Le parole della filosofia, II, 1999

Seminario di filosofia dell'immagine


 

LO STILE E IL MONDO: TRA PANOFSKY, WORRINGER E DELEUZE

- Miriam Ronzoni -

 

1.Il problema

La natura dei nessi che si instaurano tra il piano dell'esperienza e la sua traduzione in linguaggi figurativi costituisce un intreccio di problemi non facilmente districabile, che può essere affrontato scegliendo le più varie direzioni ed esplorando cammini differenziati. Un possibile percorso di indagine è quello che si interroga intorno alla nozione di stile, cercando di sondarne l'intervento nella trascrizione figurativa delle forme esperienziali: naturalmente, se decidiamo di fare nostro questo orizzonte di ricerca, in cui il ruolo stesso dello stile è posto in questione, tale concetto non può essere inteso in senso definitorio, ma assume il ruolo di una categoria euristica, aperta e malleabile per sua stessa definizione.

Un interrogativo così ampio abbraccia, coinvolge e contamina campi d'indagine differenti - la nostra percezione dello spazio e delle forme; l'atteggiamento emotivo che assumiamo nell'osservazione, o che l'osservazione stessa ci sollecita; le componenti culturali e psicologiche di cui il nostro rapporto visivo con il mondo è impregnato - per approdare, infine, alle modalità specifiche in cui spazio e forme trovano di volta in volta espressione artistica.

Problematizzare questo nesso non significa affermarne categoricamente o negarne risolutamente l'esistenza, ma chiedersi entro quali limiti esso possa agire e valere, su quali livelli di discorso sia possibile farne uso e, soprattutto, se esso debba essere necessariamente inteso come un rigido nesso causale o se sia possibile, invece, una sua diversa attribuzione di senso.

Il problema, in breve, è quello dello statuto ontologico dello stile, della sua natura e del suo ruolo nel processo creativo dell'arte. O ancora: della relazione che si instaura tra stile e mondo. Domande, queste, di respiro troppo ampio e teoricamente troppo complesse per affrontarle direttamente, ma su cui potremo comunque soffermarci a partire da alcune pagine di Panofsky Worringer e Deleuze. E forse la scelta di affrontare studi dedicati ad un'unica forma stilistica contribuirà a dare maggiore concretezza al discorso.

Prendiamo, dunque, un esempio: il gotico. Un termine che si qualifica in primo luogo per la sua stratificazione semantica: "gotico" è non solo uno stile architettonico, ma anche, ad esempio, un particolare carattere grafico, o un certo tipo di atmosfera che si respira in una trama di un romanzo, in una situazione narrativa. Anche se ci limitassimo all'uso che di questo termine viene fatto nella storia dell'arte, ne emergerebbe un concetto tutt'altro che univoco, capace di evocare in noi differenti e opposte suggestioni: la sovrabbondanza e il rigore, la cristallina e razionalissima perfezione della cattedrale e il movimento dionisiaco delle guglie, dei bassorilievi, dei capitelli istoriati.

Ebbene, esiste una qualità riassuntiva sotto la quale possiamo raccogliere i diversi significati di questo termine? E ancora, soprattutto: che genere di relazione si instaura tra il gotico come stile e gli orizzonti esperienziali che esso vuole chiamare in causa? C'è un mondo nuovo, un mondo "gotico" appunto, esperito, vissuto e sentito come tale, che viene portato in vita dallo stile stesso e del tutto inesistente prima di esso? Oppure esiste, nel nostro orizzonte d'esperienza, un nocciolo di possibilità e di direzioni di senso che il gotico in quanto stile certamente sceglie, fa risaltare e illumina, ma non crea ex novo? Detto con una definizione riassuntiva: il gotico è la condizione di possibilità di un mondo o il mondo è la condizione di possibilità (anche) del gotico?

Ancora una volta ci siamo lasciati condurre su vette troppo alte: è bene, però, tenere a mente queste domande, anche se certo sono destinate, almeno in queste pagine, a rimanere irrisolte. Ci proponiamo quindi un compito ben più modesto: quello di tracciare un breve percorso attraverso alcune famose analisi che al gotico sono state dedicate; un percorso teorico, non storico, che quindi non si preoccupa di mancare di rispetto alla cronologia e che fa riferimento a dei testi non per ricostruirne analiticamente il discorso, ma per farne emergere dei problemi.

 

2. L'architettura gotica "come forma simbolica"

In Architettura gotica e filosofia scolastica (Liguori, Napoli 1986) Erwin Panofsky muove dalla constatazione dei pericoli in cui rischia di incorrere lo studioso che, per conferire ad un periodo storico unità e coesione interna, ama instaurare "parallelismi" tra le diverse manifestazioni dello spirito: una tale operazione infatti, pur affascinante e suggestiva, corre il rischio di scivolare nella superficialità e nell'arbitrarietà. Tuttavia, dopo questa cauta osservazione, Panofsky stesso compie in realtà un'operazione per molti aspetti simile a quella che ha appena condannato: inizia infatti un serrato confronto tra la filosofia scolastica e l'architettura gotica. Cambia, tuttavia, la prospettiva a partire dalla quale egli intende far luce su tale confronto: confronto che non si riduce, appunto, ad un ingenuo parallelismo, ma che si propone di individuare un vero e proprio nesso di causa ed effetto (cfr. ivi, p.11). Tale nesso si produce per diffusione, non per impatto diretto e agisce al livello dell'abito mentale.

È spesso difficile, o impossibile, isolare fra le molte altre una singola forza formatrice d'abitudini [...] e immaginarne i canali di trasmissione. Ma il periodo tra il 1130-1140 e il 1270 all'incirca e "l'area di cento miglia che ha come centro Parigi" costituiscono un'eccezione. In questa ristretta sfera la scolastica possedeva un vero e proprio monopolio nel campo dell'educazione. [...] È poco probabile che i costruttori delle strutture gotiche avessero letto Gilbert de la Porrée o Tommaso d'Aquino nei testi originali. Ma essi erano stati esposti al punto di vista scolastico in innumerevoli altri modi, a parte il fatto che il loro lavoro in modo automatico li portava a cooperare con coloro che concepivano i programmi liturgici e iconografici. Erano andati a scuola; avevano ascoltato i sermoni; potevano assistere alle pubbliche disputationes de quodlibet [...] (ivi, pp. 11-12}

Il nesso che Panofsky intende istituire non agisce tanto a livello contenutistico, quanto sul piano del modus operandi: l'intento è quello di riscontrare un'affinità profonda fra i due ambiti a livello strutturale. Il filosofo scolastico "costruisce" i suoi sistemi e le sue dimostrazioni come maestose strutture architettoniche; l'architetto della cattedrale gotica "espone" e "articola" nella maniera più chiara e distinta possibile le varie parti dell'edificio, quasi fossero i singoli passaggi logici di un'argomentazione filosofica.

Un modus operandi, dunque - ma un modus operandi radicato in un modus essendi nella natura stessa della scolastica: vale a dire, nella ricerca forsennata di stabilire l'unità della verità, nel "compito di sottoscrivere un trattato di pace permanente tra fede e ragione (ivi, p. 15). La scolastica è sostenuta e alimentata dalla fiducia nel fatto che la ragione umana possa non solo rendere conto di qualsiasi problema e principio estraneo alla parola rivelata, ma sia anche in grado, se non di dimostrare, comunque di elucidare il contenuto della rivelazione stessa.

La manifestatio intesa come chiarificazione ed elucidazione compiuta dalla ragione sui contenuti della fede, viene quindi da Panofsky indicata come "principio primo regolatore [...] della scolastica" (ivi, p.16). Ora, per adempiere a tale compito nella maniera più coerente e radicale, la ragione deve poter volgere il suo sguardo chiarificatore ed analitico anche su se stessa: vanno quindi esplicitati non solo i contenuti da dimostrare, ma anche il dimostrare stesso: cioè i metodi, i passaggi, gli strumenti utilizzati per compiere le dimostrazioni:

Se la fede deve essere "manifestata " attraverso un sistema di pensiero, diveniva necessario "manifestare" la completezza, l'autosufficienza e la limitatezza dello stesso sistema di pensiero (Ibidem).

È questa la ragion d'essere dello "stile" della scolastica, di un'esposizione letteraria tutta intenta nella ricerca di un'articolazione del discorso in parti e parti di parti, di trovare simmetrie ed equilibri perfetti tra di esse, di dare a ciascuna parte un nome, contrassegnandola con un numero o con una lettera. Lo scolastico non pensa in maniera più metodica o più logica: semplicemente, si sente costretto a rendere espliciti, fin quasi all'esasperazione, l'ordine e la logica del suo pensiero - un elemento che Panofsky definisce felicemente postulato della chiarificazione per il gusto della chiarificazione (ivi, p.19). Ebbene, tale postulato crea e diffonde, a parere di Panofsky, un vero e proprio abito mentale che, pur penetrando ogni sfera delle arti e della cultura (cfr. ivi, pp. 20-24) raggiunge soltanto con l'architettura gotica i suoi "massimi trionfi" (ivi, p. 24).

L'architettura del gotico maturo è dominata, in particolare, dal cosiddetto "principio della trasparenza". Come la scolastica delimita sì in maniera rigorosa il santuario della fede dalla sfera della conoscenza razionale, ma insiste al tempo stesso sul fatto che il contenuto del santuario debba risultare discernibile; così l'architettura gotica delimita il volume interno dallo spazio esterno, ma fa sì che tale volume si proietti all'esterno.

Insomma, mentre la struttura romanica racchiude uno perimetro definito e impenetrabile, separando fede e ragione con una barriera insormontabile, la cattedrale gotica crea uno spazio osmotico, in cui la sezione trasversale della navata può essere letta sulla facciata. La cattedrale gotica mira, così come la Summa della scolastica, a costituire una totalità: non però una totalità semplice, bensì un'unità articolata, organizzata "secondo un sistema di parti omologhe e parti di parti". Ciò si manifesta nella struttura stessa della cattedrale gotica, costituita da un'uniforme divisione e suddivisione degli elementi portanti: al posto della varietà e disomogeneità del romanico, troviamo nel gotico la presenza costante della volta a costoloni come struttura invariante, "cosicché persino le volte dell'abside, delle cappelle e dell'ambulacro non differiscono più da quelle della navata e del transetto" (ivi, p. 25).

In luogo del contrasto esistente tra le navate tripartite e il transetto a navata unica (o tra navate pentapartite e transetti tripartiti) troviamo la tripartizione in entrambi i casi; e invece della differenza tra le campate della navata centrale e quelle laterali (sia essa dovuta all'ampiezza o al tipo di copertura, o a entrambi gli elementi), troviamo la "travée uniforme", in cui ciascuna campata con volta a costoloni della navata centrale si raccorda con quelle corrispondenti delle navate laterali (Ibidem).

 

La struttura globale risulta in tal modo composta di unità minime, quasi si trattasse di articuli di un trattato di scolastica: questa omologia richiama infatti alla mente, in maniera quasi immediata, la gerarchia di livelli logici di un ben articolato trattato di scolastica:

Dividendo l'intera struttura, come era l'uso del tempo, in tre parti principali, le navate, il transetto e lo chevet [...], e distinguendo, all'interno di queste parti, tra la navata centrale e quelle laterali, da una parte, e tra l'abside, l'ambulacro e emiciclo delle cappelle, dall'altra, possiamo notare che si ottengono analoghe relazioni: primo, tra ciascuna campata centrale, l'insieme della navata centrale e l'intera navata o rispettivamente, il transetto o l'avancoro; secondo, tra ciascuna campata delle navate laterali e l'intera navata, o rispettivamente il transetto o l'avancoro; terzo, tra ciascun settore dell'abside, l'intera abside e l'intero coro; quarto, tra ciascuna sezione dell'ambulacro, l'intero ambulacro e l'intero coro; quinto, tra ciascuna cappella, l'intero emiciclo di cappelle e l'intero coro (ivi, p. 26)

Proprio questo principio dell'omologia e della strutturazione uniforme dà ragione della relativa povertà del vocabolario gotico rispetto a quello romanico: tutte le parti che si trovano al medesimo "livello logico" finiscono per essere concepite come elementi della stessa classe e perdono così individualità. Non c'è quasi alcuno spazio, nel gotico maturo, per l'empiria: tutto è già prescritto e dedotto a priori:

lo stile gotico classico esige che si possa dedurre non solo l'interno dall'esterno, oppure la forma delle navate laterali da quella della navata centrale, ma anche, per esempio, l'organizzazione dell'intero sistema dalla sezione trasversale di un pilastro (ivi, pp. 27-28}

Queste analisi non sono certo prive di fascino: le suggestioni che si ricavano dal leggere la cattedrale gotica in termini di connessioni logiche e simmetrie, attraverso le genali e acutissime corrispondenze che Panofsky rileva e instaura, sono preziose e illuminanti. E, tuttavia, proprio l'espressione "leggere la cattedrale" dovrebbe far suscitare, a mio avviso, non poche perplessità: un edificio deve essere letto? È questo il suo più adeguato livello di fruizione? A mio parere no: un edificio, un'opera architettonica che inoltre, come la cattedrale gotica, pretende e ottiene lo statuto di opera d'arte non chiede tanto di essere "letta", quanto di essere "guardata" e, soprattutto, abitata.

Chiede di essere guardata: cioè che ci si soffermi sulle sue componenti estetiche, formali, visive riconoscendole come valori in sé, indipendentemente da una loro qualsiasi interpretazione linguistica. Quindi, la forma della cattedrale. Chiede di essere abitata: cioè che si comprenda come la cattedrale, in quanto struttura architettonica, interagisce con lo spazio, che si riconoscano gli aspetti dello spazio vissuto che essa esalta e quelli che trascura, la spazialità nuova che essa crea.

Di tutto questo nelle pagine di Panofsky si avverte la mancanza. Analizzando il modo in cui da una porzione della cattedrale sia possibile dedurre la struttura dell'edificio intero, Panofsky stesso compie una sorta di deduzione a priori della cattedrale gotica dalla filosofia scolastica, in un campo di indagine dove si vorrebbe, invece, prolungare la sosta al livello dell'osservazione ingenua, libera da presupposti linguistici che influenzano e pregiudicano il nostro guardare: in fondo Panofsky, già prima di posare lo sguardo sulla cattedrale gotica, ha già deciso che cosa intende vedere. Il confronto con la scolastica sicuramente arricchisce e apre nuovi orizzonti, ma ne chiude anche altrettanti: è lecito ridurre la versatilità del gotico ad una riproduzione in carne e ossa di un paradigma culturale? È lecito trasformare la cattedrale gotica in una Summa filosofica fatta di marmo e di mattoni? Veramente il gotico si esaurisce in questo?

Il dubbio che mi sembra legittimo ed opportuno sollevare è analogo alle perplessità che suscitano le analisi panofskyane sulla prospettiva geometrica: il dubbio che lo stile gotico possa essere ridotto a creazione ad hoc dell'universo spirituale della scolastica tanto poco quanto la prospettiva possa essere concepita esclusivamente nei termini di un'invenzione arbitraria, frutto della concezione rinascimentale dello spazio.

I valori formali hanno bisogno, più che di una deduzione e di una giustificazione linguistica, di un'analisi che li sappia cogliere anche e soprattutto nella loro dimensione, appunto, propriamente formale. Questa linguisticità totale del gotico, che riduce la cattedrale ad una grammatica materializzatasi e scolpita nel marmo, appare francamente unilaterale.

 

3. L'eterno gotico segreto (W. Worringer, I Problemi formali del gotico, Cluva, Venezia 1985).

La differenza di contenuto tra l'interpretazione panofskyana e quella worringeriana dello stile gotico è forte ed innegabile; ciò li conduce addirittura ad una valutazione di segno opposto: il gotico di Worringer è tutto dionisiaco, frenesia, ebbrezza, negazione dell'equilibrio. Worringer, innanzitutto, più che ad un'analisi storica, contestuale, circoscritta, punta ad un discorso teorico e filosofico forte: la determinazione dell'essenza intima della creazione artistica. Ebbene, l'arte è, a suo avviso, soprattutto il frutto di un'esigenza psichica, del Kunstwollen, il "volere artistico": il significato profondo dell'arte è espressivo e spirituale. L'arte è frutto di un bisogno di espressione, di autoestraniazione: essa, a parere di Worringer, si identifica intimamente con la sua facoltà di provocare felicità, di soddisfare delle istanze psichiche interiori; il volere artistico assoluto, dunque, è indice della qualità dell'esigenza psichica che un determinato tipo di arte appaga. Proprio le differenze profonde tra gli stili indicano, pertanto, il fatto che l'arte non soddisfi sempre le medesime esigenze psichiche e che quindi le profonde fratture che dividono gli stili si spieghino con il fatto che essi sono creazioni di diversi tipi di umanità

Un determinato tipo di umanità esprime con la propria arte il proprio rapporto con il mondo; anzi, l'arte stessa crea il mondo. Non esiste "il mondo" e gli stili che ne danno diverse interpretazioni e ne esibiscono differenti possibili direzioni di senso, bensì gli stili sono, prima che stili artistici, veri e propri stili dello stare-al-mondo, che portano alla vita mondi diversi, inesistenti prima. Non ha senso, pertanto, domandarsi quale stile si avvicini di più alla realtà, poiché non abbiamo a che fare con rappresentazioni più o meno fedeli del mondo, ma con creazioni di mondi. Gli stili non si possono comparare secondo il metro del più e del meno; anzi non è possibile nessun vero e proprio paragone, dal momento che non esiste nessun terreno comune (il mondo cui ricondurre le eventuali differenze. Quando nasce un nuovo stile è perché è venuta alla luce una nuova umanità.

Ora, l'uomo primitivo vive la natura come caos, come nemica, come minaccia di morte; l'arte ha quindi ai suoi occhi una funzione apotropaica e sarà pertanto dominata dall'impulso di astrazione: il primitivo esorcizza la caoticità dei fenomeni con la perfezione e la stabilità di una linea e di un'arte astratta, geometrica, cristallina.

L'uomo primitivo, e, in generale, l'artista guidato dall'impulso di astrazione, è turbato dal vasto, incoerente, sconcertante panorama del mondo dei fenomeni, di cui non riesce a rendere ragione e che non riesce a dominare. Ciò che lo anima, in questo stato di profonda inquietudine, è un intenso bisogno di quiete, di fronte alla dionisiaca instabilità dei fenomeni della vita, in cui niente rimane quale era e muta in un fluire incessante.

La felicità data dall'arte può quindi concretizzarsi, in questa prospettiva, soltanto attraverso un procedimento perfettamente antitetico rispetto alle richieste dell'empatia: si isola l'oggetto dall'arbitrarietà e dalla precarietà del suo contesto naturale e lo si immortala "accostandolo a forme astratte" (W. Worringer, Astrazione ed empatia, Einaudi, Torino 1975, p. 38); il fine ultimo è quello di tipizzare e idealizzare l'oggetto, "di renderlo necessario e inalterabile, di avvicinarlo al suo valore assoluto (Ibidem}.

L'arte classica è, invece, dominata dall'impulso di empatia: il mondo classico è un mondo che ha fatto pace con la natura, che l'ha razionalizzata, che ha trasformato il caos in cosmos. È questo il motivo per cui, erroneamente, l'estetica moderna vede nell'imitazione della natura il tratto distintivo dell'arte classica: perché il nuovo sodalizio con la natura porta l'"uomo classico" verso i modelli organici, verso un senso di piacere nell'immedesimazione con le forme della vita organica.

Il naturalismo è avvicinamento all'organico ( e, quindi, al verosimile ), ma non perché l'artista desideri rappresentare il reale in maniera fedele, autentica e oggettiva, bensì perché il volere artistico che lo orienta cerca il proprio soddisfacimento nella bellezza della forma organica in quanto esaltazone della vita. Ciò a cui si aspira è la felicità data dall'organico vivente, non dal verosimile: e tale felicità risiede non tanto nell'esito esteriore (il trompe-l'oeil, il quadro che sembra un pezzo di realtà), quanto nel processo interiore, nella regola di organizzazione, nella legge di formazione propria del mondo organico: l'armonia delle componenti, il rapporto intimo e reciproco ( non meccanico ed esteriore ) tra le parti e il tutto, ecc.

Non conta tanto il rapporto esterno di somiglianza, il fatto di rappresentare qualcosa di vivo, quanto ricreare la composizione funzionale delle parti di un organismo: potremmo dire che l'artista, più che imitare un oggetto particolare, assumendolo a modello, imita la vita in generale, con l'atto stesso del suo produrre secondo le regole di armonia ed equilibrio dell'organico.

Nel gotico, come nel geometrico, è appunto la "linea geometrica astratta" ad essere incaricata di esprimere le intenzioni artistiche; e tuttavia, mancano del tutto la "quieta grandezza" e l'eternità della forma isolata: potremmo dire, con una definizione riassuntiva in chiave ossimorica, che la linea gotica "mentre in senso organico [...] si mantiene non espressiva, appare ciononostante percorsa da un'estrema vitalità" (Problemi formali del gotico, op. cit, p.34). Ciò non si deve minimamente concepire, beninteso, come un carattere di sintesi tra l'empatico e l'astratto: più che il carattere pacificante di una Aufhebung, il gotico ha i tratti annebbiati dell'ibrido: "non si tratta qui di un'armonica compenetrazione di due tendenze opposte, ma piuttosto di un impuro e per così dire inquietante miscuglio tra di esse" (ivi p.34). Il nostro sentimento di empatia, moderato ed equilibrato, non riesce ad entrare in immediata sintonia con l'arte gotica: non si immedesima, ma, piuttosto, ne viene sopraffatto.

Particolare dell'albero di Jesse, Saint-Victor, Xanten

 

Di fronte all'espressività del gotico, invece, sentiamo che il "movimento dell'anima" in cui siamo trascinati non dipende direttamente da noi, ma ci eccede, ci supera e procede per un cammino tutto suo, a cui ci sottomettiamo perché, appunto, ne siamo dominati: "la linea nordica non vive di un'impressione che le conferiamo volentieri, ma sembra piuttosto possedere un'espressione propria, ben più forte della nostra vita" (ivi p. 35).

L'esempio che Worringer ci propone è quello di uno scarabocchio: se tracciamo la linea "in curve belle e tondeggianti" (Ibidem), vediamo nella linea l'espressione di una bellezza organica, perché il tracciato della linea corrisponde esattamente ai nostri "sentimenti organici" (Ibidem) e, guardandola, riviviamo in noi il processo della sua creazione, con naturalezza e benessere. Se, invece, siamo agitati per una qualche ragione e non possiamo esprimerlo altrimenti che sul foglio, "la matita corre con violenza sul foglio e al posto delle belle curve organicamente moderate, sarà una linea rigida, angolosa, sempre interrotta, dentellata e di una forte potenza espressiva, quella che apparirà" (pp. 34-35).

Worringer definisce riassuntivamente la portata espressiva del gotico come una potente vitalità inorganica, eccedente, superiore per intensità alla carica vitale dell'organico, e per questo dionisiaca, in certe sue forme: è geometria, ma geometria vivente, in perpetuo movimento, inarrestabile, lontana dalla forma morta dell'astratto; è vita, ma vita che ha perso ogni contatto con la dolce plasticità e completezza dell'organico.

Dettaglio di colonna, Chiesa dell'Abbazia di Coulombs

Come può dunque il gotico esprimere un sentimento (ma forse sarebbe meglio dire una passione) vitale senza passare attraverso l'unico paradigma che conosciamo, quello organico? Negando quello schema compositivo attraverso il quale il classico rivela la propria identità: la simmetria. L'arte classica soddisfa il proprio bisogno di empatia riproducendo non gli oggetti naturali in quanto tali, ma penetrando e comprendendo la legge intima di formazione della natura, che è relazione reciproca delle parti rispetto al tutto e, appunto, simmetria.

Al posto della simmetria, nella decorazione gotica c'è la ripetizione. Beninteso: la ripetizione è riscontrabile anche nei paradigmi classici; ma si tratta di una ripetizione d'altro genere: una ripetizione per addizione, che inoltre riproduce il motivo all'incontrario, come in uno specchio - il risultato è, appunto, simmetrico.

La ripetizione gotica non si genera per addizione, ma per moltiplicazione. È una ripetizione seriale meccanica, senza nessun progetto consapevole: un crescendo che riproduce una melodia infinita, inarrestabile, non umana, di cui non ci resta che un eco indecifrabile (ivi, pp. 39-41. Questa melodia infinita ed enigmatica ha i caratteri del labirinto:

sembra non avere né inizio né fine, né soprattutto una metà [...]. Non troviamo né un punto d'appoggio n è un punto d'arresto. In questo movimento senza fine tutti i punti hanno lo stesso valore, e, insieme, sono senza valore di fronte al movimento che riproducono (ivi, p. 39).

La struttura dell'organismo, dal punto di vista di questa caoticità inorganica, non è più il paradigma della vita, ma la sua negazione: il gotico chiede più vita, una vitalità eccedente.

Ora, se il gotico non obbedisce né all'impulso di empatia, né all'impulso di astrazione, qual è il suo specifico Kunstwollen? Su questo punto, Worringer è decisamente ambiguo ed esitante, da un lato vorrebbe riconoscere al gotico una sua autonomia, dall'altro tende a conferirgli, in concreto, i caratteri dell'ibrido e della mescolanza. Il gotico è proprio del Kunstwollen nordico: teme la varietà del mondo e dei fenomeni, ma al tempo stesso ama troppo la vita per rifugiarsi nel geometrico.

Quale può essere lo statuto specifico di un'espressività simile? A quale intenzione artistica, a quale istanza psichica può dare vita? Com'è possibile che una potente volontà di vita, innegabile nel gotico, si obbiettivi in forme cristalline, astratte, proprie della materia inorganica?

Il discorso si fa confuso, incerto. Se l'analisi colpisce nel segno, è ricca e corposa finché si muove su di un piano descrittivo, altrettanto notevoli sono l'incertezza e l'imbarazzo nel momento in cui Worringer vorrebbe passare al livello esplicativo.

La risposta di Worringer si dibatte tra spiegazioni climatico-ambientali (dalle quali però cerca subito di svincolarsi per non ricadere nel positivismo tanto disprezzato) e storico- spirituali (e qui scivola necessariamente in osservazioni contenutistiche dimenticando in parte la lezione purovisibilista, tutta attenta agli aspetti formali, visivi e qualitativi ):

Il bisogno di empatia di questi popoli inquieti non sceglie la via più ovvia, che conduce all'organico, poiché per esso il moto armonico dell'organico non è sufficientemente espressivo; ha bisogno invece di quel pathos misterioso che è proprio dell'animazione dell'inorganico. Si perviene così a un fenomeno ibrido e contraddittorio: astrazione da un lato, massima espressione dall'altra (Ibidem).

Non si vede come effettivamente le condizioni dell'uomo nordico (di disagio di fronte ai fenomeni) fossero diverse rispetto a quelle di una qualsiasi civiltà primitiva; del resto, se anche fosse possibile rispondere a questa prima obiezione, il ricorrere esclusivamente a questioni di clima è pericoloso, proprio in base al rifiuto della metodologia positiva con cui eravamo partiti.

Non lascia maggiormente convinti un altro ordine di argomenti addotto per rendere ragione della "inclassificabilità" del gotico: quello secondo il quale il fine dell'espressione gotica sarebbe quello di rappresentare "non valori organico-sensibili, ma piuttosto valori non sensibili, vale a dire spirituali" (ivi, p. 36). I valori di forma da cui Worringer era partito con la descrizione delle qualità intrinseche ed essenziali della decorazione gotica, si velano man mano di sfumature psicologiche, sentimentali, addirittura sociologiche, fino a coincidere quasi pienamente con i valori dello spirito.

Proprio l'incertezza e la contaminazione caratteristiche del profilo psichico di questa umanità "gotica" dovrebbe garantire un uso aperto ed euristico della categoria di stile: invece, una volta definita l'essenza intima della linea gotica, il suo schema viene adoperato indistintamente (e a volte acriticamente) ad ogni tipo di manifestazione spirituale.

Sembra ad esempio forzato far rientrare l'architettura gotica e la filosofia scolastica in questo quadro frenetico, affermando che il loro razionalismo sfrenato si subordina ad un fine irrazionale: quello, appunto, della vita inorganica.

Perché accade questo? Perché, a mio avviso, la mancanza di un appiglio all'esperienza rende problematico, per Worringer, il compito di riconoscere, nello stesso stile, le differenze, le diverse direzioni di senso assunte a partire dagli orizzonti esperienziali.

C'è, tuttavia, qualcosa che Worringer sa fare in maniera eccellente: descrivere. Le sue analisi sulla linea gotica, nel momento in cui si limitano a dipanare le qualità intrinseche, le modalità essenziali del disegno gotico, ci sembrano cogliere nel segno.

Il problema sorge quando Worringer, dal chiedersi come è fatta la linea gotica, passa a chiedersi perché è fatta così e non altrimenti. Worringer scrive pagine bellissime, a tratti geniali, sull'essenza, la specificità, le qualità formali della linea gotica; tuttavia, il voler ricondurre tutto ad un'esigenza psichica, ad uno stile come condizione di possibilità a priori del mondo, senza alcun contributo da parte del materiale sensibile, senza alcun intervento dell'esperienza, gli impedisce di accorgersi delle differenze interne allo stile stesso. Anche il gotico di Worringer, che pure ha una sua potente verità descrittiva, rischia per certi aspetti di essere un tentativo di dedurre a priori le manifestazioni concrete del gotico dall'idea astratta di gotico.

 

4. Il gotico creatore di uno spazio liscio

Le analisi che Deleuze e Guattari (Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma 1997) dedicano alla natura dello spazio liscio e dello spazio striato hanno un carattere tutt'altro che neutro: ciò si può riscontrare già a partire dalle mosse iniziali del discorso, dove viene posta una divaricazione netta tra una concezione e una modalità di esperienza dello spazio che permettono lo sviluppo della "macchina da guerra" e una visione dello spazio vissuto che, invece, istituisce e organizza un "apparato di Stato". Il momento dell'analisi teoretica e quello della dimensione assiologica si integrano in un discorso che è teorico e pratico insieme.

Cristo in legno, XIV secolo, Perpignan

Pietà in legno, Maestro Renano, XIV secolo

Vorrei tuttavia, se possibile, prescindere da tale aspetto: non è questo il luogo per discutere la legittimità o meno di un'operazione intellettuale di questo genere. Ci interessa vedere come Deleuze e Guattari facciano emergere dalla nostra esperienza stratificata dello spazio le direzioni di senso che a loro interessano, non le finalità e i valori per cui ne scelgono alcune e ne condannano altre. La difesa dello spazio liscio liberatore contro i meccanismi di potere dello spazio striato è infatti un filo rosso che sottende tutto il capitolo: eppure, ciò che qui conta porre in luce non è tanto la natura assiologica di tale contrapposizione, l'esistenza di uno spazio "buono" e di uno spazio "cattivo", bensì il fatto che Deleuze e Guattari ci mostrino come entrambe queste determinazioni dello spazio abbiano una radice costitutiva nel nostro orizzonte d'esperienza. Spazio liscio e spazio striato sono sì due direzioni di senso profondamente diverse, ma due direzioni di senso che, comunque, trovano entrambe una legittimazione nei vari livelli d'esperienza che si offrono. Di questi possibili livelli ci vengono presentati analiticamente diversi esempi: il modello tecnologico, il modello musicale, il modello marittimo, il modello matematico, il modello fisico e il modello estetico.

L'elemento essenziale, che mi sembra indispensabile sottolineare, è il modo in cui le nozioni stesse di spazio liscio e di spazio striato prendono corpo: non abbiamo una definizione e poi una progressiva applicazione dei due concetti all'interno dei vari modelli, ma un procedere graduale e stratificato attraverso esemplificazioni e descrizioni che fanno sorgere le differenze essenziali fra il liscio e lo striato. Liscio e striato che, pertanto, non sono soggetti ad alcuna definizione astratta, ma vengono colti come già operanti concretamente all'interno del nostro orizzonte d'esperienza.

Queste considerazioni dovrebbero bastare, mi auguro, per rendere ragione della mia fiducia nel fatto che sia possibile, entro certi limiti, trascurare la coloritura "politica" di queste pagine e isolare, in maniera artificiale ma forse non del tutto illecita, il momento più specificamente analitico, descrittivo: il momento propriamente fenomenologico.

Da questo punto di vista, mi sembrano emblematiche le osservazioni preliminari, in cui emerge con chiarezza la natura stratificata della nostra esperienza dello spazio:

Lo spazio liscio e lo spazio striato - lo spazio nomade e lo spazio sedentario - [...] non sono della stessa natura. Ma a volte possiamo notare un'opposizione semplice tra i due tipi di spazio. Altre volte dobbiamo indicare una differenza molto più complessa, per cui i termini successivi delle opposizioni considerate non coincidono del tutto. Altre volte ancora dobbiamo ricordare che i due spazi esistono in realtà solamente per i loro incroci reciproci: lo spazio liscio non cessa di essere tradotto, intersecato in uno spazio striato; lo spazio striato è costantemente trasferito restituito a uno spazio liscio (ivi, p. 92).

Spazio liscio e spazio striato sono riconoscibili, dunque, nel loro reciproco distinguersi e nel loro mutuo limitarsi: sono concetti che vanno determinati nella loro genesi a partire dall'esperienza, non idee sospese nel vuoto. Vorrei prendere ad esempio tre dei modelli che Deleuze e Guattari sviscerano, perché sono quelli che più si avvicinano al senso comune e perché sono quelli che ci interessano più direttamente: il modello tecnologico, quello marittimo e quello estetico.

Modello tecnologico - Il primo esempio che viene addotto è quello del tessuto, spazio striato per eccellenza, spazio percorso e organizzato dalla trama e dall'ordito. È una realtà necessariamente delimitata, chiusa su un lato almeno: il tessuto può, in linea di principio, essere infinito in lunghezza ma la necessità di un andata-ritorno, definito dal quadro dell'ordito, implica uno spazio chiuso in larghezza. Il tessuto presenta sempre, infine, un diritto e un rovescio, cioè una propria strutturazione e gerarchia interna. Al contrario il feltro, questo anti-tessuto, non implica alcun intreccio, ma soltanto un groviglio delle fibre ottenute arrotolando alternativamente il blocco di fibre in avanti e indietro:

Un tale sistema di intrico non è per nulla omogeneo: tuttavia è liscio, e si oppone punto per punto allo spazio del tessuto (è infinito di diritto, aperto o illimitato in tutte le direzioni; non ha né rovescio né diritto né centro; non assegna dei fissi e dei mobili, ma distribuisce piuttosto una variazione continua (ivi, p. 94).

Inoltre è possibile individuare anche due diverse pratiche della tessitura, "che si distinguono un po' come il tessuto e il feltro" (Ibidem): qui entra in gioco per la prima volta la distinzione tra spazio sedentario e spazio nomade. Per il sedentario, infatti, il tessuto-indumentro e il tessuto-arazzo tendono ad inglobare il corpo e lo spazio esterno all'immobilità della casa: il corpo e il fuori sono integrati ad uno spazio chiuso. Il nomade, invece, tessendo il feltro, collega l'indumento e lo spazio esterno "allo spazio liscio aperto, allo spazio del di fuori, dove il corpo si muove" (Ibidem).

Su questo punto mi sembra doveroso soffermarmi un attimo. È vero, ci sono due diverse pratiche della tessitura: anzi, Deleuze e Guattari parlano anche di due diverse "concezioni"; tuttavia, non si tratta di modalità interpretative sospese nel vuoto, bensì radicate in modalità esperienziali ben precise. È un certo tipo di tessitura che legittima una determinata pratica di esso: io esperisco, creo, vivo uno spazio nomade, divento nomade io stesso, perché fabbrico un certo tipo di tessuto, che mi fa compiere queste e queste altre operazioni, che mi fa interagire in questo modo con l'ambiente circostante, che mi mette in un certo tipo di rapporto con il mondo. Beninteso, qui sto facendo un uso molto allargato della nozione di esperienza: intendo, quindi, anche la prassi produttiva (qui la tessitura) come una modalità dell'esperienza, grazie alla quale sono in un determinato tipo di rapporto con il mondo e con le cose e posso, quindi, dare un'interpretazione del mondo e della mia stessa prassi, interpretazione che però è legittimata dagli elementi concreti che l'esperienza che sto compiendo mi permette di focalizzare, di far venire avanti. Intendo, quindi, la creazione o la produzione come un particolare tipo di intenzionalità. Deleuze e Guattari ci offrono poi altri esempi ricchi ed illuminanti, su cui però non è forse necessario soffermarsi: la maglia e l'uncinetto (Ibidem), il ricamo a motivo centrale e il patchwork (pp. 94-96).

Modello marittimo - Veniamo ora alle determinazioni concrete dello spazio liscio e dello spazio striato. Sono spazi lisci il mare, il deserto, la campagna; è uno spazio striato la città; la campagna dell'agricoltura e il mare come luogo della navigazione sono esempi di come lo spazio liscio possa venire striato.

Nello spazio striato le linee e i tragitti sono subordinati ai punti: si va da un punto a un altro, è lo spazio delle cartine geografiche.

Nel liscio, al contrario, i punti hanno valore perché una linea passa tra di loro e li attraversa: è il percorso che conta, "lo spazio liscio è direzionale, non dimensionale o metrico" (ivi, p. 98). Nello spazio liscio la linea è dunque un vettore che cambia continuamente direzione, come il nomade che cambia incessantemente meta seguendo e inseguendo una vegetazione locale, temporanea, che si sposta. Anche qui, un'osservazione: non è che il nomade abbia una certa visione dello spazio, perché ha un modo particolare di viverlo e di usarlo, e inventi quindi lo spazio liscio; sono certe modalità esperienziali in cui lo spazio ci si offre (il deserto, il ghiacciaio, il mare aperto) a rendere ragione di una nostra interpretazione linguistica (e anche assiologica) di esso, che lo determina ora come spazio liscio, ora come spazio striato.

È l'esperienza che io faccio della città, tanto per fare un esempio opposto, a legittimare la mia interpretazione dello spazio vissuto all'interno di essa come spazio striato; nella città io so sempre dove troverò che cosa: gli uffici, i negozi, i monumenti non si spostano. Sono i punti che contano, non il tragitto che li unisce: il tragitto è puramente strumentale.

Anche se, poi, come è possibile striare con le coordinate lo spazio liscio del mare, così io possono insinuare del liscio nello striato vivendo "la città come un nomade, come un troglodita".

Modello estetico - Se ci spostiamo ad un livello estetico ed artistico, avremo la necessità di spostare e ridefinire la nostra coppia antinomica: parleremo dunque di visione ravvicinata e di visione a distanza, di spazio prensivo e di spazio visivo. Il liscio sembra infatti l'oggetto di una visione ravvicinata e di uno spazio prensivo: è la vicinanza che, come dice Cézanne, ci porta a "non vedere più" l'oggetto nella sua interezza; questo "non vedere più" ci fa esperire appunto uno spazio che cresce su se stesso in tutte le direzioni, senza un progetto predefinito, senza una striatura.

Abbiamo a che fare con uno spazio in cui l'occhio che guarda assume una funzione che "non è più ottica, ma prensiva" (p. 121).

Lo spazio striato, invece, si definisce attraverso i fattori della visione a distanza, della stabilità dell'orientamento, della prospettiva. Proprio qui entra in gioco Worringer con la sua linea gotica. Ora, non ci interessa poi molto vedere come Deleuze e Guattari rileggano Worringer: in fondo, tutte le determinazioni della linea gotica, dell'ebbrezza, della vita inorganica vengono conservate. Worringer viene criticato soltanto per non aver capito che proprio questa linea gotica è la linea dell'arte nomade, per avere attribuito all'arte primitiva quell'aspetto geometrico e cristallino che, invece, è già proprio della striatura.

Ma questo, rispetto al nostro discorso, è secondario; la linea nomade conserva tutti i tratti qualificanti del gotico di Worringer e, mi sembra, a questo punto non è difficile convincersene: le movenze della linea gotica si adattano perfettamente ai caratteri dello spazio liscio che siamo andati via via determinando. Quello che conta, appunto, è questo: che la linea gotica faccia la sua comparsa adesso - soltanto adesso: dopo che abbiamo già delineato i tratti di una fenomenologia dello spazio liscio (anche attraverso i modelli di cui qui non abbiamo parlato); dopo che ne abbiamo esibito la stratificazione in molteplici livelli di esperienza; dopo che abbiamo cercato e trovato quanti e quali livelli ci offrono, appunto, la possibilità di esperire uno spazio liscio.

Ora, la connotazione assiologica e politica (in senso lato) del discorso di Deleuze e Guattari ne condiziona indubbiamente anche gli aspetti descrittivi. Molte pagine hanno lo stile e il tono della rivendicazione: anzi, forse proprio l'apologia dell'arte nomade contro Worringer è la rivendicazione più marcata ed esplicita di tutto il capitolo.

La stessa frase finale: "Non credere mai che uno spazio liscio sia sufficiente per salvarci" afferma la portata salvifica dello spazio liscio proprio limitandola. E, tuttavia, non è tutto qui. C'è un nucleo fenomenologico che vorrei sottolineare un'ultima volta: se lo spazio liscio è uno "stile" dello stare-al-mondo che dobbiamo scegliere, questa è una scelta che possiamo fare perché è il mondo ad offrircela come possibilità, come possibile direzione di senso.

Miriam Ronzoni


Le parole della filosofia, II, 1999

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