5 - Un'estetica della dispersione

 

 

Revault d'Allones e Passeron, pur nella tradizione di cui sono depositari, esercitano anche una certa funzione innovatrice: aprendo infatti l'estetica ai multiformi processi creativi, connessi metodo-logicamente con ambiti scientifici psicologici e sociologici, in primo luogo «liberano» le nozioni di oggetto estetico e di opera d'arte dalle griglie ideologiche e normative cui spesso la tradizione li costringe. Permettono inoltre una «valorizzazione estetica» degli stessi processi prassistici, correlati a un oggetto che non ha un valore «a priori» ma che si «fa» Valore come manifestazione di uno slancio creatore, di un fare che ha in sè anche una possibilità di «liberazione».

D'altra parte gli studi di Passeron e Revault d'Allones si presentano rivolti a singole poetiche o specificità artistiche e, in quanto tali, assumono una caratteristica che appartiene in modo evidente e riconosciuto agli studi pubblicati nelle due collane di estetica dirette da Dufrenne[84], dove si trasferisce nell'estetica quella «parcellizzazione» che Dufrenne stesso, nei suoi scritti «politici», aveva auspicato per le azioni sovversive. Fra lavori di semiologia, di critica d'arte, di poietica, di estetica filosofica, di storia delle arti l'unico centro possibile (se esiste un centro e se è lecito per noi cercarlo) è l'opera. L'opera che, come scrive J.P. Martinon,

«è il luogo in cui annodano la presenza e l'assenza, la partenza e il ritorno, la ripetizione e la trasgressione in un fascio intricato di cui le molteplici figure ci sono presentate per ingannarci e perché ogni conversione non sia, in definitiva, che un nuovo modo di porsi una maschera»[85].

 

È allora sull'opera nell'infinità delle sue manifestazioni che deve andare l'interesse dell'esthéticien, sulla opera e sull'oggetto in quanto hanno di «non finito», di non perfettamente riducibile a schemi intellettivi o su quegli autori che spezzano l'organicità armonica della tradizionale idea di bello. Avremo così gli studi di D. Charles sull'estetica del non finito in John Cage, quello della Andreani su un «antitrattato» di armonia, altri ancora sul nuovo cinema o sul nuovo modo di considerare la città. Si potrebbe dire, utilizzando una frase di C. Clément, che questo insieme di lavori (e l'attuale «Revue d'esthétique») «porta sull'e strutture immaginarie, mito e fantasma, studiate attraverso le loro diverse messe in scena: testuali, musicali, filmiche e pittoriche»[86].

Questa estetica, sia pure dispersa e frammentata, come vorrebbe fossero i suoi stessi oggetti, ha trovato in G. Lascault un suo teorico, che oppone alle certezze, alle definizioni e alle organizzazioni dei campi un discorso che aderisca maggiormente alla polemìcità polimorfa della cultura contemporanea, senza per questo rinunciare a quel «piacere» di fronte all'opera, riscoperto anche da Barthes in riferimento al testo letterario. Un piacere che nasce, scrive Lascault, «nello sfumato, nello sfilacciato, nel disperso, nell'impuro, negli abbozzi di descrizioni di particolarità che si rifiutano di venire generalizzate»[87]. Lontano dunque dalle certezze e dalle polemiche, come anche dalle esplicite implicazioni «sovversive» di Dufrenne e Revault d'Allones, un discorso estetico - uno fra gli altri possibili, precisa Lascault - può diventare «nomade», «vagabondo», «errante», «indeciso». Un programma, questo, che effettivamente sembra aderire al contenuto di numerosi saggi recentemente apparsi in Francia e che ha come scopo l'aderenza alla realtà «plurale» dell'arte contemporanea - come se l'estetica dovesse seguire, in qualità di strumento critico-descrittivo o critico-normativo, il divenire delle opere e come se l'intera produzione artistica contemporanea vivesse nell'incostante e nell'effimero, nell'imperfetto e nel non finito.

Una tale estetica si sente e si vuole modesta: nel suo rigettare ogni trionfalismo e ogni gerarchia esistente non ha una «strategia», non ha un programma, è attirata soltanto dall'impuro, da quelle opere «che non vogliono separare ciò che si chiama arte dalla nostra vita quotidiana»[88]; è un'estetica della Sensucht ma senza miti alle spalle della nostalgia e del ricordo delle «cose semplici» - un'estetica «crepuscolare», potremmo dire in Italia, pur chiedendoci se abbia ancora senso chiamare estetica, disciplina che ha ben precise origini filosofiche, una serie di incontri estemporanei, soggettivi, «impuri» con opere particolari che Suscitano «sensazioni multiple e diversificate», e non pongono in questione il problema dei livelli comunicativi delle opere stesse. Senza dubbio, per Lascault, questa e un'«estetica» per il suo ovvio legame con il mondo delle sensazioni, dei vari piaceri sensibili fusi insieme in sentimenti e idee; un'estetica tuttavia che, per la molteplicità di oggetti cui si rivolge, non ha un oggetto (un «tema») né una metodologia di ricerca. L'estetica, scrive Lascault, «ha a che fare con una molteplicità di singolarità, con una pluralità di eccezioni»: «essa non si pone il problema del bello nè quello dell'arte»[89]. E con ciò Lascault opera una rottura radicale, e quindi traumatica, con le estetiche definitorie e dogmatiche, siano esse «ufficiali» o «ribelli»: entrambe, infatti, «parlano dell'arte per evitare le opere», «fuggono insieme il plurale e la singolarità»[90].

Un'estetica «in atto», scrive ancora Lascault, «può essere riconosciuta nella pratica degli artisti e nelle tracce di tale pratica che costituiscono le opere»[91]. L'estetica è «della dispersione», è «dispersa», perchè è «poietica», perchè segue le opere, perchè si fa con le opere nella loro singolarità, senza preoccuparsi se tale «prassi» frammentaria e frammentata avrà un'analoga «teoria», ondeggiante e confusa in giudizi soggettivi, critici, psicologici: questa è l'arte oggi, questi sono oggi i campi dell'estetico e dell'artistico e nel loro mélange vanno descritti. L'estetica in atto vive quindi in tutte le opere visibili, nei collages, nei disegni, negli happenings, in una pluralità innumerevole che non è possibile ritrascrivere in tutta la sua ampiezza, nelle pieghe delle singole opere «artistiche», se non «artistiche» nel senso tradizionale del termine, estetiche nel loro offrirsi alla nostra sensibilità. È tuttavia indubbio che, ponendosi dal punto di vista della tradizionale «scienza estetica», è piuttosto difficile concepire un suo sviluppo organico nella frammentarietà di singole esperienze, prive di analisi genetiche specifiche relative al loro costituirsi intersoggettivo. In definitiva, raccogliere prospettive disparate sulle opere d'arte ha soprattutto somiglianze con le raccolte del positivismo, pur se oggi prive di ogni spirito sistematico. È comunque ammesso dallo stesso gruppo che si pone di fronte alle opere «senza ostacoli» e senza griglie concettuali prestabilite che gli oggetti nella loro empiricità offrono solo vedute parziali sulla realtà dell'oggetto senza comprenderne i rapporti costitutivi essenziali, la struttura teoretica fondativa. Struttura che, come scrive G. Simondon, «non è né esattamente oggetto né esattamente Soggetto»[92].

Il «negativo» - ovvero il «disperso», il «variegato» - diviene positivo solo se è capace di negarsi, ovvero se riconosce il- piano di ricerca empirico-poetica come'un primo momento di approccio, aderente agli incostanti impulsi delle arti contemporanee, verso una nuova considerazione della natura specifica dell'oggetto. È questo comune disegno di fondo che, al di là di divergenze a volte non indifferenti, avvicina fra loro Passeron, Dufrenne, Revault d'Allones e anche numerosi pensatori contemporanei, attenti' studiosi dei problemi della creazione e dell'espressione, come N. Grimaldi, J.P. Martinon, M. Saison, D. Charles, R. Court, M. Le Bot o F. Aubral[93].

Vi sono tuttavia altri motivi, oltre alla varietà e all'apparente mancanza di un fine teorico comune, che possono far definire la contemporanea estetica francese come una meditazione sulla «dispersione», e in primo luogo il mutato contesto storico della ricerca stessa, che sembra ormai rifiìutare una separazione, che di fatto ben esisteva sin dagli anni sessanta, fra cultura e filosofia dentro e fuori le università, tese da una parte alla conservazione di una tradizione filosofica, di cui si accettava il linguaggio, e dall'altra alle nuove correnti del pensiero, alle ideologie, alle polemiche di carattere politico. Se questa scissione viene meno con la fenomenologia - per limitarsi al solo lato «filosofico» di un problema più ampio - che nasce in Francia fuori dalle Università ma ben presto vi entra e che comunque può venire facilmente «adattata» alla preesistente estetica francese, tutto il problema si fa oggi più complesso, oggi che le principali tendenze del pensiero filosofico francese, semiologie, strutturalismi, «post-strutturalismi» di varia ispirazione appartengono a tradizioni culturali decisamente Opposte alla tradizione dell'estetica francese, e che gli stessi suoi attuali rappresentanti sembrano non accogliere o recepire con estremo sospetto. Se infatti in precedenza l'estetica francese si rivolgeva, per cercare una metodologia0 modelli di indagine, al pehsiero «classico» di Kant o Hegel o a moderni ormai «consacrati» come Brunschvicg, Bergson e Husserl, ora -cambiano decisamente anche i «maestri» assumendo i volti - trasfigurati da sempre nuove «letture» - di Marx, Nietzsche, Freud, degli strutturalisti (in senso ormai molto distante dai praghensi e Jakobson) e dei semiologi. In questo contesto anche i filosofi «classici» non possono più offrire certezze, tanto meno in un campo non ancorà «sistematizzato» come l'estetica. Così, per esempio, nella versione che ne offre Kojève (che costituisce un vero modello per generazioni di pensatori) «il pensiero hegeliano presenta certi tratti che potrebbero sedurre un nicciano: ha qualcosa dì avventuroso e di arrischiato, mette in pericolo la figura stessa di pensatore, la sua identità si trasporta al di là della misura comunemente considerata del bene e del male»[94].

La stessa tendenza e attenzione alla prassi, alla «concretezza» del filosofare - presente in Alain, Merleau-Ponty Dufrenne ma anche in Passeron e Revault d'Allones - lascia spazio «all'impero dei segni» che soppianta l'ambizione della fenomenologia francese a costituire una filosofia dialettica della storia su una fenomenologia del corpo e dell'espressione. La generazione che si mostra particolarmente attiva dopo gli anni sessanta, qulla stessa che Dufrenne attacca in Pour l'homme e in Pour une Philosophie non théologique, «denuncia un'illusione nella dialettica e rifiuta l'avvicinamento fenomenologico del linguaggio» [95]optando invece per un ripensamento dello strutturalismo. L'estetica, anche nelle sue manifestazioni «disperse» rimane dunque estranea ai vari «processi alla fenomenologia» da più parte intentati; anzi, forse per il suo carattere originario di «movimento» fenomenologico in fieri, si presenta oggi in Francia come un caposaldo che, riaffermando la «poieticità», continua a sostenere il valore del sensibile instaurato, della realtà «logica» dell'opera in un'epoca in cui le «decostruzioni» hanno preso il posto di quelle «descrizioni» che già Basch considerava necessarie per fondare un'estetica scientifica.

 

Note

[84]Le due collane di estetica dirette da Dufrenne sono, quelle pubblicate dagli editori parigini Klincksieck e Union Gènérale d'éditions. Per un'elencazione dei principali titoli di queste collane si veda l'appendice bibliografica.

[85] J.P. Martinon, Les métamorphoses du desir et l'oeuvre. Le texte d'Eros ou le corps perdu, Paris, Klincksieck, 1970, p. 240.

[86] C. Clément, Miroirs du sujet, Paris, U.G.E., 1975, p. 9.

[87] G. Lascault, Ecrits timides sur les visible, Paris, U.G.E., 1979, p. 10.

[88] Ibid., p. 12.

[89] Ibid., p. 13.

[90] Ibid., p. 14.

[91] G. Lascault, Arti plastiche, in M. Dufrenne - D. Formaggio, Trattato di estetica, vol. II, Milano, Mondadori, 1981, p. 215.

[92] G. Simondon, Du mode d'existence de l'objet tecnique, cit., p. 183.

[93] Le indicazioni dei principali testi di questi autori sono contenuti nella parte conclusiva della bibliografia (pp. 476-479). Notevole importanza per la nuova estetica in Francia riveste la «Revue d'esthétique».

[94] V. Descombes, Le méme et l'au tre, cit., p. 26.

[95] Ibid., p.93.