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CAPITOLO SECONDO

IL SENSO DELLA MUSICA

«Non datevi un'aria scura, come fanno gli ipocriti, che ostentano un contegno disfatto per far vedere che digiunano. (...) Per te, quando digiuni, incensati il capo e lavati il viso, perché il tuo sacrificio sia conosciuto non dagli uomini, ma dal Padre tuo che è lì, nel segreto».
(Vangelo di S. Matteo - Discorso della montagna)
Passaggio

Ci siamo più volte resi conto che nella condizione umana in cui ci troviamo la menzogna, la dissimulazione, la finzione e ogni sorta di malinteso sono dei fatti necessari. Anzi, essi costituiscono la tonalità dominante della nostra esistenza e della nostra vita. Noi siamo immersi totalmente nel regime dell'«obliquità», del «chiasmo», ossia dei «rapporti incrociati tra segno e significato, tra anima e corpo» (TV2,1, 224), nonché tra concetto e qualità, verità e bellezza, apparenza ed essenza. L'uomo e la sua coscienza non possono essere colti in piena chiarezza né tramite una forma univoca e unilaterale, nella quale sarebbe facile riconoscere completamente ogni intenzione e ogni significato dei loro segni esteriori. L'uomo invece è una forma mista, elastica e diffluente: l'uomo è transizione, forma senza delimitazioni, tensione sempre incompiuta tra poli opposti. L'umano non è mai localizzabile tra due estremità - dice Jankélévitch con accenti nietzscheani -, ma «esso non è neanche reperibile su un determinato piano intermedio tra il sovrumano e il subumano; a qualsiasi livello appaia esso è sempre di passaggio, fuggitivo come un bagliore...» (PI, 228-229).

In simile situazione il tempo costituirebbe ancora un'aporia, o in ogni caso una maledizione che non farebbe procedere di un passo il pensiero; di conseguenza la filosofia diverrebbe un'attività inutile, un movimento inconcludente o la commedia del nichilista che si compiace di torturarsi e di rodersi sulle proprie sconfitte. Abbiamo già notato che per Jankélévitch invece il tempo non coincide con una simile negatività, e abbiamo anche mostrato i paradossi ai quali la concezione jankélévitchiana del tempo si espone. La temporalità è la sola dimensione in cui sia possibile intravedere l'essenza misteriosa del soggetto, che Jankélévitch chiama ipseità, hapax, io prima di divenire ego.

È certo che rimanendo ancorati alla consuetudinaria logica filosofica non si può far uscire la filosofia da questa impasse; inoltre si rischierebbe di esporre il pensiero ad altri paradossi irrisolvibili. D'altronde una logica che sappia sfuggire ai vincoli dell'alternativa e possa far coesistere determinazioni contraddittorie non esiste. Per questo occorrerebbe una logica del divenire capace di far sussistere antagonismi e giudizi contraddittori non più soggetti alla necessità del superamento e dell'Aufhebung. Sarebbe questa una logica capace anche di non ridursi a un vano regresso all'infinito, senza consistenza e finalità, poiché grazie al divenire, dice Jankélévitch, «i contraddittori che non possono coesistere uno eodem tempore, possono avvenire uno dopo l'altro in guisa di momenti» (PI, 258).

In effetti, se abbandoniamo l'ossessiva ricerca e l'idea fissa di dover dare ai momenti del tempo lo status di funzione logica, relativa al contesto globalizzante, noi potremo coglierli nella loro intrinseca qualità, determinata soltanto dalla durata: il semplicissimo fatto di trovarsi dopo e prima rispetto ad altri momenti e ad altre situazioni, di influenzare e di essere influenzati da essi in virtù di un movimento fluido non divisibile, rende questi momenti degli autentici eventi. La funzione dell'intelletto, che potrebbe aderire a questa specie di «eterogeneità movente e sfumata» del pensiero, è per Jankélévitch una «ragione trascendente» capace di restare pura ogni volta, anche attraverso le sue contraddizioni. Non si tratta certo di una reine Vernunft, tipica di un criticismo che dissocia le nature e distingue tra senso ipotetico e senso categorico; in questo modo la purezza resterebbe «anipotetica» (PI, 113), cioè formalmente normativa e freddamente imperativa. L'autentica trascendenza della ragione è, paradossalmente, immanente all'io, alla sua impurità costitutiva, senza la quale essa non potrebbe mai far valere le sue ragioni.

In effetti l'organo non può vivere senza l'ostacolo. Ma nel tempo, e solamente nel tempo, l'invivibile organo-ostacolo può realmente essere vissuto; è solamente nel tempo che la ragione può essere «capace di fondare diverse eternità successive, tutte trasparenti, tutte provvisorie!» (PI, 259). «Il divenire lenifica, lubrifica, fluidifica gli antagonismi: nel tempo stesso in cui esso fonde il passato con il presente, diluisce i contraddittori nella mobilità scivolosa del suo legato» (PI, 258-259). In fin dei conti il carattere di provvisorietà della temporalità è una sorta di garanzia che l'opacità in cui essa si trova non è inevitabile, che il regime della menzogna e della finzione non è assoluto e indiscernibile e che la sincerità e la purezza possono trovare la loro ragion d'essere. Dice Jankélévitch: «Nulla impedisce - nei confronti del divenire - che un'infedeltà apparente si risolva in fedeltà successive e in sincerità istantanee» (ib.), cioè la soluzione del dualismo verità-menzogna non è altro che un problema specificamente temporale. E di seguito: «Ciò che all'interno di una sovracoscienza intemporale sarebbe cattiva fede o lacerazione, duplicità o dualismo, appare nella continua alterazione del divenire come un'ingenuità istantanea, come una semplicità sempre mutevole e sempre contemporanea al proprio presente».

Il tempo consente quindi a ogni posizione rigida di ammorbidirsi, a ogni pesantezza di mitigarsi, grazie alla mobilità che lascia sempre aperta la possibilità del cambiamento. E soprattutto il tempo consente che una situazione identica a livello spaziale trovi nella differenza creata dal divenire un'inedita apertura di senso e valore. Così, in questa dimensione fluida e non più dogmatica, anche le parole che potevano finora apparire sospette divengono improvvisamente benevole, sorridenti e alla portata di tutti, non più appannaggio dei sapienti e dei potenti che le avevano monopolizzate.

Purezza, bontà, verità, amore, spirito, essere, umanità, ritrovano il loro significato originario in un contesto inatteso e nuovo, come quando in un giorno di festa gli stessi luoghi e gli stessi scorci di una città appaiono come aureolati di una gioia fino ad allora mai vista. E tutto ciò grazie al tempo, il quale ha creato all'interno di se stesso tutte le risorse e le condizioni che hanno a loro volta reso possibile tale metamorfosi.

La temporalità della verve

Spesso abbiamo accostato il tempo all'ordine del malinteso, ovvero alla natura mista e impura della coscienza che comincia a mentire proprio perché ha la possibilità di avviare un processo temporale e di distendersi nel tempo. Inoltre il tempo consente alla mediazione linguistica di amplificarsi in discorso e in «ruminazione» borghese. Ma ci siamo anche appena accorti che è il tempo stesso a rendere sopportabile ogni ripetizione e a mitigare ogni sorta di rigidità creata al suo interno. Infatti il tempo, che è costitutivamente teso tra due estremi coesistenti, da una parte influenza la nostra natura anfibia, duale e impura; d'altra parte impedisce ogni proposito di irrigidimento monista.

C'è quindi un tempo aperto, svincolato dal peso della continuità e dal vizio della menzogna e della cattiva fede. Una volta sondato tutto il malessere della temporalità, diviene a Jankélévitch agevole esplorare le caratteristiche e il valore specifico di questo tempo nuovo. La temporalità non coincide né con l'estensione di un discorso né con la continuità inerte della ripetizione: c'è anche una temporalità che deborda da questo genere di impasse e diviene «posizione effettiva» di una novità (TV2,1, 227), cioè creazione immediata e «seduta stante» di un evento e di un'azione.

Ci troviamo quindi di fronte a due livelli distinti di temporalità: il primo appartiene all'ordine della mediazione logica, il cui senso si risolve in una direzione univoca e necessaria, meccanicamente stabilita da leggi preesistenti; qui ha luogo sia lo sviluppo dialettico dell'idea sia la spazializzazione delle figure in fatti oggettivi e neutri. Il linguaggio sostiene questo percorso, fornendogli regole e formule: e come la tesi e l'antitesi devono risolversi nella sintesi così, in musica, la sensibile del settimo grado della scala ha bisogno di sfociare nella tonica del primo. Ogni elemento del linguaggio, ogni accordo e ogni nota sembrano essere i denti di una ruota, i gangli di un unico meccanismo.

Invece l'ordine del livello superiore della temporalità è tutt'altro: non è questa un'astratta e trascendente superiorità, come quella dell'iperuranio platonico, ma riguarda un distanziamento oscillante, come un va-e-vieni del concetto verso il proprio oggetto, nell'intento, autenticamente fenomenologico, di coglierlo in tutta evidenza. L'atto col quale si perviene dall'inesistenza all'esistenza e che per ciò stesso diviene «efficiente ed efficace» mostra una certa superiorità nei confronti del suo prodotto: quest'ultimo è diventato oggetto di contemplazione, di analisi e di reificazione, cioè resta preda del continuismo banale e della noia; ma nell'istante della creazione l'oggetto, il medesimo oggetto, acquisisce un volto differente conferitogli dalla mobilità fluente in cui è inserito (v. AES, I-II). In termini bergsoniani esso mantiene una vitalità e uno slancio per il fatto di non essersi ancora esaurito nell'oggettivazione della forma esteriore. Il fiat, insomma, è superiore al già-fatto, benché sotto lo sguardo dell'analisi scientifica essi siano del tutto equivalenti. E se ogni mediazione crea una specie di involucro intellettuale attorno all'oggetto della conoscenza, l'approccio superiore opera su di esso una mediazione ulteriore, finalizzata a salvarlo dalle elucubrazioni della coscienza logica e a restituirlo intatto all'immediatezza e all'evidenza della propria semplice esistenza. In questo modo la realtà può trovare un senso precedentemente rimasto occultato o pressoché dimenticato.

D'altronde la negazione della temporalità logica e direzionale non significa l'annullamento di tutte le direzioni. Nell'uomo c'è per Jankélévitch una «vocazione naturale al movimento» che non va trascurata: è un «senso della marcia» che coincide sia con la «decisione preveniente» che con «l'amore preveniente» (PI, 308-310). Chi agisce nel mondo si dispone in modo imprescindibile verso il bene e per far ciò deve «rompere il cerchio degli scrupoli e andar via dritto». Egli non conosce di preciso che cosa sia il bene, non erige teoremi e non fa dei discorsi edificanti sulla bontà. Similmente l'amante non fa discorsi sull'amore, ma ama incondizionatamente e dirige il suo amore verso l'altro. Amore e decisione preveniente nascono nell'istante e nell'immediatezza, ma trovano la loro efficacia nel tempo, senza cui non potrebbero agireessere attivi. Inoltre essi hanno bisogno del tempo per vivere, per rinnovarsi, per trovare nuove risorse, anche grazie agli ostacoli che il tempo oppone loro. Da parte sua il musicista non si perderà in preamboli verbosi o nelle dichiarazioni d'intenti, ma farà musica, obbedendo soltanto a imperativi musicali (PDP, 274), e in ogni caso alle sollecitazioni intrinseche del materiale sonoro. Al limite egli farà musica seduta stante, cioè si esibirà in un recital, esponendosi ai rischi e alle vertigini di un'improvvisazione irrevocabile e senza prova d'appello (L, 164-167).

In effetti è l'irreversibilità del tempo che si ripercuote sull'atto creativo; essa «mette l'uomo in verve» (IN, 219) ed eccita l'immaginazione. Parallelamente è la morte che dà un senso alla vita e fa sì che valga la pena di viverla. L'incertezza dell'hora, cioè del «quando» e del «come» si morirà, permette di aggiornare continuamente l'irrazionale speranza nell'eternità. La nescentia dell'ora fatale impedisce al soggetto di considerarsi irrimediabilmente perduto e «lascia filtrare un raggio di speranza nella notte della disperazione» (IN, 129). Certo, si tratta solo di un'astuzia e di un'illusione, ma profondamente efficace in quanto è il motore di ogni progetto e di ogni rigenerazione creativa.

D'altra parte il semplicissimo fatto che il corso del tempo sia diretto necessariamente verso la fine e che non permetterà mai alcun ritorno dà un significato particolare a tutto ciò che succede nel tempo. Il valore di evento dell'istante va riferito principalmente al suo destino, al fatto che esso è votato, nel momento della sua apparizione, alla propria estinzione. Ciò lo avvolge in un'aura di mistero e di vaghezza, propria delle cose fragili ed effimere: i fiori, i sorrisi e le melodie perderebbero il loro fascino e il loro calore se apparissero eterne, come i fiori di plastica, i sorrisi finti e le melodie incessantemente ripetute dei minimalisti. Invece il fascino risiede, per Jankélévitch, nell'unicità «semelfattiva» o «primultima» del soggetto nella sua esistenza (hapax), cioè al fatto di essere «l'ultimo essere immediatamente prima del non-essere» (PI, 300-301; IN, 203-206). Vi è qui una tangenza acutissima dell'hapax con il non-essere, benché esso sia pienamente esistente, che gli conferisce l'inesplicabile attrazione propria delle cose in equilibrio instabile sull'abisso. L'impalpabile soglia tra essere e non-essere coincide con il quasi (quasi inesistente, quasi-niente), che è un pensiero-limite, nel contempo dentro e fuori del tempo.

Questa coincidenza consente allora alla morte di esercitare una specie di segreta alleanza e di parentela con il suo contrario, la vita: la negazione assoluta della vita rende paradossalmente possibile la vita stessa perché le conferisce almeno la sua unicità. Ciò assicura che il fatto-di-aver-vissuto sia ineliminabile e che per questa stessa ragione sia un «inesplicabile tesoro» (IN, 274-275). Inoltre la morte non è solamente il limite estremo del nostro destino, ma essa si infiltra tra gli interstizi della via, si spande «attraverso la durata totale del vivente» (PI, 79); è ciò che Jankélévitch chiama «piccola morte», [1] ossia la morte continua di ogni attimo, l'impossibilità per sempre di ripetere un momento del tempo. Così l'istante acquisisce la sua «primultimità» e per questo diviene «il simbolo della beatitudine perduta» (IN, 299), nonché la fonte di un valore indistruttibile e nel contempo ineffabile che si chiama charme.

Il valore dello charme

Arrivati a questo punto potrebbe essere legittimo porsi la domanda: dove si trova per Jankélévitch la temporalità, dove può essere rintracciata? Ma la risposta è necessariamente evasiva: la temporalità è sempre altrove, ossia in un tutt'altro ordine, anzi, nel retro della realtà e sempre al di là di essa e persino del tempo. Le figure della temporalità si stagliano in virtù di opposizioni inconciliabili: tempo dell'istante e tempo dell'intervallo, tempo interrotto e tempo continuo, tempo della coscienza e tempo della realtà; queste sono solo differenti modalità di manifestazione del tempo, sempre secondarie in rapporto alla modalità esponenziale della temporalità superiore. E similmente, ci si chiederà: dove si trova l'essenza della musica? Nella melodia o nell'armonia, nel canto o nell'accompagnamento? Evidentemente né nell'uno né nell'altro: essa si trova altrove e nel contempo in entrambi; la musica si trova nel loro specifico rapporto che fa nascere una realtà nuova. Più in generale, da un punto di vista del tutto estetico, le domande «che cos'è la bellezza?» e «dove essa si trova?» non avranno mai una risposta all'interno dello stile e del linguaggio, poiché lo charme non può essere descritto in modo coerente dall'analisi e dalla logica. La relazione con il tempo dà allo charme un carattere tanto istantaneo e apicale quanto morbido elastico e diffluente; d'altronde la sua relazione con la morte gli conferisce una specie di estraneità nei confronti di ogni chiarezza razionale. Quindi esso si sottrae continuamente a ogni tentativo di delimitazione e di localizzazione.

Come il tempo, lo charme è quindi per Jankélévitch «sempre altrove», o «altrove all'infinito», oscillando esso da un polo all'altro degli estremi di un'alternativa. Coloro che credono di individuarlo con precisione in una formula devono per forza rimanere delusi, così come coloro che pensano di ritrovarlo lungo lo spazio cartesiano. L'«altrove» della bellezza si troverà in una dimensione incomparabilmente lontana sia dallo spazio sia dal tempo lineare. Jankélévitch parla più precisamente di un «alibi» che è «nel contempo dappertutto e da nessuna parte» (F, 278), cioè da nessuna parte per l'ottica di coloro che ne pretendono una collocazione topografica, ma dappertutto per coloro che possiedono l'acuta sensibilità di saperlo cogliere.

Se allora lo charme non è qui o là, sopra o sotto, esso è pur sempre reperibile nell'apparenza, poiché come abbiamo visto né il platonico né il mistico possono negare l'esistenza dell'apparenza e dovranno necessariamente ammettere che anche la suprema Bellezza può debba trovare un privilegiato veicolo nella facciata e nell'esteriorità sensibile. D'altra parte il carattere impalpabile dello charme sfugge anche a questa determinazione: vi è una profondità, dice Jankélévitch, che è propria degli esseri superficiali, di coloro che ostentano l'illusione per dissimulare un mistero. Si tratta quindi di una «pseudo-profondità» (JQ, I) che non è un luogo o un gradino della scala essere-apparire, ma una maniera di essere e di agire. Spesso Jankélévitch parla di un'allure, ossia di un modo di muovere il corpo che non coincide con il movimento meccanico né con la disposizione di parti giustapposte. Si tratta invece di una relazione interna tra i dettagli o, come dice Jankélévitch, di un «regime di mutua implicazione» (TV2,1, 190) che permette loro di essere ben strutturati e consente che la loro giustapposizione sia, in un certo senso, necessaria, e nello stesso tempo concede una completa libertà di organizzazione del loro insieme e della loro totalità (TV2,1, 256).

E infine, per poter meglio cogliere questa allure, non occorre altro che una sensibilità aperta e una disponibilità generosa a seguire il corso del tempo, poiché lo charme, in quanto allure e grazia, si trova, vive e agisce lungo il corso del tempo. Jankélévitch chiama questo movimento e questa temporalità sincerità: nonostante le menzogne e le astuzie del linguaggio e dello stile, un senso si accumula «intorno alle parole e al di là di esse» (TV2,1, 256); è un'intenzione, ambigua e «pneumatica», che nessuna espressione riesce a esaurire, ma che emerge pur sempre come espressione ulteriore, surplus di tempo che si espone con urgenza verso il vero e verso il futuro.

Espressivo

Ci siamo così resi conto che questa dimensione temporale di cambiamento e di metamorfosi coincide in Jankélévitch con la musica, che è una vera e propria teoria del tempo in atto. L'articolazione concreta e condensata della temporalità della verve e della sua donazione di senso non è altro che la temporalità musicale.

È nella musica, in effetti, che ogni tentativo di decifrare, etichettare e analizzare è destinato a fallire, anche se in ogni caso Jankélévitch stesso riconosce che ogni elemento linguistico e ogni «cifra» sonora non vanno trascurati al fine di far emergere il senso della musica. «Il musicista dell'inesprimibile si esprime - dice Jankélévitch a proposito di Gabriel Fauré -, e si esprime in locuzioni perfettamente riconoscibili» (F, 283). Però tutto ciò che costituisce il suo apparato linguistico, scale, accordi, sistemi modale o tonale, acquisisce un valore formale a posteriori, fa cioè parte di una «sintassi retrospettiva» utile solo per fini pratici, mentre l'intenzione del musicista è a priori, disinteressata e va al di là della scelta di una formula o di una «ricetta».

Se vi sono leggi musicali, esse sono leggi «oscure», secondo le quali «i suoni si disperdono o si assemblano, si attirano o si respingono, si intrecciano e si incatenano»; esse sono cioè delle leggi che regolano segretamente la vita e le relazioni sonore. Si tratta per Jankélévitch di una «fisica dei suoni», nella quale una «gravitazione segreta e puramente musicale» anima la musica al suo interno e «per finezza supera i meccanismi intellettuali più delicati, i sottili moti della passione e l'infinitamente piccolo della dinamica molecolare» (F, 255). Dunque in questo modo il legame tra tecnica ed espressione non è più impossibile, poiché il linguaggio da un lato «si particolarizza in tutto il suo spessore polifonico», dall'altro diviene un linguaggio vivente, «fino alle sue più estreme profondità».

In tal senso la musica permette di riconquistare, anche attraverso il linguaggio e la tecnica, un'espressione che sembrava perduta. Non si tratta certo di tornare alla sensibilità del romanticismo, in cui le passioni sono descritte in modo determinato e la musica diviene un'effusione di «personali fantasticaggini». Invece i sentimenti e le emozioni più appassionate possono trovare in musica un'allusione, una suggestione anche abbozzata e astratta; tramite una via indiretta ed evocatrice i sentimenti trovano qui la loro fonte e, d'altra parte, anche la musica pura guadagna in «intensità espressiva» (F, 262). Ogni preoccupazione e ogni angoscia, lungi dall'essere dimenticate, trovano posto in quest'artenell'arte musicale, ma solo nella misura in cui il sensibile sonoro ha subìto una «sublimazione derealizzante», prodotta da una specie di ascesi e di catarsi (F, 290).

In Fauré tale epurazione espressiva conduce a una condizione di «equanimità» o di «quietismo» e saggezza, in cui ogni pathos soggettivo viene controllato per far emergere un pathos più sottile e pudico. Il mistero dello charme faureano non è per Jankélévitch «snervante o impazzito», ma è un mistero «tranquillizzante» (apaisant, F, 356), è incanto e non incantesimo perché, come il Socrate del Menone, ci svia per poterci condurre alla verità. La sua debolezza è solo simulata e, in opposizione a ogni violenza e a ogni enfasi, contiene una forza più efficace, pronta a mostrarsi al momento giusto. Così Ulisse, travestito da mendicante, aspetta pazientemente l'occasione propizia per uccidere i Proci. L'indifferenza e la rigidità sono solo apparenti; il suo fine è di riconquistare Penelope e ristabilire la pace. E dopo tutte le simulazioni e gli sviamenti ironici e nel contempo tragici, la seria intenzione sarà di ritrovare le ragioni del cuore, che erano state finora oggetto di scoraggiamento e di disperazione.

Per Fauré, come per Ravel e Stravinskij, si tratta allora di cogliere una specie di romanticismo al contrario, o di litote del romanticismo, che rifiuti in modo netto l'arte di fine secolo per riconquistarne gli aspetti positivi e autentici. Così lo spirito del notturno, come abbiamo visto, non è un'esaltazione irrazionale di una mitologia arcaica ed equivoca, ma è solo una sottrazione della chiarezza compromessa dall'ideologia della luce. Non coincide con «l'amalgama spesso e informe in cui la creatura sprofonda con diletto» (PI, 172), cioè con compiacenza, ma possiede una chiarezza e una lucidità profonde e quasi inaccessibili. Occorre un capovolgimento particolare per considerare come espressiva la violenta inespressività di Bartók o della Sagra della primavera e per considerare invece l'Elettra di Richard Strauss, con i suoi urli e le sue isterie, come «dimostrazione d'impotenza» (PI, 190). Per Jankélévitch bisogna diffidare sia di ogni languore sia di ogni ostentazione dell'espressione, entrambi forme di una sola e identica «civetteria». Il teatrale «disperato» e la messa in scena dell'infelicità non hanno nulla a che vedere con la vera disperazione e la sofferenza realmente vissute.

In tal senso, all'interno di uno stesso gesto tipicamente romantico, come l'eroismo o la morte per amore, bisogna distinguere diverse sfaccettature: da un lato c'è l'abnegazione, che è «cieca devozione» e pura e semplice «negazione di Sé» (PI, 303); qui l'altro non è oggetto di un'intenzione d'amore, ma ha perduto ogni relazione di comunicazione viva, ed è «anonimo, astratto e senza volto». D'altro lato il sacrificio considera l'amato come il suo solo fine, senza nessuna retro-coscienza compiacentemente egoistica. Vi è qui la vera comunicazione tra due volti e quindi tra due spiriti: anche nell'estrema sofferenza e di fronte alla morte essi possono ritrovare la forza e il coraggio di sorridere. In ogni caso questi volti sono in relazione di reciprocità e hanno ritrovato una forma d'espressione sincera, che trasmette un senso di umanità e di profonda felicità. L'inespressivo può così rivelarsi o come odio dell'espressione, cioè come «assoluta indeterminazione», o come intenzionalità verso l'espressione infinita, che ogni sguardo e ogni viso sincero contiene come una ricchezza nascosta e una bellezza inedita (PI, 199-200). [2]

Dal punto di vista tecnico risulta agevole paragonare l'indeterminazione e l'inespressivo con una temporalità ossessiva e meccanica, oppure con la sconnessione dello staccato e la frammentazione melodica, mentre l'espressione appare appannaggio di un andamento musicale basato sul rubato, sulla fluidità temporale e sullo stile legato tipico della pedalizzazione pianistica. Tuttavia, se si tiene conto del capovolgimento dei valori musicali adottato da Jankélévitch, ci si accorge che questo parallelismo mostra i suoi limiti e che nulla impedisce di considerare più espressiva una temporalità rigida - per esempio la temporalità stravinskiana - di un andamento arbitrario e approssimativo o di una condotta temporale vaga e oscillante. Così in Fauré e Ravel l'uniformità imperturbabile del tempo e la regolarità della metronomia (F, 321-322) rappresentano solo apparentemente l'indifferenza: resistendo alla «fretta febbrile» e alla tentazione del languore, essi fanno intravedere, per effetto di sbalzo, un'emozione più sincera.

Al di là della pedante applicazione di formule e di stereotipi, la vera intenzione della musica può allora nascondersi anche dietro un tempo anodino, come similmente un'intenzione amorevole può nascondersi anche dietro un viso inespressivo.

Il ritorno alla sobrietà

Se la volontà di essere inespressivo nasconde il «desiderio di esprimere qualcos'altro che l'inesprimibile verità» (MH, 23), l'humour e la parodia della grazia sono «in nome di una grazia invisibile» (MH, 171) che, riscattando un'innocenza sincera, sarà un incanto immeritato (AVM, 196).

C'è quindi in Jankélévitch l'odio nei confronti dell'irrazionale travestito da razionale, della cattiveria coperta dalla maschera della bellezza, dell'illogico scambiato per logico: per questo egli preferisce, seguendo Nietzsche, il razionale nascosto, sottratto alle tentazioni della ragione borghese e della compiacenza. La maschera allora assume il potere di smascherare, la finzione di far cogliere la verità, e soprattutto la mancanza di realtà e di razionalità diviene indice di una ragione che, come la città di Kitež dell'opera di Rimskij-Korsakov, si presenta capovolta ai nostri sguardi. Dopo questa trasformazione la realtà si svela nella sua autenticità, liberata da tutti i malintesi e le complicazioni che l'avevano compromessa, benché aiutata dalle dissimulazioni che comportavano un'intenzione sincera. E dopo tutte le ironie, le finzioni e le macchinazioni, essa mostra la sua più vera propensione, la serietà, la purezza salvata da ogni pericolo di ideologia purista.

Una specie di sollievo e di gioia si impadronisce di ogni mentitore che sappia gettare la maschera, e da quel momento inizia a respirare l'aria libera della verità. Per lui si tratta di una rigenerazione e di un allentamento della tensione e della solitudine che caratterizzavano la sua vita. Un nuovo ordine e una nuova semplicità si instaurano dopo le confusioni che egli aveva cercate con ogni sorta di artificio. Una volta affrancatosi da questo ruolo, l'ipocrita professionista può ritrovare una spontaneità perduta e convertirsi finalmente all'amore (TV2,1, 217-218). È quasi un miracolo, un inatteso rinvigorimento, simile al ritrovamento di un amore dopo una lunga assenza, al risveglio dopo la fine di un incubo o alla «celebrazione di una grande festa» (IN, 71).

«Sì la neve è veramente bianca», esclama Jankélévitch con accenti che ricordano alcuni passi di Berkeley; e parla con gli stessi toni quando descrive come uno spirito disincantato può in un giorno di festa ritrovare gli stessi luoghi e gli stessi oggetti della vita quotidiana trasfigurati di una nuova luce e arricchiti dalla freschezza dell'intuizione (JQ, II, 5). Un'analoga situazione è quella provata dai sopravvissuti da un naufragio o dai partigiani il giorno della Liberazione: è la sensazione di un'inattesa apertura della vita, di una rinascita.

Dal punto di vista temporale questo evento giunge nell'istante, che spezza improvvisamente il tempo «specioso» della ripetizione inerte; d'altra parte esso ha bisogno del tempo, poiché si tratta sia di un'occasione da prendere sia di un'espiazione da rendere. In effetti occorre del tempo per meritare una grazia che, nel folgorante momento in cui essa appare, si presenta al soggetto come un dono inatteso, come una sorpresa e una gioia immeritate. «L'abitudine della continuazione - dice Jankélévitch - e la nostalgia della cosa lasciavano l'uomo impazzito al bordo dell'istante; l'intuizione, che è l'istante stesso, ci fa una bella sorpresa: rivelando la positività della mozione che mobilita i momenti, della pulsione che fa divenire il cambiamento, essa ci arreca la gioia» (PHP, 265). Il coraggio di saper saltare al di là del vizio della continuazione consiste nella capacità di ricominciare l'esistenza, con in più lo sforzo di rinnovarla, cioè trasfigurarla come fa il sole tutte le mattine e la primavera tutti gli anni. Solo questo coraggio può per Jankélévitch placare «il turbamento dell'angoscia», perché supera sia la noia della continuazione che il peso del passato; così si pone «sul bordo del futuro prossimo» e fa coincidere un «oggetto sommamente delicato (délié)» con «un pensiero sommamente raffinato (délicat)» (ib.).

I due differenti ordini di temporalità appaiono così in collisione e mostrano nel contempo la loro distanza: se la felicità ricercata dal purismo non è che una gioia «perennata» dal tempo accidioso della compiacenza, invece la gioia dell'innocenza sfugge a quest'ordine vizioso, grazie all'intuizione infinitesimale e all'istante intemporale; da quel momento essa può instaurare liberamente una nuova eudemonia in un ordine temporale e un mondo del tutto utopico (PHP, 254).

In questo la temporalità dell'azione assomiglia alla temporalità della musica, dove l'esistente e il quasi-inesistente coincidono nella «quasi-visione» che preannuncia un mondo nuovo (ib.). Ecco quindi che in Satie, maestro di quella che Jankélévitch chiama école du dégrisement, si assiste da un lato al «capitombolo dell'ideale nel reale e della poesia nella quotidianità prosaica» (MH, 32), d'altro lato alla ricerca di un'ingenuità come autentico «infantilismo», che fa assomigliare il musicista a un bambino che sorride tra le lacrime e la sua musica al sole che sorge all'alba di un nuovo giorno.

In un mondo votato alla divinizzazione dell'apparenza, Joaquim Nin rappresenta per Jankélévitch «un ammirevole esempio di umiltà». In Déodat de Séverac «la terra, il mare e l'immensità del cielo» liberano la cattiva coscienza introversa e la trasformano in coscienza felice (PL, 131). Da parte sua Maurice Ravel, una volta rotte tutte le abitudini e le convenzioni tanto del ritmo quanto dell'armonia e dell'orchestrazione, ci «impone» il rigore della metronomia per intrattenerci nella «versatilità di un discorso che vibra ai minimi moti dell'anima» (R, 109). Inoltre la «fluidità nella scrittura» e la raffinatezza dei timbri «danno all'orchestra di Ravel una non so quale freschezza marittima in cui si respira il sale e il vento dell'ovest». E la morbida e possente orchestra di Liszt è, come quella di Ravel, un'orchestra «smaliziata» (R, 108). Similmente la Ballade in Fa diesis di Fauré non è affatto «soporifica» o una «tisana mortale», bensì una «meloterapia», un «cordiale di vita e di verità» (F, 356), come nell'Amore stregone di Manuel de Falla un filtro di morte si trasforma in elisir di vita e «lo charme succede al sortilegio» (MI, 160).

La musica dunque vive al suo interno questa trasformazione e questa inversione dall'ostacolo all'organo, dal Contro al Per, e di conseguenza diviene uno strumento concettuale privilegiato, sia metafisico - per il rapporto particolare che stabilisce con la realtà - sia etico - per la sua relazione con l'urgenza dell'azione morale. La musica assomiglia a quella «paralogia» di cui Jankélévitch parla in Philosophie première (31), la quale si avvicina sia allo choc del senso comune che allo «scandalo» del logos, cioè al paradosso dell'esistenza e al paradosso di questo paradosso. Questa riflessione «alla seconda potenza» produce quantomeno un'aporia, che però è un'aporia «feconda», poiché affronta la contraddizione e per ciò stesso la esorcizza («una narcoterapia che intorpidisce per poi scaltrire»).

Come nella vita morale l'azione si pone al limite della tangenza tra l'organo e l'ostacolo, così la musica rimane in una condizione mediana tra silenzio e sonorità, tra ineffabilità e linguaggio, tra realtà e finzione. Il rapporto, negativo, tra musica e realtà non è un superamento - come in Hegel - né un allontanamento - come in Schopenhauer. La musica non nullifica la realtà, ma la dissimula, la nasconde, la maschera per sottrarla agli assalti di coloro che vorrebbero impadronirsene surrettiziamente. I mezzi linguistici di quest'arte servono così a mettere la realtà a riparo dagli «orchi» della cultura e della storia, in modo che essa possa essere còlta a un differente livello, su un diverso ordine di verità, un ordine che è al di là di ogni ordine. A questo livello l'immediatezza della vita e dell'empiria viene riconquistata e concepita senza necessariamente dover passare attraverso gli schemi della filosofia dell'essenza e della teoria delle categorie. La verità, finora ritenuta sospetta in quanto reificazione ideologica o forma esponenziale di una nuova mistificazione, si svela in tutta la sua purezza non contaminata, in modo da poter servire a «risvegliare dalla loro narcosi le coscienze intorpidite dall'oppio dei malintesi» (TV2,1, 281). È in questo momento sorgivo che si può cogliere un orizzonte di senso finora dimenticato; ed è questo il punto focale in cui l'ineffabile si rovescia in significazione e in cui la disperazione può aprirsi all'«innocenza ulteriore» e all'utopia.

Le campane della felicità

«È la scomparsa stessa che fa l'apparizione - dice Jankélévitch in Philosophie première citando la Quarta Sinfonia di Cajkovskij, nella quale il tragico riesce a dare nel contempo un senso alla gioia (PHP, 173). E di seguito: «Nessuna felicità non è mai senza mistura», poiché il vero senso della felicità non può mai trovarsi in un'idea astratta posta al di sopra della realtà; al contrario si trova faccia a faccia con l'infelicità umana e l'orrore quotidiano. Non si può mai coglierlo con una visione diretta o con una spiegazione intellettuale. Anche solo un accenno, uno sguardo indiretto e un punto di vista obliquo potranno giungervi più facilmente.

D'altronde la creazione, lungi dall'essere il risultato di un percorso rettilineo o il gesto ispirato del genio, ha bisogno prima di tutto di rappresentarsi l'essere annientato, «per tentare poi di sorprendere l'emergere di qualcosa a partire dal niente». Grazie a questa opposizione e in virtù dell'istante, che è sempre sul punto di spegnersi, l'atto creativo può essere veramente una «decisione gratuita», posta e fondata al di là di ogni opposizione (PHP, 216). E come il tempo è responsabile di questa scandalosa mescolanza tra posizione e negazione, morte e nascita, felicità e infelicità, essere e nulla, così esso può permettere di risolvere il nodo che lega questi poli: infatti, come abbiamo già visto, il tempo aiuta a smorzare ogni rigidità e a superare ogni impasse e ogni aporia apparentemente insormontabile. Ma soprattutto è all'interno del tempo, ossia nelle fessure della continuità e nell'istante, che può aprirsi la possibilità della speranza e dell'utopia. [3]

Infatti, dice Jankélévitch, la speranza ha come fondamento «un quasi-niente sul quale riverbera l'esistenza nullificata e che inaugura il miracolo di una rinascita». E se l'utopia è una specie di innocenza, la sua purezza «non è un minor-essere, ma una mozione infinitesimale che non è né essere né non-essere» (PI, 288). La fiducia nel paradosso della «realtà irreale» e della cosa «anti-cosa» può condurci a superare ogni disperazione e ogni angoscia (PHP, 180); [4]così si può attingere a una sopraverità non certo frutto di un'ennesima ipostasi o reificazione, ma risultante dall'inversione della tendenza che costringeva il dato reale in una forma ontologica. Questa differente direzione certo non conduce di nuovo al nulla, ma eludendo l'obbligo del percorso rettilineo apre la possibilità di una strada ulteriore, lungo la quale il quasi-niente si svela come un tutto e il minimo non-so-che diviene «vasto come il cielo», cioè un Assoluto (PHP, 181).

La musica, in quanto arte non-reale e «anti-cosa» per eccellenza, è l'articolazione più concreta di quest'ambiguità del tempo e di tutte le metamorfosi e le aperture che avvengono al suo interno. In musica si assiste a tutte le trasformazioni che, come le astuzie e l'ebbrezza di Ulisse, si risolveranno nella «promessa di un'aurora radiosa» (F, 308). Già la sua apparenza è in sé vagamente utopica: «I più superficiali vocalizzi - dice Jankélévitch a proposito del virtuosismo - per il fatto che si aggrovigliano e si sgrovigliano secondo una legge di successione, portano al di là di se stessi la speranza di qualcos'altro, sono in se stessi una vaga promessa di profondità» (L, 128). L'incompiutezza e la concreta invisibilità della musica rappresentano un'«apertura sull'infinito», poiché l'apparenza di quest'arte si rivela a un tempo evasiva e assente (F, 278). D'altra parte quest'aspetto del tutto fenomenico non si riduce a una semplice ostentazione. L'essenza temporale e sovratemporale della musica ci informa che il suo carattere effimero e provvisorio non è definitivo. Quest'espressione lapalissiana può forse spiegare tutta la realtà non reale di quest'arte. In altri termini, la temporalità della musica non può essere in-temporale, ossia non può ricadere nel vizio della spazializzazione e nell'eterno ritorno della compiacenza. Così anche le finzioni, le circolarità, le rigidità e tutti i possibili capovolgimenti dei valori si rivelano solo delle circostanze contingenti. Ogni «situazione» musicale deve necessariamente ripetersi nel tempo. Ma se la semplice ripetizione materiale non apporta niente di nuovo nella temporalità della successione materiale, il rinnovamento cui allude Jankélévitch è allora del tutto «pneumatico» e spirituale, poiché permette che un evento continuo, come è l'alba e la primavera, si riveli «fecondo di risorse», pieno di dinamismo e fonte di entusiasmo (F, 334).

Infatti è la musica che, per Jankélévitch, «svela a noi stessi la nostra gioia profonda, la nostra gioia ignorata, misconosciuta, la nostra gioia essenziale dissimulata nelle preoccupazioni e ricoperta dalle passioni meschine» (MI, 159). Tempo e musica, quindi, possono farci prendere coscienza di una semplicità nascosta, il cui ritrovamento è in nostro potere. La felicità, che credevamo così lontana, si rivela così vicinissima a noi. Ecco che il Requiem di Fauré, «berceuse della morte», diventa un «cantico di vita», così come il primo Quartetto e l'Elegia per violoncello hanno passato «la prova della sofferenza e dell'angoscia» e, da questa via e attraverso il rifiuto di ogni pigra rassegnazione, lo slancio, la forza vitale, l'ispirazione e la verve hanno trovato una ragione più autentica. Nell'Éveil de Pâques di Déodat de Séverac si odono, dice Jankélévitch, «le campane dell'avvenire, della promessa e della speranza» (PL, 142), esattamente come nella Kiev di Musorgskij e nella Kitež di Rimskij-Korsakov le campane sono i suoni di una città invisibile, «pneumatica», di un luogo situato in uno spazio lontano e «profondamente umanizzato» (PL, 143).

Per Jankélévitch allora la speranza non è un fine ma un movimento, non è una vuota fede ma un atto di fede, «più coraggioso e difficile della disperazione» (PI, 202) e in quanto tale inventivo e positivo. La positività si fonda sulla temporalità, poiché si esprime nelle metamorfosi e nelle trasformazioni attraverso cui l'essere si perpetua e trova un suo senso nell'esistenza. È solo nel tempo che la vita può vivere, ossia che il vivente può trovare una chance per il suo futuro finché sono preservati tutti i possibili (TV2,1, 253). In tutte le situazioni in cui la vita sembra offesa, mortificata e ridotta alla condizione letale della ripetizione inerte dei suoi gesti e nell'inibizione di qualsiasi slancio di libertà, il tempo dà un'ultima occasione per uscirne, anche se si tratta di un solo minuto di tutta la storia del mondo.

Certo, non si può tornare alla felicità che l'uomo si è lasciato dietro e al paradiso perduto dell'innocenza; questo può essere solo oggetto di rimpianto e di nostalgia, dato che la nostra storia ci appare come un «campo pieno di rovine» (PI, 19), e le «magnificenze irriconoscibili» di questi ruderi non possono essere più ricostituiti. Tale è l'aspetto tragico della nostra condizione e della nostra temporalità. [5]E tuttavia è la stessa temporalità che ci apre una breccia: se tutto è perduto ciò non significa che il profondo e inestinguibile rimpianto impedisca alla speranza di avere una minima possibilità, anche fosse nell'istante attuale, di oggi, di adesso. Nell'assoluta urgenza dell'atto volontario niente mi può impedire di scegliere una via nuova, sempre che lo voglia. In questo modo, forse, la felicità potrà rivelarsi a portata di mano di tutti.

In fin dei conti la filosofia di Jankélévitch, malgrado tutta la sua complessità vertiginosa e il suo percorso accidentato, ci conduce a ritrovare la semplicità della vita e del tempo umano, cioè a ritrovare una fiducia in noi stessi e nella nostra volontà più autentica. Si tratta di tornare a una dimensione di felicità sincera e seria, che non ha negato l'infelicità e le sofferenze lasciate dietro di sé, ma che non vuole più permettere che il loro insostenibile peso metafisico carichi ulteriormente le nostre stanche spalle.

Note

[1] Vedi V. Jankélévitch, L'immédiat, INA, Radio France, 3^, A

[2] Notare la somiglianza tra questi temi e la filosofia di Emmanuel Lévinas, soprattutto in Humanisme de l'autre homme, Fata Morgana, Montpellier 1972 e Le temps et l'autre, ib., 1979

[3] Questo aspetto può essere paragonato sia all'oscurità dell'attimo vissuto in Geist der Utopie (Spirito dell'utopia) di Ernst Bloch, sia alla concezione di Walter Benjamin (e di tutta la tradizione del pensiero ebraico) espressa nelle Tesi di filosofia della storia - in cui l'istante è la piccola porta attraverso la quale può giungere il Messia. A questo proposito vedi PI, 312, laddove Jankélévitch parla del divenire come «chinato su un non-ancora», e S, 73, in cui egli parla dell'annuncio del Messia come «evento limite».

[4] Si possono qui riscontrare le differenze con l'esistenzialismo contemporaneo, soprattutto con la filosofia di Martin Heidegger. D'altra parte molti critici hanno notato le relazioni, del tutto indirette, tra il pensiero di Jankélévitch e quello dell'autore di Sein und Zeit: a questo proposito vedi Jean Wahl La philosophie première de Vladimir Jankélévitch, in «Revue de Métaphysique et de Morale», 1955, 1-2, pp. 161-217 e E. Lisciani-Petrini, Memoria e poesia, cit.

[5] Anche su questo aspetto si possono trovare somiglianze con le Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin
 
 

   II,1
III,1 
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