1 - Estetica e filosofia in E. Souriau

 

Souriau, come si sarà compreso dai frequenti richiami alle sue opere e al suo pensiero, rappresenta, per così dire, l'esthéticien per eccellenza, quasi un momento di sintesi e piena realizzazione dell'intero movimento dell'estetica francese, senza il quale, peraltro, la sua stessa personalità filosofica perderebbe vigore e prestigio teoretico. Vi è infatti, in lui, sia la tradizione razionalista e kantiana della filosofia francese sia un'attenzione non superficiale ai risultati del positivismo sia, infine, uno studio, spesso criticamente implicito, di Bergson e di alcuni testi della fenomenologia: il ritorno ai «fatti», intesi come le «cose stesse», è l'esigenza primaria della sua filosofia, l'esigenza di aprire un campo epistemologico che ponga nella finitezza il punto di partenza per l'estetica, nei fatti formalizzati e indicatori di trascendenza, nell'esperienza del vissuto come totalità esistenziale.

Come più volte egli stesso ricorda, Souriau, prima di essere estetologo, è filosofo poiché, a differenza di tutti i suoi predecessori, è la ricerca di una soluzione per il problema della conoscenza che l'ha condotto a meditare sull'arte, meditazione che, tuttavia, deve venire svincolata dal dominio filosofico per acquisire un suo proprio campo scientifico, per diventare «scienza estetica». Il problema che apre la strada a questa scienza è però indubbiamente il problema classico della filosofia, l'idea di verità; non una verità metafisica e assoluta - il principio Dio o il principio Uomo - ma la verità dell'essere nel suo instaurarsi, una verità che deve venire afferrata con un concreto «sforzo» umano, con un tentativo dell'uomo di cogliere le forme dell'essere - le forme «essenziali» - tondate nell'empirico in quanto dimensione virtuale dell'esistere ontico. E', in questo senso, un ritorno alle fonti, della filosofia e del conoscere: è il problema «del valore ontologico dell'atto di conoscere, quello della partecipazione del pensiero all'essere»[1]. Il pensiero e costruzione, atto tetico, instaurazione di una serie di forme che svelano il senso del mondo, la stessa «instaurazione cosmica».

Al di là, dunque, di ogni antropocentrismo, Souriau considera il pensiero e le sue forme come fenomeni cosmici e assoluti, come un «cominciamento assoluto» che pone la realtà e l'uomo: il pensiero pensante, il Cogito, «e fattore e funzione di una realizzazione cosmica ideale dell'esperienza vissuta prima di divenire fattore e funzione della sua propria strutturazione e di quella delle cose»[2]. L'uomo è così al servizio del pensiero, che a sua volta è al servizio dell'Essere che si manifesta nel dato cosmico, nella forma. Il pensiero è ontologico, il pensiero richiede un compimento cosmico che è il compimento della sua propria verità.

Già da questa prima sommaria esposizione si comprenderà che la filosofia di Souriau è senza dubbio «inattuale» rispetto a numerose correnti filosofiche contemporanee, con le quali peraltro sempre rifiutò sia il dibattito sia la polemica. Tuttavia, se si guarda al di là del linguaggio, formatosi esclusivamente sui «classici» del pensiero filosofico, Souriau affronta, sin dagli anni venti, una problematica che tornerà anni più tardi nella fenomenologia francese, ovvero la costruzione di una conoscenza ontologica di fronte al mondo e alla realtà ontica che la pone. L'impresa di Souriau precede così quella di Merleau-Ponty nel Le visible et l'invisible, dove si tratta di cogliere e ristabilire l'ordine del vissuto e del fenomenico come fondamento per un ordine obiettivo.

Tale ristabilimento dell'intelligibilità del mondo come conoscenza ontologica di un dato ontico [2] è stata da Souriau intrapresa su vari piani, dove l'estetica occupa un posto indubbiamente privilegiato anche se, in ogni caso, è il pensiero a essere protagonista di una dialettica instaurativa in cui il «fare dell'arte si offre al pensiero filosofico come modello di una realizzazione del reale nel e attraverso l'opera»[3]. Il pensiero si rivela qui come «terrestre» le essenze platoniche sono state riportate sulla terra ed è quindi solo nel mondo sensibile che potremo ritrovare le forme, anzi una certa «virtualità formale», che funge quasi da terreno antepredicativo per le forme stesse. Solo il mondo sensibile ha infatti la pienezza dell'essere: «questo mondo di materie più le forme e di forme secondo le materie; questo mondo in cui nulla è in potenza e tutto in atto» [4]e dove il pensiero è il «mediatore plastico» tra le forme e la materia.

Non è quindi l'io che genera esistenzialmente e ontologicamente i pensieri singolari ma sono tali pensieri che generano questo io, io che li abbraccia e che ne accetta sempre di nuovi: il mondo stesso si instaura in una dimensione coscienziale cosmica che precede il cogito e, anzi, lo fonda. La verità prima non è l'autocoscienza ma il pensiero, che, in quanto pensato, è «nunc cogitatur ergo quid est» o, meglio, «patefit ergo quid est», cioè l'evidenza che costituisce originariamente l'esperienza. Riduzione «esistenziale» che Souriau stesso dichiara essere l'esatta antitesi della riduzione fenomenologica[5], riduzione «che ristabilisce il fenomeno nell'autonomia del suo apparire esistenziale, anteriormente alla sua essenzializzazione come fenomeno di qualche cosa o per qualcuno»[6]. Il fenomeno acquista così la sua esistenza specifica rivelando la sua appartenenza all'essere: «è l'essere che manifesta la sua presenza spirituale ed incita il mondo a creargli un modo di esistenza o riflettere questa presenza»[7].

Vi è così un'esistenza «ontica», già data, e un'esistenza «instaurata» che è, in qualche modo, «inventata». Il primo è il livello dell'esistenza pura o di primo grado, l'aseità, per il quale la spiegazione migliore è ancora l'istanza eleatica «l'essere è», livello in cui la datità dell'esserci si presenta in tutta la pienezza del suo essere e in tutta la povertà di un momento non ancora cosmicamente instaurato. Il secondo grado dell'esistenza, l'esistenza «plurimodale» cosmicamente fondata, deve necessariamente riferirsi al primo grado, al mondo dell'esistenza data che, a sua volta, «ha bisogno delle esistenze di secondo grado per realizzarsi in piena esistenza terrestre (per compiere cosmicamente la sua intrinseca verità d'essere)»[8].

In questo processo instaurativo che porta a compimento il senso del mondo si inserisce in primo piano l'opera d'arte nel suo rapporto intrinseco con le operazioni dell'essere e del pensiero. Infatti, come Souriau scrive nell'Avenir de l'esthétique, la meditazione sull'arte è una conseguenza dell'esame del problema della conoscenza, di un discorso di filosofia generale. Le sue «radici» non sono, come sarà per la fenomenologia e come si notava anche in Bayer, nel «sentire» la bellezza di un oggetto ma nel considerarla immediatamente come il risultato di una «fabbricazione», di un'instaurazione di forme secondo criteri che rivelano il carattere noetico dell'arte, senza permettere che una precostituita idea di Bello (come appare, per esempio, in Ravaisson) ne confonda il campo viziando la positività concreta del suo affermarsi come forma. Il Bello infatti, come avevano compreso molti pensatori inseriti nell'area del positivismo, non è una nozione «specificante»: «l'impressione del Bello deve qualificare e vivificare tutta l'estetica» ma «non può esserne l'oggetto»[9].

Il «patefit» implica così un movimento anaforico secondo il quale un essere tende sempre al suo più alto grado di esistenza: e la forma è la promozione anaforica, l'atto attraverso il quale il dato riceve un grado superiore di lucidità. Questo processo è chiamato da Souriau, invece che «creazione» o «invenzione», termini «compromessi» con la psicologia o la teologia, «instaurazione», procedimento che mira alla promozione di un'opera o di una forma che esiste con la sua propria realtà distinta e indipendente da quella di colui che l'instaura. L'instaurazione quindi «il movimento attraverso il quale l'uomo, se non crea propriamente parlando, scopre e attualizza certi tipi o morfemi preesistenti, compie ciò che la natura ha abbozzato o schizzato, in breve porta alla sua realizzazione ciò che dappertutto è incoativo»[10]. Dunque, in quanto instaurazione di una presenza, essa non governa solo l'uomo ma anche le cose e le cose che sono attraverso l'uomo, in primo luogo le opere d'arte. Se è vero, infatti, che l'artista sembra sedotto dalla forma in quanto archetipo o modello, è anche vero che la forma si libera all'artista sempre e soltanto come qualcosa di unico, di particolare, di individuale.

 

Note

Da questi veloci cenni sulla filosofia generale di Souriau, peraltro poco nota ed ancor meno studiata fuori dalla Francia, già si comprende che il suo particolare «formalismo» non ha molti punti di contatto né con i vari «formalismi» europei (da Zimmerman a Wölfflin) né con la «vita delle forme» di Focillon, che giunge a conclusioni a grandi linee similari ma partendo da presupposti teorici del tutto differenti e comunque pur sempre legati alla realtà storica delle opere d'arte. Siamo quindi di fronte a un filosofo, addirittura a uno «scienziato» dell'estetica, che, pur presentando analogie con il pensiero di Bayer, Focillon, Faure, Valery e Malraux stesso - e utilizzando come loro la nozione di «forma» - pone le premesse di un generale discorso «ontologico» che giunge all'estetica solo per un tentativo, complesso e articolato, di autogiustificazione.

[1] L. de Vitry Manbrey, La pensée cosmologique d'E. Souriau, Paris, Klincksieck, 1974, p. 20.

[2] Ibid., p. 26.

[3] L. de Vitry Manbrey, Une ontologie solitaire, in «Revue d'esthétique», n. 3-4, 1980.

[4] E. Souriau, L'avenir de 1'esthétique, Paris, P.U.F., 1929, p. 392.

[5] E. Souriau, Les différents modes d'existence, Paris, P.U.F., 1943, p. 53.

[6] L. de Vitry Manbrey, art. cit., p. 240. Nel volume citato quest'autrice presenta anché un utile lessico relativo ai pensiero di Souriau. Il patefit è cosi definito come «l'esserci del fenomeno».

[7] Ibid., p. 241.

[8] Ibid., p. 244.

[9] E.Souriau, L'avenir de 1'esthétique, cit., p. 51.

[10] D. Charles, Présence et instaurationin «Revue d'esthétique» (L'Art instaurateur),n. 3-4, 1980, p. 76.