Interpretazione del «Tractatus» di Wittgenstein
Capitolo II Giovanni Piana

 

II

Teoria del simbolismo

 

 

1.

Nella metafora dello spazio logico si annuncia già nelle prime frasi del Tractatus il tema della connessione tra logica e mondo. La logica non tratta del mondo, di ciò che in esso accade, ma di ciò che può accadere. I suoi «fatti» sono tutte le possibilità (2.0121(c)). Perciò possiamo dire che la forma logica è la forma della realtà (2.18); oppure che la logica è logica del mondo (6.22).

Come si diceva una volta: «Dio può creare tutto, ma nulla che sia contro le leggi logiche» (3.031). Qualcosa che sia contro le leggi logiche o, in breve, qualcosa di contraddittorio non può essere un fatto. Ogni fatto si deve trovare all’interno del recinto che circoscrive lo spazio logico.

Ma ora dobbiamo riconoscere che una connessione stretta deve sussistere tra logica e linguaggio: ed alla luce di questa connessione ci apprestiamo ad illustrare l’idea di un simbolismo «che obbedisca alla grammatica logica - alla sintassi logica» (3.325).

Per aprire questo tema mostriamo anzitutto in che modo possiamo trasporre al linguaggio ciò che affermiamo della proposizione: come il mondo è la totalità dei fatti, così il linguaggio è la totalità delle proposizioni (4.001). E poi non dobbiamo fare altro che seguire il filo conduttore indicato dalle frasi con cui si apre e si chiude la terza proposizione: «L’immagine logica dei fatti è il pensiero» (3); e «Il segno proposizionale applicato, pensato, è il pensiero» (3.5); o più semplicemente: «Il pensiero è la proposizione munita di senso» (4).

Parliamo qui, in primo luogo, del pensiero come immagine logica dei fatti: poiché non vi è un’immagine che sia soltanto logica, il pensiero deve trovare espressione in qualcosa che sia sensibile e percepibile. Questo è il segno proposizionale. Noi dobbiamo infatti chiaramente distinguere tra il segno proposizionale in quanto è un insieme di cose (figure, grafemi, ecc.) (3.143 1) e in quanto questo insieme è veicolo di un senso. Il segno proposizionale in quanto si trova in una «relazione di proiezione al mondo» (3.12) è la proposizione munita di senso.

In altri termini: dire che una proposizione è l’espressione di un pensiero significa la stessa cosa che dire che essa presenta mediante segni un senso.

In questo modo escludiamo anche che con «pensiero» si possa intendere, in questo contesto, qualcosa come un fatto della mente - quindi qualcosa di «psicologico». Anche il nostro riferimento alle immagini riceve ora una netta accentuazione antipsicologistica: «Noi ci facciamo immagini dei fatti» (2.1) Vuole anche dire o, probabilmente, vuole soltanto dire: noi effettuiamo pensieri. Produrre un ’immagine è produrre la possibilità di un fatto, proiettare fatti possibili. Inversamente, che un fatto sia possibile significa: «Noi ce ne possiamo fare un immagine» (3.001).

In che modo allora potremmo farci un immagine di qualcosa di contraddittorio? Anche qui ci muoviamo, in fondo, intorno a ciò che si diceva una volta: «Ciò che è pensabile è anche possibile» (3.02); e poiché le leggi logiche sono «leggi del pensiero», non si può pensare contro di esse (3.03). Ma se un pensiero non è altro che la proposizione munita di senso, queste leggi debbono essere anche leggi del linguaggio. Qualcosa di contraddittorio non solo non può essere pensato, ma nemmeno può essere detto.

«Qualcosa che «contraddice la logica» si può rappresentare nel linguaggio non più di quanto, nella geometria, si possa rappresentare mediante le sue coordinate una figura che contraddica le leggi dello spazio; o dare le coordinate di un punto inesistente» (3.032).

È certo che qui non si parla del nostro linguaggio: esso presenta talvolta un senso laddove non ce n’è alcuno, appare in ordine mentre nasconde la contraddizione.

Così separiamo questi due problemi: da un lato il linguaggio ordinario, di cui facciamo un uso immediato e diretto, in rapporto alle nostre esigenze comunicative che comunque vengono realizzate in modo relativamente soddisfacente nonostante la sua inadeguatezza logica - quel linguaggio che rappresenta per noi una funzione di vita nello stesso modo di una parte del nostro organismo corporeo (4.002); dall’altro, l’idea di un linguaggio che sia tale da trarre dalla logica le proprie regole di costruzione grammaticale [1].

2.

Tanto sarebbero complicate le regole della struttura del linguaggio ordinario, tanto appaiono semplici almeno i principi direttivi della struttura del linguaggio «logico», così come essi sono prospettati nel Tractatus (3.32* e 3.33*). A quanto sembra, essi possono ridursi a due soltanto, il primo dei quali lo formuliamo così: i simboli di un linguaggio non debbono essere più di quanti sono i suoi segni.

Usando il termine «significato» in modo generale - senza vincolarlo, come in precedenza, ai nomi - caratterizzeremo il simbolo come unità tra segno e significato. Il segno sarà dunque ciò che vi è di sensibile e percepibile nel simbolo (3.32).

Ora, ogni problema relativo all’adeguatezza logica del linguaggio mette in gioco, in primo luogo, il rapporto tra segno, significato e simbolo.

In un linguaggio in cui i simboli eccedano rispetto ai segni, uno stesso segno sarà il veicolo materiale di più simboli: vi saranno parole che hanno più di un significato. Sarà ovvio allora richiedere anzitutto la non eccedenza dei simboli rispetto ai segni come condizione di adeguatezza logica, trattandosi di una condizione elementare di inequivocità [2].

Il caso opposto dell’eccedenza dei segni rispetto ai simboli non ha né la stessa portata né le stesse conseguenze. In questo caso non è in questione l’equivocità, ma semmai la «semplicità logica» del linguaggio. In un linguaggio in cui i segni siano eccedenti rispetto ai simboli, vi sono più parole di quante siano necessarie per esprimere ciò che deve essere espresso: vi sono troppe parole, mentre nel caso precedente ve ne erano troppo poche. Può essere che questa sovrabbondanza sia tale da rendere più maneggevole il simbolismo, e che quindi in generale l’introduzione di nuovi segni per gli stessi simboli renda più semplice il simbolismo: ma questa semplicità va in ogni caso nettamente distinta dalla semplicità che potremmo chiamare «logica» in rapporto alla quale non intervengono considerazioni relative alla praticabilità del simbolismo.

Se accanto all’inequivocità poniamo anche la semplicità logica, la nostra condizione iniziale chiede in generale che i segni siano esattamente tanti quanti sono i simboli del linguaggio; e ciò è la stessa cosa che esigere che a segno diverso corrisponda un significato diverso, allo stesso segno lo stesso significato.

La seconda condizione è invece una condizione «sintattica», riguarda cioè il modo della connessione dei simboli. In un simbolo dobbiamo distinguere il momento della forma da quello del contenuto (3.3 1), ed entrambi i momenti saranno contraddistinti nel suo segno. Dobbiamo allora richiedere che la sintassi di un simbolo sia diversa se la forma è diversa, che simboli che hanno la stessa forma siano impiegati nello stesso modo. Poiché la forma di un simbolo può essere contrassegnata da una variabile, potremmo anche formulare la cosa dicendo che a variabili che contrassegnano forme diverse non possono essere sostituiti simboli che hanno la stessa forma.

La «critica» che in questo contesto Wittgenstein rivolge alla teoria russelliana dei tipi è, in realtà molto più modestamente, un esempio di ciò che si è detto or ora, benché in essa si possano intravvedere sviluppi più ampi (3.33).

Un segno come «F(F(fx))», considerato in se stesso e dunque prescindendo da ogni considerazione relativa al suo significato, contravviene alla condizione or ora enunciata nella misura in cui il segno F interno ha la forma «f(fx)», il segno F esterno invece la forma «(y(f(fx))» (dove le variabili f e y contrassegnano forme diverse di simboli). Deve perciò potersi mostrare, in base a considerazioni puramente segniche, e tenendo conto che il segno determina, nel suo impiego logico-sintattico, una forma logica (3.327), che quel segno contravviene alle regole della grammatica logica.

Ciò che prescrive la teoria dei tipi rinvia in generale ad una regola segnica di ogni linguaggio correttamente formato, una regola che riguarda unicamente la «sintassi logica» dei segni e che non richiede, nella sua formulazione, nessun rinvio al loro significato. Che Russell abbia frainteso il senso effettivo della teoria è mostrato dal fatto che «egli ha dovuto parlare, stabilendo le regole dei segni, del significato dei segni» (3.331), mentre «nella sintassi logica il significato di un segno non deve mai assolvere una funzione» (3.33). Ma si tratta di un riferimento che illustra anche l’altro tema generale: la contraddizione è essenzialmente una costruzione linguistica, il suo apparire mostra che qualcosa non è in ordine nel linguaggio - perché solo in esso può trovarsi, e non nella realtà.

3.

Proponendo il problema di un linguaggio logicamente adeguato, ci troviamo in realtà di fronte ad una generalizzazione della tematica della proposizione come immagine: in questo primo punto di arrivo si trova una buona parte delle ragioni del nostro inizio dalla tematica dell’immagine. La nostra tesi principale avrebbe potuto essere formulata dicendo che nella proposizione, e precisamente nel suo segno, deve potersi distinguere tanto quanto si può distinguere nel suo senso (4.04). Ora richiediamo, in generale, che il simbolo sia fatto in modo tale che il suo segno sia un calco esatto del significato, che ad ogni momento del primo corrisponda un momento del secondo. Solo disponendo di un linguaggio come questo, possiamo procedere soltanto sui segni, secondo le regole della «sintassi logica», senza pensare nulla in essi - e con la certezza di non poter errare (5.473(c)).

Del resto il riferimento alle immagini ci offre un’illustrazione immediatamente alla mano per la nostra pretesa di un linguaggio in cui la contraddizione non possa nemmeno essere espressa.

Ad esempio, in una proposizione possiamo dire che A si trova a nord di B e B a nord di A: «In una carta geografica questa assurdità non la si può nemmeno rappresentare, perché essa ha la giusta molteplicità» [3].

Oppure possiamo richiamare il nostro esempio della notazione musicale: sul rigo non si può rappresentare un suono che abbia due altezze. Un simile suono non può esserci nel mondo dei suoni, e nel linguaggio non deve poter trovare rappresentazione.

Noi chiediamo dunque un linguaggio come questo, un linguaggio che è «logico» perché non può esprimere ciò che non può esserci nella realtà: istituendo la duplice relazione della logica con il mondo e con il linguaggio abbiamo nello stesso tempo connesso indissolubilmente ciò che può essere reale con ciò che può essere espresso nel linguaggio.

Sulla base di questo sfondo generale è inevitabile che vengano posti dei limiti precisi a ciò che vi è di convenzionale in un linguaggio che risponda ai requisiti di adeguatezza logica. Questo è appunto il motivo con cui si conclude questa tematica al termine della terza proposizione (3.34*).

Leibniz diceva: «Infatti sebbene i caratteri siano arbitrari, nondimeno il loro uso e la loro connessione hanno alcunché di non arbitrario, vale a dire una qualche proporzione tra caratteri e cose, e le relazioni che hanno tra loro caratteri diversi che esprimono le medesime cose». Oppure: «Ad esempio, la prova di eliminazione del nove dipende dai caratteri stabiliti nel sistema decimale, e tuttavia concerne una verità reale» [4].

Così in Wittgenstein dobbiamo distinguere nel simbolo tratti accidentali e tratti essenziali (3.34). Indubbiamente un certo segno non deve avere necessariamente questo o quel significato; e se un segno ha un significato altri segni possono ricevere lo stesso significato ed assolvere la stessa funzione. La scelta tra essi sarà perciò arbitraria. L’accento cade qui tuttavia sul lato opposto: non si tratta soltanto della circostanza che, quando sia stata operata una scelta arbitraria di un metodo notazionale, da essa dipendono necessariamente nuove e ben determinate strutture segniche (3.342). Si tratta principalmente del fatto che il segno, se deve essere un’espressione corretta del significato, non può essere fatto in un modo qualsiasi, ma deve possedere certe proprietà. Affermiamo dunque che non è possibile dare ad un segno il significato sbagliato (5.4732), perché l’assegnazione di un significato è arbitraria, ma anche che, se. vogliamo attenerci ai criteri di una espressione segnica corretta e inequivoca, non possiamo dare ad un segno qualsiasi un significato qualsiasi (4.0411). Nel segno deve infatti potersi distinguere tanto quanto si può distinguere nel significato che esso esprime. Ciò che un segno può esprimere è, fino ad un certo punto, deciso dal segno stesso: è impossibile prescrivere ad un segno «che cosa gli sia lecito esprimere».

Ad esso «è lecito esprimere ciò che gli è possibile esprimere» (LR, p. 253).

Queste tesi sono in certo modo sintetizzate dalla versione linguistica del «rasoio di Occam» che Wittgenstein propone: «Se un segno è inutile è privo di significato. Ecco il senso del rasoio di Occam» (3.328).

In che accezione vada intesa l’inutilità del segno è chiarito dalla procedura eliminatoria che il «rasoio» suggerisce: se in un simbolo può essere eliminato un segno, restando immutata la sua capacità espressiva, allora quel segno è inutile, non contribuisce al significato del simbolo, è una sua componente priva di significato.

Un esempio di applicazione del «rasoio» fornisce un nuovo argomento per la semplicità del nome.

Qualora un oggetto sia designato da un segno complesso, possiamo, mediante l’eliminazione progressiva delle sue parti, renderci conto che «nessun tipo di composizione è essenziale per il nome» (3.3411). Ogni segno semplice può assolvere la funzione di designare un oggetto e se un segno complesso designa un oggetto, questa funzione può essere assolta da una sua parte semplice.

Il «rasoio di Occam» può essere richiamato anche per il tema della semplicità del simbolismo, intesa come semplicità logica: i segni non debbono essere moltiplicati senza necessità - ed è chiaro che moltiplichiamo i segni senza necessità se ci serviamo di due segni per esprimere un unico simbolo. Che uno stesso simbolo venga espresso da più segni è da annoverare tra i tratti accidentali del simbolismo.

Non si tratta di precludere la moltiplicazione dei segni, ma di mostrarne l’«inessenzialità».

Un simbolo non deve essere rappresentato da un unico segno, ma può esserlo ed è importante che lo possa (3.342). Ed anche del «rasoio di Occam» diremo infine che esso non va inteso come «una regola arbitraria o giustificata dal successo pratico» (5.47321).

4.

La dottrina senza dubbio più controversa nelle interpretazioni del Tractatus è quella relativa alla distinzione tra mostrare e dire - controversa sia per quanto riguarda una chiara identificazione della tesi effettivamente sostenuta, sia per quanto riguarda la valutazione delle sue conseguenze su un piano più generale. Si sottolineò sin dall’inizio che essa formulava una condizione di ineffabilità che finiva poi con il riconnettere la filosofia del linguaggio sostenuta nel Tractatus al suo esito «mistico».

«Ciò che può essere mostrato non può essere detto» così suona la proposizione 4.1212. E ad essa si può accostare senz’altro la proposizione 6.522: «Vi è veramente qualcosa di ineffabile. Esso si mostra, è il mistico».

È dubbio tuttavia che una simile connessione debba fin d’ora vincolarci. Infatti la distinzione tra mostrare e dire compare nel Tractatus anzitutto nel quadro della problematica relativa all’idea di un linguaggio «logico» e sembra naturale considerarla anzitutto in stretta relazione a questo contesto, prescindendo dagli esiti finali e dall’accentuazione che eventualmente essa riceve in rapporto ad essi.

Ritorniamo dunque al tema dell’immagine che continua a restare il nostro filo conduttore. Noi dicevamo che l’immagine raffigura un fatto possibile, e con il termine «raffigurare» intendevamo appunto il rapporto in base al quale un fatto diventa immagine di un altro. Il nostro problema nasce nel momento in cui riportiamo questo rapporto, per così dire, riflessivamente sull’immagine stessa. Potremmo chiedere cioè se l’immagine possa trovarsi rispetto a se stessa nello stesso rapporto in cui essa si trova con il fatto che presenta. Ed è chiaro che non lo può. Un’immagine raffigura un fatto, non il proprio raffigurare un fatto. Qui una distinzione diventa non solo plausibile, ma necessaria. Potremmo dire: un immagine raffigura un fatto, ma non se stessa come immagine. L’immagine mostra se stessa come immagine.

I termini «mostrare» e «raffigurare» hanno così un senso interamente diverso.

Questa distinzione la troviamo già anticipata nella proposizione 2.172:

«L’immagine, tuttavia, non può raffigurare la propria forma di raffigurazione; essa la esibisce».

Qui si sostiene che l’identità formale tra l’immagine e ciò che essa presenta non può essere a sua volta raffigurata dall’immagine. E come lo potrebbe? Tale identità è la condizione di possibilità del rapporto di immagine, 1’ immagine la presuppone e non può quindi porsi al di fuori di essa per raffigurarla.

Se siamo disposti ad accettare ciò in rapporto alle immagini, un’analoga distinzione dovrà essere posta in rapporto a quel caso particolare di immagine che è la proposizione. La proposizione e la situazione che essa presenta debbono avere la stessa «molteplicità matematica» (4.04); ed anche in questo caso affermeremo: «Questa stessa molteplicità matematica, naturalmente, non può essere a sua volta raffigurata. Da essa non si può uscire mentre si raffigura» (4.041).

Se in luogo di «raffigurare», in rapporto alla proposizione, usassimo il termine «dire», allora dovremmo distinguere nella proposizione ciò che essa dice da ciò che essa mostra.

Ad esempio: una proposizione mostra di essere una proposizione; oppure mostra il suo senso (non lo dice) (4.022).

Ed anche questa distinzione dovrà essere riferita, in un contesto più largo del discorso, ai simboli in genere: così un nome designa un oggetto e mostra di essere un nome, un simbolo numerico designa un numero e mostra di essere un simbolo numerico, e così via.

Certamente questa terminologia può essere equivoca, possiamo farne uso, ma non dobbiamo lasciarci confondere da essa. Nessun segno mostra in se stesso di essere questo e quest’altro. E ovvio il riferimento ad una stipulazione o in ogni caso ad un sistema di regole in rapporto al quale esso deve essere inteso. I dubbi e i problemi sorgono comunque anzitutto in relazione alla formulazione del principio già ricordato: «Ciò che può essere mostrato non può essere detto» (4.1212).

In che senso esso va interpretato? Sembrerebbe qui che dal rilievo che dentro un linguaggio - ed alla condizione della sua buona formazione logica - non possano esservi proposizioni che parlano dei suoi simboli, si passi senz’altro, anziché alla necessità di distinguere livelli linguistici diversi, alla negazione che in generale questa distinzione possa essere effettuata. Se così stessero le cose le ragioni di una simile negazione resterebbero, quanto meno, oscure, e si sarebbe tentati di annoverarla tra i pregiudizi riducibili al «misticismo» del Tractatus.

Questa fu l’interpretazione che fin dall’inizio si impose, avallata autorevolmente da Russell che già nella sua introduzione al Tractatus osserva, in rapporto alla distinzione tra mostrare e dire, che se da un lato «ogni linguaggio ha una struttura sulla quale nulla può dirsi in quel linguaggio», può comunque esservi «un altro linguaggio che tratti della struttura del primo e possegga a sua volta una nuova struttura, e che tale gerarchia di linguaggi possa non avere limiti» [5].

Tuttavia una simile interpretazione - l’interpretazione secondo la quale nel Tractatus si sosterrebbe la tesi del1’ «impossibilità del metalinguaggio» - sembra realmente troppo elementare. Non possiamo infine sottovalutare troppo il fatto che la distinzione tra mostrare e dire non fa altro che tracciare una netta linea di demarcazione tra espressioni del linguaggio ed espressioni sul linguaggio, e che quindi essa potrebbe addirittura essere un modo per sostenere la tesi che un linguaggio che sia logicamente in ordine non può presentare equivocità dipendenti dalla confusione tra livelli linguistici diversi. D’altro lato il passaggio dal divieto di usare dentro un linguaggio espressioni che parlano di esso alla negazione che in generale si possa parlare di un linguaggio risulta appunto tanto inesplicabile da farci dubitare di non aver afferrato ciò che si vuole propriamente sostenere.

Io credo in effetti che ciò che Wittgenstein intende dire venga dopo che si è chiarita la possibilità di parlare di un linguaggio: questa possibilità è addirittura ovvia se la intendiamo come normalmente la si intende. Solo che una volta che disponiamo di un linguaggio nel quale si possa parlare di un linguaggio, in esso la distinzione tra mostrare e dire si ripresenta esattamente negli stessi termini - ad esempio, in questo linguaggio, una proposizione dice qualcosa e mostra varie cose, ad esempio di essere una proposizione. Di fronte a questa situazione potremmo appunto proporre di moltiplicare i linguaggi verso l’alto: lasciando le cose così come stanno. Tutta la tesi di Wittgenstein è a mio avviso che la possibilità di operare questa stratificazione linguistica è fondata nella necessità di distinguere nel linguaggio tra ciò che esso mostra e ciò che esso dice. In una formulazione negativa sosteniamo la tesi che ogni linguaggio che parla di un linguaggio è in linea di principio eliminabile. Di esso non abbiamo bisogno nello stesso senso in cui non abbiamo bisogno di proposizioni come «'Socrate è saggio'è una proposizione» oppure «'Socrate è saggio'è vera» - il rasoio di Occam può qui togliere di mezzo qualcosa.

Questa tesi di eliminabilità riguarda inoltre il fatto che se introduciamo un «metalinguaggio» ciò avviene perché vogliamo in qualche modo dare una formulazione linguistica delle regole secondo le quali sono usate le espressioni di un linguaggio, e da questo punto di vista noi sosteniamo allora che della formulazione linguistica di queste regole non abbiamo affatto bisogno, che esse possono essere apprese guardando unicamente all’uso. Potremmo dire: la tesi di Wittgenstein è in ultima analisi una tesi di eliminabilità relativa alla formulazione linguistica delle regole istitutive di un linguaggio.

Il punto di origine dell’intera problematica sta probabilmente in un’osservazione che Wittgenstein fa in rapporto ai nomi e che vale in generale per i segni primitivi di un linguaggio: «I significati dei segni primitivi possono essere spiegati mediante illustrazioni. Le illustrazioni sono pro-posizioni che contengono i segni primitivi. Esse dunque possono essere comprese solo se sono già noti i significati di questi segni» (3.263).

Ciò non vuol dire che il significato dei segni primitivi non possa essere spiegato, ma che lo può soltanto mostrando il modo del loro uso (3.262). Per spiegare il significato dei segni non dobbiamo aver bisogno di un linguaggio che parli di essi. Altrimenti il significato di nessun segno potrebbe essere spiegato.

5.

L’introduzione della nozione di proprietà (e di relazione) interna apporta nuovi elementi alla tematica or ora avviata oltre ad accennare alla direzione nella quale essa appare orientata.

«Una proprietà è interna se è impensabile che il suo oggetto non la possieda» (4.123).

È chiaro che qui la parola «oggetto» così come quella di «proprietà» è usata nella vaga accezione comune, come Wittgenstein del resto sottolinea (4.123(c)), e che la proposizione or ora citata, più che come una definizione, va intesa come un richiamo esplicito alla tradizione filosofica - un richiamo che ci avverte che con «proprietà interna» intendiamo niente altro che le nostre vecchie proprietà essenziali. Una proprietà interna di qualcosa è un suo «tratto», nello stesso senso in cui si parla di un tratto del volto: non si può modificarlo, senza modificarne la fisionomia (4.122). Non possiamo pensare che una proprietà interna sia tolta alla cosa, senza togliere la cosa.

L’esempio di due azzurri accennato da Wittgenstein - di due azzuffi l’uno deve essere più chiaro e l’altro più scuro - si richiama all’intensità come proprietà interna del colore (e a quella relazione come una relazione interna). Come nel caso del rapporto tra superficie visiva e colore: il rosso è una proprietà esterna di questa macchia; essa può non essere rossa. Ma interna sarà invece la proprietà della macchia di avere un colore (2.013 1) [6].

Tutto ciò ha una conseguenza immediata in rapporto alla tematica del simbolismo, in riferimento alla quale queste analogie sono poste. Se una proprietà interna di qualcosa è un suo «tratto», ad essa dovrà corrispondere nel simbolismo un tratto del simbolo che la designa. In rapporto ai fatti parliamo di simili proprietà come proprietà relative alla loro struttura o di proprietà strutturali. In coerenza con la tematica dell’adeguatezza della rappresentazione simbolica, si chiederà allora che simili proprietà e relazioni strutturali dei fatti vengano mostrate dalla struttura delle proposizioni che li descrivono. Se tra questo o quel fatto intercorre una relazione che dipende dalla loro struttura, questa relazione dovrà in ogni caso essere rispecchiata da una relazione tra le proposizioni corrispondenti, che sarà anch’essa una relazione strutturale.

La proposizione 4.124: «Il sussistere di una proprietà interna di una situazione possibile non è espressa da una proposizione, ma si esprime nella proposizione che rappresenta la situazione, attraverso una proprietà interna della proposizione stessa» è esemplificata dalla proposizione 4.1211(a): «Così una proposizione ‘fa’ mostra che, nel suo senso, occorre l’oggetto a; due proposizioni ‘fa’ e ‘ga’ che in esse si parla dello stesso oggetto». Mentre la proposizione 4.1211(b): «Se due proposizioni si contraddicono, lo mostra la loro struttura; così pure se l’una segue dall’altra. E così via» illustra la proposizione 4.125: «Il sussistere di una relazione interna tra situazioni possibili si esprime nel linguaggio attraverso una relazione interna tra le proposizioni che le presentano».

Di qui risulta tra l’altro, e come caso particolare, la tesi della non rappresentabilità in un immagine del rapporto tra l’immagine e ciò che essa presenta. Questo rapporto era stato infatti spiegato fin dall’inizio come un rapporto strutturale tra fatti.

Ma il tema si allarga ormai verso la reinterpretazione della nozione di «proposizione analitica» la cui elaborazione più precisa avverrà in seguito in rapporto alla dottrina della tautologia. Infatti, come distinguiamo tra proprietà interne e proprietà esterne, così dovremo distinguere tra proposizioni che attribuiscono a qualcosa una sua proprietà interna e proposizioni che attribuiscono ad essa una sua proprietà esterna. Nel primo caso abbiamo, per attenerci alla terminologia di Wittgenstein, una proposizione che dice qualcosa che deve mostrarsi nel segno che la designa. Perciò si tratterà di proposizioni «apparenti», mentre solo proposizioni che attribuiscono a qualcosa una proprietà ad essa esterna compiono una predicazione effettiva.

Rammentiamo qui soltanto due esempi (4.1272).

Essere un oggetto è una proprietà interna nel senso della «definizione». Ogni proprietà viene predicata di oggetti, ed è impensabile che un oggetto non possegga la proprietà di essere un oggetto: «a è un oggetto» sarà dunque una proposizione apparente. Che a sia un oggetto si mostra nel fatto che «a» è un nome.

Che l’esistenza non sia un predicato reale lo sosteniamo in questo modo. «Vi sono libri» e «vi sono oggetti» sono proposizioni che appartengono a classi interamente diverse. Nel primo caso dico che vi sono certi oggetti che hanno queste e queste altre proprietà. Ciò è possibile affermarlo come negarlo. Che vi siano oggetti è in ogni caso presupposto in qualsiasi predicazione effettiva. Perciò l’esistenza non ha bisogno di essere attribuita agli oggetti. Del resto troviamo qui anche le ragioni della posizione della sostanzialità degli oggetti in sede ontologica. Ed anche del necessario corollario della teoria del nome: non ci possono essere nomi di oggetti che non ci sono. Il nome di un oggetto che non c’è non designa nulla, quindi è privo di significato, ed infine non sarà un nome.

La distinzione or ora fissata tra le proprietà e correlativamente tra le proposizioni potrà essere riformulata nella terminologia del «concetto». Parleremo allora rispettivamente di concetti effettivi e di concetti formali (apparenti). E va allora sottolineato che la sussunzione di qualcosa sotto un concetto non potrà essere espressa da una proposizione, se il concetto è un concetto formale. Si tratta solo di un altro modo di formulare ciò che abbiamo già detto: «Che qualcosa cada sotto un concetto formale quale suo oggetto, non può essere espresso da una proposizione, ma si mostra nel segno stesso di questo oggetto. (Il nome mostra di designare un oggetto, il segno numerico di designare un numero, ecc.)» (4.126(g)). Perciò non potremo nemmeno assumere una funzione proposizionale come segno di un concetto, se il concetto in questione è un concetto formale (4.126(c)). Ad esempio, non posso intendere con «Fx» ora «x è rosso» ora «x è un oggetto». Segno del concetto formale di «oggetto» è qui già la variabile (4.1272(a)). Wittgenstein sottolinea fortemente questa osservazione: «I concetti formali non possono, a differenza dei concetti effettivi, essere presentati da una funzione» (4.126(d)); «Ogni variabile è segno di un concetto formale. Infatti ogni variabile presenta una forma costante, che tutti i suoi valori possiedono e che può essere concepita quale proprietà formale di questi valori» (4.1271). Ma si tratta di un accenno che avremo modo di sviluppare in seguito.


Note

[1] L’uso del termine «grammatica logica» in questo contesto è dunque nettamente diverso da quello che Husserl fa di esso nella sua Quarta ricerca logica.

[2] Wittgenstein esemplifica nella prop. 3.323 facendo riferimento al linguaggio ordinario. Tuttavia, come risulta sia da considerazioni interne sia dall’esplicita dichiarazione contenuta nella prop. 3.325(b), è del tutto sbagliato affermare che Wittgenstein «assume senza discutere» che il simbolismo dei Principia Mathematica sia sufficiente «quale apparato sintattico per un linguaggio ideale» (W. C. Kneale e M. Kneale, Storia della logica, trad. it. a cura di A. G. Conte, Torino 1972, p. 723).

[3] L’osservazione è di Waismann, in Wittgenstein und der Wiener Kreis, op. cit, p. 79.

[4] G. W. Leibniz, Scritti di logica, a cura di F. Barone, Bologna 1968, p. 176 e p. 221.

[5] B. Russell, Introduzione al Tractatus logico-philosophicus, nella traduzione italiana del Tractatus a cura di G. C. M. Colombo, Milano 1954, p. 127.

[6] Il termine di proprietà interna in contrapposizione a proprietà esterna compare già nella prop. 2.01231: «Per conoscere un oggetto non ne debbo conoscere, certo, le proprietà esterne - ma debbo conoscere tutte le sue proprietà interne». Ciò va inteso in rapporto alla prop. 2.0123 che precede immediatamente: «Se conosco l’oggetto conosco anche tutte le possibilità del suo occorrere in stati di cose (Ognuna di tali possibilità deve risiedere nella natura dell’oggetto)». Possiamo allora affermare: se una cosa occorre in uno stato di cose, allora essa può occorrere in esso, e la possibilità del suo occorrere è una proprietà interna, il suo occorrere una proprietà esterna. Ad esempio, proprietà esterna della macchia è il suo essere rossa, mentre interna è la possibilità di esserlo. In questa formulazione appare chiaro che le cose non hanno certe proprietà interne e certe proprietà esterne in più.

 

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