Paolo Spinicci


Il mondo della vita e il problema della certezza
Lezioni su Husserl e Wittgenstein

 

 

 

 

 

 

 

 Lezione tredicesima

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. Una necessaria premessa: il tema della certezza in Moore

 

 

 

 

 

Il libro di cui vogliamo parlare — Della Certezza — raccoglie le ultime riflessioni filosofiche di Wittgenstein: si tratta di circa seicento osservazioni, le ultime delle quali recano la data di stesura, — una data che segna un’attesa e che si ferma al 27 aprile del 1951, due giorni prima che Wittgenstein morisse per un tumore.

Quest’annotazione biografica è importante perché ci invita a leggere queste pagine tenendo conto del fatto che Wittgenstein non ha avuto il tempo di riordinarle e correggerle, anche se questo non significa che il lettore debba seguire un percorso tortuoso per comprendere quale sia il filo conduttore che le anima. In una sua osservazione Wittgenstein scriveva così:

io credo che il leggere queste mie annotazioni potrebbe interessare un filosofo: un filosofo che sappia pensare da sé. Infatti, anche se raramente ho colto il bersaglio, lui potrebbe tuttavia riconoscere a quale bersaglio io abbia incessantemente continuato a mirare (Della Certezza, a cura di A. Gargani, Einaudi, Torino 1978, § 387).

Ora, il primo passo per cogliere il bersaglio verso cui si indirizzano le riflessioni di Wittgenstein ci riconduce di fatto all’origine di queste riflessioni che nascono come libero commento e come critica alle riflessioni che George Edward Moore dedica a sua volta al tema della certezza e del senso comune. Così prima ancora di aprire le pagine di Wittgenstein, siamo costretti a cambiare autore e a gettare uno sguardo a ciò che Moore sulla certezza ci dice e sulle ragioni che lo spingono a parlare di questo tema. Cercare di rispondere a questa duplice domanda significa, io credo, interessarsi ad una questione teorica che nel pensiero di Moore riveste un significato centrale: la confutazione dell’idealismo e, accanto ad esso, della pretesa scettica che ogni nostro esperire sia interamente racchiuso nell’ambito della soggettività. Come dicevo, questo tema è presente fin nei primi scritti di Moore, ma quanto più Moore rivolge lo sguardo alla domanda scettica, distogliendolo dalle teorie che apertamente sostengono la tesi dello esse est percipi, tanto più avverte il bisogno di dare alla sua filosofia una forma nuova, che sembra nascere dalla consapevolezza che lo scetticismo non può essere contrastato seguendo la via consueta dell’argomentazione. Il filosofo scettico non asserisce nulla, ma vive sulle difficoltà cui si espone chi pretende di asserire positivamente qualcosa: a chi sostiene di sapere con certezza che una certa proposizione è vera lo scettico chiede infatti di esibire il criterio su cui ci si fonda, per poi cercare di aprire un varco tra ciò che si suppone di conoscere e ciò che si è legittimati a sostenere. Ma se questa è la mossa che dà vita all’esistenza teoreticamente parassitaria della riflessione scettica, contrastarla vorrà dire allora sottrarle il terreno che le è proprio: il filosofo che non è disposto a rinunciare alla certezza del conoscere dovrà impegnarsi a condividere un insieme di verità, rifiutandosi tuttavia di considerare pertinente la domanda sul criterio in base al quale le considera vere e certe.

Ora, basta formulare una simile tesi per dubitare che una simile mossa sia legittima: che senso ha sostenere che si conosce con certezza che le cose stanno così e così, se poi non si è disposti a confrontarsi con la domanda che verte sul criterio di verità per mezzo del quale legittimiamo una simile affermazione? E tuttavia questo iniziale stupore può essere almeno in parte tacitato se ci soffermiamo a pensare al fatto che vi sono molte cose su cui non nutriamo il minimo dubbio, ma di cui poi non sapremmo dire con certezza né come né quando le abbiamo apprese. Così, che la Terra ci sia da molto tempo prima che noi nascessimo è una proposizione certissima, ma ciò non significa che sapremmo indicare il fondamento su cui poggia questa nostra certezza. E ciò che è vero per questa proposizione è vero in generale per tutte le verità del senso comune: tutti sappiamo che vi sono molte cose nel mondo e molte persone intorno a noi, ma questo sapere che è implicato dal senso della nostra prassi e che del tutto privo di equivoci non per questo si dà insieme alle ragioni che dovrebbero indurci a considerarlo vero. Che la Terra ci fosse prima di noi lo sappiamo, ma ciò non implica che io sappia anche proporre un’analisi esatta del significato di quelle parole, né che di qui possa trarre un’idea più precisa del criterio su cui poggia la loro validità. Per le verità del senso comune un simile criterio non è disponibile:

È ovvio, naturalmente, che io non ho una conoscenza diretta della verità di tutte codeste proposizioni: per lo più le riconosco come vere in virtù del fatto che, in passato, ho conosciuto per vere altre proposizioni che ne erano la prova evidente. Per la verità, io non so esattamente quale fosse questa prova evidente; ma ciò non mi sembra una buona ragione per mettere in dubbio il fatto che io so che la terra esiste da molti anni prima della mia nascita. Noi ci troviamo tutti, io credo, in questa strana situazione: sappiamo di fatto molte cose, riguardo alle quali sappiamo anche che dobbiamo aver avuto qualche prova evidente della loro verità, ma non sappiamo come siamo venute a saperle, cioè non riusciamo a individuare la prova originaria della loro verità (G. E. Moore, In difesa del senso comune (1925), in Saggi filosofici, a cura di M. Bonfantini, Lampugnani Nigri, Milano 1970, p. 35).

Come interpretare questa strana osservazione? Riconoscendo, io credo, che le verità del senso comune hanno proprio questa caratteristica: siamo certi che siano vere, ma non sappiamo dire come mai ne siamo certi, poiché la loro verità si intreccia con la verità di infinite altre certezze. Possiamo allora liberarci dalla preoccupazione concernente le ragioni che ci legittimano a credere ciò cui crediamo, ed affermare soltanto che il mondo del senso comune per noi è certo, lasciando così al filosofo scettico l’onere della prima mossa.

E tuttavia la certezza abbraccia un terreno più ampio di quello del senso comune, ed anche se questi due temi si intrecciano teoricamente e storicamente (Moore scrive dapprima una Difesa del senso comune (1925) e solo più tardi, a partire dagli anni Trenta, affronta il problema della certezza) è forse opportuno tracciare una qualche linea di demarcazione per affrontare dapprima ciò che Moore ha discusso più tardi — il problema della certezza — per poi ritornare a quel peculiare ambito di certezze, più ristretto e particolare, che è appunto il senso comune. Di qui il compito che ci si propone: cercare innanzitutto di stilare un elenco di possibili certezze, che ci permetta di ragionare sulla loro natura tenendo sotto gli occhi alcuni esempi.

Ciò non significa naturalmente disporsi su un terreno diverso da quello cui abbiamo appena accennato, e ciò significa in modo particolare che anche in questo caso dovremo semplicemente lasciare da parte quelle conoscenze che sono tali in virtù di un percorso conoscitivo che è insieme il fondamento e il criterio della loro validità. Così, non porremo nell’elenco delle nostre certezze le proposizioni delle scienze o, più in generale, le affermazioni che sono il risultato dell’applicazione di qualche tecnica conoscitiva. Possiamo dunque escludere dal nostro elenco proposizioni di cui siamo sicuri come S = ˝ gt2 oppure come "Socrate bevve la cicuta nel 399 a. C.", poiché si tratta di proposizioni la cui verità dipende infine da un criterio di prova: per nessuna di queste affermazioni avrebbe senso sostenere che ne siamo certi anche se non sappiamo indicare qual è il criterio che ci permette di sostenerle. Ma allora quali proposizioni possono dirsi certe? In un saggio intitolato La certezza Moore ci propone questo breve elenco:

In questo momento, come voi tutti potete vedere, io mi trovo in una stanza e non all’aperto; sto in piedi e non già seduto o sdraiato; ho addosso dei vestiti e non sono nudo, sto parlando con voce abbastanza alta e non sto né cantando, né bisbigliando, né mantenendo un assoluto silenzio; tengo in mano dei fogli di carta ricoperti di scrittura; in questa stessa stanza in cui mi trovo io ci sono parecchie persone; e in quella parete si aprono delle finestre e in quell’altra una porta (Saggi filosofici, op. cit., p. 249).

Per tutte queste proposizioni vale naturalmente il carattere distintivo che abbiamo indicato. Se qualcuno chiedesse a quale criterio Moore potrebbe appellarsi per sostenere una di quelle proposizioni non avrebbe una risposta soddisfacente, poiché per tutte queste proposizioni la certezza fa tutt’uno con la possibilità di indicare un fondamento. Certo, che in quella parete vi siano finestre e che io parli e non canti sono affermazioni che, come le altre, poggiano anche sulla mia evidenza sensibile, e tuttavia Moore si premura di osservare che il riconoscere che l’evidenza sensibile gioca qui un qualche ruolo non significa affermare che le certezze sono esclusivamente certezze dei sensi (ivi, p. 266). Qui più voci parlano insieme e l’evidenza della percezione in senso stretto si lega e fa corpo con altre evidenze e tra queste con la consapevolezza dell’essere desto. Ma ciò è quanto dire che anche se non so dimostrare ciò che conosco per vero, non per questo ne sono meno certo: la certezza del mio essere qui e di ciò che faccio resta anche se non so come esibire una prova di questo fatto. Allo scettico che, per attaccarlo, attende il criterio su cui si fondano le certezze proposte, Moore risponde ancora una volta con un gesto di diniego:

ma come posso dimostrare che non sto sognando? Io ho bensì senza dubbio delle ragioni conclusive per affermare che non sto sognando: ho conclusiva evidenza di essere desto; ma questo non vuol dire affatto che io sia in grado di darne una dimostrazione. Non saprei dirvi, infatti, che cosa sia questa mia evidenza; eppure, avrei bisogno di chiarire almeno questo, per potervi dare una dimostrazione (La prova dell’esistenza del mondo esterno (1939), in Scritti filosofici, op. cit., p. 159).

Ora, di fronte ad un simile modo di argomentare sembrerebbe legittimo supporre che la certezza sia per Moore qualcosa di molto simile ad uno stato psicologico, ad un vissuto di cui prendere atto e che può occorrere anche quando non abbiamo una visione perspicua delle ragioni per le quali siamo certi di qualcosa. Ma le cose non stanno affatto così, e Moore non soltanto non ci invita mai ad una considerazione di stampo introspettivo, ma riconduce apertamente il problema della certezza sul terreno dei comportamenti linguistici. Così, sostenere che delle proposizioni che abbiamo citato (e di infinite altre) siamo certi, non significa dire che avvertiamo un qualche sentimento di sicurezza, ma vuol dire invece che troveremmo senz’altro ridicolo dare alle affermazioni che Moore propone una veste dubitativa. Se sono in piedi e parlo non posso dire che credo di essere in piedi e di parlare: il normale uso linguistico ci vieta questa mossa. Esprimersi così vorrebbe dire alludere ad un qualche particolarissimo contesto di emissione che solo potrebbe giustificare quel "credo" che è così lontano dal normale uso linguistico. Ora, quest’uso linguistico deve essere invece rispettato, e ciò significa — per Moore — che la certezza deve essere innanzitutto compresa a partire dal senso che attribuiamo alle proposizioni che abbiamo dianzi proposto e che possono quindi valere come esempi che ci permettono di capire meglio il concetto di cui discorriamo.

Un tratto innanzitutto le accomuna: tutte sono proposizioni contingenti, e cioè proposizioni che avrebbero benissimo potuto essere false o, come potremmo esprimerci, proposizioni la cui negazione non conduce ad una contraddizione. Questa stanza ha finestre e porte, ma potrebbe naturalmente non averne: potrebbe cioè essere vera la proposizione che nega la nostra certezza. E tuttavia, riconoscere il carattere contingente delle proposizioni che compaiono nell’elenco di Moore non significa sostenere che non sia possibile sapere con certezza che sono vere: anche se non vi è dubbio che avrei potuto essere altrove, io so con certezza che sono qui, in questa stanza e la contingenza di questo fatto non vale come un argomento contro la certezza di quel conoscere.

Eppure proprio qui sembra solitamente lavorare l’insidia scettica. Lo scettico muove dalla possibilità dell’essere altrimenti per suggerire che ciò che affermo potrebbe non essere vero. Così, anche se dico di essere in questa stanza posso osservare poi che è logicamente legittimo sostenere che avrei potuto essere altrove: la certezza di un proposizione contingente non implica mai — lo abbiamo appena detto — la contraddittorietà della proposizione che la nega. Ma se "non è vero che p" è logicamente possibile come può la certezza che p escludere che p sia falsa? A questa obiezione Moore risponde così: lo scettico ha ragione di sostenere che è logicamente possibile che una proposizione contingente sia falsa, ma cade poi in un fraintendimento quando ritiene che io possa per questo credere che possa essere falsa la proposizione che so con certezza. Il fraintendimento concerne il significato dell’espressione "poter essere falsa", che nel primo caso è indipendente dal rimando alla dimensione epistemica, nel secondo no. Che cosa qui Moore intenda dire è presto detto: se dico che "piove" è una proposizione contingente dico anche che "non piove" è logicamente possibile e che è quindi logicamente possibile che non piova. Ma le cose cambiano se dalla possibilità logica si passa alla possibilità colta all’interno della dimensione epistemica: se sono sotto la pioggia che cade non posso dire "può darsi che non piova", poiché proprio questa possibilità è esclusa da ciò che so con certezza — dalla mia situazione presente. Ora, ciò è quanto dire che se so qualcosa con certezza non posso dubitarne: la possibilità logica dell’essere altrimenti non può tradursi nella possibilità epistemica del poter essere diversamente da ciò che so essere. E ciò è quanto dire che se muoviamo dalla grammatica consueta della parola "certezza" non vi sono ragioni per dedurre dalla contingenza la possibilità dell’errore: se so qualcosa con certezza non posso insieme supporre che sia falsa.

Ma vi è almeno un secondo aspetto comune alle proposizioni di cui discorriamo, — un aspetto su cui è opportuno richiamare l’attenzione: le proposizioni certissime su cui Moore ci invita a riflettere hanno tutte per tema l’esistenza di cose del mondo esterno, il mio corpo naturalmente compreso. E non vi è dubbio che per Moore la tesi secondo la quale vi sono proposizioni certe si lega direttamente ad un compito che ci riconduce ai grandi, vecchi problemi della filosofia — alla Prova dell’esistenza del mondo esterno, come recita il titolo di un suo scritto del 1939. Ora, a dispetto di un titolo così altisonante e del richiamo in apertura del saggio al detto kantiano secondo il quale la filosofia deve riparare allo scandalo di non saper dimostrare l’esistenza del mondo al di fuori di noi, il lettore della prova che non sia avvezzo allo stile argomentativo di Moore può forse restare interdetto, poiché la dimostrazione nel quale si imbatte suona così:

In questo momento, io sono perfettamente in grado di dimostrare, per esempio, che esistono due mani umane. Come? Tenendo levate le mie due mani e dicendo, mentre faccio un gesto con la mano destra, "Ecco qui una mano", e poi aggiungendo, mentre faccio un gesto con la mano sinistra, "E qui ecco un’altra mano". E se, facendo ciò io ho anche dimostrato ipso facto l’esistenza di cose esterne, vedete bene che io sono ora in grado di ripetere la prova in numerosi altri modi: non c’è nessun bisogno di moltiplicare gli esempi (ivi, p. 154).

Dunque George Edward Moore aveva due mani, una destra e una sinistra — questo ci sembra innanzitutto di poter ricavare da questo strano argomento. E tuttavia, se non ci si ferma al climax di questa dimostrazione, ma si ha la pazienza di leggere l’intero saggio, il punto che Moore intende fissare risulta con maggiore chiarezza: più che nella preparazione di una prova del mondo esterno ci imbattiamo infatti in un tentativo di delineare che cosa si debba intendere quando si parla di oggetti esterni alla nostra mente, così come lo sono le nostre mani. Ora, per Moore, una cosa è esterna alla mente quando si conforma a due differenti criteri: il criterio dell’identità intersoggettiva e il criterio dell’esistenza trans-soggettività.

Che cosa si intenda con il primo criterio, Moore lo chiarisce discutendo una distinzione kantiana. Per Kant si deve distinguere tra ciò che si presenta nello spazio e ciò che si incontra nello spazio, e la distinzione può essere — per Moore — intesa così: si presenta nello spazio tutto che appare fenomenicamente in un qualche luogo dello spazio, mentre ciò che si incontra nello spazio ha inoltre la caratteristica di poter essere colto come numericamente lo stesso in una molteplicità di esperienze mie e di altri soggetti. Così, un’immagine postuma si presenta senz’altro nello spazio, ma non è qualcosa che possa incontrare nello spazio — non avrebbe infatti senso sostenere che tutti vediamo la stessa immagine postuma. Possiamo dire invece che tutti vediamo la stessa mano: qui il linguaggio dell’identità e dell’intersoggettività fa presa sull’esempio proposto. Basta tuttavia riflettere sul significato che normalmente si attribuisce a ciò che si incontra nello spazio perché un’altra proprietà di faccia avanti:

io ho assunto che dire che una cosa "si può incontrare nello spazio" implichi, secondo un uso che mi sembra assai naturale, che tale cosa possa essere percepita; ma dal fatto che una cosa possa essere percepita non consegue che essa sia percepita; e se essa non è attualmente percepita, allora non è presente nello spazio. È caratteristico del genere di cose, ombre comprese, che io ho definito come cose che "si possono incontrare nello spazio" il fatto che non sussiste nessuna assurdità nel supporre riguardo ad una qualunque di queste entità che sia effettivamente percepita, in un dato momento, (1) che essa avrebbe potuto esistere in quello stesso momento, senza essere percepita; (2) che essa avrebbe potuto esistere in un altro momento, senza essere percepita in un altro momento; e (3) che durante l’intero periodo della sua esistenza non è affatto necessario che sia stata percepita (ivi, p. 142).

Di qui il secondo criterio cui alludevamo: una cosa esterna non è soltanto ciò che può essere colto come numericamente lo stesso da più persone, ma è anche qualcosa la cui esistenza non implica logicamente il suo essere percepita. Ancora una volta è importante osservare che sarebbe un errore, per Moore, vincolare questa tesi ad una qualche indagine di carattere descrittivo sulla nostra esperienza di oggetti: dire che ciò che è percepito, se davvero è un oggetto, non soggiace alla legge dell’esse est percipi non significa affatto proporre una teoria della percezione o degli atti intenzionali, ma vuol dire soltanto chiarire i presupposti impliciti nella grammatica del linguaggio, che ci permette di parlare di cose e di eventi che non abbiamo visto e che ci impedisce invece di dedurre dall’esserci di qualcosa al suo essere percepita da qualcuno. Senza abbandonare il piano dell’analisi del linguaggio possiamo dunque proporre la seguente tesi:

mentre è contraddittorio supporre che un dolore che io sento o un effetto postumo di immagine che io vedo esista nel momento in cui io non abbia alcuna esperienza, non è affatto contraddittorio supporre che il mio corpo esista anche nel momento in cui io non abbia alcuna esperienza (ivi, pp. 150-151).

Ora, di questa osservazione possiamo fare il cardine per un’osservazione nuova: possiamo osservare cioè che se di qualcosa che soddisfi questi due criteri si può dire che è ora percepita da me, con questo si è detto anche che esiste quella tal cosa al di fuori della mia mente.

Non è difficile riconoscere in queste considerazioni la prova che Moore ci ha dianzi proposto. Ma ora, forse, è possibile comprenderne il senso: Moore vuole da un lato farci riflettere sul fatto che vi sono oggetti che godono per noi dei criteri dianzi rammentati e che dall’altro vi sono contesti in cui siamo certi della loro esistenza — di un’esistenza che dobbiamo pensare conforme alla natura degli oggetti in questione: come un’esistenza esterna, dunque. E ciò è quanto dire: anche se non rinuncia alla forma dimostrativa, la Prova dell’esistenza del mondo esterno è in realtà un saggio volto a ribadire una delle tesi del senso comune: che siamo certi che vi sono oggetti esterni, e che tra questi vi sono anche le nostre mani. Così dalle riflessioni sulla certezza siamo ancora risospinti verso le tesi del senso comune, cui dobbiamo ora ritornare.

 

 

 

 

 

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