Interpretazione del «Tractatus» di Wittgenstein
Capitolo V Giovanni Piana

 

V

Osservazioni sull’ideologia del «Tractatus»

1.

Lo stile letterario del Tractatus, e in particolare l’ordinamento delle sue proposizioni che si sviluppano ad incastro secondo una connessione stratificata di fili conduttori tematici, ha, tra gli altri suoi svantaggi, anche questo: esso ricopre, attraverso una forma espositiva aperta e frantumata, il tratto che caratterizza l’impronta teoreticamente determinante dell’opera: la sua esasperata rigidezza sistematica. Nel Tractatus su qualsiasi tendenza alla problematizzazione prevale sempre il punto di vista del sistema. Alla fine, ci troviamo di fronte ad uno schema interamente privo di articolazione che non ci lascia nessun margine di gioco: ogni possibilità di una considerazione che renda conto dei diversi lati di un problema, delle sue «sfaccettature», viene per così dire programmaticamente repressa.

Lo scopo è ovunque quello di realizzare il cerchio intorno al suo centro.

Perciò di fronte alle oscurità ed alle involuzioni dello stile, vi è la tendenza costante alla semplificazione estrema. Forse non vi è problema nel Tractatus di cui non si possa dire che la soluzione proposta sia troppo elementare - al punto da non potersi tollerare.

Si tratta d’altra parte di una semplicità che dipende strettamente dal terreno che è stato scelto: il terreno dei principi. Nel Tractatus si chiede sempre e soltanto in che modo una certa questione debba essere posta e in che modo debba essere risolta. Le questioni di fatto non sono affare nostro. La nostra massima metodologica più generale è che «ogni questione che possa essere decisa dalla logica deve potersi senz’altro decidere» (5.551).

Perciò, non solo non abbiamo bisogno di dare concretezza alle determinazioni o alle nozioni acquisite correndo lungo il filo dei principi, ma ogni tentativo volto in questa direzione non riesce a stabilire nessun contatto effettivo: rappresenta, in ultima analisi, una irruzione.

In base a quella massima procediamo linearmente, escludendo ogni possibile deviazione, ogni dimensione collaterale, ogni intenzione diretta all’arricchimento dello sviluppo. Ma anche: in base ad essa riusciamo talvolta a cavarci d’impaccio anche in casi in cui rischieremmo di rimanervi per sempre.

Un esempio abbastanza significativo di tutto ciò era già rappresentato dalla proposta di interpretazione dei quantificatori - proposta che era essenzialmente determinata dall’intento di eliminare difficoltà che, in altro modo, sarebbero potute sorgere in rapporto alle tesi di estensionalità. La soluzione proposta tuttavia non aveva in quel caso il carattere di un’interpretazione forzosa o surrettizia. Era un’interpretazione nello stesso tempo plausibile e discutibile - la sua accettazione pone dei problemi non meno che il suo rifiuto.

Altrimenti stanno le cose con un altro esempio - e cioè con l’analisi proposta da Wittgenstein delle proposizioni che hanno forma «A pensa che (5.541 e 5.542), analisi che ha ancora il suo riferimento nella tesi di estensionalità e nell’esclusività con cui la sua validità deve essere sostenuta.

Qui abbiamo un’esemplificazione chiarissima non solo della prevalenza del punto di vista sistematico e della sua rigidezza, ma anche del prezzo che siamo disposti a pagare per il suo mantenimento.

Proposizioni che hanno forma «A pensa (crede, immagina, ecc.) che sono caratterizzate da questa circostanza: il loro valore di verità non risulta deciso se è deciso il valore di verità delle proposizioni che esse contengono. Dovremmo ammettere che siamo qui di fronte ad un’eccezione alla tesi di estensionalità? Ma come ciò potrebbe accadere se essa fu tutt’uno con la forma generale della proposizione, se essa cioè appartiene alla struttura logico-grammaticale della proposizione? Dobbiamo invece mostrare che si tratta di un’eccezione apparente, che questa apparenza riguarda la forma grammaticale superficiale della proposizione e che essa si dissolve nella sua chiarificazione analitica.

Ecco dunque l’argomento di Wittgenstein: erroneamente si ritiene che i termini della relazione siano qui un soggetto che pensa ed un fatto, laddove si tratta invece di una relazione tra un pensiero e un fatto. Con «pensiero» si intenderà qui, a differenza che in altri luoghi, un fatto psichico, qualcosa che accade nella testa di A e che sarà composto, come ogni altro fatto, di oggetti - sia pure di «oggetti psichici». Che cosa siano tali oggetti psichici, quali siano i loro caratteri, non sappiamo e non ha interesse saperlo (LR, p. 253). La relazione sarà dunque una relazione tra fatti. Ora, al pensiero come fatto psichico è correlativo il pensiero come senso di una proposizione. Perciò nessuna modificazione sostanziale sarà introdotta se in luogo di quella relazione consideriamo la relazione tra il segno proposizionale e il suo senso. In luogo di «A pensa che p» diciamo «‘p’ significa . Ma questa è una proposizione apparente: essa dice ciò che mostra il segno «p». E « sarà, alla fine, o una proposizione elementare o una funzione di verità di proposizioni elementari[1].

Nessun esempio mostra meglio di questo il ricorso ad un meccanismo di semplificazione problematica che appare determinato in modo esclusivo da esigenze di ordine sistematico, con l’aggravante che questo meccanismo agisce qui facendo violenza a ciò che, pur con ogni larghezza di vedute, potremmo ammettere con «analisi logica» di una proposizione.

Ma non mostra soltanto questo: esso illustra, in stretta connessione con la tematica generale della sensatezza, quindi con l’empirismo dei Tractatus, in che modo in quest’opera debba alla fine presentarsi il problema della soggettività. Infatti, in questa pretesa analisi logica, nella quale svolgono un ruolo determinante i richiami all’ontologia del Tractatus, il soggetto che pensa, che crede, che immagina, ecc., è stato eliminato con un tratto di penna dalla proposizione. Basta fare un solo passo innanzi per vedere come esso debba essere eliminato tout court.

Il punto su cui fa leva l’intero argomento è che un «pensiero» (una credenza, una fantasia, ecc.) è un fatto come ogni altro. La soggettività, d’altra parte, è un insieme di «pensieri». E non vi è per Wittgenstein la possibilità di dirimere il contrasto che sorge a questo punto tra la semplicità che dobbiamo attribuire alla nozione di soggetto e la complessità che in effetti reperiamo in essa. Perciò il cogito di Wittgenstein dovrebbe essere: «Penso, dunque non sono semplice». Ma questa è la stessa cosa che dire: «Penso, dunque non sono un io». Oppure: «Io penso, dunque si pensa». Accadono pensieri.

Proprio in forza di questa coerenza elementare, Wittgenstein esprime nella sua forma estrema e più grezza questa conseguenza del suo «naturalismo»:

«Il soggetto che pensa, che immagina, non c’è» (5.631).

Non c’è in particolare un io psicologico, un io come compagine unitaria dei fatti psichici; o meglio: questo io psicologico è una costruzione instabile, che non è radicata in alcuna effettiva integrazione dei fatti psichici. È un’unità che si trova in una tendenziale dissoluzione. L’io psicologico non può essere fuori dai fatti, perché consta di fatti - e dunque non può che risolversi (e disgregarsi) in essi.

Le cose non mutano se ammettiamo, con Wittgenstein, che si possa parlare in filosofia di un soggetto «non psicologico» (5.641).Quindi di un soggetto emergente rispetto al mondo, che gli sta di fronte e che non appartiene ad essa nello stesso modo in cui non appartiene al campo visivo l’occhio che lo vede (5.632; 5.633; 5.633 1).

Ma un simile soggetto metafisico che emerge rispetto al mondo come il suo limite non può essere fissato e riconosciuto in questa emergenza - e se la tematica dell’io può essere considerata come interamente compresa sotto i titoli dell’io psicologico e dell’io metafisico, allora andiamo incontro ad una duplice dissoluzione: l’io psicologico si dissolve al di dentro del mondo, l’io metafisico al di fuori di esso.

«Da una parte resta, dunque, nulla; dall’altra, unico, il mondo» (Q, p. 188).

2.

Una traduzione della frase con cui si apre il Tractatus potrebbe essere: il mondo è tutto ciò che è il caso [2]. La tonalità ideologica dell’opera si annuncerebbe allora fin dal suo inizio. Per noi comunque essa comincia con il diventare visibile nel modo dell’approccio alla tematica della soggettività: come abbiamo visto or ora l’accento cade qui su una potenziale disgregazione. Questo accento si estende e generalizza sino, a ricoprire l’intera sfera dell’esperienza:

«Tutto ciò che noi vediamo potrebbe anche essere altrimenti. Tutto ciò che possiamo descrivere potrebbe anche essere altrimenti» (5.634(b) e (c)).

Si potrebbe commentare: come filosofi humeani, qui non facciamo altro che richiamare 1’ attenzione sulla differenza tra ciò che appartiene ad un ambito di necessità essenziali e ciò che non appartiene ad esso. Il mondo dell’esperienza non è attraversato da nessuna legalità essenziale - esso potrebbe essere diverso da quello che è. Ma probabilmente non siamo più filosofi humeani se ci disinteressiamo delle regolarità fattuali in base alle quali il mondo ci si presenta con un mondo unitario, e se cogliamo ciò che caratterizza la nozione di mondo nel suo opposto, nella possibile assenza di regolarità, di un ordine, di una coesione; se, in altri termini, caratterizziamo l’esperienza non già a partire dalla costanza relativa della sua struttura, ma al contrario dalla possibilità sempre aperta di una sua destrutturazione.

Si usa sottolineare troppo poco che la proposizione che apre la tematica propriamente «epistemologica» del Tractatus - tematica che ha naturalmente un interesse indipendente da queste considerazioni - contiene questa frase: «Fuori dalla logica, tutto è caso» (6.3).

Certo, abbiamo detto che ogni fatto è nello spazio logico. Che la logica è una sorta di impalcatura fissa ed immutabile del mondo. Ma affermazioni come queste non fanno altro che stabilire un limite puramente negativo. Ed in realtà non vi è nessun contrasto tra il dire che la logica è logica del mondo e il negare che qualcosa di simile ad una connessione logica sussista tra gli stati di cose, tra quei fatti ultimi che sono, nella loro totalità, il mondo stesso. Lo avevamo affermato fin dall’inizio e lo abbiamo ribadito via via: tra gli stati di cose non sussiste nessuna connessione interna. E se tra certi fatti sussiste una connessione interna, dobbiamo senz’altro concludere che essi non sono elementari (6.3751).

Ma allora è tanto vero che la logica rappresenta la rigida trama del mondo, quanto è vero che esso è tutto ciò che è il caso. Ed ogni fatto è un caso.

Consideriamo da questo punto di vista la tematica della probabilità. Proprio perché questo nesso tra i fatti veniva inteso unicamente come un nesso logico-linguistico, si escludeva con ciò un qualunque rimando, sotto questo titolo, ad una compagine materialmente unitaria dell’esperienza.

Come commento di quella concezione si osserva: «Gli eventi futuri non possiamo arguirli dai presenti» (5.1361). Avremmo potuto dire: «dagli eventi passati». Ma diciamo, più chiaramente, «dai presenti» perché non si abbiano dubbi sul fatto che ogni induzione è in ogni caso una profezia. Chi inferisce dal presente al futuro senza disporre di conoscenze passate non fa altro che formulare profezie. E non si debbono avere dubbi sul fatto che ogni induzione dal passato al futuro non è comunque diversa da un’induzione dal presente al futuro.

Perciò noi «non sappiamo se domani sorgerà il sole» (6.36311). Si tratta in questo esempio soltanto di ribadire, ancora una volta, la differenza di principio tra questa certezza dell’esperienza e l’autentica certezza logica?

Ma quale «certezza dell’esperienza»? Non dovremmo supporre, in tal caso, il sussistere di regolarità - di regolarità che sono appunto quelle che conferiscono al mondo il suo stile unitario e che quindi, in qualche modo, stanno a fondamento delle aspettazioni induttive? Ma noi affermiamo appunto l’irrilevanza di queste forme di unità: non già in esse dobbiamo ricercare ciò che caratterizza in se stessa la nostra nozione di mondo, quanto piuttosto nella commisurazione all’unità salda e inamovibile delle strutture logiche, rispetto alle quali queste forme non sono che confluenze precarie. Non vi è che da esasperare questo confronto, o questo contrasto, per ritrovare anche qui l’impronta dell’ideologia: anche in questo esempio, anche nella frase «noi non sappiamo se domani sorgerà il sole»: in fondo, essa può valere per noi come un ’immagine, e si tratta di un’immagine capace di destare angosce primitive - le angosce della lunga notte.

Il discorso bumeano assume in Wittgenstein una tonalità catastrofica.

«Il grande problema attorno al quale ruota tutto ciò che scrivo è: c’è, a priori, un ordine del mondo, e se si, in che cosa consiste? Tu guardi nella nube di nebbia e così puoi persuaderti che la mèta sia già prossima. Ma la nube si dilegua e la mèta non si vede ancora» (Q, p. 149).

Nel Tractatus quell’interrogativo è deciso: «Un ordine a priori delle cose non c’è» (5.634).

E non c’è altro ordine che non sia a priori.

3.

Anche nel caso della tematica della volontà il filo conduttore è rappresentato dal fatto che, laddove non vi è nessuna connessione logica, nessuna forma logica di unificazione, possiamo senz’altro negare il sussistere di qualsiasi connessione, di qualsiasi forma di unificazione.

In che modo allora può diventare intelligibile il rapporto tra l’io e le cose come un rapporto di intervento attivo su di esse? Un fatto deve poter essere assunto come realizzazione di un atto del volere. All’intenzione attiva segue l’azione sulla cosa e la sua modificazione. Io muovo il braccio e sposto la cosa. In che modo può trovare spiegazione questa forma peculiare di connessione, questa dipendenza della cosa dall’io, quindi anzitutto la dipendenza del corpo di cui l’io immediatamente dispone e mediante il quale arrivano a realizzazione le sue intenzioni volitive?

Il fenomeno della volontà ci pone di fronte al fatto che Una parte del mondo, il corpo, deve esserci più vicina di ogni altra. E questo è intollerabile (Q, p. 191).

Ecco un modo di avviare il discorso che non ci fa presagire nulla di buono.

Ciò che possiamo affermare, se ci atteniamo all’ambito di ciò che è accertabile senza presupporre fin dall’inizio costruzioni fittizie, è soltanto questo: che vi sono movimenti. Ad esempio: vi è un braccio che si muove e una cosa che si sposta. L’uno e l’altro movimento accadono insieme, accompagnati da qualcosa che potremmo chiamare sensazione del volere e credenza nella sua realizzazione.

La differenza tra movimenti che appaiono realizzazioni del volere e movimenti che appaiono come indipendenti da esso sta qui, in interiore homine. Di certi movimenti ci sentiamo responsabili (Q, p. 191). Seguendo questa via potremmo certamente arrivare a credere che «questa poltrona obbedisca direttamente alla mia volontà» (Q, p. 190). Del resto ciò non potrebbe essere né più né meno meraviglioso del fatto che il mio braccio, ad un certo punto, si muova da sé. Nel Tractatus a questo coerente vaneggiare si sostituisce una frase molto più semplice che tuttavia va intesa come carica esattamente di quei significati:

«Il mondo è indipendente dalla mia volontà» (6.373).

In questo modo ci imbattiamo nel problema etico. La distinzione più elementare da cui prende l’avvio un discorso etico è quella tra volontà «buona» e volontà «cattiva». E poiché la volontà è essenzialmente un fenomeno psicologico, ogni sua qualificazione dovrà risolversi in uno stato, in un atteggiamento, in un modo di essere diretti verso il mondo, verso la vita.

Il mondo è indipendente dalla mia volontà - esso mi si presenta come un fatto compiuto, come una «volontà estranea» (Q, p. 175). Il caso può apparire come destino (6.374). Solo due alternative sono allora possibili, solo due stati del volere: l’accettazione del mondo o il suo rifiuto.

In riferimento ad essi dobbiamo forse cercare di fissare la differenza etica elementare tra volontà buona e volontà cattiva. Accettare il mondo, essere in armonia con esso -questo può significare «essere buono» ed anche «essere felice»: fare la volontà di dio.

«Per vivere felice - leggiamo nei Quaderni - debbo essere in armonia con il mondo. E questo vuoi dire essere felice. Allora io sono per così dire in armonia con quella volontà estranea dalla quale sembro dipendente. Ciò vuoi dire: »Io faccio la volontà di dio«... Se la mia coscienza turba il mio equilibrio, io non sono in armonia con qualcosa. Ma che cosa? Il mondo?» (Q, p. l75).

Anche in questo caso, nel Tractatus, queste riflessioni cedono il posto ad osservazioni molto più sobrie: ci limitiamo a dire, ma. non è poco, che «etica ed estetica sono tutt’uno» (6. 421(c)).

Che il mondo può essere modificato solo nella sua totalità, che nessuna modificazione parziale del mondo è possibile perché il mondo si modifica solo se si modifica lo sguardo su di esso, solo cioè se muta l’atteggiamento dell’io che sceglie il bene o il male, quindi la felicità o l’infelicità, nella misura in cui accetta le cose così come stanno o le rifiuta (6.43).

L’etica di Wittgenstein è un’etica dell’accettazione. Il suo imperativo categorico potrebbe essere «Vivi felicemente!». Ma è un’etica dell’accettazione costruita su un radicale rifiuto. «Vivi felicemente!» significa, alla fine: «Agisci secondo la tua coscienza comunque essa sia» (Q, PS 176). Quindi: non condannarti. «Vivi felicemente!» significa soltanto: vivi!

Perciò i Quaderni si concludono con un’osservazione sul suicidio come «peccato elementare»: il divieto del suicidio non è che la forma negativa nella quale quell’imperativo può essere espresso: «Se è permesso il suicidio, tutto è permesso. Se qualcosa non è permesso, il suicidio non è permesso. Questo fatto getta luce sull’essenza dell’etica» (Q, p. 195).

E come se in questa fantasmagoria di dissolvimento e di frantumazione si voglia tenere fermo almeno un punto, la possibilità di una vita etica (la possibilità di una vita). Ma non c e nemmeno un argomento della ragione che ci mostri una strada. E quando siamo giunti a questo limite, il vortice dell’accettazione e del rifiuto si riapre: il suicidio infatti, in sé, non è né buono né cattivo (Q, p. 195). Il suo divieto si riduce ad una postulazione: che il mondo (la vita) (5.621), comunque, abbia senso.

Questa postulazione è ciò che di essenziale resta di questo schema di discorso nel Tractatus. Una postulazione che non può che emergere non solo dai confini del quadro della sua tematica, ma anche da quelli che in esso sono prescritti al linguaggio. Le ultime questioni di senso - le questioni attinenti al senso del mondo come totalità non possono essere questioni di «scienza naturale», così come non può essere questione di scienza naturale ogni problema che concerna non già i fatti, ma i «valori». Tutto ciò rinvia alla sfera del misticismo: di tutto ciò non si può parlare, e dunque bisogna tacere (7). «Certamente c’è qualcosa di ineffabile. Esso si mostra, è il mistico» (6.522). Anche i frammenti del discorso sull’etica che ritroviamo nel Tractatus, così come le considerazioni conclusive sulla vita e sulla morte, su dio e sul mondo, debbono alla fine rappresentare niente altro che una dissolvenza nel silenzio.

4.

Non possiamo sperare di attenuare interpretativamente la crudezza e, in fondo, anche in questo caso, l’elementarità della tematica etico-religiosa che viene alla luce al termine del Tractatus. A ciò si potrebbe forse essere tentati al fine di rendere comprensibile la funzione che esso ha storicamente svolto in rapporto alla filosofia del «Circolo di Vienna». Eppure questa funzione è stata spesso illustrata e descritta dai membri del Circolo, e le esclusioni che rispetto ad esso vennero effettuate, le accentuazioni e le attenuazioni che caratterizzarono la sua lettura non sono meno significative di quanto si ritenne di poter indicare come acquisizioni che dovevano fungere da cardini di un atteggiamento filosofico interamente nuovo.

In linea generale, l’importanza che esso assunse come testo di riferimento e di discussione presso il Circolo si comprende già per il fatto che nel Tractatus trovano una espressione icastica ed estrema, all’interno di un discorso fortemente unitario, idee che da tempo erano nell’aria e che si incontravano con le istanze più caratteristiche di una tendenza filosofica ormai matura. Il Tractatus mostrava anzitutto la possibilità di unificare queste istanze, di conferire ad esse una particolare semplicità, rendendole nello stesso tempo radicali ed esclusive.

In questa ripresa non poteva tuttavia in alcun modo pesare la tematica del «misticismo» - tematica dalla quale fin dall’inizio si prese distanza. D’altra parte, da questa ripresa prese a sua volta distanza Wittgenstein stesso che in essa non potè riconoscersi - nemmeno poté riconoscersi nel «rifiuto della metafisica»: «Come se questo fosse qualcosa di nuovo» [3].

La piega che assunse fin dall’inizio la discussione sulla tematica del mostrare fu, come abbiamo notato a suo tempo, determinata appunto dalla sensazione che già in quel punto si facesse sentire il peso delle conclusioni. L’immediatezza con cui venne istituita questa connessione era in realtà un errore. Non vi è dubbio che possiamo prendere in considerazione e sottoporre a discussione la distinzione tra ciò che una proposizione «mostra» e ciò che essa «dice» nel quadro della teoria del simbolismo senza essere per questo costretti a ricercarne i motivi nella tematica del «misticismo». Affermare che vi sono cose che non si possono dire, ma solo mostrare, non significa necessariamente che si debba poi sostenere che vi è qualcosa come l’ineffabile. Ma Wittgenstein arriva appunto a questo: ed allora è giusto ritenere che queste conclusioni si riflettono su quella distinzione così come su ogni altro punto dell’opera, che in questi esiti diventa esplicita l’atmosfera ideologica che la avvolge tutta e la cui considerazione è essenziale per intendere il suo carattere estremo come opera filosofica, e come opera filosofica che ha questa forma letteraria.

Il dato di fatto a cui ci mettono di fronte gli esiti del Tractatus è il situarsi, in ultima analisi strettamente coerente, di un discorso che tende ovunque ad escludere la possibilità di un richiamo a fonti irrazionali in uno sfondo di totale ed esplicita irrazionalità.

Nel Tractatus trova espressione un ideale di chiarezza completa ed esaustiva. Ovunque vi siano effettivi problemi, deve essere possibile una loro definitiva soluzione. Laddove non è possibile una risposta non è nemmeno possibile una domanda. Perciò non vi è qualcosa come un enigma (6.5).

Vi è una sfera interamente attraversata dalla luce: intorno è il buio.

E tuttavia quanto più si pone l’accento su questa connessione, tanto più si deve togliere di mezzo l’equivoco che la via verso una valutazione critica possa essere rappresentata dal rilievo puro e semplice di questo irrazionalismo.

La filosofia del Tractatus non è riducibile ad una variante sofisticata di filosofia esistenziale. Una considerazione critico-ideologica non può qui fare un unico discorso.

Ancora prima dei contenuti e dell’effettiva centralità dei suoi temi, ad una simile valutazione si può contrapporre la nozione di filosofia che in essa viene teorizzata.

Rammentiamola in breve.

Sulla distinzione cardinale tra le specie di proposizioni, fondiamo la possibilità ideale di due tipi di scienze: le scienze logico-matematiche da un lato, e le scienze naturali dall’altro.

La «scienza naturale» è la totalità delle proposizioni vere (4.1 1)[4].

Come conseguenza negativa possiamo senz’altro concludere che proposizioni filosofiche non ci sono, non ci sono cioè verità filosofiche: non vi è un complesso di conoscenze che possa pretendere di valere autonomamente e di avere principi autonomi di autofondazione.

La filosofia dovrà essere invece caratterizzata positivamente come un’attività che tende a «chiarire e delimitare nettamente i pensieri» (4.112(c)). Ed il suo campo è il linguaggio dal momento che i pensieri si esprimono nel linguaggio - nelle proposizioni.

La filosofia è critica del linguaggio (4.0311) perché il suo scopo è la «chiarificazione logica dei pensieri» (4.112); e proposizioni filosofiche non ci sono perché il risultato della filosofia è il «chiarirsi di proposizioni» [5].

Se con «scienza» intendiamo un ambito concluso di verità interamente chiare, il compito della filosofia si situa, per così dire, prima della scienza, nel punto in cui i pensieri sono ancora «torbidi e indistinti» (4.112(c)).Ed anche: prima del linguaggio, se si tratta del linguaggio perfettamente chiaro, che dunque non può che venire dopo la soluzione di tutti i problemi. Ciò è la stessa cosa che dire: se vediamo le cose sub specie aeternitatis, della filosofia non vi è alcun bisogno.

Si può discutere se con ciò Wittgenstein ritenesse di formulare una nozione di filosofia interamente nuova, o non piuttosto di dare espressione ad una nozione di filosofia che aveva ben salde le proprie radici nella tradizione. È certo invece che questa nozione di filosofia esclude ogni intersezione con la tematica del «misticismo». Perché mai dovremmo sostenere con ostinazione che questo vincolo continua a permanere nella stessa misura in cui proponiamo ad un tempo la determinazione della filosofia come attività e l’insussistenza di proposizioni filosofiche? Queste caratterizzazioni possono essere correttamente intese soltanto riferendole allo scopo della chiarificazione.

Perciò nel Tractatus non è consentita nessuna fissazione ed elaborazione teoretica dell’oscurità. Se ammettiamo da un lato che la scienza nulla possa dire sul fatto che qualcosa accade piuttosto che nulla, nello stesso tempo sosteniamo che su questo in generale nulla si può dire (6.44). Qui non vi è nessun compito di chiarificazione, nessun problema effettivo, nessun pensiero, nemmeno «torbido e indistinto» che possa formare l’oggetto peculiare della filosofia.

Proprio questo rifiuto di indugiare presso l’oscurità, di portarla ad una «teoria», richiama l’attenzione sul fatto che se vogliamo parlare di «irrazionalismo» per avviare una valutazione del Tractatus dal punto di vista ideologico, dobbiamo riferirci ad esso anzitutto come ad un polo all’interno di un’opposizione.

In breve: non riusciamo a dare forma ad una posizione ideologicamente nuova - e nemmeno a rinnovare vecchie istanze. Non riusciamo ad attestarci né sul piano di un’apologia dei «fatti», né su quello di un’apologia dei «valori». Non diventiamo i gestori di una positività affidata all’idea di un progresso autosufficiente che dalla scienza giunge, nelle sue applicazioni, alla vita, e nemmeno di una negatività che contrappone romanticamente questa a quella. Ma portiamo alla massima esasperazione questa opposizione - o meglio: questa non è che l’opposizione conclusiva che giunge al termine di una catena di opposizioni di cui essenzialmente consta questo tentativo di composizione unitaria.

Il mondo ha una struttura fissa e immutabile. Poggia sui centri sostanziali degli oggetti nella rete priva di lacune dello spazio logico. Eppure proprio per questo possiamo dire che non vi è nessun ordine in esso.

Facciamo un discorso sulla necessità e, nello stesso tempo, sul caso.

Non vi è e non vi può essere nessuna zona di ambiguità, di penombra. La «completezza del concetto» diventa la nostra ossessione. Tutto si concentra in un punto di ordine, di coesione, di perfezione. Ma l’immagine della disgregazione si fa strada attraverso questi suoi opposti.

Come filosofi dell’etica, facciamo di tutto per essere edonisti, ma si tratta di un edonismo che ha smarrito la via.

Ciò che caratterizza il Tractatus è un percorso compiuto attraverso uno sviluppo di opposizioni che una volta ricomposte nell’unità di un sistema non possono lasciar vivere di esso nemmeno un frammento. A partire di qui deve essere colto, senza perdere la presa sulle peculiarità teoretiche dell’opera, il suo significato ideologico attraverso il quale possono essere precisate le sue coordinate storiche.


Note

[1] Black osserva (op. cit., p. 291) che non si capisce come «»p« significa p» possa essere considerata una funzione di verità di proposizioni elementari. Egli non lo capisce perchè non vede che, secondo Wittgenstein, una proposizione come questa deve essere considerata come una proposizione «apparente».

[2] Una traduzione, beninteso, discutibile. Ma la formulazione della prima frase del Tractatus - Die Welt ist was der Fall ist - è tanto peculiare da rendere lecito almeno un sospetto (Fall e Zufall hanno, in fin dei conti, qualcosa in comune).

[3] Wittgenstein scriveva a Waismann riferendosi alla Wissenschaftliche Weltauffassung - il «manifesto» del Circolo redatto da Carnap, Hahn e Neurath e pubblicato a Vienna nel 1929: «Proprio perché Schlick è un uomo fuori dal comune, dovrebbe guardarsi, e con lui la scuola di Vienna di cui è esponente, dal rendersi ridicolo - con ogni buona intenzione - con la millanteria. Quando dico »millanteria« intendo un modo qualunque di compiacersi allo specchio. Il »rifiuto della metafisica«! Come se questo fosse qualcosa di nuovo» (Wittgenstein und der Wiener Kreis, op. cit., p. 18).

[4] Questa caratterizzazione segue il modello della caratterizzazione del linguaggio come «totalità delle proposizioni» (4.001) oppure del mondo come «totalità dei fatti» (1.1). Così la «scienza naturale» è - in linea di principio (e qui possiamo naturalmente prescindere dai problemi che sorgono dalla nozione di «teoria scientifica») - una descrizione completa del mondo, quindi una lista di proposizioni, e precisamente la lista di tutte le proposizioni (elementari) vere (4.26).

[5] La spiegazione che dà Carnap (nella Sintassi logica del linguaggio, trad. a cura di A. Pasquinelli, Milano 1966, p. 383) secondo la quale Wittgenstein sarebbe dell’avviso che «l’unica differenza esistente tra le proposizioni della metafisica speculativa e quelle delle proprie e altrui ricerche di logica della scienza sia che le proposizioni di questa, che egli chiama elucidazioni filosofiche, pur essendo prive, teoricamente, di senso, esercitano sul piano pratico una notevole influenza psicologica nei confronti dello studioso di cose filosofiche, cosa che non si verificherebbe invece nel caso delle vere e proprie proposizioni metafisiche, o per lo meno, non nella medesima maniera»«»on ha nessun riscontro e nessun fondamento in Wittgenstein.

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