sovra-mondo dell'icona, a cura di S. Graciotti, Olschki, Venezia 1998, pp. 31-56): l'esistenza di un ordine dell'immagine, indipendente dalla sua lettura usuale; il désenfermement, il disancoramento della coscienza dello spazio, con la capacità di liberarsi dall'assunzione di un punto di vista; il dédimensionnement, la variazione del rapporto tra la mia dimensione esterna di spettatore e quella dell'oggetto, come accade ai mistici che possono abitare i "piccoli mondi". Vediamo alcuni esempi.

Alcune icone, come La Venerazione del mantello della Madre di Dio che ci presentano insieme un interno e un esterno, ci obbligano a una visione multiprospettica: non essendoci un unico punto di vista, io sono dovunque nello stesso tempo. Ciò incide sul problema della dimensione: le relazioni spaziali all'interno dello spazio figurativo non dipendono più dalla correlazione con lo spettatore, come avviene seguendo la regola prospettica, ma variano di volta in volta a seconda della loro funzione espressiva, scegliendo di privilegiare il microcosmo - nell'icona San Giovanni Battista nel deserto o nei Piccoli mondi di Kandinsky - o il macrocosmo. Vi può essere una combinazione di immagini nella quale diversi momenti dello sviluppo di un evento sono installati in una disposizione spaziale. Reversibilità, se non addirittura simultaneità, testimoniata per esempio dall'icona di S. Teodoro, con l'unione nello stesso luogo di due momenti separati dalla durata ma riuniti dal senso. Lo stesso accade osservando l'iconostasi, un modello dei poteri dell'immagine di creare un ordine del senso anti-discorsivo. Essa propone alla coscienza un viaggio mistico che si sviluppa nei tre tempi dell'umanità in attesa, della liturgia eterna e della preghiera individuale. La mia coscienza è chiamata a costruirsi un inventario visuale della realtà, rispetto alla quale l'immagine è il supporto della comprensione e la verificazione della totalità. Essa ha la capacità di prendere posto tra il silenzio e il linguaggio, consentendo uno svelamento che non cade nel dedalo della traduzione. L'unione con l'assoluto dell'esperienza mistica si fa qui esperienza dello sguardo, che si libera dalle dimensioni spazio-temporali per tendere all'invisibile, alla ri-creazione di un mondo attraverso la sua ri-presentazione.

Un percorso analogo si propone Kandinsky. Egli suggerisce l'atteggiamento estetico dello spettatore, che deve porsi dinanzi a un'opera in modo che la forma agisca sull'anima, e, attraverso la forma, il contenuto, vale a dire lo spirito, il suono interiore. Con le sue opere vuole ricreare l'esperienza irripetibile provata nelle case dei contadini russi, durante il suo viaggio nel governatorato del Vologda, case completamente ricoperte di pitture non oggettive: è la scoperta di uno spazio pittorico penetrabile, dove la pittura "non racconta nulla", non si fa spettacolo. In queste case, come nelle chiese, si compie un itinerario liturgico, che culmina davanti alla lampada votiva.

Philippe Sers ha utilizzato questa chiave interpretativa (cfr. P. Sers, Kandinsky. Philosophie de l'abstraction: l'image métaphysique, Skira, Genève 1995, pp. 100-101), ritenendo centrale un'affermazione di Kandinsky, la risposta ad alcuni critici che avevano accusato l'astrattismo di aver svuotato l'arte di ogni contenuto. "Il contatto dell'angolo acuto di un triangolo con un cerchio non ha un effetto minore di quello dell'indice di Dio con quello di Adamo in Michelangelo. E se le dita non sono anatomia o fisiologia, ma qualcosa di più, ossia mezzi pittorici, il triangolo e il cerchio non sono semplice geometria ma qualcosa di più: mezzi pittorici. Accade così che talvolta il silenzio parli più alto del rumore e che il mutismo abbia una voce eloquente" (W. Kandinsky, "Riflessioni sull'arte astratta", in Tutti gli scritti, op. cit., vol. I, p. 177). Kandinsky ha affermato che la forma astratta ha una forza di risonanza maggiore della forma figurativa, che l'oggetto nuoce in pittura. Perché allora usa un'espressione così debole come "non ha un effetto minore"?

L'esempio utilizzato concerne colui che meglio incarna il rovesciamento delle strutture tradizionali dell'immagine medievale in Occidente, Michelangelo. Per la fede ortodossa, non essendosi Dio Padre mai manifestato visivamente, vi è l'interdizione a rappresentare questa immagine puramente fantastica. "Soltanto il Cristo può essere dipinto tale quale Egli è stato visto e si è incarnato", sostengono i Padri della Chiesa. Il problema si era posto al più noto pittore d'icone dell'antichità, Andrej Rublëv, nella rappresentazione della Trinità. L'episodio dei tre misteriosi stranieri che vanno a fare visita ad Abramo era, secondo la dottrina ufficiale della Chiesa, la manifestazione profetica della Trinità. Come restituire l'immagine del Padre e dello Spirito Santo? La soluzione di Rublëv consiste nel suggerire il massimo di realtà simbolica riducendo il simbolo alla sua minima struttura, attraverso un'estrema sintesi che non narra, che non rappresenta il "come" o il "perché" della divinità, ma solo il "che", predicabile grazie alla rivelazione.

Kandinsky intende andare ancora oltre in questo processo di purificazione. La sua affermazione si presenta allora nella sua evidenza. L'astrattismo si manifesta come una necessità apofatica. Davanti alla non manifestazione visiva di Dio, l'arte astratta ci fornisce il solo linguaggio visivo che non cada nell'idolatria, quello che si fonda sull'apofasi. È la ragione per la quale Kandinsky conclude suggerendoci che il silenzio può parlare più alto del rumore e il mutismo acquisire una netta eloquenza. D'altra parte, a proposito delle vibrazioni provocate dai colori, aveva sostenuto che esse contengono sempre in sé un residuo non esprimibile a parole, le quali sono soltanto "segni, contrassegni esteriori".

L'arte astratta rifiuta infatti qualsiasi dimensione narrativa, qualunque finalità esterna, a differenza della tradizione pittorica occidentale. Si potrebbe allora interpretare questa rottura con il naturalismo come il recupero di una dimensione originariamente negata. Non accettando le conclusioni del Concilio di Nicea, l'Occidente cristiano ha attribuito all'immagine una funzione di mero supporto e illustrazione della parola - la pittura è memoria rerum gestarum per Alcuino, la scrittura degli analfabeti per Gregorio Magno - e messo al margine la sua valenza simbolica.

Così i vecchi credenti russi accusavano nel '600 i nuovi pittori di icone di raffigurare i santi come persone vive, sotto l'influsso dell'arte occidentale: essi "ritraggono l'immagine del Salvatore con il volto paffuto, le labbra color rosso scarlatto, i capelli riccioluti, le braccia robuste, le dita gonfie, i fianchi grossi, [...]. La loro pittura è dominata da una concezione carnale, come gli stessi eretici che hanno amato la grassa carnalità rifiutando le cose elevate" (B. Uspenskij, "La venerazione dell'icona e la spiritualità russa", in Il mondo e il sovra-mondo dell'icona, cit., p. 65).

L'arte figurativa non può fare altro che riprodurre un frammento del mondo, un episodio della storia, non può mai rappresentare l'universo nella sua complessità. La pittura non figurativa ha l'ambizione di esprimere la totalità, di essere pittura universale.

Non è un caso che questo ritorno sia opera di un "grande principe dello spirito", giunto da Oriente. Paul Valéry, ammirando l'arte araba perché costretta dall'interdizione religiosa a evitare la rappresentazione naturalistica, sostiene: "Amo questo divieto. Esso elimina dall'arte l'idolatria, il trompe-l'oeil, l'aneddoto, la credulità - tutto ciò che non è puro, tutto ciò che non ha nulla a che spartire con l'atto generatore che [...] mira a edificare un sistema di forme dedotte unicamente dalla necessità e dalla libertà reali delle funzioni che esso mette in opera. Imitare, descrivere, rappresentare, non vuol dire imitare la natura nella sua operatività: significa, cosa molto diversa, imitarne i prodotti. Se si vuole diventare simili a ciò che essa produce (Natura produttrice), bisogna, al contrario, sfruttare l'intero campo della nostra sensibilità e della nostra azione e prefiggersi di combinarne gli elementi. L'Artista dell'arabesco, costretto a creare, impedito di ricorrere alla memoria delle cose, copre questo spazio libero, questo deserto, con una vegetazione formale che non assomiglia a nulla [...]. Il nostro artista è l'unica fonte. Egli non può pensare di richiamare alcunché: al contrario, è suo compito CHIAMARE QUALCOSA... Lo invidio...", ("Orientem Versus", in Sguardi sul mondo attuale, Adelphi, Milano 1994, pp. 165-166).

Maggio 1999

Francesca Molteni

 

Seminario di filosofia dell'immagine

Le parole della filosofia, II, 1999

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