3 - Arte e politica

 

Nella Phénoménologie de l'expérience estétique Dufrenne aveva colto la dimensione sociale dell'arte attraverso la considerazione del pubblico, che rimaneva tuttavia nozione piuttosto vaga e indeterminata, riferita soltanto a uno spettatore «ideale» che percepisce il manifestarsi dell'opera d'arte. La «svolta» verso la teorizzazione di una Natura naturante aveva poi rivalutato il lato produttivo della esperienza estetica che apriva nuovi orizzonti nella ricerca, che sempre si rinnova, di ritrovare il naturante sotto il naturato. Infatti, scrive Dufrenne,

«il nostro itinerario sbocca sulla politica - o sull'etica, ma è la stessa cosa - perché si tratta sempre, per l'individuo come per il gruppo, di ritrovare il naturante sotto il naturato, cioè sotto ciò che il sistema sociale snatura. Ogni azione che non sia semplicemente conformista, e che sia essa stessa in qualche modo naturante, testimonia una risalita verso l'originario: è nelle vicinanze del naturante che è invitata ad essere naturante, a scoprire, sotto il naturato che la nasconde, un possibile la cui potenza si comunichi a chi lo scopre»[13].

Sotto il reale che Viene letto sul mondo, addomesticato e violentato, l'originario deve lasciarsi ancora intravedere per «rinaturare» il reale attraverso l'immaginario: il sentimento deve renderci sensibili all'essere bruto come focolare di possibili aprendo negli oggetti qualità affettive che lascino presentire l'essere. In questa dinamicità, come afferma Dufrenne nell'Inventaire des a priori, «una filosofia dell'azione si appella a una filosofia della Natura»[14]. Il «prereale» della Natura è la radice da cui può avere inizio la pratica instaurativa dell'azione politica, un azione che sarà «naturante», che mostrerà possibilità «altre», ignote al sistema e ai suoi padroni, ai suoi ideologi e mandarini; e sarà l'arte, l'artisticità diffusa nella singolarità delle pratiche, a trasformare il politico e il sistema, a instaurare l'utopia, a sovvertire le regole istituzionalizzate.

Questa posizione è stata senza dubbio influenzata dal «grande rivolgimento» che la rivolta del 1968 ha portato nella società francese, malgrado il suo sostanziale fallimento. Come scrive il sociologo P. Gaudibert, «la crisi del maggio 1968 ha avuto una funzione rivelatrice, in quanto ha fatto luce su tutte le strutture esistenti, rivelando l'impensato delle istituzioni e delle imposture degli apparati (inconscio sociale)» e mostrando a tutti, «nella folgorazione di un momento eccezionale», il loro legame con l'ideologia della borghesia dominante[15].

Dufrenne, culturalmente estraneo al folklore esistenzialistico della nausea [16] e volto a un gioioso «panteismo», appare qui in affinità con alcune posizioni surrealiste, in particolare con il poeta P. Eluard, in cui cogliamo la medesima «manie de vivre» e un uguale profondo sentimento di comunione dell'uomo con tutte le cose. Su questo «fondo» culturale in lui già presente (e attivo sin da Le poétique) ha agito in modo positivo quello spirito surrealista che è trapassato da Breton al movimento studentesco del «maggio», riscontrabile anche nel notissimo slogan «l'immaginazione al potere»[17]. Il desiderio di criticare la società capitalista e i suoi ideologues, «ritrovando l'uomo» da loro occultato, vede tuttavia Dufrenne precedere, sia pure di pochi mesi, i moti studenteschi. Nel 1968 viene infatti pubblicato il saggio Pour l'homme che si propone «di evocare l'antiumanismo proprio alla filosofia contemporanea, e di difendere contro di esso l'idea di una filosofia che potrebbe avere cura dell'uomo»[18].

I primi «bersagli» polemici saranno dunque tutti quei pensatori che, come Heidegger, mantengono l'uomo subordinato rispetto all'essere, riducendolo a servitore o a testimone. Questo asservimento, che conduce a una progressiva scomparsa dell'umanità, trova in Francia il suo maggiore rappresentante, a parere di Dufrenne, in Michel Foucault, per il quale l'uomo è soltanto un invenzione linguistica, figura evanescente «in un sistema temporaneo di concetti», «essere finito che esiste veramente solo per il tempo in cui il sistema lo chiama, lo fonda e gli conferisce un luogo privilegiato» [19]ma in seguito costretto a scomparire all'interno del sistema. Allo stesso modo Althusser, con la sua lettura formalista e strutturalista di Marx, ha voluto eliminare in lui qualsiasi traccia di «umanismo», Levi-Strauss ha ridotto l'individuo a strutture antropologiche e Lacan ha «devitalizzato» il reale per mostrare che solo il linguaggio costituisce l'uomo.

Tutte queste filosofie sono, in verità, molto differenti fra loro ma hanno un fine comune, un fine perseguito con tale costanza che può persino apparire «che a rinnegare l'uomo la filosofia oggi prospera»[20]. Ma è una prosperità ingannevole: la filosofia non può adagiarsi in tale quietismo in attesa di morire, non deve interessarsi all'uomo solo negativamente, rinnegandolo. La filosofia deve invece tornare all'uomo; è questo un compito etico, un dovere morale: provocare l'uomo perché sia uomo, uomo che non è mero concetto o segno ma un essere al mondo, un sentirsi presso di sé nel mondo, corpo vivente, vissuto, consustanziale a quel mondo nel cui ambiente vive, evidenza «irrecusabile e prima» che si riconosce in ogni gesto, in ogni azione dell'altro essere umano. L'intersoggettività si costituisce così su un piano culturale che è una «seconda natura» dove l'uomo compie volontari atti intenzionali verso i suoi simili e verso il mondo comune degli oggetti cercando tutte le dimensioni correlate dei loro valori costitutivi. E cogliere questi valori significaper l'uomo impegnarsi nel mondo, nell'opera della Natura (Souriau avrebbe detto «dell'instaurazione»), essere chiamato verso l'azione. L'appello che il mondo lancia all'uomo deve essere raccolto, contro le tecnocrazie e le burocrazie dei sistemi contemporanei, contro le istituzioni che soffocano la verità del reale: «per il cittadino di un nuovo mondo può ancora risplendere il fuoco divino della bellezza»[21].

In questa lotta, che ricorda, su un altro piano, la polemica dell'ultimo Husserl contro l'obiettivismo moderno, ma anche l'«umanesimo integrale» di Maritain (che mette in luce il fondo di religiosità né dogmatica né fideistica presente in Dufrenne) e l'utopia di Bloch e, soprattutto, Marcuse, il fine di Dufrenne è mostrare l'importanza dell'azione dell'uomo, della sua capacità creativa, del suo desiderio di cambiare la vita, di restituirle un senso contro le tecniche che la vogliono strumentalizzare o metterla a tacere nell'attesa della morte.

La politicizzazione dell'arte verso la quale tende Dufrenne in Art et politique del 1974 è «una presa di coscienza e l'esercizio di una funzione critica» da parte dell'artista: l'arte contemporanea non è morta, anche se numerosi sono i sintomi che ne rivelano le malattie, non è morta perché proprio la sua politicizzazione, ovvero il suo impegno nel campo sociale, ne mostra l'intima salute, il desiderio di autoaffermazione, la resistenza alle aggressioni dell'ambiente sociale, il potere di crearsi da sé le proprie norme. Bisogna tuttavia non equivocare sul termine «politicizzazione», che non è asservìmento totale a un partito o ad una ideologia (come, in definitiva, si era ridotto ad essere l'impegno anni sessanta) ma significa «impegnarsi nell'azione politica per orientarla e al limite per estetizzarla, senza per nulla subordinare la prassi artistica alla prassi politica»[22]. L'impegno politico può oggi manifestarsi in modi sempre nuovi, a volte contraddittori, per esempio proclamando la morte dell'ar-te borghese, rifiutando i mercati dell'arte, inserendo la pratica artistica, come voleva Alain, nella prassi quotidiana, facendola diventare una festa che rivela in ogni gesto la naturalità naturante dell'uomo, mostrando che, se non può fare la rivoluzione, l'arte è almeno in grado di cambiare la vita.

Arte e politica sono due istituzioni inserite nel sistema sociale e, in quanto tali, si trovano collegate necessariamente all'ideologia, considerata come «ciò che esprime e giustifica il sistema o, di fatto, la borghesia in posizione dominante»[23], falsità cui bisogna opporre, attraverso l'arte, una nuova «genealogia» della verità. L'antidoto che permette di restituire all'arte la sua innocenza corrotta dall'ideologia è l'utopia, che mira non a «purgare le istituzioni ma a distruggerle» proponendo un altro pensiero per un'altra vita.

L'istituzionalizzazione dell'arte si è svolta in un procedimento storico che le ha assegnato sia uno statuto sociale con tutta una serie di «microistituzioni» quali strumenti (artisti, clientela, pubblico, materiali, ecc.) sia un'idea ordinatrice di Bello in grado, da sola, dì caratterizzare gli oggetti attribuendo loro un valore proprio, indipendente da qualsiasi altro. Come l'arte, e in modo molto più evidente, anche la politica si è istituzionalizzata, in primo luogo nello Stato, che è l'istituzione per eccellenza, dove il potere politico si radica rivendicando la propria autonomia nei confronti di altri poteri della società (magistratura, polizia, ecc.). Dufrenne vuole dunque cogliere queste due istituzioni, generalmente considerate come relativamente autonome, nei punti che segnano la loro «comunanza», nel loro comune inscriversi in una totalità sociale e nel mondo della cultura. In superficie la relazione fra gli «operatori» delle due istituzioni sembra di indifferenza, più formale che reale da parte del politico, più sincera, spesso effettiva, dal lato dell'artista. Ma le vere e proprie relazioni che possono instaurarsi tra arte e politica sono relazioni di subordinazione, dell'arte alla politica ma anche della politica all'arte.

Il lato che, tuttavia, interessa in modo particolare Dufrenne non è la politicizzazione dell'arte, bensì l'estetizzazione della politica (in senso opposto a quello di Benjamin per quanto riguarda la valutazione del fenomeno) [24]e il concetto di utopia ad esso correlato. L'utopia «non pone l'arte e la politica come due campi separati», non è un pensiero scientifico e rigoroso, «ma e il pensiero che feconda l'impegno e l'avvenire dell'uomo nel mondo»[25]. La descrizione dell'utopia di Dufrenne, «mettendone in evidenza il carattere di irriverenza e di invenzione, e la sua lontananza dal pensiero (dalla riflessione, dalla filosofia) per sottolinearne la parentela con l'azione (il bisogno, il gesto, il desiderio)» [26]mostra di identificarsi con la potenza generatrice del possibile, il pensiero del possibile che si annuncia nella realtà del naturato. Non è quindi, come le utopie «classiche», che descrivono luoghi o domini lontani dalla nostra realtà, ma è il luogo stesso dove noi abitiamo che vuole essere rivestito da un'altra vita, che «si radica nella realtà, e soprattutto nella società dove, come dice Marcuse, il principio di realtà è divenuto il pincipio di rendimento»[27]. È questa un'utopia «calda» [28]che nulla ha comune con le fredde utopie tecnocratiche ma che anzi stimola alla rivolta, alla reazione contro il sistema sociale. Richiamandosi all'Anti-Edipo di Deleuze e Guattari, Dufrenne sostiene che la molla dell'utopia va ricercata nel desiderio, desiderio di un'altra vita in un altro mondo, desiderio di giustizia, che è sempre legato alla rivolta, alla lotta attiva contro l'ingiustizia e l'iniquità.

Sperare nella realizzazione di questo desiderio è sperare in sé, nella propria capacità all'azione, culmine dell'utopia, che può anche assumere forme violente, di una violenza non distruttiva e repressiva bensì «costruttiva», «potere di affermazione, apertura di un avvenire» [29]. È quindi ovvio che l'utopia è oggi andata non solo oltre le interpretazioni marxiane di Althusser ma anche oltre lo stesso Marx e dubita che la conquista dello Stato attraverso la rivoluzione, e l'instaurazione di una nuova «ortodossia», sia il vero fine della pratica sovversiva. Infatti «la strategia dell'utopia è sostituire alla rivoluzione che si farà domani delle azioni che si fanno oggi, immediate, puntuali»[30]: dappertutto contestazione, sciopero selvaggio, assenteismo, rifiuto dei segni esteriori di rispetto verso superiori di ogni specie e verso gli oggetti consacrati come opere d'arte, lotta ideologica, libertà sessuale, riso beffardo e gioioso. Saranno queste «surreali» azioni utopiche, con la loro parcellare e permanente rivolta contro il sistema, che faranno esplodere la politica in quanto istituzione.

Attraverso l'azione utopica, insieme alla politica, troverà la sua dissoluzione anche l'arte come istituzione, travolta dalla verità prima del vissuto, dalla sua comunicazione con il «fondo». Bisogna quindi restituire all'arte un senso e una funzione e ciò può accadere solo se le viene nuovamente attribuito quell'alone di festa che possedeva presso i popoli primitivi, quel senso della bellezza come intensità dell'apparire, il «gesto pienamente gesto» «che si dà alla vista (e all'imitazione) come necessario e sufficiente»: «l'ordine messo in scena, teatralizzato dall'ideologia, non va più da sé, sotto il segno della necessità e dell'universalità; le essenze vengono mescolate, le competenze discusse, le virtù messe sotto accusa» e l'arte appare quindi esemplare per la pratica rivoluzionaria e «motore trainante» per «la rivoluzione»[31].

Il concetto di bello va dunque esteso dagli oggetti agli atti in modo tale che la rivoluzione alla quale l'utopia incita la produzione artistica sia anche rivoluzione formale, che distrugge per costruire, che fa morire una certa concezione dell'arte per restaurare l'Arte come risultato della Natura. Se questi processi si sono verificati per Schönberg, Picasso o Joyce, non per questo saranno preclusi per l'anonimo bricoleur, che sempre di nuovo inventa materiali, tecniche e procedure: e saranno veramente nuovi, veramente Utopici, solo all'interno di una serie di azioni che vogliano allargare il senso dell'arte e avere come fine una rivoluzione sociale che muti le condizioni della produzione. L'utopia non vuole infatti moltiplicare le opere bensi gli artisti o, meglio, i non-artisti che praticano arte[32], arte che sarà, nelle loro mani, autenticamente popolare, non più arte deteriore per le masse ma l'arte delle masse, da loro creata, inventata, trasformata in gioco attivo e desiderante, ebrezza dionisiaca della festa. Come scrive E. Fink, «giocando l'uomo non rimane in sé, nel chiuso cerchio dell'intimità della sua anima, egli piuttosto esce estetico da se stesso in un atto cosmico e interpreta il senso di tutto il mondo»[33].

Quest'arte che rifiuta la specializzazione non si lascerà più istituzionalizzare o gerarchizzare: sarà solo l'arte della gioia, un nuovo piacere pìu intenso «perché l'individuo ci si impegna e ci si perde più profondamente, perché non è solo divertito ma sovvertito: qualcosa si libera in lui»[34], ed è il desiderio, la gioia di fare. Anche lo sciopero, che è azione politica, può dunque essere «bello» e divenire con ciò avvenimento estetico poiché politico e artistico hanno, nella totalità sociale, lo stesso campo d'azione sino a identificarsi: l'utopico non si svolge nel celo ideale di un non meglio definito «desiderio» (come sembrano sostenere gli epigoni estremisti delle più argomentate meditazioni di Deleuze, Lyotard e Baudrillard) ma nella concretezza reale del mondo, nella «presenza» ben radicata del percepito, nel naturato come possibilità attualizzata del fondo.

Dufrenne evita di dare alle azioni utopiche una precisa connotazione di classe; afferma infatti che non sono utopici «per definizione» i gesti del proletariato dato che è bene combattere il sistema sui fronti più disparati. Bisogna inoltre evitare di cadere nell'utopismo e nei suoi miti radicaleggianti: non è necessario distruggere il sapere ma solo l'istituzione che l'avvolge, il sistema che è negazione concretizzata della giustizia. Già si sono avuti alcuni esempi storici di pratiche utopiche in atto: «i primi giorni della Comune, Rosa Luxemburg a Berlino, gli abitanti dei kibbutzs prima che Israele si americanizzasse, la presa del potere di Castro a Cuba, di Allende in Cile, la conquista delle parole in Maggio nelle strade delle città francesi Ma «ce n 'etait qu'un début, le combat continue»[35]. E perché la lotta continui realmente Dufrenne ritiene necessario volgersi all'arte, che è oggi emblema esemplare dell'utopia in quanto prefigura ciò che potrà essere realmente un'altra vita. Il sentimento non è quindi soltanto il vertice della percezione estetica, come appariva nel 1953, ma possiede anche, come scrive Dufrenne stesso, «incidenze» sociali e politiche:

«esso impegna l'uomo in un nuovo rapporto col mondo, lo pone sulla via di una pratica utopica; l'esperienza di un ritorno verso l'originario risveglia il desiderio di un mondo altro e costituisce forse il movente di una diversa pratica politica»[36].

La tematica utopica non è così radicalmente scissa dalla fenomenologia dell'esperienza estetica ma ne prosegue anzi le indicazioni finali, così come mostra che la filosofia della Natura non è statica ontologia sempre uguale a se stessa ma dinarnicità dell'azione, azione artistica e azione politica, unite da uno slancio «sovversivo» che «esprime la radicalità di un cambiamento che non introduce necessariamente un nuovo ordine, negazione della negazione»[37]. La filosofia della Natura, giungendo sul terreno della politica, la «estetizza» e fa di essa, liberandola dai vincoli partitici e istituzionali, una pratica veramente «utopica», un'arte nascosta, sempre pronta a rinascere in ogni atto dell'uomo. Il campo dell'artistico viene così esteso all'originalità nascente di tutte le azioni sovversive, quindi utopiche, azioni che vogliono spezzare la perversione del sistema non solo rifiutandolo ma anche nella prassi attiva per un mondo diverso.

Il desiderio di giustizia è per Dufrenne il motore - evidentemente etico - che fonda l'esteticità dell'azione politica e artistica, energia che anima l'individuo e che si concretizza nella sua immaginazione: giustizia «immaginaria» che non è affatto irreale (come l'immagine di Sartre) ma concretizza la sua forza sovversiva nell'azione contro l'ingiustizia e il potere che l'esprime. Per il suo carattere spontaneo e parcellare «la sovversione, pratica utopica, si distingue dalla rivoluzione, la pratica ispirata da un marxismo che si è affermato denunciando l'utopia»[38], e rivela, al di là di qualsiasi possibile schematizzazione ideologica (in cui è sempre possibile ricadere), che la sua vocazione è l'invenzione, la presa di potere da parte dell'immaginazione[39].

 

Note

[13] M. Dufrenne, Inventaire des a priori, cit., p. 316.

[14] Ibidem.

[15] P. Gaudibert, Azione culturale. Integrazione e/o sovversione, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 52. Sul problema della cultura francese di fronte ai moti del 1968 si veda A. Manesco, Arte e politica nell'ultimo Dufrenne, Verona, Clued, 1976.

[16] A. Manesco in Il problema dell'oggetto estetico. Alcune note su M. Dufrenne in «il verri», n. 7, 1977, nota che quando Dufrenne parla, in Art et politique, di jouissance il termine va contrapposto alla nausée sartriana. È tuttavia indubbio che l'ultimo Sartre èmolto vicino alle posizioni politiche di Dufrenne. Come lui, infatti, si definisce «anarchico» (ma un'anarchia al di fuori di qualsiasi movimento) in quanto sostenitore di una società senza poteri. E questa presa di coscienza, ancora implicita ai tempi della nausea, è stata portata alla luce dal 1968, primo movimento di «libertà in atto». Si veda J.P. Sartre, Autoritratto a sessant'an»i, Milano, Il Saggiatore, 1976.

[17] Il movimento surrealista morì «ufficialmente» nel 1968 quando la sua ultima rivista, «L'Archibras», sospese le pubblicazioni. In realtà il suo influsso sulla cultura francese era già venuto meno dopo la II guerra mondiale. Per quanto riguarda l'analogia con alcuni dei più noti slogans del Maggio 1968 essa risulterà evidente leggendo i Manifesti del Surrealismo di A. Breton, in particolare quello del 1924 (Vedi, a proposito, a cura di F. Fortini e L. Binni, l'antologia Il movimento surrealista, Milano, Garzanti, 1977).

[18] M. Dufrenne, Pour l'homme, cit., p. 9.

[19] Ibid., p. 42.

[20] Ibid., p. 117.

[21] Ibid., p. 252. Attraverso la pillola anticoncezionale e la bomba nucleare, «i due avvenimenti metafisici maggiori dei nostri tempi», a parere di Dufrenne, l'uomo è padrone del suo destino. Ma per affermarlo veramente deve esaltare la sua capacità creativa, prima mettendo in atto quel «gran rifiuto» che, sia pure usato per la prima volta da Whitehead, e utilizzato sia dai surrealisti sia da Marcuse, e poi lottando contro i poteri e i micropoteri del sistema.

[22] M. Dufrenne, Art et politique, Paris, U.G.E., 1974, p. 11.

[23] Ibid., p. 62.

[24] «Estetizzazione della politica» e un espressione usata anche da Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), Torino, Einaudi, 1966. Tuttavia egli intende con ciò l'ideale artistico perseguito dal fascismo ed espresso da Marinetti «che si aspetta dalla guerra il soddisfacimento artistico della percezione sensoriale modificata dalla tecnica». È dunque chiaro, ma anche un po' inquietante se si considera il precedente, l'opposto senso dell'affermazione di Dufrenne.

[25] M. Dufrenne, Art et politique, cit., p. 173.

[26] A. Manesco, Arte e politica nell'ultimo Dufrenne, cit., p. 65.

[27] M. Dufrenne, Art et politique, cit., p. 175.

[28] L'espressione 'utopia calda' richiama senza dubbio Ernest Bloch, autore che tuttavia non viene mai citato da Dufrenne. Bloch ha inserito all'interno del pensiero marxista la problematica dell'utopia concreta «implicata (...) nel materialismo dialettico», esteso campo «abitato dalla materia stessa come da un'essere in possibilità, come una potenzialità che genera, lungo il suo cammino, nuovi modi di esistere, fino alla 'naturalizzazione dell'uomo', all''umanizzazione della natura'» (E. Bloch, Karl Marx, Bologna, Mulino, 1973, III ed., p. 211). Riteniamo che sia possibile scorgere un'affinità tra questi due autori sottolineando però una grande differenza; Bloch infatti utilizza nella sua ricchezza l'apparato concettuale del marxismo. Dufrenne non ha invece alle sue spalle alcuna solida concezione dell'uomo e della società. Su Bloch si veda 5. Zecchi, Utopia e speranza nel comunismo, Milano, Feltrinelli, 1974.

[29] M. Dufrenne, Art et politique, cit., p. 205.

[30] Ibid., p.225.

[31] Ibid., p. 231 e p. 232. Sul tema della morte dell'arte Dufrenne ha scritto anche l'articolo Mal de siecle? Mort de l'art? (1964), raccolto in Esthétique et philosophie, tome I, Paris, Klincksieck, 1967.

[32] Vi sono qui echi marxiani, precisamente dell'Ideologia tedesca (Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 383) dove Marx ed Engels affermano che, nella società post-rivoluzionaria «non esistono pittori ma tutt'al più uomini che, tra l'altro, dipingono».

[33] E. Fink, Il gioco come simbolo del mondo, Milano, Lerici, 1969, p. 20. La festa era già stata inserita nel novero delle arti da Alain, al quale Dufrenne, evidentemente, ancora una volta si ispira.

[34] M. Dufrenne, Art et Politique, cit., p. 268.

[35] Ibid., p. 314. Si è lasciata in francese l'espressione finale perchè richiama un noto slogan del 1968 al quale senz'altro Dufrenne vuole qui richiamarsi.

[36] M. Dufrenne, Inventaire des a priori, cit., p. 293.

[37] M. Dufrenne, Subversion/perversion, Paris, P.U.F., 1977, p. 5 (esiste una trad. it., Milano, La Salamandra, 1978).

[38] Ibid., p. 148.

[39] Dufrenne offre qui anche una proposta politica come risultato della sovversione: è l'autogestione, che potrà creare una società in continuo progresso, dove vi sia un incessante crearsi di autoistituzioni, sempre messe in questione dalla rinnovantesi pratica sovversiva.