Le parole della filosofia, II, 1999

Seminario di filosofia dell'immagine

La filosofia nelle immagini: Las Meninas di Velázquez e il concetto di raffigurazione

- Paolo Spinicci -

(Università di Milano)


 

Velázquez, Las meninas


 

1. Il titolo della relazione che vi propongo merita forse una parola di commento. Esso allude innanzitutto ad un quadro che Velázquez dipinge nel 1656 e che può essere visto oggi al Museo del Prado. Si tratta di un quadro famoso e di grande bellezza, su cui molto si è discusso e che rappresenta a ragione uno dei luoghi classici della riflessione sulle arti figurative.

Di questo quadro famoso vorrei parlare anch’io, ma da filosofo, e ciò significa, io credo, delimitare fin da principio l’orizzonte in cui si collocano queste considerazioni: l’obiettivo di queste pagine non è di natura storica o stilistica e non è, in fondo, nemmeno quello di tentare un'interpretazione complessiva di un quadro che dei suoi molti sensi ha fatto una sua nota caratteristica. Il punto su cui vorrei soffermarmi è un altro: vorrei mostrare come dall’analisi di uno degli aspetti centrali di questo quadro che tanto ci dà da pensare sia possibile trarre lo spunto per una riflessione più generale grammatica della raffigurazione pittorica. Certo, in un quadro o in un racconto vi è molto di più di quanto non sia di stretta pertinenza della riflessione filosofica e ciò è vero soprattutto per un capolavoro come Las Meninas, ma ciò non toglie che il filosofo possa egualmente sfogliare il catalogo delle opere d'arte per trarre di qui qualche suggerimento utile per il proprio lavoro. Credo dunque che, talvolta, una filosofia dell'immagine possa procedere proprio così come recita il titolo delle riflessioni che vi propongo: cercando nelle immagini i capitoli di un'ideale filosofia dell'immagine. Così, se nonostante tutto e tra mille cautele mi avventuro in una riflessione su Las Meninas è perché credo che una lettura attenta di alcuni aspetti di questo quadro ci inviti a riflettere su un tema che appartiene di diritto all'universo teorico di una filosofia dell'immagine - il rapporto che lega ogni raffigurazione allo spettatore che la contempla.


2. Guardiamo innanzitutto questo quadro. È in primo luogo il ritratto di una bambina di cinque anni - Margherita, l'infanta di Spagna. Andrà in sposa a Leopoldo I d'Austria e morirà giovanissima, lasciando di sé soprattutto quest'immagine.

Ma sarebbe insensato dire che Las Meninas è soltanto il ritratto di Margherita: il quadro ritrae anche una piccola vicenda della vita di corte. La bambina ha chiesto dell'acqua che le viene portata in un bucchero rosso da María Augustina de Sarmiento, una giovane aristocratica cui fa da contrappunto la figura di un'altra giovane, Isabel de Velasco, figlia del Conte di Colmenares. Ma il quadro si complica ancora se abbandoniamo progressivamente il suo centro tematico, ampliando il raggio della nostra visuale. Compaiono allora le figure dei due Velázquez: l'uno, il pittore, intento a dipingere una grande tela che si nega al nostro sguardo, l'altro un maresciallo di palazzo che in comune con il pittore ha solo il cognome e che - prima di abbandonare la scena del dipinto - si volge verso di noi, disponendo la sua persona nella cornice della porta. In mezzo ai due, uno specchio riflette una coppia illustre: Filippo IV di Spagna con sua moglie, la regina Marianna d'Austria. E se alla nostra sinistra il dipinto è occupato dalla grande tela cui Diego Velázquez lavora, sulla destra compaiono altri personaggi minori: in primo piano vi sono due nani - l'una con le mani giunte, l'altro intento a stuzzicare un grosso e pacifico cane - mentre sullo sfondo si sono due servitori, che conversano tra loro, anche se uno si è proprio ora rivolto verso di noi. Immerse nell'oscurità sulla parete che chiude la stanza vi sono infine alcune grandi tele di soggetto mitologico: Atena che punisce Aracne di Rubens e una copia della Contesa di Apollo e Pan di Jordaens.

Basta dare uno sguardo al quadro che si è venuto delineando sotto i nostri occhi, per rendersi conto che di un semplice ritratto non si può davvero parlare, e nemmeno di una scena di corte. Tutt'altro: al ritratto si affianca l'autoritratto, al quadro dipinto la tela che viene dipinta, ai personaggi che recitano la loro piccola storia le molte figure che si rivolgono allo spettatore. E poi, in fondo, sulla parete, uno specchio, e quindi un'allegoria della pittura che anticipa concettualmente la competizione mimetica in cui il pittore è impegnato, - una competizione che si ripete nei soggetti mitologici dei quadri appesi alla parete e riprodotti da Velázquez. Ce n'è quanto basta per giustificare il nostro assunto iniziale: tra le molte pieghe di questo quadro vi è anche una riflessione sul concetto di raffigurazione.

Lo specchio di Las Meninas

Del resto, nel proporre questa tesi non facciamo altro che ripercorrere un cammino più volte intrapreso, ed in particolar modo è il nome di Foucault che deve essere fatto. In un saggio intitolato "Le damigelle d'onore", raccolto in Le parole e le cose (1966), Foucault ha cercato di cogliere in questo capolavoro di Velázquez l'eco visiva di un concetto che riveste un ruolo centrale nella filosofia moderna. Il dramma che si agita sotto i nostri occhi è il dramma del concetto filosofico di rappresentazione, di questo concetto che si radica nella soggettività ma non può parlarci del soggetto e che, d'altro canto, proprio perché è immerso nella coscienza, non può racchiudere in sé ciò che è trascendente - l'oggetto cui pure tende. Di questa dialettica della rappresentazione, il quadro di Velázquez ci offre un'illustrazione esemplare, almeno secondo Foucault. Il quadro è innanzitutto un autoritratto e già questo allude ad una tensione rappresentativa: nel suo farsi autoritratto, il quadro sembra voler alludere a quel punto che è necessariamente invisibile - allo sguardo del pittore che lo organizza. E tuttavia, nel suo presentarsi come un oggetto tra gli altri, il pittore rinvia necessariamente alla sua soggettività che nel quadro non c'è, né può propriamente esservi. Ma è sullo specchio che le attenzioni di Foucault si focalizzano, ed anche se non pretendiamo di restituire per intero le argomentazioni ricche e sfuggenti di questo saggio, il loro nucleo è chiaro: per Foucault, lo specchio è uno sguardo che esce dal quadro per mostrarci ciò che sta al di là del quadro, nel nostro spazio. Ora, ciò che nello specchio si riflette e che si deve trovare proprio di fronte ad esso - la coppia reale - è a sua volta meta di due differenti sguardi che dal quadro le vengono rivolti: la osserva infatti il Velázquez pittore che la dipinge sulla tela, ma anche l'altro Velázquez che fa da spettatore poiché - scrive Foucault - non vi è dubbio che egli si volga a guardare il modello che il suo omonimo dipinge - il re e la regina. E tuttavia, in questa suo andare fuori da sé, l'immagine tace comunque ciò che cerca di dire: lo specchio non può mostrarci che un riflesso del modello cui il quadro assomiglia, ed il prezzo di questa parvenza è il silenzio su chi dovrebbe invece apparire nell'immagine riflessa: il pittore e lo spettatore, che devono scrutare la scena dipinta proprio dal punto che fronteggia lo specchio e che è invece occupato dalla famiglia reale. Alla scena dipinta e visibile fa così eco un punto reale e invisibile: il luogo che il soggetto e l'oggetto dell'immagine occupano e che lo specchio si rivela incapace di catturare Nel suo tentativo di andare di là da se stessa, l'immagine si scontra così ancora una volta con il limite costruttivo che la caratterizza.

Queste poche considerazioni sono forse sufficienti per rendere conto della ricchezza dell'interpretazione che Foucault ci suggerisce, - un'interpretazione che è meno lineare ma più ricca di quella che Searle doveva avanzare pochi anni dopo. Un punto tuttavia le accomuna: Searle e Foucault sono convinti che lo specchio rifletta un punto esterno allo spazio del quadro e che questo punto non soltanto ospiti la famiglia reale che il Velázquez dipinto a sua volta dipinge, ma sia anche il luogo in cui lo spettatore deve porsi (o deve immaginare di porsi) per cogliere la scena così come il pittore l'ha vista (o ha immaginato di averla vista).

Ora, quale sia questo luogo esterno al quadro è presto detto: vi è infatti un solo luogo che deve essere condiviso dallo spettatore e dal pittore, ed è il punto di vista definito dalla costruzione prospettica. Tanto per Foucault, quanto per Searle, la peculiarità costruttiva del quadro di Velázquez poggerebbe dunque su questo assunto: una costruzione prospettica centrale che pone il punto di proiezione del quadro di fronte allo specchio, che proprio per questo dovrebbe riflettere l'immagine del pittore che l'ha dipinta o dello spettatore che la guarda. Al suo posto, tuttavia, lo specchio restituisce l'immagine della famiglia reale che - concludono un po' sbrigativamente Searle e Foucault - deve trovarsi anch'essa in quel luogo affollato che la costruzione prospettica indica e cui lo spettatore e il pittore non possono idealmente rinunciare, poiché solo per chi osservi da quel luogo è possibile scorgere nello specchio ciò che il dipinto ci mostra, - l'immagine riflessa della famiglia reale. L'oggetto e il soggetto del quadro si perderebbero così l'uno nell'altro, costretti a condividere un luogo la cui visibilità resterebbe comunque enigmatica.

Di fronte ad argomenti così affascinanti e ricchi di suggestioni come quelli di Foucault e di Searle può sembrare perfino sgarbato prendere in mano squadra e righello per vedere se le cose stiano davvero così come ci si dice. E tuttavia sarebbe sbagliato non farlo, poiché il gioco di sguardi e di riflessi su cui siamo chiamati a riflettere deve comunque essere percepibile, e può esserlo solo se non si contravviene alla geometria che lo sorregge. Dobbiamo allora chiederci se è davvero lecito sostenere che il punto di proiezione del quadro di Velázquez sia posto di fronte allo specchio. Rispondere a questa domanda non è difficile, poiché Velázquez ci offre più di un indizio per cogliere quale sia il punto di fuga: le lampade sul soffitto, la linea che segna la sua intersezione con la parete alla nostra destra, lo stipite superiore delle finestre, le cornici dei quadri sui pilastri indicano tutti un unico punto - quella mano della figura incorniciata dal vano della porta, cui Velázquez dà risalto sia in termini di luce, sia in termini compositivi. Ma se questo è il punto di fuga, il punto di costruzione di questa prospettiva eccentrica sarà comunque di fronte ad esso, ed è qui - di fronte al vano della porta dipinta - che dovrà idealmente porsi lo spettatore. E del resto come dubitarne, se tante persone rivolgono il volto e lo sguardo verso un identico luogo che fronteggia evidentemente la figura del secondo Velázquez? E se questo è il punto di vista che la costruzione prospettica ci invita idealmente ad assumere, lo specchio - che ci apparirà come una superficie su cui lo sguardo cade obliquamente - non potrà più mostrarci ciò che gli sta di fronte: rifletterà qualcosa che si trova sulla sua destra (o se si preferisce: alla nostra sinistra), come sa chiunque abbia giocato almeno un poco con gli specchi. Rifletterà insomma la grande tela che Las Meninas ci mostra nella sua parte cieca, svelandoci così l'arcano della sua figurazione: il quadro che Velázquez sta dipingendo (o ha appena terminato di dipingere) raffigura la coppia reale. Ne segue che - secondo la migliore tradizione metafisica - lo specchio ci mostra l'immagine di un'immagine, e ciò è quanto dire che lo "sguardo" della riflessione non abbandona affatto lo spazio figurativo del quadro.

Costruzione prospettica di Las Meninas secondo Snyder e Cohen

Queste considerazioni che abbiamo proposto un poco alla buona hanno trovato una loro illustrazione esemplare in un saggio del 1980 di Snyder e Cohen (Riflessioni su Las Meninas: il paradosso perduto. Risposta critica), un saggio per molti versi ammirevole e che dimostra in modo definitivo quale sia il punto dello spettatore e quale il riflesso che per quel punto lo specchio restituisce. La restituzione prospettica del Las Meninas che qui riproduco trae di lì la sua origine, ed è un argomento sufficiente per mostrare l'insostenibilità delle tesi di Searle e Foucault, - due tesi che non avrebbe senso cercare di difendere sottolineando la differenza, per certi versi ovvia, tra la libertà dell'artista e la normatività dell'ottica geometrica, poiché da un lato questa differenza è messa a tacere proprio dalla sostanza dei loro argomenti, dall'altro perché Velázquez non avrebbe mai spinto quell'ovvia distinzione sino al punto di scardinare la consistenza ottica e geometrica dell'immagine. Velázquez, del resto, di specchi se ne intendeva e se la Venere allo specchio (1644-48) può guardarci ciò accade soltanto perché il suo autore conosce bene le leggi della riflessione.

Ve


3. Alla pars destruens che ha segnato l'avvio delle nostre considerazioni vorremmo ora far seguire una pars construens, e la prima mossa in questa direzione consiste nel cercare di comprendere meglio la funzione degli specchi dipinti, soffermandoci in primo luogo sulla relazione che lega lo spazio dell'immagine al luogo che ospita ciò che sullo specchio vediamo baluginare.

Tre sono le forme che questa relazione può assumere.

Ter Borch, Donna allo specchio

a) Riproponendo ancora una volta l'antico tema del paragone tra le arti, Vasari osservava che alla scultura che ci costringe a cogliere nel tempo il variare dei profili, la pittura può contrapporre un sapiente gioco di specchi che sveli i lati nascosti delle cose in un unico istante. Ora, che la prospetticità dell'immagine potesse essere effettivamente percepita come una limitazione che si frappone ad un pieno godimento della forma è un fatto che traspare, per esempio, nel San Sebastiano del Pollaiolo, che costringe gli artefici del martirio a disporsi gli uni specularmente agli altri, in una danza di movimenti che ha innanzitutto il compito di mostrare ciò che di volta in volta la prospettiva ci nega. Sarebbe tuttavia un errore credere che l'unica funzione dello specchio consista nel restituire la completezza della forma: in realtà gli specchi possono mostrarci dettagli o aspetti che arricchiscono la dimensione emotiva dell'immagine. Un volto che lo specchio restituisce ad una persona che ci volge le spalle ha un'ovvia valenza espressiva e il gioco di sguardi della Donna allo specchio di Ter Borch (1650) lo mostra con chiarezza. E tuttavia, nell'uno e nell'altro caso la riflessione è caratterizzata dal suo rimandare ad un oggetto che appartiene allo spazio figurativo, anche se l'aspetto che di esso lo specchio ci mostra non è pienamente visibile dal punto di vista che il pittore ha propriamente scelto. Parleremo allora di una riflessione interna in senso stretto.

b) È tuttavia possibile una diversa forma di rispecchiamento che amplia lo spazio figurativo dell'immagine, poiché ci mostra qualcosa che di fatto non si trova nel luogo che il pittore ha figurativamente racchiuso nella cornice, ma che avrebbe tuttavia potuto in linea di principio appartenervi se soltanto il pittore avesse ampliato l'angolo di visuale o avesse mutato il suo punto di osservazione, arretrandolo. Guardiamo questo quadro di Quentin Massys intitolato Il cambiavalute e sua moglie (1514): un uomo e una donna di estrazione borghese sono intenti a soppesare con infinita cura del denaro di cui debbono saggiare il valore, e tanto lo sfondo che ritrae alcuni libri e gli strumenti del loro mestiere, quanto l'attenzione che il pittore ha dedicato ad illustrare i dettagli in cui si scandisce la prassi meticolosa del loro lavoro sembrano dare al quadro una valenza eminentemente descrittiva: Massys ha voluto mostrarci un mestiere e la meticolosità consapevole di chi lo esercita. Ad un piccolo specchio convesso che può facilmente sfuggire alla nostra attenzione spetta tuttavia il compito di aprire la descrizione ad un'imprevista eco narrativa: lo specchio ci mostra infatti il volto preoccupato di un uomo che ha sicuramente a che fare con le operazioni del cambiavalute, ed una volta che questo dettaglio ci abbia colpiti è difficile negare alla scena una diversa drammaticità. Ora che abbiamo visto nello specchio disegnarsi quel volto, sospettiamo quale sia lo sfondo di quel contare che si accompagna ad una così serena lettura dei testi sacri! E tuttavia, per quanto significativa sia qui la cesura tra ciò che è raffigurato al di qua e al di là della cornice e per quanto questa scansione in uno spazio primario e in uno spazio secondario sia necessaria per dare all'immagine la complessità di significato che le spetta, resta egualmente vero che l'intera scena avrebbe potuto cadere sotto un unico sguardo. Abbiamo a che fare allora con una riflessione che è sì esterna allo spazio fattualmente racchiuso dalla cornice ma che non pretende per questo di infrangere ma solo di ampliare lo spazio figurativo in quanto tale. Parleremo allora di una riflessione solo accidentalmente esterna o, se si preferisce avvalersi di un linguaggio più "filosofico", ontologicamente interna. In questo, infatti, il rispecchiamento interno e il rispecchiamento accidentalmente esterno coincidono: nel loro additare un luogo che non implica uno scarto ontologico rispetto alla sfera rappresentativa in quanto tale.

Massys, Il cambiavalute e sua moglie

Lo sprecchio di Massys, Il cambiavalute e sua moglie

c) Tra gli esempi che avremmo potuto scegliere per illustrare il concetto di riflessione accidentalmente esterna vi è un quadro che Velázquez conosceva bene e che, per così dire, si situa sul confine estremo della classe che abbiamo appena delineato - mi riferisco a Gli sposi Arnolfini (1434) di van Eyck. Il quadro ritrae una coppia di sposi nell'istante in cui si celebra il loro matrimonio; alle loro spalle, tuttavia, uno specchio convesso mostra il proscenio dell'immagine che la cornice esclude alla vista:

van Eyck, Gli sposi Arnolfini

nello specchio vediamo che davanti agli sposi vi sono i testimoni del matrimonio che, con la loro presenza, rendono effettivo il contratto. Fin qui tutto si adatta ancora alla nozione di riflessione accidentalmente esterna, ma poiché spesso si è sostenuto che nello specchio è lo stesso van Eyck che ci si mostra, non è difficile comprendere come qui ci si trovi in prossimità di una diversa forma di riflessione: basterebbe infatti porre tra le mani di quel riflesso un pennello perché l'ampliamento dello spazio figurativo implicasse una vera e propria frattura ontologica, poiché se lo specchio ci mostrasse chi ha dipinto l'immagine nell'atto di dipingerla alluderebbe necessariamente ad un luogo in linea di principio esterno allo spazio figurativo. A porre tra le mani di un'immagine speculare il pennello che la disegna è più volte Escher in alcuni suoi enigmatici e paradossali autoritratti allo specchio Prima di Escher, tuttavia, si era avventurato lungo questa strada il Parmigianino che - se prestiamo fede a quel che dice Vasari - "per investigare le sottigliezze dell'arte, [...] guardandosi in uno specchio da barbieri, di que' mezzotondi [...], si mise con grande arte a contraffare tutto quello che vedeva nello specchio, e particolarmente se stesso tanto simile al naturale che non si potrebbe né stimare né credere [...] e vi fece una mano che disegnava, un poco grande come mostrava lo specchio, tanto bella che pareva verissima". Una mano che disegna, scrive Vasari, e ciò è quanto dire che se davvero è possibile scorgere i contorni di un carboncino in quell’ombra allungata che emerge dalla mano del pittore, allora lo specchio allude esplicitamente ad un luogo che non può appartenere allo spazio figurativo, poiché ad occuparlo è l'artefice stesso dell'immagine o il suo spettatore. Parleremo in questo caso di una riflessione essenzialmente esterna: lo "sguardo" dello specchio allude infatti ad un oggetto che non può trovarsi nello spazio figurativo poiché per la sua stessa natura non vi appartiene.

Lo specchio degli sposi Arnolfini

Parmigianino, Autoritratto

 

A questa distinzione concernente il luogo cui allude l'immagine speculare dobbiamo tuttavia affiancarne un'altra che solo apparentemente coincide con la prima e che concerne il rapporto che l'immagine speculare stringe con chi l'osserva, sia esso lo spettatore o il pittore. E se discorrendo del luogo di ciò che nello specchio si riflette ci eravamo imbattuti in una tripartizione che tuttavia allude ad una dualità di piani - la cosa che si riflette appartiene o non appartiene all'universo delle immagini - nel caso della relazione dell'immagine allo spettatore il discrimine separa due differenti possibilità: il rispecchiamento può avere infatti o una funzione transitiva (e ciò significa che, per suo tramite, il quadro instaura un rapporto con lo spettatore, completando così il suo senso in un dialogo che lo lega con la soggettività reale di chi guarda) o una funzione intransitiva (ed è questo ciò che accade quando lo specchio non avvia un dialogo con lo spettatore e l'immagine non ha bisogno di andare al di là dello spazio figurativo per trovare il suo senso).

Che questa classificazione delle immagini speculari si intrecci con la precedente è fin da principio evidente. Non vi è dubbio infatti che ogni volta che ha luogo una riflessione essenzialmente esterna si abbia a che fare anche con una funzione transitiva del rispecchiamento: il senso dell'immagine tende infatti a completarsi guadagnando una relazione con qualcosa che sta al di là della sfera propriamente figurativa. Non vale invece la reciproca: non è affatto detto che ad un rispecchiamento interno o accidentalmente esterno corrisponda una funzione intransitiva dell'immagine speculare.

La spiegazione di questo arcano non è difficile da trovare: il rispecchiamento istituisce una relazione che essere percorsa in entrambe le riflessioni. Che cosa ciò innanzitutto significhi è presto detto: uno specchio non è soltanto una superficie che restituisce a noi che l'osserviamo l'immagine di qualcos'altro, ma è anche la tela invisibile che cattura il nostro volto per lasciarlo scorgere dal luogo in cui si trova ciò di cui noi vediamo l'immagine. Nelle forme complesse degli angoli di incidenza traspare qui un gioco da bambini: se, inclinando lo specchio, vediamo disegnarvisi lo sguardo di un amico che ci sorride, sappiamo che anche lui vedrà riflettersi su quella stessa superficie il nostro volto. Certo, lo specchio dobbiamo inclinarlo: se lo osserviamo frontalmente il guardante e il guardato coincideranno - vedremo, in altri termini, solo la nostra faccia.

Le considerazioni che abbiamo svolto sin qui sono sufficienti per cogliere in un esempio - la Venere con lo specchio (1555) di Tiziano - la conferma della tesi che abbiamo dianzi avanzato. Guardiamo il quadro: è un ritratto di Venere cui si affianca un Cupido che sorregge uno specchio su cui vediamo stagliarsi il profilo di Venere: abbiamo dunque a che fare con un evidente esempio di riflessione interna in senso stretto. E tuttavia se lo specchio ci mostra il viso di Venere che ci guarda è perché, suo malgrado, Venere non vede la sua, ma la nostra immagine speculare.

Tiziano, Venere con lo specchio

Lo specchio diviene così il sostrato ottico di una funzione dialogica che attribuisce all'immagine una valenza transitiva.

Sembra essere speranza comune dei pittori (e forse non soltanto dei pittori) che Venere rivolga loro uno sguardo benevolo, ed anche la Venere di Velázquez obbedisce al precetto di sorridere allo spettatore. Ma al di là di queste comprensibili illusioni, l'artificio è lo stesso: solo lo specchio inclinato garantisce l'effetto. La possibilità di stringere in un unico nodo riflessione interna e funzione transitiva del rispecchiamento mostra qui la sua condizione di possibilità, il suo necessario inerire ad un angolo di incidenza.


4. Il fine cui tendeva questo nostro girovagare tra gli specchi e le loro funzioni è racchiuso in una domanda che dobbiamo rivolgere a Las Meninas e che possiamo ora formulare con la dovuta chiarezza: dobbiamo infatti chiederci quale sia la natura del rispecchiamento che Velázquez pone sotto ai nostri occhi. Una prima risposta al quesito è immediata: si tratta di un rispecchiamento interno in senso stretto, poiché nello specchio non vediamo la vera famiglia reale, ma solo un'immagine dell'immagine - un riflesso del quadro di cui vediamo tela e cornice. Ben più difficile è comprendere se vi sia o non vi sia una funzione transitiva dell'immagine speculare, e a questa domanda vorrei provare a rispondere costringendo il lettore ad una breve digressione che, muovendo da immagine ad immagine, ci conduce ad un soggetto pittorico che è connesso con il nostro problema: il tema di Susanna e i vecchioni.

Di questo tema vorremmo parlare richiamando innanzitutto un quadro del Tintoretto (1555): qui la scena biblica è narrata soltanto nel suo antefatto: Susanna si bagna nel giardino della sua casa e i vecchi la spiano, rubando un'intimità che loro non spetta. E tuttavia il trasformarsi di Susanna in uno spettacolo rubato e in una visione che la rende oggetto è già in qualche modo anticipato dal riflettersi del suo corpo nello specchio e, in parte, nella superficie oscura dell'acqua in cui si bagna.

Tintoretto, Susanna e i vecchioni

 Allo sguardo dei vecchi corrisponde così lo "sguardo" dello specchio: entrambi esercitano la stessa funzione poiché, proprio come la pittura, trasformano un corpo vivo in un'immagine.

Questo stesso ordine di considerazioni ci permette di intendere il pensiero che sorregge la struttura immaginativa di unaq diversa interpretazione di questo stesso soggetto, la Susanna e i vecchi del Guercino che si trova al Prado. In questo quadro non vi sono, una volta tanto, specchi, ma vi è - come spesso accade in Guercino - un gioco sottile tra uno spettatore interno ed uno spettatore esterno all'immagine. Nel quadro del Prado vi è innanzitutto uno spettatore interno: è uno dei vecchi che contempla, non visto, il corpo di Susanna.

Guercino, Susanna e i vecchi

Ma vi è anche un richiamo esplicito allo spettatore esterno: l'altro vecchio si rivolge proprio a noi che guardiamo il quadro, invitandoci a tacere, e in questa richiesta di complicità non è difficile scorgere l'invito a riflettere sul parallelismo che lega la vicenda di Susanna spiata dai vecchi al nostro assistere da spettatori all'opera della pittura. Susanna diviene spettacolo per lo sguardo indiscreto dei vecchi; ma anche la tela si fa quadro nel suo rivolgersi ad uno spettatore ideale: il pensiero che Guercino pone sotto i nostri occhi è dunque proprio qui, in questo sottile tramutarsi della natura di ciò che abbiamo di fronte in virtù dello sguardo che lo contempla.

Di qui, da questo nesso che stringe l'immagine in quanto tale allo spettatore che la guarda, dobbiamo muovere per tornare ancora una volta a Las Meninas, a questo quadro che può essere compreso davvero solo se si coglie la relazione che lega il suo raffigurare uno specchio al volgersi così manifesto dei suoi personaggi verso il luogo che lo spettatore ideale deve far proprio.

Affrontiamo innanzitutto quest'ultimo punto e chiediamoci che cosa il quadro raffiguri. La risposta potrebbe suonare così: vi è un pittore che dipinge un quadro, una bambina che si fa portare dell'acqua, un uomo e una donna che parlano, un signore che sta per abbandonare la stanza, salendo su per i gradini delle scale che si intravedono nel vano della porta.

Una risposta apparentemente accurata, ma in fondo inesatta, poiché ciò che di fatto essa descrive è una scena superata dagli eventi. Un attimo prima che si desse la visione cui il quadro dà voce le cose dovevano stare proprio così come le abbiamo appena descritte: dovevano proprio accadere quelle vicende molteplici e distinte che di norma si danno nella realtà, - questa congerie di accadimenti che è di per se priva di una trama unitaria e si perde in una molteplicità di eventi interrotti. Ma un attimo dopo - l'attimo fissato dal quadro - tutto è cambiato, perché ora è giunto uno spettatore e con esso lo sguardo rispetto al quale la congerie molteplice degli eventi si organizza in una trama. Ora, proprio come il mansueto animale che troneggia in primo piano, anche le molte vicende in cui si scandisce il quadro debbono destarsi dal torpore che le avvolge per convenire in uno spettacolo unitario, ed è proprio di questo esser divenute parti di uno spettacolo e quindi di un nuovo quadro che danno testimonianza gli sguardi dei personaggi rivolti verso lo spettatore che è appena giunto. Così, se davvero si vuol dire che Las Meninas racconta qualcosa, si deve rammentare che l'evento particolarissimo cui in questa sua "istantanea" Velázquez dà voce è l'evento in cui la realtà si fa quadro. Lo sguardo dello spettatore diviene così una sorta di sguardo di Medusa che sospende la vita reale e la muta di segno, trasformandola in una scena teatrale, in uno spettacolo che si dispiega per noi.

Questo stesso ordine di considerazioni deve guidare la nostra comprensione dello specchio che troneggia nel centro del quadro. Che vi sia un nesso tra la raffigurazione pittorica e l'immagine speculare è una constatazione tutt'altro che nuova: per Alberti, il mito di Narciso ci parla della pittura anche perché l'instabile mobilità del riflesso è, per così dire, una cifra dell'immaterialità dell'immagine. Ed anche in Velázquez le cose stanno così: nel suo incerto scintillio, lo specchio ci mostra il prendere forma dell'immagine, il suo manifestarsi nella sua eterea natura. La tela che, con la sua presenza di cosa materiale e opaca, copre una parte tanto ragguardevole della scena, svela così il suo aspetto immateriale soltanto nello specchio che ne riflette la dimensione puramente figurativa. Anche in questo caso, dunque, qualcosa si desta: la materia morta e cieca della tela si trasforma in un'immagine viva: dietro la pesantezza dell'essere lo sguardo dello specchio svela un'apparenza luminosa ed eterea. La svela tuttavia, ed è questo un punto su cui riflettere, soltanto se lo specchio fa da tramite del nostro sguardo, se cioè nel suo riflettere conduce il nostro sguardo di spettatori dal luogo che dobbiamo idealmente assumere - il luogo che la costruzione prospettica ci assegna - alla tela che, nel suo divenire spettacolo per una soggettività, si anima della vita propria delle immagini. Ne segue che se anche lo specchio di Las Meninas riflette qualcosa che appartiene allo spazio figurativo, ed anche se non instaura una funzione dialogica, svolge egualmente una funzione transitiva poiché vincola la raffiguratività dell'immagine allo sguardo che tramite esso si veicola.

Così, al gesto del pittore che si ritrae per guardare ciò che ha dipinto fa eco lo sguardo che lo specchio ci permette di gettare sulla superficie della tela, ed in entrambi i casi lo sguardo dello spettatore determina il farsi avanti dell'immagine: alla percezione della cosa si sostituisce il vedere immaginoso della raffigurazione. Ed è proprio di questo sostituirsi alla realtà della raffigurazione in virtù dello sguardo di chi la contempla che il quadro di Velázquez ci parla, ora suggellando in un riflesso l'immaterialità dell'immagine, ora riconoscendo nel volgersi dei suoi personaggi che è sufficiente che vi sia uno spettatore perché la realtà si metta in scena.


5. Dobbiamo ora tornare al nostro mestiere di filosofi per trarre dalle immagini qualche conclusione sulla natura delle immagini. Ora, Las Meninas è un quadro che ci invita a riflettere su molte cose, ma in primo luogo sul nesso che lega la raffigurazione al suo spettatore. Questo nesso, tuttavia, non è colto nella sua dimensione pragmatica, ma - lo abbiamo appena osservato - nel suo sfondo ontologico: Velázquez ci invita a pensare al fatto che ogni immagine è per uno spettatore.

Questo nesso è fenomenologicamente evidente. Una raffigurazione non è una cosa tra le altre e non è qualcosa che esista alla stessa stregua dei pigmenti e della tela di cui pure consta, poiché implica una partecipazione soggettiva ed una disponibilità peculiare senza le quali non soltanto non è colta, ma propriamente non è. Percepire una raffigurazione significa infatti saper vedere nei pigmenti e nel loro disporsi sulla tela una figura che riconosciamo, e questa figura vi è - seppure soltanto in quella forma modificata che è propria degli oggetti immaginativi - solo se ciò che funge da sostrato della visione (la tela variamente coperta da colori) si anima per la soggettività di un senso nuovo. La battaglia che vedo infuriare sulla tela c'è solo nel suo manifestarsi, e non si pone come una realtà che occupi un posto nel contesto del mondo, come accade invece per la tela e i pigmenti, che sono cose, la cui esistenza non è messa in questione dal fatto che ora al suo posto vedo ciò che in essa si raffigura. La raffigurazione è una proprietà del fenomeno, il fenomeno ci parla delle proprietà di una cosa; da una parte vi sono le cose che possono essere percepite, ma che non debbono necessariamente esserlo, dall'altra le raffigurazioni il cui essere non può venir disgiunto dal suo manifestarsi.

Del resto, che le raffigurazioni siano nel loro darsi percettivo ad una soggettività è un fatto che si coglie persino nella forma del sostrato che le ospita: la tela è una cosa che tende a ridursi ad una superficie immateriale, volta verso un possibile spettatore. E ciò verso cui la tela tende si dà con chiarezza nel caso della raffigurazione: la raffigurazione c'è solo là dove si manifesta, ed è solo questo manifestarsi. Per dirla in breve: una raffigurazione non è una cosa che abbia aspetti e che in essi si manifesti, mentre la tela - come ogni altra cosa materiale - è ciò che si mostra in un gioco di manifestazioni fenomeniche potenzialmente aperto all'infinito. Certo, anche di fronte ad un quadro potrebbe essere lecito parlare di aspetti che ad un primo sguardo ci erano sfuggiti, ma il senso di questa affermazione non mira a mettere in luce un'esistenza della cosa al di là del fenomeno, ma la possibilità di mettere meglio a fuoco ciò che comunque si è già manifestato, ed è per questo che nel descrivere la rinnovata percezione di un'immagine si può dire che lo sguardo va in profondità: in ciò che osserviamo non vediamo di fatto nulla di nuovo, ma - per così dire - ci lasciamo colpire dal suo senso nascosto, scoprendone sempre nuove pieghe. Quando invece rigiriamo tra le mani un oggetto, ci si presentano aspetti davvero nuovi; qui lo sguardo non va in profondità, ma vede ciò che prima non si manifestava, scoprendo che l'oggetto che si manifesta è comunque al di là del suo manifestarsi.

Su questo tema sarebbe forse opportuno soffermarsi un poco più a lungo; possiamo tuttavia accontentarci di questi pochi cenni, poiché sono già sufficienti per mostrare quale via si potrebbe seguire per far luce sul nesso che lega l'esserci di una raffigurazione allo spettatore cui si manifesta. Ora, è intorno a questo nesso che la fantasia creatrice di Velázquez si muove, proiettando tuttavia il nucleo fenomenologico di questa tesi sullo sfondo di una poetica in cui non è difficile scorgere l'eco di una domanda che nel Seicento si fa ossessiva: la domanda che verte sul discrimine che separa la realtà dalla rappresentazione, la vita vera dal sogno.

In questa luce, la necessaria inerenza della raffigurazione ad uno spettatore diviene lo spunto per mettere in movimento una molteplicità di immagini che sono caratteristiche di un'epoca che non rinuncia ad affiancare alle proprie certezze il tarlo di un dubbio scettico radicale: la tesi della necessaria inerenza dello spettatore all'immagine rifluisce così nel sospetto che alla vita basti essere osservata dalla giusta distanza per essere trasformata in un sogno coerente, in una scena teatrale o, se si vuole, in un affresco. Nell'Illusione teatrale di Corneille è sufficiente che la magia di Alcandro faccia apparire al padre come su un palcoscenico le gesta compiute dal figlio perché la sua vita assuma la forma di uno spettacolo, di una commedia in cui onori e drammi si succedono nell'unità di una trama; e così stanno le cose anche per Las Meninas: il gioco degli specchi e degli sguardi cui Velázquez dà vita ci rammenta quanto sottile sia il discrimine che separa l'ingenua pienezza del vivere dall'acquisizione di quella distanza che la trasforma in un grande affresco.


Poscritto. L'abbiamo già detto: il quadro da cui abbiamo cercato di trarre lo spunto per le nostre considerazioni sul concetto di immagine è una delle opere più discusse dagli storici dell'arte moderna ed è divenuta, a partire da Foucault, meta di frequenti (ed animati) pellegrinaggi filosofici. Ora, non è mia intenzione fornire qui una bibliografia degli scritti su Las Meninas, ma vorrei egualmente ricordare almeno due testi che, per ragioni diverse, è opportuno che qui citi. Il primo è una raccolta di saggi curata da Alessandro Nova (Las Meninas. Velázquez, Foucault e l'enigma della rappresentazione, Il saggiatore Milano 1997) - una raccolta molto utile poiché delinea i temi e i problemi che questo quadro solleva e insieme rende visibile lo sfondo teorico che è richiamato anche dalle considerazioni che ho proposto. Un discorso differente deve essere fatto a proposito di un libro bellissimo (Victor I. Stoichita, L'invenzione del quadro. Arte, artefici e artifici nella pittura europea (1993), Milano, Il saggiatore 1998) che non avevo ancora letto quando nel gennaio del 1999 ho proposto il testo di questa relazione al Seminario di filosofia dell'immagine. Seppure in una prospettiva teorica differente, molti dei temi di cui discorro compaiono anche nelle pagine del libro di Stoichita - e con una ricchezza di esempi e con un'acutezza di analisi del 'testo' pittorico davvero notevoli. Chiunque abbia seguito con qualche interesse le osservazioni che ho proposto dovrebbe dunque leggere il libro di Stoichita. Ma sarebbe opportuno, io credo, che lo leggessero anche gli altri.

- Paolo Spinicci -


Le parole della filosofia, II, 1999

Seminario di filosofia dell'immagine


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