Paolo Spinicci


Il mondo della vita e il problema della certezza
Lezioni su Husserl e Wittgenstein

 

 

 

 

 

 

 

 Lezione dodicesima

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. Considerazioni critiche: fenomenologia e filosofia prima

 

 

 

 

 

Dopo tante parole siamo giunti alla fine della prima parte del nostro percorso, e tuttavia prima di lasciarci alle spalle questo ultimo libro di Husserl è necessario cercare di prendere posizione sui problemi che esso solleva. Ora, in questo testo vi sono molte cose che mi attraggono: mi attrae il disegno di una filosofia che si lascia guidare da una nozione ampia di ragione, mi convince il rifiuto di una dissoluzione psicologistica e naturalistica della trama di senso dell'esperienza, e mi sento infine per molti versi vicino all'insieme dei problemi che Husserl raccoglie sotto il concetto di Lebenswelt ed in particolar modo alla tesi secondo la quale vi è un insieme circoscritto di certezze che sono prima delle scienze e che resistono all'immagine del mondo di cui le scienze stesse sono portatrici. Tutti questi temi racchiudono in sé un elemento di verità, e tuttavia credo che nessuno possa essere semplicemente ripreso così come Husserl ce lo propone.

Questo è vero innanzitutto per ciò che concerne la critica dell'obiettivismo - una critica che attraversa ogni pagina della Crisi e che ci conduce passo dopo passo al disegno di una filosofia trascendentale che ci insegni a riconoscere nell'essere la posizione d'essere, nelle cose i correlati obiettivi che si costituiscono nell'esperienza soggettiva. All'origine di questa presa di posizione così impegnativa vi è una tesi che, credo, debba essere condivisa e che potremmo forse formulare così: l'indubbia validità del metodo scientifico non è ancora una ragione sufficiente per convincerci della necessità di accantonare la grammatica del linguaggio quotidiano, il suo intreccio di giochi linguistici che ci parlano del mondo nella sua superficie fenomenologica. In un'osservazione del suo Diario, Berkeley - in polemica con il meccanicismo obiettivistico di Cartesio e con la sua convinzione che il mondo sensibile fosse soltanto un inganno da cui il filosofo doveva imparare ad emanciparsi - scriveva: "Il muro non è bianco, il fuoco non è caldo - noi irlandesi non possiamo credere a queste verità", ed io penso che anche noi italiani faremmo bene a comportarci così. Perché mai dovremmo dire che la calce non è bianca o che il fuoco non è caldo - forse perché sappiamo che il colore non è una proprietà della materia e che "fuoco" e "caldo" sono parole di cui il fisico fa bene a non servirsi? Di questi (e di infiniti altri) giochi linguistici noi intendiamo invece continuare ad avvalerci, e non semplicemente perché ci sono familiari o perché siano più comodi, ma perché sono necessari per la nostra vita e perché hanno un senso che verrebbe semplicemente tolto se accettassimo di assolutizzare i giochi linguistici della scienza. Possiamo anzi spingerci un passo in avanti ed osservare che sui giochi linguistici del mondo della vita poggia anche la nostra possibilità di comprendere ed introdurre i giochi linguistici delle scienze e che ciò è quanto dire che non è pensabile rinunciare al linguaggio della Lebenswelt poiché i gradini più alti della scala poggiano su quelli più bassi e non potrebbero reggersi se non in virtù di questo sostegno. Ma ciò è quanto dire: il rifiuto dell'obiettivismo mi sembra in ultima istanza riconducibile alla tesi secondo la quale ci si deve opporre alla pretesa di assolutizzare il gioco linguistico delle scienze, al tentativo di costruire una nuova lingua in cui si dimostri che tutto ciò che credevamo avesse un senso non lo aveva affatto.

Sul significato di questa tesi è forse opportuno soffermarsi brevemente. Dire che ci si deve opporre alla pretesa di assolutizzare il gioco linguistico delle scienze non significa necessariamente pronunciare una tesi ontologica: per condividere questo assunto non è necessario sposare una qualche interpretazione che concerna la realtà che le scienze scoprono; il suo significato è più circoscritto: ci invita da un lato a rammentare che vi sono diversi linguaggi che hanno ciascuno il loro ambito di applicazione e che, dall'altro, non è affatto detto che l'ordo et connexio rerum possa essere chiamato in causa per venire in chiaro del significato dell'ordo et connexio idearum. Può darsi che il cervello sia comprensibile prendendo sul serio l'analogia con le macchine, e quest'ipotesi non può essere messa da parte oggi che - forse - stiamo cominciando a capire come funzioni la macchina della soggettività. E tuttavia, quali conseguenze sia lecito trarre da questi fatti è tutt'altro che facile dirlo. Riconoscere che la mente è una macchina significa davvero che dobbiamo rinunciare a parlare il linguaggio della morale o della logica solo perché dai fatti non si possono trarre valori e nessi ideali? L'aver compreso che la mente è fatta così rende davvero legittima una qualche conclusione che modifichi radicalmente il senso che attribuiamo ai nostri asserti conoscitivi - a quegli stessi asserti su cui infine poggia la nostra certezza che si possa dir vero che la mente è fatta così? A queste domande credo si debba dare una risposta negativa, anche se questo non significa ancora rifiutare o sostenere una qualche ipotesi esplicativa sul funzionamento o sulla natura della mente. Vuol dire solo che il filosofo deve attenersi alla regola aurea secondo la quale il riduzionismo è il più grave degli errori. Il filosofo non può permettersi di adattare il proprio oggetto ad un qualche modello teorico, poiché il suo compito non è di natura esplicativa.

Nella Crisi, tuttavia, le cose stanno diversamente. Husserl non si limita a sostenere che il linguaggio della fisica o del cognitivismo non deve sovrapporsi ai nostri comuni giochi linguistici, ma ci invita a ripensare da capo il concetto stesso di obiettività. L'argomento husserliano è questo: se ci chiediamo che cos'è un oggetto non possiamo fare altro che interrogarci sul come della sua datità, e questo è vero sia per il mondo della vita, sia per gli oggetti della fisica, che debbono essere colti per quello che sono - costruzioni teoretiche più o meno complesse che hanno necessariamente natura ipotetica e che debbono averla, poiché nessuna verificazione può mostrarci qualcosa di più della coerenza che determinate esperienze hanno con certe assunzioni ipotetiche della teoria. Il rifiuto del riduzionismo obiettivistico si traduce così nella riproposizione del disegno La constatazione Per Husserl, se non possiamo rinunciare al linguaggio di quella soggettività che l'obiettivismo rende un enigma, allora siamo necessariamente costretti a reinterpretare l'obiettività in chiave trascendentale, disinnescando così un orientamento di pensiero che aveva paralizzato lo sviluppo della filosofia moderna.

Ora, di una distinzione di piani e di orientamenti problematici per Husserl non ci si può accontentare, e questo ci invita a chiederci il perché. Ora, io credo che per Husserl questa via sia sin da principio sbarrata, poiché - ed è la prima ed ovvia tesi che vogliamo trarre - la critica dell'obiettivismo condotta nella Crisi non è esclusivamente finalizzata a mettere in luce la legittimità del linguaggio della Lebenswelt, ma è innanzitutto volta a delineare i contorni di una filosofia di stampo idealistico e trascendentale. Per Husserl di questo vi è bisogno: di una filosofia prima che non si limiti a distinguere gli uni dagli altri i diversi modi in cui, per esempio, possiamo parlare della nostra esperienza, ma che possa mostrare qual è l'unico e vero approccio alla questione concernente l'obiettività - l'approccio fenomenologico e, insieme, trascendentale. Verso questa tesi Husserl è condotto dalla sua evoluzione teorica: la filosofia husserliana nasce dal dibattito sulla funzione filosofica della psicologia descrittiva, e il suo progressivo allontanarsi dall'orizzonte psicologico non poteva non condurlo sul terreno di una riflessione trascendentale, sia pure di segno nuovo. Verso questa stessa meta dovevano del resto condurlo anche le indagini storiche in cui ci imbattiamo nelle prime pagine della Crisi: cercare di comprendere la fenomenologia sullo sfondo della storia del pensiero voleva dire necessariamente rendere ancor più saldo il nodo che lega Husserl alla tradizione filosofica. Del resto, nel tentativo di ricomprendere la propria filosofia sullo sfondo della tradizione dell'idealismo kantiano e neokantiano, Husserl risponde anche ad una sollecitazione di carattere etico: lo muove infatti il desiderio di contrapporre alle tesi irrazionalistiche che gli sono contemporanee l'immagine di una filosofia a tutto tondo, di un razionalismo che si ammanta della veste classica dell'idealismo trascendentale. Anche questo chiede che la filosofia assuma una dimensione maiuscola e che non accetti di sfumare le sue pretese di scienza definitivamente fondante: il presente storico in cui la Crisi viene pensata e scritta.

Di questa enfatizzazione del ruolo e della funzione della filosofia le pagine della Crisi sono un'illustrazione esemplare, ed è difficile non sottrarsi all'impressione che l'impegno filosofico sia divenuto in queste pagine il terreno per vincere sulle pagine dei libri una battaglia che altrove si stava drammaticamente perdendo. Ma se le cose stanno così, se alla filosofia si affida il compito di salvare il presente dalla barbarie di una cultura che non arretrerà di fronte alle forme più cupe dell'irrazionalismo, come pensare di indebolirne la funzione, di ridurla ad una prassi che sorge là dove il dialogo si interrompe perché non vi è accordo sul significato delle parole? La filosofia deve essere ben altro, deve essere scienza definitivamente fondante, poiché deve coincidere con la forma stessa della ragione.

Anche in questo tema ci siamo già imbattuti, e proprio nelle primissime considerazioni che abbiamo dedicato alla Crisi e al suo ambiguo rapporto con l'idea di Europa. Che cosa sia l'Europa per Husserl lo abbiamo già detto: è l'individuazione di un luogo concreto cui ancorare un'ideale astratto - l'ideale di una cultura che si libera dai vincoli della tradizione e dalla casualità del dato, per costruirsi razionalmente come cultura e forma di vita filosofica. Di quest'idea, a suo tempo, avevamo sottolineato l'ambiguità, poiché ambiguo - se non addirittura pericoloso - è ricondurre la funzione sovraculturale della filosofia e della ragione all'orizzonte storicamente e geograficamente reale dell'Europa e dei popoli che la abitano. Ora è un altro il punto che deve sollevare in noi qualche perplessità: riconoscere che la filosofia ha un significato e una funzione sovraculturali non significa ancora dare per scontata la possibilità di una razionalità pura, sita - per così dire - al di sopra di ogni peculiare forma di vita. Per Husserl, invece, le cose stanno proprio così: il filosofo che esercita l'epoché è in linea di principio libero da qualsiasi vincolo della tradizione e può mostrare la genesi della ragione dalle operazioni della soggettività. L'obiettivo cui il lavoro filosofico tende appare così già raggiunto non appena il filosofo si dispone sul terreno che gli è proprio.

Non è difficile scorgere come tutte queste considerazioni convergano infine verso un identico punto: se, infatti, è possibile attribuire alla filosofia una funzione definitivamente fondante e se è lecito farle rivestire i panni della filosofia trascendentale, è perché Husserl ritiene che l'indagine fenomenologica possa permetterci di andare al di là della Lebenswelt, per costituirla sul terreno apodittico dei vissuti di coscienza. Anche in questo tema ci siamo già imbattuti, e nel corso delle nostre analisi avevamo osservato come le pagine della Crisi sembrino dapprima proporre un quadro più contenuto, poiché la Lebenswelt ci appare come il terreno su cui si radica ogni prassi teorica, e ciò sembra voler dire che non è possibile risalire al di là della vita, - al di là delle distinzioni concettuali e delle operazioni preteoretiche che vi appartengono e che sono comunque implicate dalla teoria nelle sue molteplici forme. Sappiamo già tuttavia che Husserl non è disposto a fermarsi qui e che l'indagine fenomenologica deve spingersi dal mondo della vita alla vita che esperisce il mondo, poiché solo da un'analisi fenomenologica e costitutiva può derivare una piena comprensione ed una fondazione apodittica delle formazioni di senso che si dispiegano all'indagine trascendentale. La possibilità della fenomenologia - o più propriamente: la possibilità di intendere la fenomenologia come scienza eidetica dei vissuti della soggettività - diviene allora la chiave di volta del concetto husserliano di filosofia, della sua pretesa di valere come la scienza prima e definitivamente fondante.

Di qui, dunque, il problema che ci si pone: dobbiamo chiederci se è davvero lecita la mossa teorica che dal mondo della vita ci riconduce alla sua genesi fenomenologica - se, in altri termini, è possibile descrivere le operazioni soggettive e le forme di esperienza su cui si fonda il senso d'essere del mondo della vita. E ciò è quanto dire che la possibilità di una filosofia definitivamente fondante si radica nell'effettiva praticabilità dell'indagine fenomenologica, intesa come descrizione pura della soggettività in quanto tale. La critica alla riflessione filosofica che prende forma nella Crisi assume così la forma di una riflessione sull'idea di fenomenologia come filosofia prima, come scienza ultima dei nostri vissuti.

 

 

 

 

 

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