6 - Estetica e Natura

 

 

In Le poétique, del 1963, si fa evidente l'avvicinarsi di Dufrenne a tematiche ontologiche che evidenziano nel suo pensiero gli influssi dell'Heidegger dell'Origine dell'opera d'arte, per cui è l'arte, e non l'artista, che è all'origine dell'opera e dell'artista stesso. Dufrenne tuttavia respinge i caratteri «ontoteologici» riscontrabili nel «secondo» Heidegger riaffermando, nella sua prospettiva «ontofenomenologica», che l'opera d'arte è fenomeno sempre collegato alla sensibilità umana, così come l'essere si rivela a partire dal sentimento quale vertice della percezione estetica. Quindi se anche per Dufrenne, nell'opera, come scrive Heidegger, «è in opera l'evento della verità» e si verifica «l'apertura dell'ente nel suo essere, il farsi evento della verità»[129], è chiaro che la verità si afferma in Dufrenne in un divenire percettivo che, per Heidegger, tradirebbe il senso stesso dell'opera d'arte. L'arte in Dufrenne si pone piuttosto, ricordando la conoscenza intuitiva di Spinoza e l'assoluto di Schelling come superiore «indifferenza» di Natura e Spirito, come rivelatrice attiva dell'Essere, della Sostanza, della Natura naturante. Ciò permette a Dufrenne di non annullare l'antropologico, l'uomo nella sua corporeità, in una statica realtà suprema ma di porlo anzi quale protagonista del divenire dell'essere stesso: «l'originalità di Spinoza consiste nell'identificare la necessità esistenziale, vale a dire quella pienezza conferita all'esistenza dal fatto della sua identificazione all'essenza, con la necessità logica: l'affermazione di sé che costituisce il conatus non è differente dall'affermazione logica che è l'anima del vero»[130].

Il «ritorno alla Natura» di Dufrenne, verificandosi sul piano «estetico» e partendo da concrete opere d'arte percepibili, richiama inoltre Il visibile e l'invisibile di Merleau-Ponty dove pure si tentava un «ritorno» a un'ontologia (se non ad una filosofia della Natura) che comprendesse la consustanzialità del soggetto e dell'oggetto. Un ritorno verso un essere «selvaggio», plesso di significati che l'uomo sempre di nuovo trae alla luce, physis dove originariamente gli uomini erano indivisi e in cui forse, dietro o sotto le scissure della nostra cultura acquisita, continuano ad esserlo. Merleau-Ponty, poco prima della sua morte, affermava che la Natura «è l'essere dietro di noi», mondo originario cui siamo carnalmente legati attraverso la nostra corporeità percipiente, fondo ontologico «che comprende tutte le possibilità ulteriori dell'esperienza», «terra originaria», «preoggetto»[131], comune Grund dove, come voleva Schelling, si incontrano il soggetto e l'oggetto.

La spinoziana (e schellinghiana) Natura naturante è quindi per Dufrenne sia quell'essere abbozzato nelle prime opere, un armonizzante «a priori di ogni a priori» che permette di superare il dualismo in una «istanza superiore» radice sia dell'a priori soggettivo come di quello oggettivo, sia un potere attivo di sempre rinnovantesi mondi possibili. Vi è piuttosto da chiedersi, a questo punto dove la «svolta ontologica» non lascia più spazio a dubbi ma rivela come Dufrenne si inserisca in ben individuabili coordinate culturali, come l'uomo, prodotto finito della Natura infinita, possa afferrare la realtà di questo essere senza limitarlo, oggettivarlo o reificarlo, suscitando in tal modo un nuovo dualismo. Il coglimento di questo fondo - e non statico fondamento come è per Dufrenne l'Essere delle ontoteologie potrà venire afferrato, nella sua impensabilità, solo da un modo di pensiero non riflessivo, dal sentimento che penetra la profondità espressiva della poesia, che sembra radicarsi nella Natura stessa, nella sua forza e prodigalità: «è questa potenza del fondo che l'arte si sforzerà di ridire: i poeti imitano la poesia della Natura, ci riconducono a quanto c'e di elementare negli elementi, che non richiede una psicoanalisi, Bachelard l'ha capito, ma una fenomenologia dell'apparire; essi infatti fanno apparire, nel movimento irresistibile dell'apparizione, l'insistenza dell'essere»[132]. Dalla Natura quale «fondo» inesauribile scaturiscono per Dufrenne un'infinità non categorizzabile di possibili, di grandi immagini quasi archetipiche, che il poeta coglie trasferendole nel linguaggio, linguaggio che gli viene offerto dalla Natura stessa, che è anzi la Natura stessa che parla attraverso i poeti recuperando una potenza espressiva del linguaggio che la prosa informativa e tecnica ha appiattito o distrutto. Il linguaggio infatti, il linguaggio dell'arte e in primo luogo della poesia, è «lo strumento dello scambio dell'uomo con l'uomo, dell'uomo con se stesso», ma soprattutto dell'uomo con il mondo «attraverso la mediazione del segno analoga a quella dell'a priori che, insieme soggettivo ed oggettivo, è come un termine medio tra l'uomo e il mondo»[133].

In questa visione «mitica» della Natura, dove sembrano assenti caratterizzazioni negative, il poeta è quindi colui che, indifferente a problematiche filosofiche e gnoseologiche, si pone di fronte allo spettacolo della natura «con l'ingenuità dell'innocenza»[134], ingenuità che gli permette di superare il dualismo fra a priori esistenziali e a priori cosmologici cogliendo, attraverso il linguaggio, l'«idea-limite» (secondo un'espressione di D. Formaggio) in cui essi si fondano. Nel linguaggio del poeta sembra così apparire la Natura madre, l'originario mito vitale, l'infinita potenza di Gaia sempre gravida di vita.

L'instaurazione di questo mito ontologico non annulla tuttavia la validità dei risultati parziali ottenuti dalla fenomenologia dell'oggetto e della percezione estetica. Le loro minuziose analisi avevano infatti condotto a rilevare un'ambiguità nel rapporto fra soggetto e oggetto, ambiguità che viene risolta solo ricorrendo alla Natura quale fondante principio ontologico e «fondo» del loro significato. Infatti, scrive Dufrenne, «noi pensiamo che la fenomenologia possa mostrare l'uomo diviso fra il lavoro e il gioco, fra la scissione e la riconciliazione, fra l'infelicità e la felicità e che forse la metafisica può comprendere questa bipolarità attraverso l'esame dello statuto dell'uomo nella Natura. E ciò deve bastare a legittimare una riflessione sulla dimensione poetica dell'esistenza»[135].

«La fenomenologia di Dufrenne diviene così - come ha scritto J. C. Piguet - da descrittiva, trascendentale e da trascendentale, ontologica»[136]: attraverso gli a priori affettivi, cui si è giunti grazie a un lavoro fenomenologico, ci si apre alla Natura, che la poesia esprime nella sua infinita produttività. Poesia dove la polivalenza delle parole deriva dalla Natura stessa riflettendo la ricchezza delle grandi immagini che il mondo offre, esprimendo attraverso il linguaggio la necessità della natura, che è «la necessità secondo la quale un fiore sboccia o un animale gioca»[137]. Il soggetto della poesia è quindi il mondo stesso così come si presenta al livello della presenza, incrocio di possibili che si costituiscono attraverso lo slancio che una parola o un concetto possono dare loro. E il protagonista di questo riconoscimento ontologico è il poeta «ispirato», non l'uomo di mestiere, l'artigiano che conosce tutte le ricette della sua arte, ma il «vate» che non accetta che l'arte sia asservita a una dialettica che finisce per renderla schiava, il poeta romantico che lotta per affermare sul mondo la propria ispirazione. È infatti l'ispirazione - concetto che non è riducibile ad alcuna fenomenologia e che porta Dufrenne nell'alveo di un'improbabile e non sempre credibile «rinascita» romantica - che, con richiami espliciti al Maritain di Creative Intuition in Art and Poetry, conduce lo stato poetico alla Natura, rivela la Natura come presente nella profondità stessa dell'opera da fare[138].

La Natura ispirante non è quindi la natura naturata che ci circonda ma qualcosa di più profondo che le cose percepite non sono ma fanno intuire; le immagini che cogliamo percettivamente nella «presenza», senza poterle ancora rappresentare mediante operazioni intellettive, sono ciò che il poeta raccoglie e trasmette mostrando l'unità di uomo e mondo nella Natura:

«essere ispirato è essere sensibile a queste immagini; tenersi in comunicazione col fondo in una proto-storia dove l'unità non è ancora rotta; liberare queste immagini fissandole nelle parole che esse invocano; aprire da qui un mondo dove il lettore possa a sua volta penetrarle»[139].

La Natura tuttavia come essere bruto, originario, Abgrund è qualcosa di più del mondo e dell'universo che suo tramite vengono alla luce: è naturante, il reale nella sua potenza capace di un divenire, ordinato a una coscienza ispirata, poetica. Natura naturante dove la maiuscola ha molta importanza «perché indica non solo l'esteriorità, ma l'anteriorità del mondo in rapporto al soggetto; e significa anche l'energia dell'essere»[140]. È la Natura naturante il luogo in cui si radicano tutti gli a priori, essa stessa è l'a priori «prioritario», «idea-limite» che si esplica nel linguaggio dei poeti sfuggendo a ogni logica, formale o trascendentale, che vorrebbe mostrare le sue categorie costitutive e non ciò che essa è anteriormente ari ogni costituzione come profonda reminiscenza dell'origine, come ineffabile presenza radicata in un fondo originario che si annuncia fra noi nell'hic et nunc, nel naturato, nel mondo che appare nella sua massiccia presenza materiale.

L'uomo e il mondo, che sono soltanto suoi prodotti, hanno tuttavia la funzione essenziale di manifestare, con la loro presenza, la Natura stessa: e quindi essa si mostra come il luogo della loro unione, come la capacità produttiva immanente, non teologica, cui la loro unione dà luogo, come a priori di tutti gli a priori materiali costitutivi. La correlazione intenzionale soggetto-oggetto presuppone dunque «una correlazione ontologica che subordina l'uomo come parte della Natura al divenire della Natura»[141]. E questo divenire è un infinito orizzonte di oggetti non ancora ridotto a mera «cosalità», materia che l'uomo deve sfruttare e violentare nella produzione: e un fondo concreto, legato alla corporeità dell'uomo, ad esso consustanziale nell'ebrezza della vita poetica, nella poesia «attraverso una conoscenza veramente estatica in cui si restaura l'indivisione prima dell'uo-mo e del mondo, in modo che la Natura si riflette immediatamente in un corpo glorioso dilatato alle dimensioni dell'infinito notturno»[142]. Il poetico, che designa l'espressività delle immagini, il poiein stesso della Natura, è quindi la categoria di tutte le categorie estetiche: «se si concepiscono queste categorie come degli a priori, il poetico può rivendicare d'essere l'a priori degli a priori estetici»[143], categoria che esprime il fondo, la Natura come a priori primigenio, l'origine quindi di tutte le categorie affettive che nell'arte si manifestano. La poesia è la Natura naturante che si è volta al linguaggio e il poeta colui che la Natura delega a creare nomi, «che la Natura ha voluto poeta perché essa voleva il linguaggio, perché vuole che l'uomo abiti il mondo come sua patria»[144]. Il poeta cerca in ogni luogo le sue immagini, anche nel «male» di cui parla Schelling, perché ovunque è Natura, quella Natura che si affermà anche nel momento in cui ci si illude di negarla: poetica è nel mondo la gloria dell'apparire, con la leggerezza e la felicità che sempre accompagnano il sensibile che appare; ma è anche «poieticità» -simile più all'ispirazione romantica che al razionalismo di Valéry - dove si annulla, nel possibile divenuto necessità produttiva, qualsiasi considerazione relativa sia alla storicità della poesia (per cui non esiste una Poesia ma generi e poeti, nella sua storia e storicamente radicati) sia alla dimensione culturale della natura, dove il negativo deve apparire in quanto tale così come appare in noi e fuori di noi. Vi è nella Natura una dialettica che, dopo Feuerbach e Marx, non è riducibile alla sua romantica «poeticità» o agli impulsi desideranti del surrealismo di Eluard. E vi sono nella poesia concetti, costruzioni, vera dialetticità con la filosofia che la Natura, naturante o naturata, rischia di portare, come accade in Maritain, su un piano mistico, confuso, inavvicinabile per il pensiero ed afferrabile da un sentimento che è in realtà vaga emozione priva di oggetto preciso.

È piuttosto un altro lato della filosofia della Natura di Dufrenne che merita di essere messo in rilievo, un lato più fecondo sviluppato nel saggio Pour une philosophie non théologique e nel recente Inventaire des a priori, dove si sottolinea l'assunto «materialistico» che sta a base e a risoluzione della fenomenologia di Dufrenne. Infatti, anche nella filosofia della Natura, egli si fa partigiano, sia pure con un linguaggio non sempre condividibile, di una «filosofia della presenza» (con cui si era aperto il secondo volume della Phénomenologie de l'expérience esthétique), presenza intesa come il porsi hic et nunc del reale prodigo e imprevedibile, dono che non implica donatore, che non richiede alcun gesto creatore esterno se non quello dell'uomo che abita questa potenza. Una filosofia non teologica, scrive Dufrenne, sa che non bisogna attendersi una parusia, sa che la presenza è data immediatamente nella sua materialità sensibile: è la presenza dell'originario, della Natura come potenza in cui si fonda sempre di nuovo il patto fra la percezione e il mondo. E tutto ciò «oggi è l'arte che ce lo rivela - e che ci guarisce dalla religione; non soltanto dalla teologia, ma dal sentimento e dal comportamento religiosi, dall'esperienza che suscita l'istituzione e ispira il pensiero teologico»[145].

L'idea di Natura appare qui come un 'idea limite «in quanto esprime ciò che è al di qua di ogni correlazione con uno sguardo o un atto umano, ciò che sfugge ad ogni discorso: il mondo che non è ancora per l'Io, né a fortiori attraverso l'Io, il mondo prima dell'uomo, che produce l'uomo invece d'essere da lui costituito»[146]. Un mondo che, tuttavia, solo nel naturato può essere conosciuto e riconosciuto, in una natura naturata che si fa attraverso «mondi di cose poetiche e d'arte - del senso delle cose, della loro poeticità intrinseca e dell'arte stessa». «Tutte produzioni - scrive D. Formaggio - che, fin da. dentro il cuore agente di questa natura, vengono generate e costituite, per tramite degli a priori materiali, nel poetico»[147]. Filosofia della presenza significa ora che la Natura non è costituente come il cogito husserliano, non è un dio creatore che opera come un demiurgo: physis è piuttosto Gaia, la Terra-madre che dà nascita, caotica opacità che diviene nel mondo ordine cosmico, rinnovantesi intenzionalità precategoriale che, respingendo le prospettive heideggeriane, presenta l'ontologia non come «teoria dell'essere» ma come il significato fenomenologico dell'esperienza, da ricercare e disvelare nell'incontro preriflessivo fra l'io e il mondo, fra l'uomo e la sua «terra».

La filosofia della Natura si presenta così come il tentativo di giustificare la forza stessa del possibile, la potenza originaria che non è creatrice nel senso teologico del termine ma che è il «radicamento» di qualsiasi oggetto che appare nella sua struttura a priorica in un fondo necessariamente producente, in un principio di attività che dona senso, che dà un senso a quella stessa fondazione di cui hanno parlato Husserl e Merleau-Ponty e che solo nella percezione si compie. La Natura non è solo la madre, l'utero misterioso e proteggente, la terra nascondente: è l'attività del possibile, di quella possibilità di cui parla Spinoza e che Alain vedeva concretizzarsi nella materialità delle opere d'arte. La Natura, nell'ultimo Dufrenne, e attività che anima la storia perché nel possibile vive un desiderio che tutto trasmuta e che è, in primo luogo, desiderio di un nuovo mondo, di una nuova poeticità che cambi il sistema, di un nuovo sentimento che renda veramente connaturali l'uomo e i suoi oggetti, che mostri nella comune qualità ontologica il radicamento nella Natura. E la Natura si leggerà allora in questi oggetti, negli atti stessi di ogni azione ispirata da questo sentimento di connaturalità, da questo comune desiderio.

L'itinerario di Dufrenne sbocca allora, come già si era notato, sull'etica e l'esigenza etica prende oggi, nella società alienata, una posizione politica «perché si tratta sempre, per l'individuo come per il gruppo, di ritrovare il naturante sotto il naturato, cioè sotto ciò che il sistema sociale snatura»[148]. Ogni azione non conformista, ovvero conforme al sistema, testimonia una risalita verso l'originario:

«è nelle vicinanze del naturante che è invitata ad essere naturante, a scoprire, sotto il naturato che la nasconde, un possibile la cui potenza si comunichi a chi lo scopre. Ciò che è letto sul mondo, perchè fa provare un intollerabile che è impossibile, ma anche presentire un possibile che è desiderabile, si appella alla nostra azione, a volte sino a conquistarci»[149].

L'originario deve così lasciarsi vedere perchè il desiderio del nuovo, di una nuova storia, di un'utopia come liberazione dell'uomo e dell'arte abbia il sopravvento:

«bisogna che intervenga l'immaginario per 'rinaturare' il reale restituendogli l'aura di cui lo spoglia la rappresentazione; bisogna che il sentimento ci renda sensibili all'Essere bruto come focolare dei possibili: bisogna infine che gli a priori specifici del sentimento ci apra-no alle qualità affettive attraverso le quali questo Essere si lascia presentire. Una filosofia dell'azione si appella ad una filosofia della Natura»[150].

La Natura instaura così un nuovo «sentimento del memorabile» come ciò che, trasmesso e celebrato, rende sempre presente all'uomo il suo radicamento, la sua origine, l'alleanza ontologica con il mondo, la compartecipazione al sentimento della Natura che «non richiede né l'evasione né il rifiuto della civiltà» [151]ma trova anzi la storicità nel suo apparire nel tempo e sopra il tempo, nell'energia poietica dell'arte dove la presenza esprime qualità affettive che il sentimento scopre fondate in noi stessi.

Dufrenne quindi, all'interno di un pensiero straordinariamente ricco, dove si incontrano estetica e fenomenologia, non solo porta alla sua più matura conclusione le tendenze sia analitiche sia instaurative dell'estetica francese - quelle tendenze che si erano incarnate in Bayer e Souriau - ma apre anche una nuova «stagione» per la estetica stessa dove, abbandonata l'iniziale opzione per un'esclusiva «estetica dello spettatore», si volge all'esame della prospettiva utopica implicata in ogni forma di creazione, e in particolare in quelle creazioni selvaggie che hanno in sè la forza instaurativa dell'utopia. In queste indagini, che verranno esaminate nel capitolo che segue, Dufrenne rivela forse la sua vera personalità di filosofo che, secondo M. Saison, può essere ben inquadrata attraverso la frase con cui John Cage definisce se stesso: «Io sono per la molteplicità, l'attenzione dispersa e la decentralizzazione»[152]. Dufrenne ha infatti nella sua personalità di filosofo qualcosa di anarchico, che rivendica con il sorriso e un fanciullesco orgoglio, che vieta una «riduzione in formule» della sua filosofia, dove forse domina, al di là dei vari richiami testuali, quella stessa grande esigenza «etico-ihstaurativa» che percorre tutta l'estetica francese dalla fine dell'Ottocento sino a oggi.

Il pensiero infatti non rimane mai in Dufrenne «astratto» ma èsempre «per l'uomo», collegato alla sua vita concreta, all'affermazione della sua dignità spirituale nel mondo, a quella dignità che il «potere tecnocratico» e le sue ideologie tentano quotidianamente di sottrargli. L'estetica come la filosofia della Natura hanno in lui lo scopo di delineare, attraverso l'arte o la politica, il potere conoscitivo e creativo dell'uomo nel friondo e nella societa: dal libro su Jaspers a Subversion-Perversion, l'uomo rimane il protagonista, l'uomo come soggettività concreta, come personalità dotata di volontà e desiderante. La difesa dell'umanismo dipende quindi, in lui, dalla filosofia della Natura e dall'estetica che ne costituisce la necessaria introduzione.

Un'estetica che, senza dubbio, sarà molto difficile definire come «fenomenologica», dato che della fenomenologia di Husserl ignora o muta troppi elementi fondamentali e primari. Il suo vero fondamento teoretico è piuttosto costituito dalla fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty (con venature del soggettivismo sartriano), una fenomenologia che ha comunque scordato l'Husserl cosiddetto «eidetico» per volgersi soltanto alle sue ricerche costitutive «in atto» ed anche qui operando «censure» e «integrazioni» che, se comprensibili dopo la lettura di Bayer e Merleau-Ponty, rischiano in ogni caso di limitarne e stravolgerne il senso. Il vero soggetto della costituzione, che si rivela poi un autogenesi ontologica, è infatti una esistenza in situazione mondana, un soggetto empirico, a volte psicologico: il soggetto di Sartre, di Merleau-Ponty, il soggetto che rimane inindagato nell'estetica francese, cosi come inindagata è una prospettiva che ricerchi la genesi storica e intersoggettiva dell'arte, la prospettiva in cui può formarsi un'idea di artisticità come dimensione fondamentale della storia stessa. L'estetica di Dufrenne, come quella dei suoi predecessori, rischia così sempre il «formalismo», dove l'interesse prioritario è per l'involucro esteriore dell'opera d'arte, per gli aspetti in cui appare e per le categorie che coinvolge senza guardare in modo approfondito ai contenuti specifici che l'autore e la storia hanno nel tempo in essa depositato.

In questa critica generale di fondo trovano forse terreno le ambiguità che abbiamo riscontrato nell'opera di Dufrenne, da quella relativa alla considerazione astratta del pubblico sino a quella della «verità» dell'opera, postulata ma non dimostrata in atto nella genesi dei suoi significati affettivi e concettuali. L'analisi stessa della percezione e della percezione estetica, che acquista per la prima volta un fondamentale ruolo centrale in una meditazione sull'arte, invece di sviluppare la ricerca sul piano dei riempimenti collegati agli atti percettivi e alle loro modificazioni, si volge a individuare nel solo sentimento lo strumento per afferrare l'espressività, cioe la verità dell'opera d'arte, un sentimento di cui non abbastanza si sottolinea, contro Kant e Basch, la portata intersoggettiva, l'appartenenza a una realtà umana e storica in cui, insieme agli atti soggettivi, si pongono le opere nella realtà della loro presenza e tutte le realtà storico-sociali che in ogni opera sono coinvolte. Tale complessità di ricerche se ha come punto iniziale la determinazione degli «a priori materia. li» che costituiscono la realtà affettiva dell'opera, del creatore e del ricettore, non può venire ad essa limitata sia sul piano della descrizione sia su quello della ricerca del senso e della fondazione ad essa collegato. Il termine stesso a priori, anche se sostenuto da una lunga tradizione e rinsaldato dalle ricerche di Scheler, cui però Dufrenne si avvicina in modo più generico di quanto potrebbero far credere i frequenti richiami, suscita qualche perplessità tanto che sembra lecito chiedersi se sia il caso di mantenerlo «in un contesto ormai tanto diverso dall 'originario kantiano»[153].

L'a priori è infatti variamente caratterizzato non attraverso la determinazione delle regioni materiali cui appartiene quale legge intrinseca al campo ma, in modo incostante ed estemporaneo, come qualità soggettiva, struttura oggettiva dell'opera d'arte, significato o valore. Tale enigmaticità del piano trascendentale viene poi trasportata su quello metafisico e ontologico della Natura, dove la filosofia si trova costretta a cedere il passo alla poesia, unico strumento capace di cogliere il sentimento del fondo, dell'Abgrund schellinghiano dove il reale intero - e non solo l'arte - ha la sua origine. Natura che è insieme momento di riconciliazione e forza creatrice, a priori degli a priori e intrinseca poieticità del reale. Tuttavia, nota Lyotard è soprattutto il primo aspetto a venire alla luce in Dufrenne: «la tesi della connaturalità della poesia e del mondo riposa inevitabilmente su una certa idea poetica che privilegia il suo potere di riconciliazione e ignora la sua forza critica di rovesciamento»[154]. Di conseguenza, come nota anche Formaggio, l'opera poetica si volgerà sempre alla rêverie (o al rêve) del mondo ignorando le violenze che in esso sussistono, al corpo accarezzato e sedotto dalle «belle forme» e non al corpo «capace di avere un orecchio per le disarmonie i glissandi, gli urti», «un corpo che possa affrontare l'inconciliazione senza dolcezza»[155].

Queste critiche, a nostro parere più che giustificate, trovano però in Dufrenne una risposta che, oltre a riportare il suo pensiero sulla «strada reale» della percezione e del suo valore fondante per l'esteticità, rendono chiari in lui sia l'influsso dell'estetica francese attenta alla realtà oggettiva delle opere e alla forza dell'instaurazione, sia l'inserimento nelle sue problematiche in quella «dimensione desiderante» che proprio Lyotard ha visto in opera nel discorso e nelle immagini dell'arte. L'originaria «estetica dello spettatore», presente nella Phénoménologie de l'expérience esthétique, lascia ora spazio, senza nulla di essa rinnegare ma anzi ancora risentendo l'influsso di Bayer, alla realtà indubitabile delle opere. Infatti,

«per quanto si estenda oggi il dominio dell'arte, vi appaiono sempre delle opere. Ma non confiscano l'apparire: con esse, in esse, sorge il senso. Nello stesso momento in cui si rivelano, rivelano qualche cosa. Accedono alla luce, ma sono esse stesse luce: mostrandosi, mostrano»[156].

Il vero dire dell'arte è dunque un mostrare e l'apertura dell'opera è la sua espressività: se esiste uno «statuto dell'estetica» esso è nell'oggetto che apre al mondo il suo senso espressivo, nell'opera d'arte che rivelando al sentimento, alla percezione, la sua intrinseca struttura affettiva mostra in sé la Natura come il principio del divenire, la potenza del possibile, la pienezza del reale. Natura naturante che a noi si offre soltanto nel naturato, «vale a dire nel mondo che è nato insieme a noi, con il quale siamo connaturali, che costituisce sempre il correlato della nostra coscienza; non ci è dato risalire al dì qua dell'apparire per vedere il fondo che ci porta, che si dà solamente dandoci la luce dello sguardo»[157]. Nel naturato tuttavia sempre di nuovo pre-sentiamo il naturante, nell'ispirazione che è in primo luogo il riconoscimento - l'intuizione, direbbe Spinoza - della consustanzialità con la Natura. Il mondo possibile è così, per Dufrenne, un possibile del mondo, di quel reale che per noi è il mondo: e ciò significa almeno che il reale non è determinato una volta per tutte, che potrebbe essere diverso, che sempre si rinnova nelle opere d'arte, nella «surrealtà» del reale che in esse vive e si esprime e che è anche la nostra stessa «carne»: «così, che si tratti dell'essere dell'opera, della praxis dell'artista o dell'immaginario che è l'aura del percepito, ovunque intuiamo la poiesis della Natura». La Natura come fondo è al centro di tutti i possibili, sia positivi sia negativi, «può generare la guerra come la pace: una filosofia della Natura non deve essere ottimista». D'altra parte il fine della Natura non ci è estraneo , l'arte non diviene in un mondo separato dal nostro poiché «spetta proprio all'uomo vivere la Natura come mondo, generare il possibile che si propone nel reale»[158].

 

Note

[129] M. Heidegger, Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1968, p. 21.

[130] M. Dufrenne, Brève note sur l'ontologie, in «Revue de Métaphysique et de Morale», 1954, n. 4, p. 404.

[131] M. Merleau-Ponty, Husserl et la notion de Nature. Notes prises au cours de M. Merleau-Ponty par X. Tilliette (1957), in «Revue de Métaphysique et de Morale», 1965, n. 3, p. 256 e p. 264.

[132] M. Dufrenne, Inventaire des a priori, cit., p. 71.

[133] Ibid., p. 71.

[134] M. Dufrenne, La notion d'a priori, cit., p. 286.

[135] M. Dufrenne, Le poétique, Paris, P.U.F., 1963, pp. 1-2.

[136] J.C. Piguet, Esthétique en dehors des pays anglosaxons et de l'Italie, in AA.VV., La philosophie au milieu du vingtieme siècle, vol. III, Firenze, La Nuova Italia, 1958, p. 87.

[137] M. Dufrenne, Le poétique, cit., p. 37. La posizione di Dufrenne appare qui antitetica a quella esposta da Sartre nel noto scritto Que c'est que la littérature, che aprì un dibattito peraltro già antico (si pensi al Tradimento dei chierici di J. Benda), sull'arte «impegnata», coinvolgendo il «movimento» dell'estetica in modo molto marginale. Sartre sosteneva che pittura, musica e scultura non potevano essere impegnati, poiché tale «privilegio» spettava alla sola letteratura prosastica; non quindi alla poesia «che sta insieme con la pittura, la scultura, la musica» (J.P. Sartre, Che cosa è la letteratura, Milano, Il Saggiatore, 1976, p. 47). Dufrenne vede invece nella poesia un recupero del linguaggio e un suo uso «pieno», espressivo in tutti i suoi aspetti.

[138] Questa concezione dell'ispirazione poetica ci ricorda molto J. Maritain ma, ancor più, alcuni aspetti della poesia romantica e surrealista. Esempi del poeta ispirato così come è concepito da Dufrenne si potrebbero trovare in iloelderlin ma anche in P. Elaurd e J. Supervielle.

[139] M. Dufrenne, Le poétique, cit., pp. 155-6. È a questo punto evidente che lo stato poetico che Dufrenne ha descritto è ispirato da un'idea di poesia «che sembra giustificata da una buona parte della poesia romantica» ma che «è difficile da mantenere universalmente» (E. Casey, Le poétique in «Revue d'esthétique», 1966, n. 4, p. 318).

[140] M. Dufrenne, Inventaire des a priori, cit., p. 164.

[141] M. Dufrenne, Le poétique, cit., p. 164.

[142] M. Dufrenne, Inventaire des a priori, cit., p. 235.

[143] M. Dufrenne, Le poétique, cit., p. 181.

[144] Ibid., p. 185.

[145] Ibid., p. 56.

[146] M. Dufrenne, Inventaire des a priori, cit., p. 165.

[147] D. Formaggio, M. Dufrenne, la Natura e il senso del poetico, in «Fenomenologia e scienze dell'uomo», 1982, n. 2, p. 11.

[148] M. Dufrenne, Inventaire des a priori, cit., p. 316.

[149] Ibid., p. 316.

[150] Ibidem.

[151] Ibid., p. 207.

[152] M. Saison, M. Dufrenne: imaginaire et anarchie, in AA.VV., Vers une esthétique sans entrave, Paris, U.G.E., 1975, p. 11.

[153] D. Formaggio, L'idea di artisticità, cit., p. 271.

[154] J.F Lyotard, Discours/Figure Paris, Klincksieck, 1971, p. 293.

[155] Ibid., p. 294.

[156] M. Dufrenne, Arte e natura, in M. Dufrenne-D. Formaggio, Trattato di estetica, vol. II, Milano, Mondadori, 1981, p. 40.

[157] Ibid., p. 45.

[158] Ibid., p. 48.