3 - Estetica e filosofia in P. Valéry
L'opera poetica e teorica di Valéry, pur limitata nella quantità, è ricca di temi critici ed estetici che non sarà possibile, anche per la loro fondamentale asistematicità, trattare in modo completo. Vorremmo quindi sottolineare in particolare il suo tentativo «cartesiano» di trovare, sul modello di Poe e Baudelaire, un «metodo» per l'arte, metodo che per Valéry passa attraverso la complessa vita interiore dell'artista che crea.
È evidente, come notava Segond nel Traité d'esthétique, che la figura dell'artista per Valéry come puro «animal rationale», matematico coordinatore della sua propria attività costruttiva è, in questi termini, un'astrazione e insieme un paradosso; un'astrazione che possiede tuttavia i suoi ben precisi presupposti teorici nel convincimento, come abbiamo visto da più parti riformulato nell'ambito francese, che i processi «geniali», invece di essere ricondotti a fattori mistici o vitalisti, possano e debbano venire spiegati analiticamente nella loro stessa realtà conscia. In questo senso l'estetica (e in modo più generale la filosofia), non è o non dovrebbe essere quell'elegante retorica comune nella Francia del primo Novecento dove, come accusa Benda, un folto pubblico mondano frequenta le lezioni di Bergson al Collége de France e considera come passatempo le più straordinarie scoperte scientifiche. Né, peraltro, dovrebbe ridursi a puro e semplice esercizio dilettantistico, peccato dal quale, sempre a parere di Benda, non sfugge neppure Valéry, un «amateur» della scienza che in realtà non ne comprende l'effettivo sviluppo e la portata filosofica.
«Dilettante», tuttavia, malgrado la frammentarietà estrema del suo pensiero, Valéry può venire considerato solo nel livore polemico di Benda. Non è dilettante come non lo furono i suoi maestri Degas e Mallarmé e perché, soprattutto, nel suo pensiero è evidente la ripresa di un'esigenza filosofica «positiva» contro il misticismo, l'eclettismo, gli spiritualismi «alla moda» - che, ben prima di Benda.
H. Taine aveva denunciato nel 1886 con il suo Les philosophes français du XIX siécle: la scienza, e non le vuote cosmogonie verbali dei filosofi, deve essere d'esempio per l'arte e le teorie dell'arte, la scienza con il suo metodo determinato e rigoroso.
Metodo che dovrà venire integrato da quell'«elogio della mano» che anche Focillon aveva compiuto: «l'idea di Fare è la prima e la più umana. Spiegare non è mai che descrivere un modo di Fare: non è che rifare attraverso il pensiero»[29].
Dunque, così come voleva Claude Bernard nella sua Introduction à l'etude de la médecine expérimentale, è impossibile separare la testa dalla mano; assioma che non sempre i filosofi hanno compreso e che è invece il punto principale del pensiero e dell'opera di Leonardo che, con Eupalinos e Degas, è uno dei principali eroi in cui si trasfigura il pensiero di Valéry: «e sarà così che il Lavoro, dopo circa duecento anni dalla pubblicazione dell'Encyclopédie di Diderot, tornerà ad essere, proprio nelle pagine di Valéry, soggetto filosofico» [30]. Lo stesso Cogito cartesiano si libera dalle catene sillogistiche e diviene un «levier di potenza gigantesca, capace di sbarazzare il cammino dell'umanità dagli ostacoli verbali, dalla selva di pseudoconcetti delle vecchie filosofie»[31].
Questa posizione, sia pure «letteraria» e, come vuole Benda, «intimistica» (anche se nell'ottima compagnia di Proust, Gide, Alain Mallarmé, Breton, Aragon e Sartre) offre il caso «quasi unico», come scrive Adorno, di un individuo che sa dell'opera d'arte attraverso il metier, il preciso processo lavorativo, che
«si riflette cosi felicemente che si capovolge in penetrazione teoretica, in quella buona universalità che non abbandona il particolare ma anzi lo conserva in se stessa e con la forza del proprio movimento lo spinge verso la normatività»: «l'opera d'arte, che richiede un estremo di logica propria così come un estremo di concentrazione da parte del ricettore, per lui è una metafora del soggetto padrone di sé e consapevole, del soggetto che non capitola»[32].
Un soggetto che, appunto, non è il genio ispirato, il singolo illuminato ma un concreto artista che, con il suo lavoro, con la sua «passiva attività», diviene, come scrive ancora Adorno, «vicario del soggetto sociale complessivo».
Se è quindi impossibile trovare in Valéry quella profonda coerenza che teorizza nei suoi personaggi, l'estetica francese gli è in ogni caso debitrice di profonde intuizioni. Quell'estetica che, facendogli aprire nel 1937 il II Congresso internazionale di Estetica e Scienza dell'arte, lo dichiarava, oltre che padre, figlio, erede di una tradizione «cartesiana» capace di esaltare l'intelletto e la coscienza nella loro presenza all'interno dell'arte come lavoro e procedimento tecnico e che, nel contempo, problematizzando il rapporto arte/ filosofia, è in realtà, come scrive Paci, «l'erede di tutti i problemi posti dai romantici». Valéry è dunque un romantico «nel significato eterno che si deve attribuire al Romanticismo, nel senso cioè che ogni fatto dello spirito deve la sua possibilità alla fantasia, alla favola»[33].
L universo del sogno cui ci conduce la poesia non va tuttavia confuso con l'intero campo della poesia stessa, che sempre e necessariamente si richiama al lavoro, alla fatica, alla volontà e all'analisi. «In fondo all'intelletto - scrive Valéry - c'è il corpo. Ma in fondo al corpo c'è l'intelletto», l'intelletto che solo può esaminare i processi costitutivi dell'opera d'arte: il «sacro Caos», l'entusiasmo «che di tutto è creatore», presenti in Hoelderlin, divengono qui una «stupida elettricità» [34]che deve lasciar spazio all'atto completo del «costruire», momento in cui il lavoro, la tecnica e l'analisi si concretizzano nel farsi dell'opera d'arte.
D'altra parte, malgrado gli stessi autocompiacimenti di Valéry, «è bene cominciare con lo sminuire il preconcetto, a cui lo scrittore stesso ha tanto contribuito, ch'egli neghi in pieno la cosiddetta 'ispirazione', riducendo l'opera del poeta a una sorta di calcolo matematico, di cui l'altezza si misuri dalla quantità e difficoltà degli ostacoli superati»[35]. E'Dufrenne, infatti, riprendendo parti di Propos sur la poésie, a mettere in rilievo come Valéry riconosca al poeta una sorta di energia spirituale che gli si rivela in attimi illuminanti e decisivi, un'emozione che, attraverso la poesia, deve essere comunicata al lettore o all'ascoltatore trasponendolo in un universo poetico che presenta delle grandi analogie con quello che noi possiamo supporre l'universo del sogno. L'ispirazione che Valéry esclude è quindi soltanto «il fuoco romantico e oratorio, il 'furore sacro' di cui hanno in ogni tempo parlato i poeti, atteggiandosi a vaticinatori invasati dal Dio»[36].
Questa «bipolarità» del pensiero di Valéry può in parte derivargli dallo studio degli autori eterogenei che hanno contribuito alla sua formazione, da Platone a Cartesio, da Condillac a Fichte, da Comte a Bergson: la sua «matematica» e sia precisione di linguaggio sia mistica ermetica e inaccessibile così come il suo metodo critico e insieme analisi letteraria e «gioco intellettuale» di rimandi al quadrato fra dottrine disparate e molteplici. Condillac e Maine de Biran soddisfano così il suo meccanicismo sensista mentre Hegel, oltre ad avvicinarlo al «maestro» Mallarmè, gli ispira la concezione dello Spirito e della storia. Nello stesso tempo Valéry risente dei postulati scientifici e sperimentali del Positivismo (da Comte a Taine e Bernard) e pure non ignora le critiche ad essi rivolti dal contingentismo di Boutroux e dall'intuizionismo di Bergson.
Al «rigore matematico» si affianca dunque, nella costruzione dell'opera d'arte, la «potenza di trasformazione» dello spirito, ovvero «ciò che impedisce la formazione di un sistema chiuso di bisogni, e la soddisfazione dei medesimi, perché trae dalla soddisfazione un eccesso di potenza qui renverse son contentement»[37]. Lo spirito non è capacità di trovare ma potere di trasformare, di creare e costruire comprendendo; é, come direbbe monsieur Teste, un «occhio» sulla realtà capace di trasformarla, «sguardo di un uomo che non riconosce, che è fuori del mondo, occhio-frontiera tra l'essere e il non essere»[38]: figura irreale priva di emotività che rappresenta tuttavia una concezione della persona umana che è il punto di partenza di tutte le speculazioni di Valéry.
L'io, per Valéry, contrariamente a quanto sosteneva Bergson e ricordando invece vagamente il pensiero di Fichte, è diviso in un «io empirico» in preda ai legami dell'affettività ed in un «io impersonale» che si pone al di fuori del tempo, macchina cerebrale solipsistica priva di rapporti con l'altro e con la sua stessa individualità. Fuor di metafora letteraria siamo in verità di fronte ad una riproposizione del dualismo cartesiano dove Teste rappresenta la libertà assoluta e quindi, al limite, negativa dello spirito, che si isola totalmente dal mondo delle cose; siamo di fronte ad un particolarissimo «idealismo» dove lo spirito è potenza capace di generare infiniti sistemi di idee: Teste e Leonardo rappresentano quindi le due modalità, fondamentali per la creazione, artistica del porsi dell'Io di fronte al mondo esterno e all'interiorità, partendo dal comune presupposto che l'attività fondamentale dello Spirito è, nel suo senso più ampio, quella «fabulatrice».
Come scrive Valéry a conclusione di Le Cimetière marine, «il faut tenter de vivre» e quindi l'annullamento dell'individualità nel puro intelletto di cui sembra sostenitore Teste ha il suo contraltare (e complemento) nella capacità e nel piacere della creazione metodica e riflessiva di Leonardo, creatore le cui opere sono talmente distinte da far supporre che egli possieda il segreto dell'universalità, il «punto centrale» della coscienza «a partire dal quale tutto e ugualmente facile»[39]. L'uomo rappresentato da Leonardo possiede, secondo Valéry, un vivacissimo sentimento della «differenza delle cose» (che è, per Geiger, sentimento fenomenologico per eccellenza) che si traduce in continue e rinnovantesi analisi: perché infatti, scrive Valéry, «ho dato il nome di 'uomo' e 'Leonardo' a ciò che mi appariva come il 'potere dello spirito'» [40].
L'incostante frammentarietà del mondo, la sua «irregolarità regolare», trova quindi una sintesi nella personalità creatrice; costruzione è il termine generale «per designare più fortemente il problema dell'intervento umano nelle cose del mondo e per dare allo spirito del lettore una direzione verso la logica del soggetto»[41]. Simbolo di tale complessità è per Valéry l'architettura, i cui monumenti sono per noi esseri così complessi che la nostra conoscenza fatica a rilevarne la moltitudine dei motivi.
Nell'ambito della creazione il ruolo unificante fondamentale è svolto dall'immaginazione, da una «logica immaginativa» che permette di concepire e porre l'unità degli eventi, potere sulla genesi del pensiero che segue il muoversi del sensibile, il divenire dell'immagine verso il concetto, l'allegoria e il simbolo. Leonardo, attraverso tale logica dell'immaginazione, ha compreso la continuità e la realizzazione di questa unità: e una «macchina» destinata a combinare molteplici formazioni individuali, è una meccanica che Leonardo applica nel «paradiso» delle scienze come nelle linee dei suoi disegni «puri e fumosi».
Il problema della «continuità», del «molteplice» dei materiali nell'unità dell'opera, è peraltro una delle questioni fondamentali della filosofia e dell'estetica francese fra i due secoli. Per quanto riguarda, in particolare, L'introduction à la méthode de Leonard, del 1894, è facile accostare i suoi temi sia alle prime opere di Bergson sia agli scritti matematici di Poincaré. Il bergsonismo come generica «filosofia della subisce quindi il dominio del suo «contrario», quell'intelligenza analitica dei «matematici» che riconduce l'intuizione a elementi intellegibili. Se, inoltre, Bergson resta legato a una concezione tradizionale del divenire, Valèry, al contrario, volge a suo profitto le ultime scoperte della matematica e non considera quindi «definitive» le ipotesi «continuiste» espresse negli scritti dedicati a Leonardo dove il genio superiore è colui che scopre, quasi bergsonianamente, al di sotto delle apparenze divergenti, le similitudini nascoste.
Il problema della discontinuità, che la fisica dell'epoca ormai applicava al campo dell'infinitamente piccolo, è in Valéry particolarmente presente in riferimento alla sensibilità corporea, che è costituita da istanti ed elementi fra loro isolati e senza alcun legame percepibile. Gli interventi continui della sensibilità, che pure è all'origine di ogni opera d'arte, costringono l'intelletto a regolare questo confuso procedere agendo su di essa come facoltà spirituale che crea un ordine a partire dal disordine. Tale schema, che appare a prima vista costruito con modalità kantiane, è utilizzato da Valéry per mostrare da un lato che la discontinuità opera nell'intero ambito del sensibile dove sentimenti, fantasie, desideri, ritmi fisiologici sono fusi in modo inestricabile e agiscono come «intermittenze corporee» all'interno della creazione artistica e, dall'altro, che l'intelletto, la potenza dello spirito è la funzione analitica che solo e capace di portare a compimento i processi della creazione.
Queste concezioni non sono sempre espresse in modo coerente da Valéry ma si inseriscono tuttavia, come dimostra anche il Monsieur Croche anti-dilettante di Debussy, nel clima culturale proprio alle meditazioni teoriche degli artisti, che esaminano la realtà della creazione indipendentemente dai vincoli dell'accademismo. E bisogna rilevare che l'asistematicità delle meditazioni teoriche non e mai esclusivo tentativo di giustificare la propria specifica opera artistica ma sempre e soprattutto uno sforzo per delineare il metodo essenziale per l'opera intera dell'artista. In questo senso - ed è a parer nostro un senso fondamentale - Valéry è «filosofo» e l'intera sua opera un «discorso sul metodo»che ha come scopo mostrare che «l'entusiasmo non è uno stato d'animo da scrittore» e «quanto grande sia la potenza del fuoco, diviene utile e motrice solo per le macchine dove l'arte l'impegna» 41[ bis]. Monsieur Teste è l'esempio che l'artista può diventare «maître de sa pensée» trasfigurando la propria vita psicologica nel mondo rigoroso dei rapporti logici. L'artista si avvicina quindi al filosofo che è una sorta di «specialista dell'universale» che costruisce, per comprendere la varietà del discontinuo, diverse «forme» di conoscenza, una scienza dei valori dell'azione, l'etica, ed una scienza dei valori espressivi, l'estetica: «a mio avviso - scrive Valéry - ogni filosofia è un affare di forma. È la forma più comprensibile che un certo individuo possa dare all'insieme delle sue esperienze interne o altre, e ciò indipendentemente dalla conoscenza che può possedere quest'uomo»[42].
La concezione della Filosofia per Valéry sembrerebbe dunque ondeggiare verso un radicale relativismo scettico: il sapere si autodistrugge nella frammentarietà della conoscenza e lo sforzo dell'intelletto «non può più essere guardato come convergente verso un limite spirituale, verso il Vero». Al sapere, d'altra parte, non corrisponde alcun potere concreto sulla realtà delle cose e quindi etica ed estetica si limitano alla pura forma, si decompongono in «problemi di legislazione, di statistica, di storia o di fisiologia ... e in illusioni perdute». «Se l'estetica potesse essere - conclude Valéry - le arti svanirebbero necessariamente di fronte ad essa, cioè davanti alla loro essenza»[43].
L'Estetica può dunque morire - in effetti muore - sia nel relativismo delle sue scienze ausiliarie sia nella sua pretesa di cogliere l'assoluta essenza dell'arte. Dal momento che questa pretesa svanisce di fronte alla relatività dei saperi (alla loro «frammentarietà»), l'Estetica come scienza assoluta del Bello non può esistere: le arti, di conseguenza, «esistono solo attraverso le opere e gli artisti, e l'arte non è una scienza»[44]. Ai giorni nostri, scrive Valéry, «una 'definizione del Bello' non può dunque essere che come documento storico o filosofico»[45]. Valéry dunque, al di là della categoricità polemica delle sue stesse affermazioni, nega soltanto la possibilità di un'estetica idealistica, mistica, definitoria, di un'estetica che ignori l'effettiva comprensione della genesi costitutiva dell'opera d'arte ovvero l'insieme di quei problemi compositivi che risultano dalla pluralità delle funzioni di ciascun elemento di un'opera e che lasciano intravedere parentele «fra le forme d'equilibrio dei corpi, le figure armoniche, gli scenari degli esseri viventi e le produzioni semi o del tutto coscienti dell'attività umana»[46].
Questi problemi di carattere tecnico-costruttivo non hanno invece mai interessato il pensiero puro cosicché per l'«estetica filosofica» le opere d'arte sono degli accidenti, dei casi particolari, «degli effetti di una sensibilità attiva e industriosa che tende ciecamente verso un principio di cui essa, Filosofia, deve possedere la visione o la nozione immediata e pura»[47]. Il rifiuto dell'estetica da parte di Valéry è quindi il rifiuto di una certa e ben delimitata storicamente estetica filosofica - che in quegli stessi anni già criticavano Alain, Delacroix e Lalo - indirizzata non verso la realtà dell'opera ma ad una misteriosa sua «essenza». Un'opera d'arte invece, a parere di Valéry, non può venire «riassunta» attaverso i concetti generali di un'Estetica che ignori le particolarità tecniche proprie alla sua specifica singolarità.
Leonardo appare dunque come un modello per il suo desiderio di «avere la pittura per filosofia» dal momento che «la sua pittura esige sempre da lui un'analisi minuziosa e preliminare degli oggetti che vuole rappresentare», analisi che non si limita alle loro apparenze visive «ma che va al più intimo od organico, alla fisica, alla fisiologia fino alla psicologia». Dipingere è per Leonardo «un'operazione che richiede tutte le conoscenze e quasi tutte le tecniche: geometria, dinamica, geologia, fisiologia»: egli è il «tipo» di quel lavoro cosciente in cui «l'arte e la scienza sono inestricabilmente mischiati», l'esemplare «di un sistema d'arte fondato sull'analisi generale e sempre desiderosa, quando fa opera particolare, di comporsi soltanto di elementi verificabili»[48].
La posizione anti-filosofica, che gli ha probabilmente impedito dì afferrare tutti i contenuti teoretici del «metodo» e del «sistema» della tecnica artistica, conduce Valéry, così come era accaduto a Kierkegaard, a parlare solo attraverso «maschere», attraverso particolari «figure mitiche» (Teste-Cartesio, Leonardo, Eupalinos, Degas) che non sempre posseggono pienamente un valore universale -simbolico. Il frammento, il discorso aforismatico, che Adorno avvicina a quello di K. Kraus, nascondono tuttavia meditate posizioni estetiche e filosofiche che solo una volta, e pur fra professioni di modesta ingenuità, Valéry tentò di sistematizzare, e precisamente nel Discours sur l'esthétique tenuto nella sede «ufficiale» del già ricordato II Congresso internazionale di Estetica.
Valéry inizia qui col sostenere che «il solo nome di Estetica mi ha sempre meravigliato»; meraviglia scettica, ovviamente, che deriva dallo stupore che sia possibile trovare per l'arte «una nozione precisa e irrefutabile». In questo senso, comunque, l'Estetica apparirà come un insieme di varie scienze e tecniche, una proliferazione di ricerche, processi e contributi che hanno un rapporto con l'oggetto che andrà analiticamente e metodicamente esaminato. L'Estetica si è storicamente sviluppata «nello spazio del pensiero puro», ha supposto per sé il lato soggettivo del piacere e quello oggettivo del Bello; da tali basi «ha creduto di poter dominare il gusto, giudicare definitivamente il metodo delle opere, imporsi agli artisti come al pubblico e forzare la gente ad amare ciò che non ama e aborrire ciò che ama»[49]. Ciò ha condotto l'Estetica filosofica in un vicolo cieco, in uno sviluppo astratto entro il quale è impossibile delimitarla e definirla. Ciò che è indefinibile, aggiunge tuttavia Valéry, non è necessariamente da negare anche per il fatto che ha storicamente dato luogo ad un'ampia produzione che va catalogata ed esaminata.
Il primo gruppo di scritti relativi all'arte può così venir raccolto sotto il nome di Esthésique, che riguarda «tutto ciò che si rapporta allo studio delle sensazioni» e, particolarmente, «i lavori che hanno per oggetto le eccitazioni e le reazioni sensibili che non hanno un ruolo fisiologico uniforme e ben definito» [50]. L'estesica è quindi una base necessaria per qualsiasi scienza e in particolare è il fondamento sensibile generale dell'estetica in quanto vera e propria «fisica della sensazione».
Ad essa si affianca una scienza - la Poietique - che è un'idea generale dell «azione umana completa»:
«da una parte lo studio della invenzione, il ruolo del caso, della riflessione, dell'imitazione; quello della cultura e dell'ambiente; dall'altra parte l'esame e l'analisi delle tecniche; procedimenti, strumenti, materiali, mezzi e supporti d'azione»[51].
Valéry sembra dunque ondeggiare, nei confronti dell'estetica, fra due posizioni non sempre conciliabili. Da un lato, rifiutando l'estetica verbale dei filosofi e quella del mero sensualismo nega anche la possibilità di una definizione rigida e assoluta dell'estetica stessa, che riguarda essenzialmente il campo della soggettività. Non si tratta infatti di delineare una Bellezza in se «ma piuttosto di definire una forma particolare della bellezza». L'Estetica, allora, «tende necessariamente a farsi nella misura in cui l'arte prende sempre più coscienza di se stessa»[52]. Essa si costituisce nella costante attenzione ai problemi della tecnica da cui l'arte sembra sorgere come natura autocosciente e consapevole delle leggi del proprio sviluppo. Nessuno infatti, scrive Formaggio, è andato vicino quanto Valéry «al segreto significato della tecnica legandola al rapporto, naturalisticamente posto, necessità-arbitrio, atto-possibilità»[53].
«Dietro il prodotto - scrive F. Pire - rivede l'atto di produrre; dietro il reale indovina il possibile; dietro la forma colui che l'ha creata»: «la sua visione è quella di un poeta artigiano per il quale è più importante lo sforzo del risultato, la genesi della bellezza più della bellezza stessa»[54]. Il mondo sensibile non è un cosmo anarchico e sorprendente in cui i fatti si succedono senza apparente giustificazione bensì possiede un «ordine» che il «poieta» deve riprodurre attraverso il lavoro - intelligenza che produce con attesa e riflessione -, lavoro che è possibilità creativa sempre di nuovo rinnovata nell'interiorità spirituale dell'artista, Eupalinos, l'architetto, «sottomesso alla natura perché ne ha bisogno, perché riproduce il procedimento secondo cui essa crea; egli tuttavia la domina attraverso la libertà che ha di modificarla e di ridurla al suo disegno». La superiorità dell'opera d'arte sull'opera naturale deriva quindi essenzialmente dalla presenza dell'autore, dal suo metodo responsabile e cosciente: «egli ricorda che lo spirito in potenza di creare deve contare sul, corpo che gli appartiene - o al quale egli appartiene - e anche sul mondo che resiste alle imprese del corpo e dello spirito associati»[55].
Come Valéry scrive in Eupalinos:
«La mia intelligenza meglio ispirata non cesserà, caro corpo, di chiamarvi ormai a sé: né voi, lo spero, di fornirle vostre presenze, vostre istanze, vostri legami locali. Perché noi, infine, si possa trovare, voi ed io, il modo di congiungerci»[56].
Dunque, come sostiene F. Pire, «a partire dal corpo preso per modello, il pensiero dell'artista, contemplativo e agente, ritorna, attraverso lo spirito al corpo, indispensabile strumento di colui che gusta e conosce, ama, analizza e gode, per infine creare e di nuovo godere e far godere qualche altro amante delle belle forme»[57]. Il discontinuo che appare nella natura, nella singola azione umana, nel procedere stesso di ogni arte viene utilizzato dalla tecnica in una possibilità organica che si rivela pienamente solo nel momento della creazione: l'artista, l'architetto del dialogo Eupalinos, è per Valéry, «un momento della natura, il momento nel quale la natura si ricostruisce; perciò la sua opera è strettamente legata all'altro momento, all'opera del Demiurgo differenziatore»[58]. In Eupalinos Valéry sostiene infatti che l'atto più completo è quello della costruzione, atto «sapiente» che unisce in sé la materia e la forza ritornando a quell'operare naturale che sembrava inizialmente aver rifiutato. Ogni elemento deve allora venire analizzato con spirito critico, così acuto da prospettare uno scetticismo radicale sulla possibilità di un Vero assoluto da raggiungere attraverso l'arte. Soltanto tuttavia nell'atto costruttivo l'artista pone (e si pone) i problemi essenziali cercando di vedere concretamente «come un'opera realizza l'unione intima della materia e della forma, dell'arbitrario e della necessità, come lo spirito dell'artista, diviso fra l'orgoglio e la vanità, sostenuto dal 'piacere del fare', dia lo spettacolo di una lotta più o meno severa contro se stesso»[59].
Nel grande artista la sensibilità e i mezzi sono in un rapporto particolarmente intimo e reciproco, in uno stato comunemente detto «ispirato» che è in verità formato dal «sapere» dell'artista e della sua capacità di servirsi di ciò che sa. Tecnica e psicologia della creazione sono quindi i due poli del pensiero estetico di Valéry, a volte considerati per se stessi nella descrizione di concreti processi, altre finalizzati nel sogno di una «Storia Unica delle Cose e dello Spirito» che «se tradizioni o cattive abitudini scolastiche non ci'impedissero di vedere quello che è e non raccogliessero i tipi spirituali secondo i loro modi d'espressione (...) sostituirebbe le storie della filosofia, della letteratura e delle scienze»[60].
Le strofe di Michelangelo che ricorda negli scritti dedicati a Degas - «Non ha l'ottimo artista alcun concetto/ Ch'un marmo solo in sé non circoscriva» - circoscrivono dunque, forse meglio di qualsiasi altra interpretazione, il messaggio «simbolico» dell'opera di Valéry, Valéry stesso come «simbolo di un uomo infinitamente sensibile a ogni fatto e per il quale ogni fatto è uno stimolo che può suscitare un'infinita serie di pensieri»; un uomo i cui «mirabili testi», come scrive Borges, non esauriscono né definiscono le multiformi possibilità e che, «in un secolo che adora i caotici idoli del sangue, della terra e della passione, preferì sempre i lucidi piaceri del pensiero e le segrete avventure dell'ordine»[61].
In questo contesto, dove il «piacere dell'intelligenza» è in primo luogo un «metodo» di vita, anche le frammentarie indicazioni contenute nel discorso del 1937 appaiono un importante messaggio per la fondazione di un'estetica scientifica capace di tener conto della complessa natura di tutti gli elementi, oggettivi e soggettivi, che entrano in gioco o, meglio, in combinazione all'interno di ciascuna opera d'arte. E, in tale contesto, «scienza» non è il positivistico culto del fatto ingenuamente accolto nell'indistinto della sua natura ma l'analisi «fenomenologica» che sa cogliere le differenze nel mondo complesso della natura e negli interni processi della nostra mente. L'estetica stessa ha infatti un valore fondativo per l'arte in quanto punto di incontro fra l'artista e il mondo: «il mondo visibile - scrive Valéry - è un perpetuo eccitante: tutto risveglia o nutre l'istinto di appropriarsi la figura o il modellato della casa che lo sguardo costruisce» [62].
«Psicologia della creazione» non significa dunque - come mai in verità significò in Francia - ricostruzione della «biografia interiore» dei singoli artisti bensì riconoscimento analitico della connessione intrinseca fra i processi della creazione artistica e i problemi della conoscenza.. Il soggetto, l'Io è, in Valéry, Monsieur Teste, personaggio forse puramente linguistico e astratto ma comunque sofferente per l'abitudine di sviluppare tutto il pensiero e di andare sempre al fondo di se stesso. Teste è il «testimonio», finzione di un osservatore eterno «il cui ruolo si limita a ripetere e rimontare il sistema del quale l'Io è quella parte istantanea che si crede il Tutto»[63]. L'Io è il principio di una cartesiana «scienza dell'anima» dove la ricostruzione di un dramma intellettuale e spirituale conduce, o dovrebbe condurre, all'instaurazione di un ordine continuo, costruttivo, «poietico». La comprensione dei processi spirituali degli artisti e delle loro analisi ci fa dunque comprendere l'essenza stessa dello spirito creatore.
Da una parte, quindi, Valéry ricerca una teoria dell'arte (che si identifica con un'epifania dello spirito), sostenendola con ricerche dettagliate, minuziose, pazienti e, dall'altra, esamina le «personalità geniali», «si sforza di dipingere i ritratti psicologici del genio, le scene drammatiche o divertenti della 'Commedia Intellettuale', che deve rappresentare e spiegare in modo simbolico i segreti della creazione letteraria e artistica»[64]. In entrambi questi due lati del suo pensiero, peraltro spesso inscindibili, ha sempre chiarissima la consapevolezza - che già abbiamo notato in Delacroix e Focillon - dell'importanza della tecnica nella costruzione di una «forma» artistica. Compiere un'opera, infatti,
«consiste nell'eliminazione di quanto riveli o suggerisca il procedimento di fabbricazione dal momento che l'artista non deve accusarsi che col suo stile, sostenendo il proprio sforzo sino a che il lavoro abbia cancellato le tracce del lavoro»[65].
L'opera teorica di Valéry ha peraltro dato luogo a molteplici «interpretazioni», ciascuna delle quali può trovare giustificazioni e punti d'appoggio nel suo stesso pensiero. Uno dei più acuti interpreti, M. Bemol, ha sostenuto che nel pensiero di Valèry si incrociano tre correlate «teorie»: la teoria della letteratura e del linguaggio, la teoria dell'arte e la teoria dello spirito, che presuppone le due precedenti ed è il vero e proprio «fine essenziale» della sua opera. Altri hanno invece visto in lui, più semplicemente, un «formalista», un «razionalista», uno «scienziato» o un puro «letterato». Tutte queste disparate interpretazioni ci suggeriscono evidentemente che la personalità di Valéry rimane in verità indefinibile proprio come se lo scrittore stesso avesse costruito una serie di «maschere mitiche» per nascondere sé in loro sino a confondersene e ad «essere» od «apparire» loro. Eupalinos, Faust, Teste, Leonardo, figure «letterarie» che forse portano in sé un messaggio ideologico e polemico più profondo e penetrante di quanto supponesse lo stesso Valéry: il loro culto del metodo e dell'analisi, dell'ordine dello spirito suggerisce che egli (come Kraus, forse, come Musil, in certi momenti come Wittgenstein) «propone agli uomini la lucidità in un'era bassamente romantica, nell'era malinconica del nazismo e del materialismo dialettico, degli auguri della setta di Freud e dei commercianti del surréalisme» [66]. Lucidità che gli deriva peraltro dalla migliore tradizione dell'essai francese, dall'intelligenza scettica e attenta di un Montaigne, dal suo razionalismo che non è mai astratto e fine a se stesso.
Proprio sulle basi laiche di uno scetticismo così radicale da giungere a un «salutare nichilismo ideologico», Valéry non ha lasciato soltanto un'opera poetica ma uno spazio d'intelligenza che, anche nell'ironia disperata (che tragica non sa più essere) della polemica ideologica, riveste un importante ruolo nell'estetica francese del Novecento, quell'estetica che, come già si è notato, non nasce necessariamente asservita all'accademismo dei filosofi. La formazione stessa di Valéry è fra gli artisti, fra Mallarmé, Rouart, Degas, i simbolisti, Gide, Claudel, fra coloro che, insomma, rappresentavano in qualche modo il nuovo «classicismo» dell'arte francese lontano dal nonsense Dada o dall'irrazionalismo sognante del Surrealismo. In questo ambiente, più che fra gli scienziati (meno conosciuti e compresi che esaltati e innalzati a modello), Valéry impara il «metodo», l'importanza della lucidità costruttiva con e sulla materia rispetto ai vuoti schemi sistematici dei filosofi.
Il pensiero, valore supremo, così supremo da divenire forse anch'esso un mito, è onnipotente nel passato e nell'avvenire «ma e completamente privo di efficacia sulla realtà presente dove non ha alcun legame con l'azione diventando affatto interiorizzato»: il contatto pensiero/realtà (che in sé contiene quelli di poesia/realtà e poesia/linguaggio/realtà) può affermarsi solo «attraverso l'immagine, la poesia e i valori che vi corrispondono, il sogno e l'infanzia»[67]. Ma accanto al suo sogno apollineo vi sono forze d'improvvise rivelazioni. In primo luogo la stessa distinzione fra esthésique e poiétique, fra un'estetica come teoria generale della sensibilità e una teoria dell'arte come insieme di processi tecnico costruttivi, distinzione che nessuno, neppure in seguito, formulerà in Francia con tale chiarezza e, si può supporre, nessuno comprese sino al fondo delle sue possibili conseguenze teoriche. In secondo luogo, la portata «ideologica» del pensiero di Valéry, anch'essa per la verità unica nel panorama indifferente agli eventi storici di tutta quanta l'estetica universitaria: egli ha visto chiaramente «gli ostacoli che la crisi della società capitalista ha posto all'efficienza e alla capacità d'azione del pensiero razionale» e ha compreso «la rottura radicale che si è verificata nella società occidentale tra ragione e realtà durante tutta la prima parte del secolo XX» coltivando tuttavia, con la disperazione dell'illuminista che vive in un secolo che non è più il suo, «il valore unico e supremo della ragione»[68].
Il limite filosofico generale di Valéry è infatti proprio nel suo restare legato ad una ragione intesa in senso illuministico senza riuscire (neppure in verità tentando) ad imporre una Vernunft dialettica, storica e concretamente costruttiva. Anche nel campo dell'estetica manca infatti il legame corporeo-costruttivo fra il soggetto senziente e la naturalità della materia, manca dunque un chiaro anello di congiunzione fra il Valéry-Teste e il Valéry-Leonardo. E tale mancanza permette ancora una volta di far rientrare Valéry nella tradizione francese della «psicologia della creazione» che, pur intuendo i principi della forma non sa, infine, come definirli[69].
Note
[28] P.Valéry, Introduction à la méthode de Leonard, Paris, Gallimard, 1962, p. 102. Anche il «vicepresidente» M. Ravel è, come Valery, convinto sostenitore del pnmato del mestiere sull'ispirazione. Sulla sua concezione dell'opera «combinazione» si veda V. Jankélèvitch, Ravel, Paris, Seuil, 1956.
[29] P. Valéry, L'homme et la coquille in Ouvres, Paris, Gallimard, 1957, p. 891.
[30] E. Di Rienzo, Il sogno della ragione, Roma, Bulzoni, 1982, p. 51. Vi è in effetti, da Diderot (si pensi all'articolo Art dell'Encyclopédie) sino a Valéry, il problema della tecnica in primo piano.
[31] Ibid., p. 56.
[32] T. W. Adorno, Note per la letteratura, Torino, Einaudi, 1972, p. 112.
[33] E. Paci, Relazioni e significati, vol. III, Milano, Lampugnani-Nigri, 1976, p. 63 e p. 66.
[34] P. Valéry, Monsieur Teste, Milano, Il Saggiatore, 1980, p. 91 e p. 87.
[35] S. Solmi, La salute di Montaigne e altri saggi, Firenze, Le Monnier, 1942, pp. 834
[36] Ibid., p. 84.
[37] S. Givone, Hybris e Melancholia. Studi sulle poetiche del Novecento, Milano, Mursia, 1974, p. 26. Si vedano, a questo proposito, i legami che G. Macchia, Il paradiso della ragione, Torino, Einaudi, 1972, istituisce con Mallarmé e come essi possano venire ripresi, in E. Lisciani-Petrini, Memoria e poesia, Napoli, ESI, 1983, pp. 170 sg., interpretando l'opera di V. Jankélévitch.
[38] P. Valery, Monsieur Teste, cit., p. 101.
[39] F.E. Sutcliffe, La pensée de Valèry, Paris, Nizet, 1955, p. 52.
[40] P. Valéry, Introduction a la méthode de Leonard, cit., p. 11.
[41] Ibid., p. 48.
[41bis] Ibid., p. 67.
[42] Ibid., p. 106. Citazione tratta da Leonard et le philosophes del 1929, contenuto nello stesso volume dell'Introduction.
[43] Ibid., p. 108.
[44] R. Bayer, Histoire de l'esthetique, cit., p. 336.
[45] P. Valèry, Introduction à la méthode, cit., p. 109.
[46] Ibid., p. 110.
[47] Ibid., pp. 111-12.
[48] Ibid., p. 129e p. 131.
[49] P. Valéry, Discours aux esthéticiens in Ouvres, cit., p. 1304.
[50] Ibid., p. 1311.
[51] Ibidem.
[52] M. Bemol, Valéry et l'esthétique, in «Revue d'esthétique», 1, n. 4, 1948, p. 420.
[53] D. Formaggio, Fenomenologia della tecnica artistica, cit., p. 176.
[54] F. Pire, La tentation du sensible chez P. Valéry, Paris, La Renaissance du Livre, 1964, p. 17 e p. 123.
[55] Ibid., p. 131.
[56] P. Valéry, Eupalinos, in Ouvres, cit., p. 99.
[57] F. Pire, op. cit., p. 138.
[58] E. Paci, Introduzione a P. Valéry, Eupalinos, Milano, Mondadori, 1947, p. 19.
[59] M. Bemol, La méthode critique de Valéry, Paris, Nizet, 1960, pp. 128-9.
[60] P. Valéry, Degas. Danza. Disegno, Milano, Feltrinelli, 1980, p. 82.
[61] J.-L. Borges, Altre inquisizioni, Milano, Feltrinelli, 1971, p. 80.
[62] P. Valéry, Degas. Danza. Disegno, cit., p. 92.
[63] P. Valéry, Monsieur Teste, cit., p. 90.
[64] M. Bemol, La methode critique de Valéry, cit., pp. 69-70. In analogia con Lalo, che costruisce una sistematica tipologia psicologica delle individualità creatrici, Valery, senza alcun apparente disegno preordinato mostra il ruolo dei «tipi» dello Spirito nella creazione delle opere d'arte, problema che era sempre stato al centro del suo interesse. In Degas. Danza. Disegno, cit., p. 25, scrive infatti: «mi meraviglio che la letteratura abbia indagato si raramente sulla diversità degli intelletti, le concordanze e le discordanze che si manifestano tra individui pari nell'attivo vigore dell'ingegno».
[65] P. Valéry, Degas. Danza. Disegno, cit., p. 38.
[66] J.L. Borges, op. cit., p. 80.
[67] L. Goldmann, L'illuminismo e la società moderna, Torino, Einaudi, 1967, p. 121.
[68] Ibid., pp. 129-30.
[69] J. Segond, nel Traité d'esthétique. cit., accusa Valéry di ridurre tutte le sue figure mitiche a Narciso, al mito di se stesso, accusa che non è priva di un fondo di verità. L'intera opera di Valéry è infatti un commento al proprio io nella molteplicità delle sue forme spirituali (Teste, Leonardo, Faust). Segond, in particolare, non sopporta che Valéry abbia «ridotto» Leonardo a uno sterile «io penso». Il suo modello di Leonardo deriva infatti dal Leonard de Vinci et l'einsegnement du dessin che Ravaisson aveva pubblicato nel 1887 sulla «Revue Blue»: un Leonardo che esprime e crea la Bellezza rifacendosi agli insegnamenti della Natura (dove le maiuscole vogliono indicare il substrato metafisico del discorso).